ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

sabato 23 dicembre 2017

Un insolito Natale: festa a casa de' Bisognosi

Natale per «Culturando» è sinonimo di favola. Dopo la storia dello scorso anno dedicata a Gioachino Rossini e al suo pantagruelico pranzo del 25 dicembre, gli «Attori in erba» (diciotto ragazzi dagli 11 ai 15 anni) rivolgono la loro attenzione al magico mondo della Commedia dell’arte, soffermandosi sulla figura di Pantalone de’ Bisognosi. Il laboratorio di scrittura creativa della scuola multidisciplinare di teatro «Il cantiere delle arti» ha presentato venerdì 22 dicembre, nell’ambito della lezione aperta «...E che festa sia» (che ha visto in scena anche «I piccoli attori»), una favola-canovaccio redatta nell’ambito del progetto «Tra maschere, lazzi e canovacci». Firmano l’idea Sara Mascheroni e Anna Giulia Pittarello.

LA FAVOLA: Sarà per tradizione. Sarà per autentico sentimento. Ma a Natale siamo tutti più buoni, generosi, affabili e sereni. Tutti, tranne uno: Pantalone de’ Bisognosi. A casa sua non si fanno l’albero e il presepe. Non si scartano i regali. E, soprattutto, non ci si abbuffa con dolci e leccornie. Ne sanno qualcosa Arlecchino, Brighella, Pulcinella, Colombina, la figlia Isabella e lo storico amico Pantofola da Montepulciano, al quale si deve uno dei soprannomi più conosciuti del ricco mercante veneziano: «braccino corto».

Ormai da anni, la sera della Vigilia nella casa di Pantalone si serve in tavola un menù a dir poco insolito: «zuppa di pane (poco) e cipolle (tante), profumo di carne sniffato dalla cucina del vicino, insalata di erbe amare e invidia (sì, proprio invidia, non indivia come farebbero tutti gli altri), e, per dessert, un biscotto secco, anzi secchissimo». Sarebbe stato così anche quell’anno? Sembrava proprio di sì.

Mancavano ormai pochi giorni a Natale e Pantalone rispondeva sempre con un no deciso a tutte le proposte dei suoi servitori.
 «Vado a prendere in ripostiglio l’albero e le decorazioni per abbellire la casa?», chiedeva civettuola Colombina.
 «Un mio amico di Napoli mi ha regalato un bel presepe del Settecento, fatto dagli artigiani di via San Gregorio Armeno. Lo mettiamo in salotto, vicino alla finestra che si affaccia sul Canal Grande?», domandava con il solito atteggiamento svogliato Pulcinella.

«Sior paròn, g’ho già una fame che no ghe vedo. Mi sogno la cena della Vigilia da giorni: mi immagino sulla nostra tavola natalizia bigoli in salsa, risi e bisi, sardele in saor, baccalà mantecato, moleche col pien, baìcoli, torone e il panettone di Meneghino. Giuro che mangerò tutto e ne vorrò ancor di più. Sior paròn, vado a far la spesa così siamo sicuri di avere tutto in dispensa?», chiedeva con un sorriso astuto Arlecchino.
A tutte le domande Pantalone rispondeva «Nooo. Gh’ho dito no ed è no. A casa nostra non si festeggia il Natale». Ma il ricco mercante di Venezia non aveva fatto i conti con un  «buffo uomo vestito di rosso», dalla lunga barba bianca e con la casa piena di regali per i bambini di tutto il mondo.

 La sera del 23 dicembre di quell’anno, in anticipo di qualche ora (forse un po’ troppe), Babbo Natale planò con la sua slitta sul tetto del palazzo de’ Bisognosi, si calò lentamente nel camino, andò in cucina e…rapì Colombina.

Potete immaginare che gran trambusto ci fu in quella casa. Arlecchino piangeva disperato pensando di aver perso per sempre l’amore della sua vita e, soprattutto, la sua locandiera personale. Brighella temeva di dover lavorare anche il giorno di Natale ed era quasi certo che Pulcinella, sempre impegnato dalla mattina alla sera nell’arte del «dolce far niente», non lo avrebbe aiutato nemmeno in quella difficile situazione. Pantalone, invece, era contento, anzi contentissimo: in casa ci sarebbe stata una persona in meno a ricordargli che si stava avvicinando il 25 dicembre. Mentre la slitta di Babbo Natale volava in cielo, il ricco mercante veneziano si era messo addirittura a ridere, saltare e gridare: «Addio Colombina. È stato un piacere averti conosciuta, ma era già da qualche tempo che pensavo di sostituirti con la tua amica Smeraldina. Non ti preoccupare, mi hanno detto che se un buffo uomo vestito di rosso ti mette in un sacco e ti rapisce, non devi aver paura: qualcuno ha chiesto un tesoro per Natale. Ah, ah, che ridere! E adesso mi chiudo nella mia stanza e ci rimango fino al 26 dicembre. Ah, ah, che ridere!».

Babbo Natale sorrise serafico e pensò tra sé e sé: «mio caro vecchio barbagianni, chi la fa, l’aspetti». Colombina era, infatti, il prezioso regalo che avrebbe trovato sotto l’albero Isabella, la figlia di Pantalone, per realizzare il suo più grande sogno: una festa di Natale per tutti i veneziani, che avrebbe riunito intorno allo stesso grande tavolo adulti e bambini, ricchi e poveri, simpatici e antipatici, amici e nemici.

In gran segreto tutte le maschere della Commedia dell’arte stavano arrivando a Venezia, su invito del «buffo uomo vestito di rosso», con un piatto tipico della loro terra: Tartaglia avrebbe portato la pizza napoletana e gli strufoli, Peppe Nappa i cannoli e le cassate, Gianduja i gianduiotti e il bollito misto alla piemontese con il bagnet ross e verd, il dottor Balanzone la mortadella di Bologna e i tortellini da fare in brodo, Meo Patacca gli gnocchi alla romana, Meneghino il panettone e Pantofola da Montepulciano del buon vino toscano. Mentre Colombina avrebbe preparato tutti i piatti veneziani che piacevano tanto al suo amato Arlecchino.

 Ci vollero una notte e un giorno per i preparativi: si dovette diramare l’invito a tutti i veneziani, preparare l’albero e il presepe, incartare i regali e portare di nascosto le pietanze nel palazzo di Pantalone, l’inconsapevole ospitante della festa. Il segreto non durò molto. Al primo vociare di bambini, il vecchio mercante si alzò di scatto dal letto. Uscì dalla sua stanza. Si guardò intorno. Capì che cosa stava succedendo e decise di far pagare a tutti il biglietto di ingresso al palazzo. Ci volle l’intervento di Isabella per far capire al padre che in una serata tanto speciale come quella della nascita di Gesù l’unica moneta da far pagare erano le parole di poesie famose e le note di belle canzoni e così fu, ma non prima che Pantalone dicesse a tutti i presenti: «…E che festa sia!».

 Forse è vero: a Natale siamo tutti un po’ più buoni.

Gli ATTORI IN ERBA di CULTURANDO


venerdì 22 dicembre 2017

Strenne di Natale, Electa Mondadori riedita il «Pinocchio» di Alberto Longoni

«C'era una volta... -Un re!- diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno […]». Era il luglio 1881 e il «Giornale dei bambini», inserto settimanale del quotidiano «Il Fanfulla», pubblicava la prima puntata di «Storia di un burattino», romanzo di Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini) destinato a diventare, con il titolo «Le avventure di Pinocchio», il libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia e di certo uno dei capolavori della letteratura per ragazzi italiana, anche grazie al parere favorevole di Benedetto Croce.
Esuberante fino allo sfinimento, intollerante a qualsiasi regola, bugiardo di fronte all’evidenza, ma anche fiducioso nel prossimo, disposto a fare ammenda dei propri errori e ingenuo come solo i sognatori sanno essere, il «burattino più discolo di tutti i discoli» ha conquistato generazioni di piccoli lettori. Agli albori del Novecento, «Le avventure di Pinocchio» contavano, infatti, ben trecentomila copie stampate; oggi il libro può essere letto in oltre duecentocinquanta lingue (latino ed esperanto compresi) e dialetti, stando agli studi della Fondazione Collodi basati sui dati Unesco.
Tantissimi anche gli illustratori che si sono fatti suggestionare dal burattino più amato dai ragazzi, come, per esempio, Carlo Chiostri (Benporad, Firenze 1912) Emanuele Luzzati (Nuages, Milano 2002), Alvaro Mairani (Lito editrice, Milano 1990) e Cecco Mariniello (Piemme, Casale Monferrato 2002).
Passano, dunque, gli anni; cambiano mode e generazioni, ma la storia del burattino «condannato» dal suo naso ad essere sincero in un mondo di ipocrisia continua a solleticare la fantasia di grandi e piccini, senza mai conoscere eclissi ed oblio, forse perché, per dirla con le parole di Benedetto Croce, attraverso le pagine di questo libro si «trova facilmente la via del cuore».
In occasione del Natale, Electa Mondadori punta proprio su «Le avventure di Pinocchio» per una delle sue più preziose Strenne, ripubblicando l’opera illustrata da Alberto Longoni e pubblicata da Vallardi nel 1963, ormai introvabile sul mercato.
Si tratta di una preziosa edizione numerata a tiratura limitata e numerata (millecinquecento le copie complessivamente stampate), con un formato da cofeee table volto a valorizzare le magnifiche tavole dell’artista, arricchito da una preziosa introduzione di Dino Buzzati.
Alberto Longoni, noto anche per aver vinto nel 1953 il premio Trieste per la caricatura, ci ha lasciato una raffinata e al tempo stesso ironica e pungente interpretazione grafica dei personaggi di questo classico intramontabile della letteratura infantile.
I suoi disegni al tratto, in bianco e nero, sono riprodotti nel volume a piena e a doppia pagina.
Il libro include, inoltre, un folder a quattro ante con la splendida scena del pesce che inghiotte il burattino. Un Pinocchio, dunque, elegante quello di Longoni, apprezzato anche da Dino Buzzati che ebbe a scrivere «ogni generazione ha il Pinocchio che si merita».

Informazioni utili 
Carlo Colldi, Storia di Pinocchio. Le avventure di un burattino, Mondadori Electa, Milano novembre 2017. Illustrazioni di Alberto Longoni, prefazione di Dino Buzzati. Dati tecnici: edizione a tiratura limitata e numerata – 1500 copie | 29 x 43 cm | 74 pp. | costo: € 90,00

giovedì 21 dicembre 2017

Antonietta Raphaël Mafai: in mostra a Roma le opere su carta

«Ho perduto parecchio tempo a disegnare, ma in fondo disegnare non è mai tempo perduto. È piuttosto una chiarificazione di ciò che un artista pensa di realizzare nella pittura e nella scultura». Così, nel 1968, Antonietta Raphaël Mafai parlava del disegno, strumento per lei indispensabile e funzionale nel fissare un’immagine, un’idea, una sensazione sulla quale lavorare senza sosta.
A questo aspetto della ricca produzione della pittrice e scultrice lituana, naturalizzata italiana, è dedicata la mostra allestita fino al 21 gennaio negli spazi del Museo Carlo Bilotti di Roma, nell’Aranciera di Villa Borghese, per la curatela di Giorgia Calò.
L’esposizione, che sarà accompagnata dalla pubblicazione del libro «103 Drawings by Antonietta Raphaël», edito dalla DFRG Press LTD, allinea una cinquantina di carte dell’artista, la maggior parte delle quali inedite e provenienti da collezioni private, che ripercorrono la sua lunga attività, dagli anni Venti fino al 1975, anno della sua scomparsa.
Per la Raphaël Mafai il disegno era -racconta la figlia Giulia, nel suo testo introduttivo per la mostra- «una pausa, un diario continuo, un esercizio, […] un dialogo continuo con se stessa, i suoi pensieri, le immagini sognate, i desideri. Alle volte era una lotta, altre un riposo che con gioia si concedeva come un regalo, quando tornava dallo studio la sera».
Le carte esposte a Roma permettono così di ripercorrere le varie fasi creative dell’artista il suo cambiamento stilistico col passare dei decenni: alle pose bloccate degli anni Trenta, influenzate dal modello egizio e dalla statuaria greca arcaica, si sostituisce, per esempio, una gestualità sintetica e più dinamica.
L’opera grafica si palesa, dunque, come strumento espressivo ricco, complesso e indipendente alla pari della pittura e della scultura stessa, poggiando sul confronto tra diverse tematiche e sull’utilizzo di materiali diversi come la carta e il bronzo.
Tra i temi prediletti ci sono il nudo (prevalentemente femminile), il volto, la maternità e la fertilità. Sono tematiche queste che rispondono a un’ispirazione fatta di richiami alla vita familiare e alla realtà quotidiana, ma anche alla radice ebraica dell’artista. Non a caso Roberto Loghi parlò della Raphaël Mafai come di una «compagna di latte di Chagall» per quel suo far abitare l’opera d’arte da colori infiammati e da storie dal «sapore prettamente russo», tendenti all’arabesco di gusto arcaico e popolaresco.
Centrale è, dunque, nella produzione grafica della pittrice e scultrice lituana la figura femminile, con la cui rappresentazione del corpo «instaura -per usare le parole della figlia Giulia- un rapporto molto forte e diretto, non volgare, finalmente liberato dai falsi pudori e moralismi ottocenteschi e dalle violenze dei nuovi artisti».
Il corpo femminile, nella grafica della Raphaël Mafai, sembra voler uscire, liberarsi, diventare protagonista assoluto alla ricerca di un intimo eros appagante. «La donna viene raccontata come forza primaria e creatrice o, sempre per usare le parole della figlia Giulia, come araba fenice che pugnalata, annientata, distrutta, rinasce sempre».
Alcuni dei disegni in esposizione sono stati realizzati da Raphaël come bozzetti per i suoi lavori scultorei, tecnica a cui l’artista giunge in un secondo momento della sua carriera fino a diventare la sua principale scelta espressiva, con una determinazione che ne farà «l’unica autentica scultrice italiana», come dirà di lei Cesare Brandi.I
l percorso espositivo si apre nella project room per poi proseguire in altre tre salette, una delle quali dedicata alla documentazione con filmati, pubblicazioni e materiali che spiegano il percorso e la carriera di Antonietta Raphaël Mafai, fondatrice, insieme a Mario Mafai e Scipione, della Scuola Romana.
In mostra sono esposte anche alcune sculture, allestite a fianco dello studio preparatorio. Il lavoro di Antonietta Raphaël va, infatti, visto nel suo insieme. Non si può capire fino in fondo la sua ricerca scultorea (e pittorica, di cui vi sono in mostra due splendidi esempi) senza tenere conto dei disegni preparatori, a volte decine che spesso esulano dalla semplice prova tecnica, per diventare opere a sé, indipendenti dal passaggio successivo che li trasformerà in oggetti plastici.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Antonietta Raphaël Mafai, Autoritratto, inchiostro acquerellato, cm 28x22, 1948; [fig. 2] Antonietta Raphaël Mafai, Il sonno, inchiostro ed acquerello, cm 22x28,1966; [fig. 3] Antonietta Raphaël Mafai, Amanti, inchiostro, cm 24x34, 1970

Informazioni utili 
Antonietta Raphaël Mafai - Carte. Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, viale Fiorello La Guardia - Roma. Orari: da martedì a venerdì e festivi, ore 10.00 - 16.00 (ingresso consentito fino alle 15.30); sabato e domenica, ore 10.00 - 19.00 (ingresso consentito fino alle 18.30); 24 e 31 dicembre, ore 10.00-14.00 (ingresso consentito fino alle 13.30) | giorni di chiusura: lunedì, 1 gennaio, 25 dicembre. Ingresso gratuito. Informazioni: 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00). Sito internet: www.museocarlobilotti.it o www.museiincomune.it. Fino al 21 gennaio 2018 

mercoledì 20 dicembre 2017

Dal teatro ai cartoon: l’universo creativo di Ugo Nespolo in mostra ad Aosta

Dall’arte al cinema, dai cartoon televisivi alla logica matematica, senza dimenticare il teatro: è un viaggio nel poliedrico universo di Ugo Nespolo, uno dei più originali e trasgressivi artisti della scena contemporanea, quello che propone la mostra «A modo mio», allestita ad Aosta, negli spazi del Centro Saint-Bénin, per la curatela di Alberto Fiz e del filosofo Maurizio Ferraris.
Sono oltre ottanta le opere esposte tra dipinti, disegni, maquettes per il teatro, sculture, tappeti, fotografie e manifesti, realizzati dal 1967 sino a oggi in un percorso spettacolare e coinvolgente. Tra le tante curiosità, sono esposte la «BMW K1» del 1993 e uno «Skiff Olimpico Black Fin» lungo otto metri (una barca da canottaggio), mai esposto prima d’ora, che si modifica attraverso il segno nomadico dell’artista.
Nespolo fa il suo ritorno ad Aosta più di vent’anni dopo la sua prima personale organizzata nel 1994 alla Tour Fromage: «Effetto pittura» era il titolo di quella mostra dove il curatore Gianni Rondolino, storico del cinema recentemente scomparso, sottolineava come l’universo cinematografico inteso come la moltiplicazione delle immagini sul terreno della fantasia e dell’immaginazione fosse per l’artista il campo d’azione privilegiato. Anche in questa circostanza il cinema ha un ruolo significativo sia nella sua dimensione specifica (viene proposta, tra l’altro, la prima macchina da presa dell’artista) sia nella sua reinterpretazione pittorica dove i frame dei suoi film diventano grandi dipinti che conservano la memoria della pellicola e ne fissano per sempre la componente iconica.
Nell’ambito della mostra, poi, uno spazio specifico è dedicato alle differenti forme d’indagine audiovisiva partendo dal cinema sperimentale e dai cortometraggi degli anni Sessanta, dove compaiono tra i protagonisti Lucio Fontana, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz ed Enrico Baj, per giungere sino a «Yo Yo», la serie di cartoni animati in cinquantadue episodi realizzata nel 2016 per Rai Yo Yo che ha vinto il primo premio nella sezione «Series Preschool» a «Cartoons on the Bay», in occasione della 21° edizione del Festival internazionale dell’animazione 2017.
Non mancano lungo il percorso espositivo i ricorrenti camouflages linguistici e metalinguistici: è il caso del bozzetto di «Lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare», scultura di sette metri ispirata a un verso del poeta Dino Campana. Ampio è, poi, lo spazio dedicato al «Museo», un ciclo iniziato alla metà degli anni Settanta che prosegue tuttora con l’intenzione di rivisitare la fruizione dello spazio pubblico e denunciare l’atteggiamento acritico e conformista nei confronti dell’arte contemporanea cosiddetta ufficiale celebrata dal sistema economico e fonte di continue speculazioni.
Accanto ad una serie di grandi dipinti, viene presentata «Avanguardia educata», un’installazione polimaterica abitabile di quattro metri, datata 1995, che ripropone una sintesi postmoderna dei segni novecenteschi, tra futurismo, Bauhaus e Pop art.
Sempre nel campo delle installazioni merita una citazione «Condizionale», opera poverista del 1967 con il nastro in gomma che esce da due elementi in legno e formica simulando l’andamento della pellicola cinematografica.
Il lavoro è esposto insieme alle tavole di «Pastore», un omaggio al filosofo torinese Valentino Annibale Pastore, dove Nespolo propone la combinazione tra duecentocinquantasei tipi di sillogismi segnici che si sviluppano parallelamente alle indagini dell’amico Boetti.
La rassegna presenta anche una serie di tappeti disposti attraverso il gioco combinatorio dei puzzle di Ugo Nespolo con immagini spezzate che s’incrociano creando narrazioni eccentriche ed imprevedibili oltre all’esposizione di ex libris, ovvero libri-scultura tridimensionali di forte impatto cromatico che s’impongono alla visione senza la necessità di essere sfogliati.
Un’attenzione specifica è, poi, dedicata ai numeri che prendono spunto dagli studi sulla sezione aurea (nel 2010 Ugo Nespoli ha pubblicato un libro d’artista sul «Numero d’Oro» per la Utet). Da qui le infinite relazioni indagate dall’artista in uno spazio che contempla sculture tattili e dipinti storici di grande impatto visivo come «Grande conto» del 1981 di tre metri di lunghezza.
Al Centro Saint-Bénin, infine, non poteva mancare un focus sul teatro che dagli anni Ottanta affianca l’attività artistica di Nespolo. Si trovano esposte maquettes degli spettacoli più importanti, disegni e costumi di opere, che spaziano dall’«Elisir d’amore» di Gaetano Donizetti alla «Madama Butterfly» di Giacomo Puccini sino alla «Veremonda, l’Amazzone di Aragona» di Francesco Cavalli. Un viaggio, dunque, completo nell’universo creativo dell’artista quello che propone Aosta permettendo al pubblico di confrontarsi con un linguaggio espressivo dal forte accento trasgressivo, giocato sul senso del divertimento.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ugo Nespolo, «Condizionale», 1967; [fig. 2] Ugo Nespolo, «Avanguardia educata», 1995, opera polimaterica abitabile, 250 x 400 x 160 cm; [fig. 3] Ugo Nespolo, «My Numbers», 2017, tecnica mista su carta, 152 x 102 cm; [fig. 4] Ugo Nespolo, «Testa di Pantalone», Bozzetti per costumi di scena, «Turandot» di Ferruccio Busoni, 1986, tecnica mista su carta, 62 x 48 cm

Informazioni utili 
«A modo mio. Nespolo tra arte cinema e teatro». Centro Saint-Bénin, via B. Festaz, 27 - Aosta. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00; € 4,00 per i soci del Touring Club Italiano ed € 3,00 per i soci Alpitur; entrata gratuita per i minori di 18 anni e per le scuole. Informazioni: tel. 0165.272687 o mostre@regione.vda.it. Sito internet: www.regione.vda.it. Fino all'8 aprile 2018. 



martedì 19 dicembre 2017

Da Bonnard a Dufy: al Castello di Longiano un percorso tra i libri d’artista

Quattro capitoli di un unico viaggio alla scoperta del libro d’artista: si presenta così la mostra che la Fondazione Tito Balestra Onlus presenta negli spazi del Castello Malatestiano di Longiano. Pierre Bonnard, Raoul Dufy, Louis Marcouissis e Ossip Zadkine sono gli incisori selezionati per questo percorso, a cura di Giuseppe Appella, che vuole raccontare come la stagione creativa che ha aperto il XX secolo o lo ha attraversato si è approcciata a quella particolare forma d’arte nella quale segni e figure appaiono distribuiti a fianco delle parole.
Pierre Bonnard è presente in mostra con il romanzo di Octave Mirbeau (Trévières,1848 – Parigi, 1917), «Dingo», illustrato con cinquantacinque incisioni originali stampate dalla Ambroise Vollard Éditeur. Il grande mercante francese, che aveva saputo scegliersi gli artisti adatti al suo temperamento sensibile, raffinato e aperto a tutte le avventure estetiche, anche questa volta ha colto nel segno.
Il libro di Mirbeau, che seppellisce l’idea del vecchio romanzo legato a situazioni realistiche, si affida alla fantasia e mette in campo lo stesso autore, la sua attività di scrittore, la sua automobile Charron, il suo cane Dingo.
Bonnard affronta il libro di Mirbeau all’età di 58 anni, avendo alle spalle una lunga militanza nell’arte popolare e artigianale, fatta di mobili, ventagli, paraventi, ceramiche, scenari teatrali, e una accalorata frequentazione degli amici autodefinitisi Nabis, le cui prime prove furono viste al Salon des Indìpendants: parliamo di Denis, Sàrusier, Ibels, Ranson, Vuillard, Roussel, Vallotton e Maillol.
Bonnard si distingue subito, non solo per l’altezza, la magrezza e la poca espansività. Ranson gli dà un soprannome: Nabi japonarda, quasi a voler sottolineare l’audacia e la modestia ma anche la sottile tenerezza della sua pittura, lo stupore nell’esplorazione e nella trasfigurazione di vicinanze sconosciute: un semplice canestro di frutta, un cane, un bambino, la donna, un giardino, il bagno, la sala da pranzo. Tutto ciò che esprime disagio, avvilimento, emarginazione, lo attrae ed esalta il senso dell’incertezza, la passione per una animalità quasi primitiva, proprio quella che individua in Dingo e cerca di trasmettere attraverso un segno che scava nella verità del suo amico animale mentre supera ogni difficoltà tecnica che l’incisione gli mette davanti.
Raoul Dufy è, invece, presente in mostra con il libro «Aphorismes et Variétés» di Brillat-Savarin, autore considerato una sorta di «apostolo della gastronomia», che fu stampato in duecento copie su carta «Vélin de Rives».
L’esemplare esposto è il numero trentadue, destinato a monsieur Lionel de Taste.
Pur apparso in un periodo di ristrettezze e privazioni, come fu quello della guerra, il testo mira a glorificare le virtù della cucina francese attraverso testi come «L’omelette du Curé», «Les oeufs au jus», «Le plat d’anguille», «L’asperge», «Le poularde de Bresse» e «De la fondue», abbinati a commenti grafici di Dufy, intitolati «La Salle à manger du Curé», «La Boucherie», «Pêche en mer», «Le magasin de comestibles», «Le Paradis Terrestre».
Dufy non si preoccupa della ricostruzione storica e neppure dell’esattezza documentaria o della fedeltà ai testi. Per il piacere degli occhi e dello spirito, la sua evocazione libera e poetica esalta il godimento dei sensi, la gioia del palato, che la fisiologia del gusto elargisce a piene mani.
L’esposizione propone, poi, un confronto con il volume «Planches de Salut» di Louis Marcoussis, stampato da Roger Lacouriere in sessanta esemplari, che contiene incisioni all'acquaforte e al bulino realizzate da Louis Marcoussis per illustrare le poesie di Apollinaire, Baudelaire, Rimbaud, Holderlin, Shakespeare, Dostoyewski, Tzara, De Nerval e Jouhandeau.
A chiudere la mostra è, invece, l’omaggio a Ossip Zadkine che illustrò con dieci acqueforti il libro «Sept Calligrammes» di Guillaume Apollinaire. Qui segno e parola uniscono le forze per rendere la tenerezza dei ripetuti sguardi distesi sul corpo umano, contraddicendo le abitudini cubiste portate a distruggerne o a negarne la bellezza. Eleganza di gesti e di profili muove le figure femminili che definiscono, ancora una volta, i fattori che compongono la forma: la curva sostituisce la linea retta, la cavità le sporgenze, la luce l'ombra, fino a scavare ampie aperture nella massa compatta, a sovrapporre piani che alimentano molteplici punti di vista.
Scriveva Apollinaire, e Zadkine lo conferma con le sue immagini: «Per me un calligramma è un insieme di segno, disegno e pensiero. Esso rappresenta la via più corta per esprimere un concetto in termini materiali e per costringere l'occhio ad accettare una visione globale della parola scritta». Una bella riflessione, questa, che potrebbe fare da filo conduttore a tutta la mostra, nata dalla collaborazione con il Museo internazionale della grafica di Castronuovo di Sant'Andrea (Potenza) e che vede il patrocinio, tra gli altri, dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna.

Informazioni utili 
«Il libro d'artista, ovvero l'arte del libro. Quattro capolavori con incisioni di Pierre Bonnard, Raoul Dufy, Louis Marcouissis, Ossip Zadkine». Galleria d'arte moderna e contemporanea - Castello Malatestiano, piazza Malatestiana, 1 - 47020 Longiano (FC).Orari: dal martedì alla domenica e festivi, ore 10.00-12.00 e ore 15.00-19.00. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00 (over 65 anni, docenti, gruppi 10 persone min., convenzioni), ridotto speciale € 3,00, gratuito per under 13 anni accompagnati, disabili e accompagnatori, giornalisti, residenti nel Comune di Longiano; FTB card € 15,00 (ingresso per un anno alle mostre e alle collezioni). Informazioni: tel. 0547.665850|665420. Sito internet: www.fondazionetitobalestra.org. Fino al 31 gennaio 2018

lunedì 18 dicembre 2017

«Antinori Art Project», Stefano Arienti rilegge Giovanni della Robbia

È Stefano Arienti (Asola, 1961) il nuovo protagonista dell’«Antinori Art Project», piattaforma di ricerca, dedicata alle arti visive e agli artisti del nostro tempo, promossa dalla famiglia Antinori.
All’artista mantovano, uno dei più apprezzati italiani sulla scena internazionale, è stato commissionato un nuovo progetto nato per essere in dialogo con un capolavoro della storia dell’arte rinascimentale: la lunetta raffigurante «La resurrezione di Cristo», realizzata agli inizi del XVI secolo da Giovanni Della Robbia (Firenze, 1469 – 1529/30), su commissione di Nicolò di Tommaso Antinori.
L’opera, oggi proprietà del Museo di Brooklyn, è al centro di una mostra aperta fino al prossimo 8 aprile al Museo nazionale del Bargello di Firenze e ritorna a essere presentata al pubblico a seguito di un importante restauro sostenuto negli Stati Uniti dalla famiglia Antinori.
Il progetto di Stefano Arienti si articola in due opere distinte ma complementari che trasformeranno e si riappropriano in maniera diversa della famosa lunetta.
Al Bargello, in una sala attigua a quella della lunetta, sarà installata l’opera dal titolo «Scena Fissa», creando quindi un dialogo diretto tra arte rinascimentale e contemporanea, nella mostra «Da Brooklyn al Bargello: Giovanni della Robbia, la lunetta Antinori e Stefano Arienti».
In contemporanea, presso l’avveniristica cantina Antinori nel Chianti Classico sarà esposta una nuova installazione site-specific, «Altorilievo», che entrerà a far parte della collezione di famiglia, attualizzando e rendendo visibile il forte legame con la storia e la tradizione mecenatistica.
Stefano Arienti nella sua lunga carriera, si è spesso ispirato a immagini che fanno parte dell'iconografia della storia dell'arte per appropriarsene in un processo di riduzione e semplificazione.
Il suo lavoro prende le mosse da materiali, oggetti e immagini preesistenti - dai grandi artisti del passato fino alla cultura popolare - compiendo alterazioni di forma e traduzioni che ne modificano il significato in un processo creativo che guarda al passato senza giudizio, ma rivisitandolo e riappropriandosene in maniera personale quasi intima. Rielaborando materiali poveri come la carta, i libri e le immagini tratte da cartoline, poster o fotocopie, oppure materiali della cultura di massa come il polistirolo, la plastica, la plastilina, le stoffe, Arienti realizza opere che stupiscono lo spettatore, lo invitano a riflettere sul tema della meraviglia.
Questo atteggiamento riguarda il concetto di immagine nel suo complesso; come afferma l’artista: «viviamo in una specie di dittatura degli oggetti e di conseguenza delle immagini, e potrebbe sembrare che esse debbano solo essere consumate; invece possiamo tranquillamente entrare all’interno di esse, produrne di nuove e farle vivere diversamente, rendendole indipendenti dal passato ma anche da noi stessi».
Nel doppio intervento di Stefano Arienti, al Museo del Bargello e alla Cantina Antinori nel Chianti Classico, gli elementi compositivi di questa lunetta verranno isolati e distribuiti nello spazio, per acquisire un’indipendenza formale e una nuova narrativa.
In questo caso, infatti, l’artista è partito dallo studio del risultato del restauro dell’opera, dove le varie parti che formano la composizione non sono state saldate o incollate insieme come erano originariamente ma lasciate volutamente separate: i quarantasei elementi sono in vista e mantengono una loro forte identità nella rappresentazione finale con giochi di scala e prospettive inaspettate.
Il lavoro al Museo del Bargello sarà realizzato su supporto bidimensionale, una pittura ad inchiostro metallico, oro o rame, su telo antipolvere bianco da cantiere, raffigurerà i personaggi che compaiono nella lunetta ma aumentati leggermente in dimensione sino ad arrivare ad una scala quasi reale, 1:1.
L’allestimento che occuperà le tre pareti della stanza dedicata a Stefano Arienti, avrà caratteristiche simili a quelle della sala in cui sarà esposta la Lunetta, comunicante con essa, in modo da non modificare la percezione dello spettatore che passando da una stanza all’altra potrà facilmente leggere i tratti di continuità delle due opere e di traduzione di una nell’altra.
Queste sinopie strappate mostrano la modernità compositiva e formale del capolavoro tardo rinascimentale, la bicromia così come la bidimensionalità delle figure portano la linea del disegno ad emergere.
«Altorilievo», nato per la Vinsataia della cantina Antinori nel Chianti Classico, si articola come la scomposizione di un alto-rilievo scultoreo, in cui le figure della lunetta, sempre monocrome, vengono riproposte nelle quarantasei campiture strutturali del capolavoro di della Robbia, in una rinnovata distribuzione spaziale delle figure, capace di trasformare l’impianto narrativo della lunetta e ponendo l’osservatore all’interno della scena e assegnandogli un ruolo attivo nella fruizione dell’opera.
L’opera, disegnata sempre su teli antipolvere, assumerà una tridimensionalità quasi marmorea, che permetterà all’artista di ricreare uno spessore simile a quella dell’opera originale realizzata in terracotta invetriata, liberando i personaggi dalla posizione impostagli dalla storia e tessendo così una nuova trama.
L’allestimento spinge il pubblico ad una lettura più dinamica e personale del capolavoro restaurato, offrendo la possibilità di un percorso di ricerca in cui le immagini sono sottoposte a infinite variazioni, e dove lo spettatore è coinvolto in un processo mentale indipendente, critico e consapevole.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] La Resurrezione di Cristo. Giovanni della Robbia. XVI Secolo. Terracotta Invetriata. PHCourtesy of Brooklyn Museum; [fig.2 ] Stefano Arienti © Edoardo Sardano; [fig. 3]  La Resurrezione di Cristo. Giovanni della Robbia. XVI Secolo. Terracotta Invetriata. PHCourtesy of Brooklyn Museum; [fig. 4] Il Cristo - Inchiostro metallico su telo antipolvere Stefano Arienti, 2017 © Edoardo Sardano 

Informazioni utili
www.bargellomusei.beniculturali.it

domenica 17 dicembre 2017

«Da un capo all’altro», a Pistoia una mostra interattiva sul viaggio

Una mostra interattiva sul tema del viaggio che crea un ponte tra due città, Pistoia e Matera, chiamate a interrogarsi sulla propria identità culturale. Si presenta così «Da un capo all’altro, ovvero nuovo atlante mobile di abitografia umana», mostra presentata dal Funaro e dal Comune di Pistoia per «Pistoia Capitale italiana della cultura 2017», in coproduzione con la Fondazione Matera Basilicata 2019, ente incaricato di curare «Matera Capitale europea della cultura 2019», e in collaborazione con il Polo museale regionale della Basilicata.
L’esposizione, a cura dell’associazione «La luna al guinzaglio» di Potenza, si terrà in luogo speciale di Pistoia, normalmente non accessibile perché oggi proprietà privata. Lungo Via Curtatone e Montanara, tra Vicolo degli Armonici e Piazzetta Mergugliese, sorge la sede dell’Accademia degli Armonici, circolo ricreativo per nobili e intellettuali, fondato nel 1785. Il primo nucleo, l’ex chiesa di Sant’Anna, conosciuta come S. Niccolao (già S. Maria in Torre), venne acquistato nel 1789 poi ampliato tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo con alcuni vani del Palazzo delle Potesterie, prospiciente Piazza dello Spirito Santo e appartenuto alla soppressa Opera di S. Jacopo. Il nome con cui viene spesso citata, «Le Stanze», deriva dalla sua organizzazione interna: una serie di vani tra loro comunicanti, ove veniva organizzato il gioco da tavolo o il biliardo e la lettura, sviluppati attorno ad un unico salone centrale, sede delle serate danzanti o dei saggi della Scuola di musica Mabellini, che qui ebbe la sede per alcuni anni dopo il 1850. L’aspetto attuale dell’edificio è frutto di un restauro completo voluto dagli Accademici, secondo stilemi di gusto neoclassico.
Il pubblico di questa mostra è chiamato ad attraversare arcipelaghi fatti di comodini, cassettiere ed armadi che custodiscono più di trecento abiti blu donati dalle persone. Quattro sono gli arcipelaghi/mobili da attraversare e ognuno è dedicato a una fase del viaggio: «Da lontano», «Corpo a corpo con i luoghi», «La risacca del ricordo» e «La comprensione».
Per poter passare da un arcipelago all’altro bisogna aprire ante e cassetti e, leggendo le etichette che li accompagnano, interagire con gli abiti in essi custoditi, per vivere stupori, piccole meraviglie e accedere a micro mondi poetici che raccontano la bellezza dell’Altro e dell’Altrove.
Alla fine del percorso i viaggiatori potranno timbrare la propria carta di viaggio (fornita all’ingresso).
Chi partecipa è invitato ad attraversare con i suoi sensi la «geografia» del vestito, osservandolo, infilando la mano in una tasca oppure aprendo una zip, sbottonando un bottone, guardando in un cappuccio.
Attraverso azioni così familiari e quotidiane i capi «si attivano»: luci, suoni, venti, illusioni ottiche che raccontano il fascino, la paura, la voglia, lo stupore del viaggio, le emozioni e le sensazioni che tutti i corpi in transito hanno provato almeno una volta nella vita.
Ogni abito si manifesta come un raccoglitore di esperienze, una tessitura tra luoghi, uomini e culture.
«Da un capo all’altro» invita a mettersi in relazione con i vestiti utilizzando paradossalmente l’intimità dell’arredo domestico e dell’abbigliamento, per parlare dell’esperienza del viaggio, quella che più di tutte mette l’uomo in dialogo con l'Altro.
In questo capovolgimento, gli abiti danno vita a dei mondi interattivi poetici, intimi e delicati, divertenti e dinamici, vestendo nuove ed inedite trame di senso. Allo stesso modo, i mobili sono realmente mobili: perdono la loro fissità e si circumnavigano a tutto tondo come isole nello spazio espositivo, avendo la particolarità di poter essere aperti ed esplorabili da più lati.
La mostra offre, inoltre, spunti per l’approfondimento scientifico, dando la possibilità di indagare il corpo umano in maniera interattiva. Questo è possibile grazie a una app, che dà accesso ai contenuti speciali denominati «Scampoli di scienza e geografia».
Puntando il proprio smartphone su alcuni abiti ed inquadrando le costellazioni ricamate su di essi, è possibile fare un viaggio nel mondo attraverso le parti del corpo e sotto un cielo di costellazioni immaginarie dedicate ad oggetti quotidiani: l’abito con la «costellazione della collana» racconta, ad esempio, come è fatto e a cosa serve il collo e ci porta poi in Thailandia tra le donne Kaian, la «costellazione del pallone» racconta curiosità sui muscoli delle gambe facendoci viaggiare nell’antica Grecia e i suoi Giochi Olimpici.
La mostra «Da un capo all'altro» è l'esito di un percorso che, partendo dai grandi temi del dossier di candidatura di Matera 2019, ha voluto esplorare argomenti universali come il viaggio, ma anche difficili come quelli dell’emigrazione.

Informazioni utili 
«Da un capo all’altro, ovvero nuovo atlante mobile di abitografia umana». Le Stanze, via Curtatone e Montanara, 14 – Pistoia. Orari: da martedì a venerdì, ore 16.30 - 19.30; sabato e festivi, ore 10.00 - 13.00 e ore 16.30 - 19.30; chiuso il lunedì e nelle giornate del 23, del 27 dicembre e del 1° gennaio. Ingresso libero. Informazioni: cell. 347.9315416. Sito internet: www.dauncapoallaltro.eu. Fino al 7 gennaio 2018.

venerdì 15 dicembre 2017

Le «Memorie triestine» di Leonor Fini in mostra a Bruxelles

È Bruxelles la prima tappa di un ciclo espositivo dedicato a Leonor Fini (Buenos Aires 1907 - Parigi 1996), artista argentina di nascita e triestina d’adozione, conosciuta come una delle più importanti, significative e raffinate rappresentanti del Surrealismo, autrice di un linguaggio molto personale e pervaso d’inquietudine, assai apprezzato da critica e pubblico in un’epoca in cui non era facile per le donne operare nel campo dell’arte, a causa di molti pregiudizi.
Parigi, Laveno Mombello (Varese) e Trieste, città dove Leonor Fini crebbe e si formò, saranno le prossime tappe di questa rassegna, ideata da Marianna Acerboni per festeggiare i centodieci anni dalla nascita dell’artista.
L’esposizione -che si avvale di un allestimento introspettivo, nel quale le opere avvolte nella penombra della sala sono illuminate da fasci di luce- allinea in tutto un’ottantina di lavori, tra cui undici quasi totalmente inediti, che provengono dalla collezione della cugina triestina Mary Frausin.
La mostra presenta, inoltre, una collezione di trentadue opere su carta, in buona parte fuori commercio o prove d’autore inedite, donate all’amico triestino Giorgio Cociani, con il quale Leonor Fini intrattenne per quasi vent’anni una corrispondenza fatta di telefonate quotidiane, lettere e cartoline inedite e al quale l’artista era unita dalla comune passione per i gatti, motivo ispiratore di sue svariate opere.
Questi lavori sono in mostra accanto a rari libri d’arte e a sei affiches di importanti mostre personali realizzati dalla pittrice in Europa, oltre ad alcuni suoi vestiti appartenuti, tra cui una preziosa cappa da sera in pelliccia molto evocativa della sua personalità.
Sono, inoltre, presenti lungo il percorso espositivo lettere di Arturo Nathan e di Gillo Dorfles a testimoniare simbolicamente le affinità elettive tra questi tre artisti, la pittura introspettiva e visionaria che li accomunava e la loro grande amicizia, oltre a offrire un quadro dell’intellighenzia e dell’arte triestina che ruotavano intorno alla Fini in quegli anni di formazione, rimasti fondamentali nell’elaborazione del suo fare artistico.
A completare il percorso è un video realizzato dalla curatrice, che raccoglie una sintesi delle testimonianze e interviste inedite ad amici e conoscenti triestini dell’artista, tra i quali Gillo Dorfles, Daisy Nathan, Giorgio Cociani, Eligio Dercar (gallerista di riferimento della Fini a Trieste).
Immaginifica, enigmatica, sensuale e trasgressiva, ribelle, anticonformista e per certi versi ambigua, la Fini era dotata di un poliedrico ingegno creativo.
Oltre che pittrice, fu, infatti, dagli anni Quaranta, illustratrice di più di cento testi, tra cui quelli di Edgar A. Poe e del marchese de Sade, considerato un nume tutelare dei surrealisti. Ma fu anche disegnatrice, incisore, scrittrice e, tra gli anni Quaranta e Sessanta, scenografa e costumista per il cinema e per il teatro a Milano, Roma, Parigi e Londra.
Protagonista del panorama culturale del Novecento e considerata per certi versi uno dei capiscuola del Surrealismo, l’artista ebbe una carriera lunga e straordinariamente fortunata, costellata di eventi e relazioni importanti, che hanno fatto di lei una sorta di icona.
Cantata da Eluard e ritratta, tra gli altri, da Man Ray, Cartier Bresson, Cecil Beaton e Richard Overstreet, ha ispirato numerose biografie, tra le quali l’ottimo saggio «Leonor Fini ou les metamorphoses d’une oeuvre» (1996) di Jocelyne Godard.
Visse per oltre cinquant’anni a Parigi, ma deve molto alla città di Trieste, dove fu portata nel 1908 dalla madre, Malvina Braun, appartenente a una colta famiglia della borghesia intellettuale triestina, in fuga da Buenos Aires, e dal marito argentino di origini beneventane, dalla dubbia personalità. Qui la Fini si formò artisticamente nei primi vent’anni della sua vita nel fervido e vivace milieu culturale della Trieste dell’epoca, sospeso tra pensiero mitteleuropeo e suggestioni italiane, a contatto con personalità di livello internazionale.
Arturo Nathan, Gillo Dorfles, Leo Castelli, Umberto Saba, Italo Svevo e Bobi Bazlen, il grande traghettatore in Italia della letteratura dell’Est europeo in lingua originale, sono solo alcuni degli artisti, letterati e intellettuali, che lei frequentò nei primi vent'anni della sua vita e che influirono molto sulla sua formazione concettuale ed estetica, oltre che sulla sua forma mentis internazionale.
Approdata in Francia negli anni Trenta, l’«l’italienne de Paris» (questo era l’appellativo con cui era conosciuta Oltralpe) ebbe l’occasione di esporre assieme a celebri artisti come Salvador Dalì, Max Ernst e Meret Oppenheim alla mostra inaugurale della Galerie Drouin che il gallerista Leo Castelli (triestino, di origine ungherese) aveva appena aperto nella capitale francese con l’architetto Renè Drouin.
Sempre a Parigi l’artista conobbe e frequentò personaggi storici quali il fotografo Henri Cartier-Bresson, lo scrittore e poeta Jules Supervielle e Max Jacob, pittore e critico amico di Picasso, Braque, Cocteau e Modigliani.
La sua pittura, sofisticata e a volte sottilmente torbida, è nota per essere pervasa di elementi magici e simbolici. L’ibrido, il doppio, il duplice, palesati attraverso apparizioni e sfingi sono alcuni dei temi che compaiono nei suoi quadri, ascrivibili agli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta. In questo periodo fanno la loro comparsa anche sofisticate citazioni dei grandi del Quattrocento e del Cinquecento italiano come Tiziano, Arcimboldo e il suo maestro ideale Piero della Francesca.
Dopo la parentesi romana, in cui era divenuta la ritrattista per eccellenza del bel mondo, la Fini approcciò le figure minerali, in una tensione verso il rinnovamento e la modernità che sfociò negli anni Sessanta in una produzione molteplice, spesso connotata da suggestioni preraffaellite e di gusto floreale. Alla fine degli anni settanta subentrò in lei una maturità creativa inquieta, ispirata a tematiche nordiche: raffinatezza, mistero, eros galleggiavano in atmosfere oppressive e oscure.
Fil rouge della sua creatività, il complicato rapporto uomo-donna, spesso interpretato da una figura femminile, sovente con l’aspetto di una sfinge e con il volto dell’artista, che domina un maschio debole e androgino.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Leonor Fini a Parigi, Anni `60. Collezione privata, Trieste; [fig. 2] Leonor Fini, Figura con gatto, Anni `70. Litografia, 74x52 cm. Coll. Giorgio Cociani, Trieste; [Fig. 3] Leonor Fini, Luna, 1982. Olio su tela, 73x60 cm. Collezione privata, Trieste; [fig. 4] Elegante cappa da sera di breitschwanz con bordo in faina appartenuta a Leonor Fini, 2017. Pezzo fotografato sullo sfondo di Trieste. Coll. Giulietta Frausin, Trieste; [fig. 5] Leonor Fini, Ballerina al banco, Anni `60. Aquerello, 40x60 cm. Coll. Giulietta Frausin, Trieste 

Informazioni utili 
Leonor Fini. Memorie triestine. Istituto Italiano di Cultura (IIC), Rue de Livourne, 38 - 1000 Bruxelles. Orari: lunedì – venerdì, ore 9.30-13.00 e ore 14.30-17.00. Ingresso libero. Informazioni: tel + 32 (0)25332720. Sito internet: www.iicbruxelles.esteri.it. Fino al 5 gennaio 2018

mercoledì 13 dicembre 2017

«In miniatura», al Fai «piccolo è bello»

La storia dei modelli in miniatura di edifici e oggetti d’uso comune ha origini lontane. I primi risalgono, infatti, alla Cina del 2000 a.C., alla Mesopotamia, all’Egitto e all’età romana. I modelli di mobili fioriscono, invece, dall’epoca rinascimentale, con l’affermarsi in Europa delle Corporazioni dei mobilieri, maestri d’arte al servizio di nobili e mercanti. Nascono così esemplari straordinariamente precisi in ogni dettaglio, nei materiali e nelle decorazioni: nulla li distingue dall’opera finita, se non la dimensione; rispetto ai mobili finiti, però, questi modelli hanno il vantaggio di materializzare l’idea creativa, la prima ispirazione, avvicinandosi alla produzione d’arte tanto quanto il lavoro artigiano.
Prove d’artista, capi d’opera, oggetti di campionario, soprammobili, pezzi da collezionista, esercizi di stile per artigiani e giocattoli si diffondono nel tempo e nello spazio con finalità differenti, ma con una caratteristica comune: l’utilizzo del legno quale materiale.
Agli oggetti in miniatura è dedicata la mostra promossa dal Fai – Fondo per l’ambiente italiano negli spazi di Villa Necchi Campiglio, nel cuore di Milano.
La rassegna, ideata da Angelica Guicciardini, allinea oltre duecento preziosi modelli in legno di mobili antichi e moderni in miniatura provenienti da diverse collezioni private, da archivi e musei.
Si tratta di oggetti d’antiquariato e non solo, sorprendenti per la fine lavorazione dei dettagli, i materiali, i decori e la varietà tipologica, che forniscono una panoramica sulla storia dell’arredo tra XVII e XX secolo.
Tra le opere esposte si trovano prove d’artista o d’esame per gli ebanisti nel Settecento, pezzi da «campionario» da mostrare ai clienti nell’Ottocento o curiosi oggetti in miniatura da collezionare, talvolta destinati a case di bambola.
Cassettoni, madie, sedie, armadi, dormeuse, tavoli e toelette sono affiancati e messi a confronto e in dialogo con gli arredi e gli spazi della villa progettata da Piero Portaluppi, sintesi di creatività, modernità e cura del dettaglio tipica dello stesso fare artigianale.
La mostra è anche l’occasione per ragionare sul «modello» come strumento di lavoro nel XX secolo: con l’affermarsi dell’industrial design, gli artigiani -a metà tra fare artigianale e pensiero industriale- lavorano fianco a fianco con i designer per concretizzare l’idea progettuale.
A memoria di questo importante momento storico per il design italiano, la mostra accoglie alcuni pezzi dei più famosi ebanisti moderni milanesi – al servizio dei più grandi designer del Novecento, tra cui Aulenti, Castiglioni, Nizzoli e ZanusoGiovanni Sacchi e Pierluigi Ghianda: a quest’ultimo sarà dedicato anche lo spazio del sottotetto in un allestimento, curato dall’architetto Lorenzo Damiani, che vuole riprodurre e rievocarne la bottega storica. Qui sarà possibile vedere campioni di essenze, quaderni di appunti, modelli e disegni messi a disposizione dalle figlie del grande ebanista per il pubblico.
Diversi modelli di Sacchi, invece, grazie al prestito della Triennale di Milano, saranno in esposizione negli ambienti di lavoro della villa –gli office di servizio e la stireria– a sottolineare quanto il suo lavoro abbia contribuito a rispondere alle esigenze dell’uomo, fine ultimo del design.

Informazioni utili 
«In miniatura». Villa Necchi Campiglio, via Mozart, 14 -Milano. Orari: da mercoledì a domenica, dalle ore 10.00 alle ore 18.00. Ingresso con visita alla villa: intero € 12,00; ridotto (Ragazzi 4-14 anni) e Iscritti FAI, € 4,00. Informazioni: tel. 02.76340121 o fainecchi@fondoambiente.it Sito internet: www.inminiatura.it. Fino al 7 gennaio 2018.

lunedì 11 dicembre 2017

Markku Piri e il design finlandese in mostra a Venezia

«Sono un artista e un designer. Mi affascinano le meraviglie della natura e dell’architettura, lo spazio e la luce, i colori e i materiali, gli ideali di bellezza che cambiano nel tempo, gli ornamenti, la lingua e i significati delle forme che dialogano attraverso le epoche». Così il designer e pittore finlandese Markku Piri (1955) parla del suo lavoro scelto per celebrare il centenario dell’indipendenza della Finlandia in Italia. Dopo essere stata esposta al Palazzo Medici Riccardi di Firenze e al Museo Carlo Bilotti di Roma, la rassegna giunge a Venezia, negli spazi della Sala Brandolini al Museo del vetro.
Profondamente affascinato dall’Italia, l’artista si è lasciato ispirare dai luoghi e dai materiali per creare, con il suo stile sicuro ed eclettico, una serie di opere dove appare evidente la contaminazione culturale e artistica che mescola il gusto della natura e dei colori con la ricchezza delle forme e dei linguaggi.
Si tratta in tutto di una novantina di pezzi, tra vetri, stoffe, serigrafie, dipinti, che vanno dalle piccole sculture alle installazioni di grandi dimensioni. Di questa collezione fanno parte anche opere realizzate dai maestri vetrai muranesi, con i quali Markku Piri lavora da anni, dove il dialogo fra colori e forme rielabora suggestioni arcaiche che lo hanno suggestionato durante i suoi viaggi e le sue ricerche storico-artistiche.
Nel suo lavoro Piri tende a raggiungere una perfetta armonia estetica progettando e realizzando i suoi vetri con la massima attenzione ai minimi particolari, nell’intento di esaltare le potenzialità estetiche del materiale d’adozione. Nascono così creazioni artistiche in vetro composte da oggetti unici e piccole serie di sculture realizzate insieme ai rinomati maestri muranesi Pino Signoretto, Gambaro &Tagliapietra, Simone Cenedese e Gianni Seguso, ma anche con i soffiatori della cooperativa finlandese Lasismi.
L’arte di plasmare il vetro rappresenta una lunga e solida tradizione in Finlandia, che ne ha reso famoso il design a partire dagli anni ’50. Tradizione di cui Piri si fa portatore, continuando con le sue ricerche questa memoria e immergendosi nei segreti del vetro, materiale affascinante che unisce in maniera magica la luce, il colore e la tridimensionalità.
Il filo rosso dell’esposizione, che vede la curatela di Ritva Röminger-Czako, è proprio quello di creare un dialogo fra le sculture in vetro tridimensionali e le opere d’arte bidimensionali, come nel caso delle serigrafie della serie «Shadow Dances», che dialogano con i vasi in vetro della collezione «Raggi di Sole» realizzati a Murano dal maestro Simone Cenedese; lo stesso vale per i dipinti e i tessuti, in un rapporto che coinvolge l’architettura, la natura e lo spazio, in un elaborato gioco di colori e di rifessi.
La mostra prevede un’installazione particolare nel dialogo tra forme e colori con «perle giganti» realizzate in collaborazione con Pino Signoretto, che formando un filo di cinque metri, richiamano la tradizione delle perle di vetro veneziane, di cui il museo ospita un’importante collezione e ancora, le sculture di vetro in colori sfumati chiamate «Fusi Orari», realizzate con il maestro Matteo Tagliapietra, trovano valore nelle loro forme classiche, nelle caratteristiche trasparenti, opache, traslucide e stratificate del vetro e nelle variazioni di finitura e rifinitura offerte dal materiale. Inoltre alcune opere contestualizzano la tecnica della doppia filigrana, quale peculiarità virtuosistica muranese, all’interno della nuova concezione formale dell’artista.
La mostra presenta anche la nuova collezione di tessuti per l’arredamento realizzati dall’artista, si tratta di 10 pittoreschi modelli dedicati al centenario dell’indipendenza finlandese che cade il 6 dicembre 2017 proprio mentre l’esposizione è ospitata al Museo del Vetro. Per questo lavoro, Piri, noto anche nel campo del design tessile, si è ispirato alla natura e al cambiamento delle stagioni, di cui riesce a catturare nei suoi arazzi le diverse atmosfere.

Informazioni utili 
Markku Piri. Vetri & dipinti. Museo del vetro, Fondamenta Giustinian, 8 – Murano (Venezia). Orari: dal 1° aprile al 31 ottobre, ore 10.00-18.00; dal 1° novembre al 31 marzo, ore 10.00–17.00; la biglietteria chiude un'ora prima; aperto tutti i giorni, escluso il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio. Ingresso: intero € 10,00; ridotto € 7,50; biglietto scuole € 4,00. Informazioni: call center 848082000 (dall’Italia); +3904142730892 (dall’estero),info@fmcvenezia.it. Sito internet: www.visitmuve.it. Fino al 7 gennaio 2018.

sabato 9 dicembre 2017

Zhang Hong Mei in mostra al Designer Outlet di Noventa di Piave

In Veneto la moda incontra l’arte contemporanea. Il Designer Outlet di Noventa di Piave offre al suo pubblico l’occasione di confrontarsi con l’opera di Zhang Hong Mei. L’artista cinese esporrà, fino al prossimo 7 gennaio, tra i negozi della piazza principale del Centro McArthurGlen due suoi progetti: «Xi’an Warriors» e «Mental Landscapes».
Il primo progetto allinea venticinque sculture in bronzo colato che riproducono le teste dei guerrieri del famoso esercito di terracotta di Xi’an in Cina, una delle opere funerarie più celebri e grandi del mondo.
L’esercito, composto da un numero totale tra i seimila e gli ottomila guerrieri, fu scoperto da un contadino per caso nei propri campi durante i lavori di scavo di un pozzo. Gli immobili guerrieri di terracotta, armati e disposti in formazione, sono suddivisi in avanguardia, esercito e retroguardia e compongono l’esercito posto a difesa della tomba del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, vissuto tra il 260 a.C. e il 210 a.C. La particolarità di questo capolavoro sta nel fatto che i guerrieri di Xi' an furono plasmati a grandezza reale differenziandone i tratti somatici e gli armamenti in modo tale che è impossibile, fino a prova contraria, trovarne due uguali.
Il lavoro sui guerrieri di Zhang Hong Mei avuto inizio alcuni anni fa dopo una visita ai depositi del Museo di Xi'an, dove lo sguardo dell'artista, a un esame ravvicinato degli antichi guerrieri, ha potuto scorgere ancora deboli tracce del colore originario. La disposizione di questo colore, principalmente sul viso dei guerrieri, appariva come una policromia di taglio quasi razionalista, come se Malevic o Mondrian si fossero dilettati a dipingerne alcune parti.
Questa visita e questa scoperta hanno fatto nascere in Zhang Hong Mei l'idea di rivestire i volti dei guerrieri con una seconda pelle attraverso l'uso di tessuti colorati, con forme e cromie che si ispirassero a quelle originali intuite sui volti delle antiche statue. Zhang Hong Mei dona così una vita nuova ai guerrieri, offrendo al pubblico una sorta di ritmo colorato, pop, traghettandoli nel contemporaneo e mostrando al contempo la vacuità del destino e l'incessante lavorio del tempo che tende a cancellare i segni e a rendere tutto uniforme.
L’altro lavoro esposto, «Mental Landscapes», si compone di cinque lavori di dimensioni importanti (3 metri x 1,5), accompagnati da alcuni schizzi preparatori. Già apprezzato alla cinquantaseiesima edizione della Biennale di Venezia, questo lavoro ci rimanda alla riflessione di Zhang Hong Mei sulle fattezze del mondo: nuove forme e nuovi punti di vista su cui soffermarsi e a cui ispirarsi per la sua arte. Che siano vedute metropolitane o cieli nuvolosi, tutto viene trasformato da uno spirito di osservazione che spazia senza sosta alla ricerca di elementi che poi diventano paesaggi immaginati o forme dall'aspetto vagamente arboreo.
Tutto questo la porta ad un lavorio mentale incessante, teso alla creazione di nuove forme e nuovi punti di vista su cui riflettere e ispirarsi, per portare avanti il grande mistero della creazione artistica.
Zhang Hong Mei dimostra così che si può fare pittura con qualsiasi cosa, la cosa importante è avere un'ispirazione profonda, un senso dell'arte che a volte può lasciare stupiti e sorpresi di fronte a cose spesso difficili da comprendere al primo sguardo, ma sempre capaci di porre domande, di far incuriosire, di far riflettere.
Il progetto si completa con una scultura in marmo di Carrara, sviluppo tridimensionale dei «Mental Landscapes», anch’essa in esposizione in occasione della passata edizione della Biennale di Venezia.
La mostra, per la curatela di Vincenzo Sanfo, rappresenta un buon punto di partenza per entrare nel mondo creativo dell'artista, per indagare la sua ricerca basata da un lato sulla necessità di tramandare la storia, lo spirito e l'essenza dell'arte cinese incontrando le tecniche della tradizione popolare, dall'altro nel dare alla pittura cinese nuove possibilità, rivisitandola, riportandola in luce, utilizzando per questa sua indagine mezzi e tecniche inusuali.
Zhang Hong Mei adopera, infatti, al posto dell'olio o degli inchiostri, tessuti colorati per dipingere e creare quegli effetti che evocano appunto le tecniche della tradizione cinese, dalla pittura ad inchiostro alle carte ritagliate. I suoi lavori, sempre più ricercati da collezionisti attenti e preparati, sono un chiaro esempio di come l'arte cinese contemporanea sappia uscire da schemi prefissati e ormai superati dalla storia dell'arte per imboccare nuove strade e nuovi percorsi.

Informazioni utili 
www.mcarthurglengroup.com 

giovedì 7 dicembre 2017

Orologi, porcellane e reperti archeologici: nuove collezioni al Museo Poldi Pezzoli di Milano

Il museo Poldi Pezzoli di Milano è un po’ più grande. Rispettando le volontà testamentarie di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, che più di centotrent’anni fa chiedeva di continuare ad arricchire il patrimonio artistico da lui donato alla città, la collezione meneghina ha da poco tre nuove sale, collegate armoniosamente al cuore storico del museo, il Salone dorato, attraverso un corridoio di grande impatto scenografico.
Questo «cannocchiale visivo» suggerisce il percorso di visita guidando il pubblico alla scoperta degli ambienti appena inaugurati, la cui realizzazione è stata resa possibile grazie a una donazione di Mario e Carmen Franzini e all’esecuzione tecnica di Luca Rolla e Alberto Bertini; l’impianto di illuminazione si deve, invece, a Ferrara Palladino Lightscape.
Nel nuovo allestimento, visibile dallo scorso 24 novembre, c’è spazio anche per la Galleria dei ritratti, uno spazio, questo, degno di un palazzo nobiliare quale era quello di Gian Giacomo Poldi Pezzoli. Qui, uno dopo l’altro, si susseguono i volti dei personaggi del Sei e Settecento appartenenti alla collezione permanente.
Il nuovo percorso inizia con l’esposizione di un’eccezionale collezione di orologi da persona provenienti da un’importante raccolta privata milanese che offre una panoramica dell’evoluzione tecnica e artistica dell’orologio dal XVI al XX secolo e permette al pubblico di ammirare la varietà delle tecniche di oreficeria e di smaltatura applicate alla decorazione delle casse.
Con questa acquisizione, la collezione di orologi del Museo Poldi Pezzoli diventa così una delle più importanti al mondo, alla pari di quelle del Louvre di Parigi, del Metropolitan Museum of Art di New York e del Musée d’art et d’histoire di Ginevra.
Proseguendo, nella seconda sala, grazie alla generosità di Rossella Necchi-Rizzi e Orazio Carandente, è possibile godere di una raccolta di reperti archeologici, costituita da un significativo nucleo di ceramica apula del IV-III secolo a.C., testimonianza della storia del gusto e delle tendenze del collezionismo europeo che tra Otto e Novecento si sviluppò tra monarchi, aristocratici e la nascente borghesia.
Infine, nella Galleria dei Ritratti è esposta, in dialogo con i dipinti dello stesso periodo qui accolti, la collezione di porcellane europee del XVIII secolo, donata dagli eredi di Guido e Mariuccia Zerilli-Marimò. La nuova sala consente così al pubblico un’immersione nella produzione artistica settecentesca di grande fascino. Le porcellane rappresentano, con pezzi di notevole rilievo, tutte le principali manifatture europee attive nel Settecento, tra le quali spiccano, per qualità e importanza, le opere realizzate a Meissen. Per l’occasione e per la prima volta dopo molti decenni, i tre vasi bianchi della raccolta, che facevano parte di una garniture de cheminée inviata nel 1725 da Augusto II a Vittorio Amedeo II di Sardegna, sono eccezionalmente riuniti ad altri due provenienti dallo stesso gruppo, conservati presso il Palazzo Reale di Torino.
A queste nuove collezioni, che dialogano in grande armonia con quelle già presenti nel museo, si affiancano altre opere giunte recentemente in donazione e finalmente accolte in ambienti più ampi e adeguati. Tra queste, piacevolmente inaspettato, il contributo di Omar Gallianiche nel 2011 ha donato l’opera «A contatto»: uno degli esempi di relazione che l’arte contemporanea può stabilire con quella del passato.

Informazioni utili 
Museo Poldi Pezzoli, via Manzoni, 12 - Milano. Orari: da mercoledì a lunedì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 7,00. Sito internet: museopoldipezzoli.it.

martedì 5 dicembre 2017

«Splendida Persia», gemme, preziosi, oro e gioielli tra passato e futuro

Iran e Italia, tradizioni millenarie e linguaggi contemporanei che si fondono nell'emozione di un viaggio alla scoperta del gioiello: si presenta così «Splendida Persia», la mostra che Bianca Cappello e Sogand Nobahar hanno curato per il Museo del Bijou di Casalmaggiore , spazio museale in provincia di Cremona, fondato nel 1986, che ospita oltre ventimila pezzi di bigiotteria, dalla fine dell’Ottocento alle soglie del nuovo millennio.
La rassegna, visibile fino al prossimo 28 gennaio, allinea, per la prima volta nel nostro Paese, un’esclusiva selezione di gioielli appartenenti alla storia della Persia e all'influenza del suo magico fascino nell'oreficeria iraniana contemporanea, rilevandone anche l’eco che hanno avuto nella bigiotteria italiana dagli anni Sessanta a oggi.
Il percorso della mostra, del quale rimarrà documentazione grazie a un catalogo pubblicato dalle edizioni Universitas Studiorum, si apre con un prezioso nucleo di gioielli e perle antiche provenienti dalla regione dell’antica Mesopotamia, espressione, con i loro simboli e i suoi materiali, della variegata e millenaria tradizione persiana.
Tra i pezzi che stupiscono maggiormente per la propria fattura si segnalano una collana in corniola incisa, proveniente dalla Bactriana, regione storica dell'Asia centro-ccidentale corrispondente in gran parte all'Afghanistan settentrionale, e realizzatra tra il_III e X secolo d.C.,  e una collana in faiance dell’epoca sasanide, ideata nell’VII secolo.
L’esposizione presenta, quindi, una selezione di gioielli contemporanei di alcuni dei principali designer iraniani, che reinterpretano i temi della tradizione persiana arabo-islamica, ma anche zoroastrica e apotropaica popolare.
Sogand Nobahar, designer che cura anche l'esposizione, presenta, per esempio, un anello e dei bracciali della serie «MyCity-Teheran», mentre Fateme SafarTalab è in mostra con le collane della collezione «Lady Pomegranate» e Nogol Zahabi con un collare Dark Blue in ricamo Termeh.
Si trovano, quindi, esposti alcuni gioielli made in Italy, creati tra gli anni Sessanta e oggi da grandi firme della bigiotteria italiana e ispirati all'iconografia, ai colori e alla poesia persiana. Carlo Zini espone un collier molto lavorato realizzato negli anni Duemila, Ornella Bijoux una collana con pietre blu degli anni Settanta,  Bozart un diadema con piumette degli anni Ottanta, Sharra Pagano dei bracciali ricchi di gemme colorate, solo per fare qualche esempio. 
Chiudono il percorso espositivo della rassegna, inserita nel progetto «Stupor Mundi - Iran», i gioielli concettuali di un gruppo di giovani studenti talentuosi del corso di Design del gioiello dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano che hanno realizzato opere di grande suggestione e forza vitale.
Il tour espositivo si arricchisce infine di una serie di scatti inediti tratti dal reportage documentario in Iran del fotografo Federico Wilhelm che analizza il paesaggio naturale, artistico e sociale dell’Iran contemporaneo, nel particolare e delicato passaggio dalla radicata e millenaria tradizione alla contemporaneità.

Informazioni utili
«Splendida Persia». Museo del Bijoux di Casalmaggiore, via Porzio, 9 - Casalmaggiore (Cremona). Orari: da martedì a sabato, ore 10.00-12.00 e ore 15.00 - 18.00; domenica e festivi, ore 15.00- 19.00; chiuso a Natale e Capodanno. Ingresso: intero € 3,00; ridotto € 2,50, gratuito per le scolaresche, i possessori dell'Abbonamento Musei Lombardia e, per tutti, la prima domenica del mese. Informazioni e prenotazioni:  tel. 0375.284424 (Ufficio Cultura del Comune), info@museodelbijou.it. Sito web: www.museodelbijou.it. Fino al 28 gennaio 2018. 

domenica 3 dicembre 2017

Aligi Sassu e l’arte sacra: Silvana editoriale pubblica il catalogo ragionato

«Aligi Sassu credeva sinceramente in Dio, in un essere, superiore a noi tutti, che domina le sorti del mondo». Così Alfredo Paglione parla del rapporto che l’artista milanese, di padre sardo e madre emiliana, ebbe con il sacro. A questo argomento è dedicato l’ultimo libro curato dal gallerista e mecenate di Tornareccio (Chieti): «Aligi Sassu-Catalogo ragionato dell’opera sacra» (45 euro, edizioni Silvana, 288 pagine riccamente illustrate).
All’interno del pregevole volume sono presenti, oltre a cinquecento tavole a colori, saggi e contributi di Antonio Paolucci, Gianfranco Ravasi, Antonello Negri, Elena Pontiggia, Giuseppe Bonini e Bruno Forte.
Aligi Sassu, per usare le parole di Ludovico Ragghianti, «ha significato, senza clamore, nella sua vicenda, l’infinita potenza dell’uomo di aggiungere sempre nuove e incancellabili verità di poesia alla vita e alla storia».
Conosciuto e amato in tutto il mondo, l’artista milanese è stato uno dei protagonisti del rinnovamento della pittura italiana assieme agli artisti del gruppo milanese di Corrente, da Treccani a Cassinari, da Morlotti a Guttuso.
In questo clima culturale, Aligi Sassu ha maturato il proprio linguaggio figurativo, segnato dalla propria coscienza di antifascista e di militante della Resistenza, che gli ha fatto vivere in prima persona il dramma della detenzione per il reato di cospirazione politica mediante associazione.
La sua pittura nasce da un’esigenza etica di libertà espressiva che si realizza attraverso un uso straordinariamente libero del colore come elemento costitutivo della stessa forma. Questa attenzione alla forza espressiva dei soggetti raffigurati e all’acceso cromatismo ne hanno fatto un artista molto amato dai grandi protagonisti del suo tempo, da Sandro Pertini, suo grande amico, a Paolo VI, suo estimatore, per giungere a Salvatore Quasimodo.
In ambito sacro, Aligi Sassu si accostò a due temi: la deposizione e la crocifissione. Il suo Cristo Crocifisso e il suo Cristo deposto sono simboli della sofferenza di tutti gli uomini che hanno vissuto a cavallo tra i due eventi bellici. In queste figure si ravvisano i sentimenti dei partigiani e di tutte le persone comuni colpite da un fato collettivo che porta con sé dolore, fame, privazioni, morte.
Dal punto di vista più strettamente pittorico il pittore declina queste opere su un piano visivo decisamente caratterizzato dal colore, quella cifra stilistica che gli è propria e che ha reso grande la sua pittura. Le figure sono chiuse in se stesse, attraversate dalla cupa ombra dell’angoscia e della sofferenza.
L’artista milanese fu anche il solo artista che nel Novecento dipinse opere aventi come tema il Concilio di Trento. Il consesso tridentino è un’altra testimonianza del «credente» Aligi Sassu, così come scrive in catalogo il cardinale Gianfranco Ravasi, che ebbe con l’artista un lungo incontro umano e spirituale.
Va ricordato che Aligi Sassu era conosciuto per le sue idee politiche, era un uomo del suo tempo, affacciato sui grandi cambiamenti e sulle grandi ideologie politiche dell’epoca che, per la prima volta, attraversavano il mondo a grande velocità. Ma l’artista era comunque figlio di una cultura e di una tradizione cattolico-cristiana, la cui impronta conviveva perfettamente in un alveo di pensiero di fine intellettualità. Quella stessa raffinata intellettualità che si ritrova in tutte le sue opere, e in particolare in quelle sacre, dove la sua visione delle cose, del mondo e della società, trovano spazio ed espressione comune sulla tela che rappresenta un soggetto sacro ma grida il dolore dell’uomo.
Le ragioni per conoscere l’opera sacra di Sassu non sono solo artistiche o culturali; l’artista ha saputo, così come tutti i grandi hanno fatto, lasciarci una grande eredità su cui riflettere. L’eredità è quella visione che in opere come la «Deposizione» del 1932, vede per la prima, e ultima volta, un fanciullo nel consesso della pietas di coloro che accolgono il corpo del Cristo deposto dalla croce. Questo giovane che quasi si nasconde, con il quale forse l’artista voleva lasciarsi un’immagine di speranza e di futuro, è al centro della scena ed è in piena contrapposizione con il corpo di Cristo abbandonato nell’inconsistenza della morte.
«A questo fanciullo, e in senso lato a tutti i giovani, – racconta Alfredo Paglione- è dedicato il volume, nella speranza che loro sappiano leggere nell’arte una delle essenze principali della vita».

Informazioni utili
«Aligi Sassu-Catalogo ragionato dell’opera sacra». Curatore: Alfredo Paglione. Casa editrice: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Milano). Formato: 24 x 28 cm. Pagine: 288. N. illustrazioni: 500. Rilegatura: Brossura con alette. Anno pubblicazione: 2017. ISBN/EAN:9788836637706. Prezzo: 45,00 Euro. Presentazione: 8 gennaio 2018, ore 11 – Milano, Accademia di Brera