ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 24 settembre 2018

Da Dalì a Banksy, la grande arte torna sul grande schermo

La grande arte ritorna protagonista al cinema, forte dei risultati della passata stagione che ha visto la presenza di oltre 650mila spettatori in più di trecentocinquanta sale italiane.
Dal 24 settembre prende il via un nuovo ciclo di eventi, capace di offrire al pubblico un’esperienza visiva innovativa e di far vivere sul grande schermo tutta la ricchezza delle mostre, degli artisti e dei musei più importanti del mondo.
Ad aprire la rassegna «Grande arte al cinema» sarà l’omaggio a uno degli artisti più fantasiosi, irruenti e imprevedibili del Novecento, di cui nel 2019 ricorre l’anniversario dei trent’anni dalla morte: Salvador Dalí (1904-1989).
Il film sull’artista surrealista, in cartellone dal 24 al 26 settembre, permetterà agli spettatori di conoscere da vicino il pittore e l'uomo, così come agli spazi da lui ideati e che hanno contribuito a plasmarne il mito.
«Salvador Dalí. La ricerca dell’immortalità», questo il titolo del progetto cinematografico, proporrà, nello specifico, un viaggio esaustivo attraverso la vita e l'opera dell’artista catalano e anche di Gala, sua musa e collaboratrice.
Il regista David Pujol ci guiderà, assieme a Montse Aguer Teixidor, direttrice del Museo Dalí, e Jordi Artigas, coordinatore delle Case Museo Dalí, in un percorso che ha inizio nel 1929, anno cruciale per il pittore sia dal punto di vista professionale che personale, fino alla sua morte, avvenuta nel 1989.
È nel 1929, infatti, che l’artista catalano si unisce al gruppo surrealista, suscitando le ire del padre che non accetta un cambiamento così radicale e tenta di allontanarlo da Cadaqués, luogo dove l’artista trascorre le estati soleggiate con la famiglia prima della rottura. Nello stesso anno il pittore incontra Gala, l’amore intenso di una vita, una donna che comprende il suo talento e le sue ossessioni, una musa che lo ispira e con cui sperimenta piaceri e divertimenti, ma che allo stesso tempo sa riportarlo alla realtà e gli restituisce l’equilibrio necessario.
Percorrendo vicende non scontate, il progetto filmico attraversa intere geografie vitali. Si può visitare virtualmente l’adorata casa a Portlligat, l’officina casalinga che, dalle finestre che si ingrandiscono con i progressivi ampliamenti dell’edificio, accoglie tutti i colori della Catalogna e i paesaggi tipici delle opere Dalí. In origine una cella di soli ventidue metri quadri, proprietà di Lidia, una figura paesana che con la sua «follia plastica» e «cerebro paranoica» influenzò spiritualmente l’artista: un piccolo nido appena sufficiente per due che negli anni si trasforma in un’enorme casa studio circondata da uliveti, frequentata da artisti, personaggi pubblici e giornalisti.
In questo viaggio tra luoghi, emozioni e arte, non può mancare Figueres, la città natale dove l’artista crea il museo-teatro Dalí, il suo testamento artistico. Proprio qui, nella Torre Galatea, l’artista decide di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in una dimensione più intima con studi volti a comprendere il caos e a carpire l’agognato segreto dell’immortalità.

Anche Púbol è un luogo caro a Dalí. In questo castello, donato all’amata Gala e simbolo di un amor cortese pensato per restituire una desiderata dimensione intima che a Portlligat si era persa, l’artista torna a un corteggiamento quasi antico: qui egli può accedere solo su invito scritto della stessa Gala.
Ma sono anche la Parigi surrealista di «Un Chien Andalou», prodotto e interpretato da Dalí e da Luis Buñuel, e la New York moderna e simbolo di speranza e risurrezione, ad essere protagoniste di «Salvador Dalí. La ricerca dell’immortalità», un film evento capace di farci penetrare nell’animo creativo, geniale, tormentato, di colui che secondo il regista Alfred Hitchcock era «il miglior uomo in grado di rappresentare i sogni» e replicare il mondo del subconscio.
Il film si configura così come un tour tra le creazioni dell’artista. La contemplazione della sua vita intrecciata a quella di Gala, immagini e documenti, alcuni dei quali completamente inediti, avvicinano lo spettatore a un genio unico nella storia dell’arte, un pittore che ha fatto di se stesso una straordinaria ed eccentrica opera, capace di assicurargli un posto tra i grandi maestri e nel mito e di regalargli quell’immortalità che ha cercato per tutta la vita.

La rassegna «Grande arte al cinema» proseguirà con il film «Klimt & Schiele. Eros e Psiche», che dal 22 al 24 ottobre porterà il pubblico nel 1918, a Vienna. Il progetto cinematografico si apre nella notte del 31 ottobre quando, nel letto della sua casa, muore Egon Schiele, una delle 20milioni di vittime dell’influenza spagnola. L’artista si spegne guardando in faccia il male invisibile, come solo lui sa fare: dipingendolo. Ha 28 anni e solo pochi mesi prima il salone principale del palazzo della Secessione si è aperto alle sue opere, diciannove oli e ventinove disegni, con la celebrazione di una pittura che rappresenta le inquietudini e i desideri dell’uomo. Qualche mese prima è morto anche il suo maestro e amico Gustav Klimt, che dall’inizio del secolo aveva rivoluzionato il sentimento dell’arte, fondando un nuovo gruppo: la Secessione.
Oggi i capolavori di questi due artisti attirano visitatori da tutto il mondo, a Vienna come alla Neue Galerie di New York, ma sono anche diventati immagini pop che accompagnano la nostra vita quotidiana su poster, cartoline e calendari.

Ora, cent’anni dopo, le opere di questi artisti visionari –tra Jugendstil e Espressionismo– tornano protagoniste assolute nella capitale austriaca, insieme a quelle del designer e pittore Koloman Moser e dell’architetto Otto Wagner, morti in quello stesso 1918, sempre a Vienna.
Prendendo spunto da alcune delle tante mostre che stanno per aprirsi in occasione del centenario, il film evento ci guida tra le sale dell’Albertina, del Belvedere, del Kunsthistorisches, del Leopold, del Freud e del Wien Museum, ripercorrendo questa straordinaria stagione: un momento magico per arte, letteratura e musica, in cui circolano nuove idee, si scoprono con Freud i moti della psiche e le donne cominciano a rivendicare la loro indipendenza. Un’età che svela gli abissi dell’Io in cui ci specchiamo ancora oggi.

Mentre il 26, 27, 28 novembre il pubblico si sposterà nella Francia di Giverny con «Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce», che narra la storia della nascita di una delle più grandi opere d’arte del ‘900, anzi di trecento capolavori che hanno rivoluzionato l’arte successiva. Il racconto di una passione viscerale che diventerà una vera ossessione e dell’uomo che da questa ossessione si è lasciato divorare: Claude Monet.
La dimora di Giverny è la villa più costosa della zona ma le manca ancora qualcosa. Appena vi si trasferisce, infatti, Monet decide immediatamente di mettersi al lavoro: desidera creare un giardino «per il piacere degli occhi», ma si accorge presto che questa meravigliosa tavolozza naturale può offrirgli innumerevoli soggetti per la sua pittura. È così che, attirandosi le ire dei suoi confinanti, sradica tutti gli alberi da frutto, distrugge l’orto e inizia a creare il suo atelier en-plein-air. Nel sud della Francia sorge ancora lo storico vivaio Latour-Marliac, presso il quale Monet acquista quei fiori esotici, dei quali si è innamorato all’esposizione universale di Parigi del 1889. Si tratta di sei bulbi di ninfee: quattro gialle e due bianche. Pur tra le mille difficoltà, nel 1895, l’artista piazza il cavalletto sulla riva del lago. Per la prima volta dai suoi pennelli prende vita un fiore di ninfea. È da queste prime pennellate che nasce il film evento che racconta l’amore e l’ossessione di Monet per le sue ninfee attraversando il giardino e la casa dell’artista a Giverny, ma anche il Musée D’Orsay, l’Orangerie e il Marmottan di Parigi, la grande mostra del Vittoriano di Roma.

A chiudere il 2018 della rassegna «Grande arte al cinema» sarà, l’11 e 12 dicembre, «L’uomo che rubò Banksy», diretto da Marco Proserpio e narrato da Iggy Pop, che ha riscosso successo all’ultima edizione del Tribeca Film Festival.
Il film-evento sull’artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della Street Art, racconta di arte, culture in conflitto, identità e mercato nero. L’inizio mostra la percezione dei palestinesi sul più importante artista di strada dei nostri tempi, ma si trasforma presto nella scoperta di un vasto mercato nero di muri e dipinti rubati nelle strade di tutto il mondo, ma anche in un dibattito sulla commercializzazione o conservazione della Street Art.Il docu-film porterà così lo spettatore a capire cosa abbia portato le opere d’arte di Banksy da Betlemme a una casa d’aste occidentale, insieme al muro su cui sono state dipinte.

Informazioni utili 
«La grande arte al cinema» - Nuova stagione 2018. Salvador Dalí. La ricerca dell’immortalità - 24, 25, 26 settembre | Klimt & Schiele. Eros e Psiche - 22, 23, 24 ottobre | Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce - 26, 27, 28 novembre | L’uomo che rubò Banksy - 11 e 12 dicembre. Progetto Scuole: tutti i titoli possono essere richiesti anche per speciali matinée al cinema dedicate alle scuole; per prenotazioni: Maria Chiara Buongiorno, progetto.scuole@nexodigital.it, tel. 02.8051633. Sito internet: www.nexodigital.it.

venerdì 29 giugno 2018

Da Nicola di Ulisse a Carlo Crivelli, il Quattrocento a Fermo

Racconta la preziosità artistica di un angolo di Marche la mostra «Il Quattrocento a Fermo. Tradizione e avanguardie da Nicola di Ulisse a Carlo Crivelli», per la curatela di Alessandro Marchi e Giulia Spina, allestita fino al 7ottobre nella chiesa di San Filippo. L’esposizione -che fa parte del progetto di valorizzazione del patrimonio culturale regionale «Mostrare le Marche», nato con l’intento di valorizzare i territori che hanno subito danni in seguito al sisma- si propone di raccontare un tratto di storia di Fermo perduta nell’oblio.
La città marchigiana, orgogliosa nei tempi antichi della sua posizione preminente in territorio Piceno, capoluogo di una circoscrizione ecclesiastica vastissima, ebbe nel Quattrocento un rilievo assai originale nelle vicende dell'arte marchigiana, non ancora riproposto alla ribalta che gli compete.
Dopo che nel 1433 Francesco Sforza conquista le terre della Marca, la città diventa anche la capitale di un nuovo stato. Sull'acropoli fermana si erge la rocca del Girfalco, in cui si insedia la corte sforzesca. Nel 1442 viene chiesto ai priori di Norcia di inviare una compagnia di pittori; a questi artisti viene commissionata la decorazione dipinta di una camera che doveva accogliere Francesco Sforza con la futura moglie Bianca Maria Visconti.
L'impresa pittorica risolta in affresco, o meglio secondo le tecniche della pittura murale a destinazione profana come usava a quei tempi, doveva esser condotta da Nicola di Ulisse da Siena (doc. a Norcia dal 1442 – m. tra il 1476 e il 1477), un protagonista assai attivo sul crinale appenninico fa Umbria e Marche, solo di recente riscoperto dalla critica.
Di questa impresa non rimane più nulla, perché i fermani, malgovernati dal tiranno romagnolo, dopo la capitolazione marchigiana degli Sforza (che da qui puntarono al dominio di Milano e di Pesaro) e con il benestare di papa Eugenio IV, distrussero completamente la rocca, cancellando per sempre il simbolo della tirannia.
Gli artisti che realizzarono i dipinti murali del Girfalco -Nicola di Ulisse, Bartolomeo di Tommaso da Foligno, Andrea Delitio da Lecce de' Marsi (Abruzzo), Giambono Di Corrado da Ragusa e Luca de Alemania- ritornano ora a Fermo, ovviamente con altre opere, sopravvissute al naufragio del tempo, per evocare in analogia le suggestioni e i fasti quattrocenteschi.
Nella mostra è possibile ammirare anche opere di artisti locali quali Marino Angeli, Pierpalma da Fermo e Paolo da Visso, che si sono formati ed hanno sviluppato i caratteri originali dello stile appenninico dei pittori del Girfalco. A questi lavori sono affiancate opere di altri pittori, documentati a Fermo negli anni centrali del Quattrocento, accanto a sculture, oreficerie, tessuti, ceramiche e miniature che ancora documentano nella città e nel vasto territorio che la circonda, e che nei secoli da essa è stato dominato, l'imponente fioritura del Quattrocento artistico marchigiano.
La mostra si conclude con opere di Carlo e Vittore Crivelli che, nel 1468, provenendo da Venezia e dopo un soggiorno in Dalmazia, fecero di Fermo il centro della loro splendida pittura. I due fratelli portarono a Fermo l’incisività della pittura squarcionesca di matrice veneta e la forza espressiva di una cultura che voleva parlare direttamente all’osservatore, puntando sull’ostensione dell’immagine attraverso la ricchezza delle superfici pittoriche.
Lungo il percorso è possibile così vedere capolavori di Nicola di Ulisse come il «Polittico di Sant’Eutizio», arrivato da Spoleto e appena stato restaurato dopo il terremoto del 2016, e il «Cristo Risorto», opera attualmente visibile solo nella mostra fermana poiché il Museo di Castellina da cui proviene è oggi impraticabile. Si segnala, poi, la presenza lungo il percorso espositivo della tavola «San Francesco che riceve le stimmate» di Falerone, di una cartapesta proveniente dalla bottega di Antonio Rossellino, dei frammenti della Pala di Ripatransone di Fra’ Mattia della Robbia e del «Polittico di Massa Fermana» di Carlo Crivelli, che è la prima opera marchigiana dell’artista veneziano.
Una sezione della mostra è, infine, dedicata agli oggetti di arte quattrocentesca esposti, come oreficerie, tessuti, boccali e piatti dell’Officina ‘Sforzesca’ di Pesaro della seconda metà del Quattrocento fra cui un preziosissimo «Boccale con volto di donna a rilievo», un «Boccale con decoro alla foglia gotica detta ‘cartoccio’», e un terzo «Boccale con stemma dipinto».

Informazioni utili
Il Quattrocento a Fermo. Chiesa di San Filippo, Corso Cavour, 53 – Fermo. Orari: giugno - da martedì a domenica, ore 10.30-13  e ore 14.30-19; luglio-agosto-settembre - da lunedì a domenica, ore 10.30-13  e ore 14.30-19, giovedì, ore 10.30-13 e ore 14.30-24. Ingresso: Biglietto unico per il circuito museale e monumentale (valido 1 anno) - intero € 8,00, ridotto € 6,00 (14-25 anni, gruppi > 15, soci Fai, Touring Club, Italia Nostra); omaggio per minori di 13 anni, disabili, soci ICOM, giornalisti con tesserino; ridotto con coupon sconto progetto «Mostrare le Marche» 6,00 €. Informazioni e prenotazioni visite guidate e servizi didattici: tel. 0734.217140 e fermo@sistemamuseo.it. Sito internet: www.sistemamuseo.it. Fino al 7 ottobre 2018


mercoledì 27 giugno 2018

A Massa Marittima undici capolavori di Ambrogio Lorenzetti

«A Massa [dipinse] una grande tauola et una capella». Con questa lapidaria, ma non troppo precisa indicazione, contenuta nei «Commentarii», l’architetto, scultore e scrittore Lorenzo Ghiberti (Pelago, 1378 – Firenze, 1º dicembre 1455), che probabilmente era ben informato sui fatti relativi al «famosissimo et singularissimo maestro» senese, indicava per primo l’attività di Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa – Siena, 1348) nella città maremmana.
L’artista e storiografo fiorentino si riferiva alla grande tavola con la «Maestà», che «con la sua profonda dottrina, la sua bellezza figurativa, la sua calda e attraente gamma cromatica -per usare le parole di Alessandro Bagnoli, uno dei più attenti studiosi dell’opera di Lorenzetti- abbagliava dall’altare della piccola chiesa di San Pietro all’Orto, dove gli eremitani agostiniani di Massa Marittima avevano iniziato a svolgere la loro vita comunitaria e liturgica».
Questo importante dipinto, realizzato intorno al 1335, è al centro della mostra «Ambrogio Lorenzetti in Maremma. I capolavori dei territori di Grosseto e Siena», che allinea, fino al prossimo 16 settembre, nelle sale del Complesso museale di San Pietro all'Orto, undici tele dell’artista senese, alle quali sono affiancati video e pannelli illustrativi.
Il percorso espositivo si propone così non solo di essere facilmente fruibile da un pubblico di non esperti, ma anche di offrire una visione di insieme delle varie stagioni conosciute dal pittore nel corso della propria carriera, anche al fine di meglio contestualizzare la stessa «Maestà» nell’ambito di quella che in passato era considerata la Maremma senese.
Di questo straordinario dipinto a tempera e oro su tavola -si legge nella brochure che accompagna la mostra- «si erano perse le tracce da diversi secoli, quando gli studi eruditi dell’Ottocento proposero d’identi¬ficarla con l’opera allora conservata nella Cappella dei Priori del Palazzo comunale della città, che oggi ospita l’ufficio del sindaco. La tavola era stata ritrovata nel 1867 nella soffitta del Convento di Sant’Agostino divisa in cinque parti utilizzate in un deposito di carbone. La felice intuizione che in quelle tavole annerite si celasse l’opera perduta di Lorenzetti, confermata solo all’inizio del Novecento dopo una trentina di anni di studio, rappresentava la prova tangibile, dopo secoli d’incertezze, del fatto che uno dei più grandi pittori del Trecento italiano avesse davvero lavorato a Massa Marittima, sulla scia di altri maestri senesi del calibro di Duccio e Goro di Gregorio».
Ambrogio Lorenzetti elaborò per questo lavoro un’iconografia complessa, caratterizzata da un sovraffollamento di personaggi: le tre virtù teologali sono raffigurate sedute sui gradini che conducono al trono della Madonna con gli angeli musicanti, santi e profeti.
Si rivela così in questo straordinario dipinto tutta la maestria dell’artista, innovatore dei dipinti d'altare, di storie sacre e che ha allargato lo sguardo della pittura alla narrazione del paesaggio e della pittura d'ambiente.
Il percorso espositivo propone altre dieci opere a partire dagli anni 1320/25 con la ¬ figura del «Re Salomone», frammento che faceva in origine parte di una delle cornici di raccordo tra le scene che Ambrogio, assieme al fratello Pietro, eseguì per la Sala Capitolare del convento senese di San Francesco, ¬ fino al 1340 con il «Polittico di San Pietro in Castelvecchio» e il «Polittico della Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Paolo» dipinto per la Chiesa di Roccalbegna.

Tra queste due date si collocano le altre opere in mostra: la «Croce dipinta» della Pieve di Montenero d’Orcia, la vetrata raffigurante il «San Michele Arcangelo vittorioso sul demonio», le sinopie dell’«Annunciazione» della cappella di San Galgano a Montesiepi, i «Quattro Santi» del Museo dell’Opera della Metropolitana di Siena, le scene affrescate lungo il lato orientale del Chiostro di San Francesco, sempre a Siena, e l’«Allegoria della Redenzione» della Pinacoteca di Siena. Il percorso della mostra si completa con la visita ad altri due importanti luoghi della città, dove Lorenzetti lavorò: la Chiesa di San Pietro all’Orto, o i Museo degli Organi Meccanici Antichi, e la Cattedrale di San Cerbone, dove sono presenti affreschi recentemente attribuiti al grande artista senese.
Il percorso espositivo della mostra si completa con la visita ad altri due importanti luoghi della città, dove Lorenzetti lavorò: la Chiesa di San Pietro all’Orto, oggi Museo degli Organi Meccanici Antichi, e la Cattedrale di San Cerbone, dove sono presenti a affreschi recentemente attribuiti al grande artista senese.
Tra questi si segnala una grande «Annunciazione», posta al lato sinistro della porta laterale.
Nonostante la perdita di metà della superficie affrescata e la consunzione della pellicola pittorica, è ancora possibile apprezzare la stupenda invenzione compositiva e l’accuratezza dell’esecuzione.
Ambrogio Lorenzetti ha costruito una complessa architettura: lo spazio è scandito in profondità e si dispiega dall’area di primo piano, alle due volte in alto, sopra le quali si vedono due bifore di modernissima architettura gotica, al vano voltato dov’è la Vergine, nel fondo del quale si apre una porta che immette in una più lontana stanza.
«L’espediente di immaginare la porta socchiusa e delineata con scorcio prospettico ben misurato torna a riprova della responsabilità di Ambrogio Lorenzetti, che fu l’unico pittore del Trecento senese a concepire e realizzare con impressionate acutezza simili soluzioni. La stessa capacità di rappresentare le cose in uno spazio profondo e tangibile -spiega Alessandro Bagnoli-, si percepisce nella figura della Vergine, nelle sue mani e nel libro socchiuso, dove fra i due blocchetti delle pagine spicca isolata quella sulla quale era fissata la lettura. L’attenta cura nell’esecuzione si percepisce ancora nella fine elaborazione del nimbo della Vergine, che è riempito dall’impressione di stampini puntiformi, a scacchiera e a rosetta».
Per tutti questi elementi si può affermare che l’«Annunciata» della cattedrale di Massa Marittima si riveli come un’ulteriore prova magistrale della fase matura di Ambrogio Lorenzetti, «pratico coloritore a fresco», che – ebbe a scrivere Giorgio Vasari, un altro importante biografo dell’artista- «nel maneggiar la tempera i colori gl’adoperò con destrezza e facilità grande».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino e i santi Pietro e Paolo, circa 1340, tempera e oro su tavola, Roccalbegna, chiesa dei Santi Pietro e Paolo; foto di Andrea e Fabio Lensini, Siena © Diocesi di Pitigliano – Sovana - Orbetello; [fig. 2] Ambrogio Lorenzetti, Re Salomone, circa 1320-1325, affresco distaccato e applicato su supporto di vetroresina, Siena, Museo Diocesano; foto di Marcello Formichi © Arcidiocesi di Siena – Colle di Val d'Elsa – Montalcino; [fig. 3] Ambrogio Lorenzetti, Croce dipinta, circa 1320- 1325, tempera e oro su tavola, Montenero d’Orcia (Castel del Piano), pieve di Santa Lucia; foto di Andrea e Fabio Lensini, Siena © Arcidiocesi di Siena – Colle di Val d'Elsa – Montalcino; [fig. 4] Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono con Virtù teologali, angeli musicanti, santi e profeti, 1335- 1336, oro, argento, lapislazzuli e tempera su tavole di legno di pioppo, Massa Marittima, Museo di Arte Sacra Provenienza: Massa Marittima, chiesa di San Pietro all’Orto Iscrizioni: FIDES, SPES, CARITAS (sui gradini del trono della Vergine) FOTO 19 foto di Marcello Formichi 

Informazioni utili
«Ambrogio Lorenzetti in Maremma. Capolavori dei territori di Grosseto e Siena». Complesso museale di San Pietro all'Orto, corso Diaz, 36 - Massa Marittima (Grosseto). Orari: fino al 30 giugno - da martedì a domenica, ore 10.00 – 13.00 e ore 16.00- 19.00, dal 1° luglio al 16 settembre - tutti i giorni, dalle ore 10.00 alle ore 12.00 e dalle ore 16.00 alle ore 20.00. Ingresso: intero 7 euro, ridotto 5 euro. Informazioni: Ufficio turistico Comune di Massa Marittima/ Musei di Massa Marittima, Musei di Maremma, tel.  0566901954, www.turismomassamarittima.it/news o www.museidimaremma.it.  Fino al 16 settembre 2018.

lunedì 25 giugno 2018

Pisa rende omaggio alla storia della sua ceramica

Quattro sedi espositive e oltre cinquecento pezzi per un omaggio alla ceramica pisana, che prevede anche percorsi guidati in città e sul territorio alla scoperta di inediti palazzi, chiese decorate da bacini ceramici, esempi di archeologia industriale e ceramisti ancora in attività: si presenta così la mostra «Pisa città della ceramica. Mille anni di economia e di arte, dalle importazioni mediterranee alle creazioni contemporanee», che rilegge un intero territorio, avanguardia nella tecnica destinata a cambiare le abitudini dell’Ottocento, cominciando dalla tavola per passare al resto.
Il cuore della rassegna è al Centro espositivo San Michele degli Scalzi (in viale delle Piagge), adiacente ai resti dell’ultimo baluardo della produzione in città, la fabbrica della Richard Ginori. L’allestimento si snoda nei locali disposti intorno all’antico chiostro, con vista sul campanile decorato dai bacini ceramici, ripercorrendo la storia di una produzione manifatturiera e artistica che ha caratterizzato Pisa e il suo territorio a livello nazionale e internazionale dal primo medioevo sino al XX secolo. Tra postazioni tattili, video e gigantografie d’impatto, è possibile approfondire le tecniche utilizzate prima dell’anno Mille, l’espansione del settore lungo il fiume Arno prima e sulle rotte del Mediterraneo poi, fino all’età industriale.
L’arte pisana della ceramica, nata già in età antica, affonda, infatti, le radici del suo sviluppo nelle importazioni via mare da aree islamiche e bizantine. In principio furono le Maioliche, manufatti realizzati prevalentemente per uso alimentare, con coperture vetrificate colorate, chiamate così per la provenienza dall’Isola di Maiorca. Acquisite le tecniche, all’inizio del Duecento i ceramisti pisani, primi in Toscana e tra i primi in Italia, avviano un’eccellente produzione di ceramica decorata. Ben presto gli allievi pisani superano i maestri spagnoli cominciando ad esportare in tutto il bacino del Mediterraneo. Rinnovatasi nel corso dei secoli, la produzione ceramica pisana si espande fino all’Ottocento, conquistando l’Europa e le Americhe.
Di epoca più recente la nascita di piccole fabbriche, in grado di rispondere al fabbisogno locale, ma anche di proseguire nelle esportazioni di manufatti di valore artistico: un panorama in cui s’impone tra primo e secondo dopoguerra il grande sviluppo industriale della Richard-Ginori.
Al nucleo principale di San Michele degli Scalzi faranno eco il Museo nazionale di San Matteo (in piazza San Matteo in Soarta, 1), con la sala espositiva dei bacini ceramici riallestita per l’occasione, e Palazzo Blu (sul lungarno Gambacorti, 9) con un percorso dedicato alle più antiche ceramiche medievali provenienti da scavi recenti praticati in zona. Il Novecento è, invece, protagonista nella sede della Camera di Commercio di Pisa (in piazza Vittorio Emanuele II, 5), che ospiterà una sezione espositiva dedicata alle produzioni tardo ottocentesche e novecentesche, compresi una serie di oggetti di uso quotidiano, come pipe, lampade e strumenti di vario genere, oltre ad una serie di incontri con i ceramisti contemporanei attivi in area pisana e mediterranea.
Per tutta la durata della mostra è, inoltre, possibile fruire di una serie di percorsi della ceramica in città e negli immediati dintorni, alla scoperta di chiese decorate da bacini ceramici, case-torri in cui è impiegato il cotto decorato, edifici del primo Novecento impreziositi da elementi ceramici e centri produttivi del territorio limitrofo.
La tradizione ceramista pisana, infatti, in età moderna si espande anche al territorio, conoscendo particolare fortuna tra ‘600 e ‘800 con l’apertura di numerose botteghe in alcuni dei centri del basso Valdarno. La capillarità delle produzioni ceramiche locali permette di creare un percorso ideale lungo le sponde dell’Arno («Un fiume di ceramiche»), che a partire da Vicopisano (con le produzioni di San Giovanni alla Vena), si snoda attraverso le realtà artigianali che caratterizzano le tradizioni di Calcinaia, Pontedera, Montopoli in Valdarno, S. Maria a Monte, Castelfranco di Sotto, per arrivare fino a S. Miniato e Fucecchio, tutti luoghi che ospiteranno allestimenti ed eventi paralleli alla mostra principale.

Informazioni utili 
«Pisa città della ceramica. Mille anni di economia e di arte, dalle importazioni mediterranee alle creazioni contemporanee». Orari: SMS - da maggio a luglio e da settembre a novembre, martedì e giovedì dalle ore 9:00 alle ore 13:00 e dalle ore 15:00 alle 17:00; il mercoledì e il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00; il sabato e la domenica dalle ore 10:00 alle ore 13:00 e dalle ore 15:00 alle ore 18:00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Nel mese di agosto aperto sabato e domenica dalle 18:00 alle 22:00 |Camera di Commercio: da martedì a sabato, con orari in via di definizione. | Museo Nazionale di San Matteo: feriali: 8:30 - 19:30; festivi: 8:30 - 13:30 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura) Chiusura: ogni lunedì. Per informazioni specifiche Tel. 050 541865, pm-os.museosanmatteo@beniculturali.it | Palazzo Blu: Le collezioni della Fondazione Pisa sono fruibili dal martedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 19:00 e il sabato e la domenica dalle ore 10:00 alle ore 20:00 (ultimo ingresso un'ora prima della chiusura). Chiuso nel mese di agosto.  Per informazioni specifiche tel. +39 050 220.46.50; info@palazzoblu.it | Tutte le sedi espositive sono chiude il lunedì. Biglietti: accesso gratuito al centro SMS e alla sede espositiva presso la Camera di Commercio, e biglietto ridotto al Museo Nazionale di San Matteo e a Palazzo Blu – esposizione permanente. Informazioni e programma completo: www.pisacittaceramica.it. E-mail: info@pisacittaceramica.it; jenny.delchiocca@cfs.unipi.it. Prenotazioni: pisacittaceramica@gmail.com. Fino al 5 novembre 2018.

sabato 23 giugno 2018

Milano omaggia Alik Cavaliere

È una mostra diffusa che parte dalla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale per estendersi all’intera città di Milano quella curata da Elena Pontiggia in occasione del ventennale della scomparsa di Alik Cavaliere (Roma 1926 - Milano 1998), artista fra i maggiori della scultura italiana del secondo Novecento. L’antologica, in programma dal 27 giugno al 9 settembre, intende ricostruire l’intero percorso dell’artista, soffermandosi sul tema della natura.
A Palazzo Reale verranno esposti lavori che mettono in luce le diverse fasi e tematiche dell’artista, dalle monumentali «Metamorfosi» dei tardi anni Cinquanta all’innovativo personaggio «Gustavo B.» dei primi anni Sessanta, protagonista di un racconto composito sulle tante esperienze dell’uomo del tempo, accostato a «Bimecus», una valigetta fai da te contenente elementi in bronzo e legno, un tempo componibili anche dall’osservatore per entrare in sintonia con l’autore.
Sarà, inoltre, possibile vedere capolavori di straordinaria bellezza come «Quae moveant animum res. Omaggio a Magritte» e il famoso «Monumento alla mela,» entrambi del 1963; in particolare in questi due lavori l’artista riprende da Magritte il tema della mela al quale associa il pensiero di Lucrezio secondo cui la mente umana genera immagini anche irreali e la natura è vista come un ciclo infinito di nascita e morte. Dello stesso periodo verranno, poi, esposte «Tibi suavis dedala tellus submittit. La terra feconda di frutti» e «Il tempo muta la natura delle cose», esposte nel 1964 in una sala personale alla Biennale di Venezia.
La mostra si soffermerà, inoltre, su un tema ricorrente nella poetica dell’artista, la gabbia, quale simbolo dei limiti e delle costrizioni che incombono sull’uomo. Una condizione, questa, ben rappresentata in «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce» (1967) e approfondita nei numerosi lavori successivi dal titolo «W la libertà», in cui gli elementi naturali, imprigionati all’interno di rigide forme geometriche, tentano invano di evadere. Come afferma lo scultore: «La gabbia era un senso di oppressione di qualche cosa a cui non riusciamo a sfuggire. Ho anche imprigionato ricordi, memorie, cose che si erano perdute. La natura fioriva all’esterno di questa gabbia».
Di grande rilievo tra le opere scelte per l’antologica milanese sono sculture monumentali come lo spettacolare «Albero per Adriana» (1970) e «Mezzo albero» (1971). A chiudere il percorso sarà, invece, un’installazione degli anni Novanta: «Grande pianta Dafne» (cm 450x410x400). L’opera, riprendendo il mito di Apollo e Dafne narrato nelle «Metamorfosi» di Ovidio, ritrae la figura femminile avvolta da un intrico di rami e allude al legame simbiotico tra l’uomo e il mondo naturale.
L’esposizione nella Sala delle Cariatidi rivelerà così che l’artista ha anticipato di decenni problematiche e sensibilità che oggi sentiamo come nevralgiche, come il tema della natura, nei suoi aspetti di rigoglio e sofferenza, espansione e costrizione. Commenta a tale proposito Elena Pontiggia: «Nessun artista, nella scultura del Novecento, ha scolpito il mondo della vegetazione e, per essere più precisi, l’universo verde delle foglie, dei frutti, dei cespugli, degli arbusti, degli alberi, come Alik Cavaliere».
Quello in mostra è un lavoro in cui le tante fonti di ispirazione artistica - da De Chirico a Magritte, da Giacometti a Duchamp, dall’informale alla Pop Art all’arte concettuale, senza escludere qualche reminiscenza Liberty, pur reinterpretata con accenti insieme più ironici e più allarmati - si caricano di tante suggestioni poetiche e filosofiche con riferimenti a Lucrezio, Campanella, Petrarca, Leopardi, Giordano Bruno, Spinoza, Shakespeare, Rousseau, Ariosto, dando vita a opere ricche di significato, ma mai letterarie o meramente contenutistiche. Nell’ arte di Alik Cavaliere le domande esistenziali si mescolano al gioco dada, la precisione della forma di ascendenza surrealista si alterna alla libertà della materia di derivazione informale, il senso artigianale della scultura convive con l’operazione concettuale, generando opere tra le più singolari e le meno inquadrabili del nostro panorama espressivo.
Accanto al nucleo centrale di Palazzo Reale, la mostra propone focus specifici in altre cinque sedi.
Il Museo del Novecento ospiterà il ciclo «Le avventure di Gustavo B.», a partire da «Il Signor G.B. si innamora», opera acquisita dalle civiche raccolte nel 1984, in occasione dell’apertura del Cimac. In mostra saranno presentate al pubblico altre quattro sculture e un dipinto della medesima serie ideate dall’artista tra il 1960 e il 1963, dedicate alle vicende surreali dell’immaginario signor Gustavo B., in qualche modo alter ego dell’artista.
Palazzo Litta accoglierà l’opera «E sarà sempre di tutti quelli che credono con la loro arte di defraudare la natura» (1967) nel giardino interno al Cortile d’onore, mentre alle Gallerie d’Italia sarà ospitata la scultura «W la libertà» (1976-77), che riprende il tema delle piante rinchiuse nelle gabbie. L’Università Bocconi porrà, invece, l’accento sulle incisioni originali «Attraversare il tempo», realizzate a quattro mani con Vincenzo Ferrari; e, infine, il Centro artistico Alik Cavaliere offre un’ampia raccolta di lavori di piccole e grandi dimensioni, esposti sia all’interno, sia nel giardino.
La mostra, a ingresso gratuito, si inserisce nel percorso con il quale Palazzo Reale, per il terzo anno consecutivo, esplora nella programmazione estiva l’arte contemporanea, rafforzando quest’anno la proposta con la collaborazione del Museo del Novecento e presentando così alla città quattro artisti per raccontare la creatività dei nostri tempi: Agostino Bonalumi, Alik Cavaliere e Pino Pinelli a Palazzo Reale, Agostino Ferrari al Museo del Novecento.

Informazioni utili
Alik Cavaliere. L’universo verde. Le sedi: Palazzo Reale - Sala delle Cariatidi e Giardinetto, Piazza Duomo 12 – Milano. Ingresso libero. Orari: lunedì, ore 14:30 - 19:30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9:30 - 19:30; giovedì e sabato, ore 9:30 - 22:30; Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Internet: www.palazzorealemilano.it. | Museo del Novecento, piazza Duomo, 8 - Milano. Ingresso incluso nel biglietto del museo. Prima domenica del mese gratuito. Orari: lunedì, ore 14:30 - 19:30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9:30 - 19:30; giovedì e sabato, ore 9:30 - 22:30. Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Internet: www.museodelnovecento.org | Palazzo Litta, Corso Magenta, 24 - Milano. Ingresso libero. Orari: da lunedì a venerdì, ore 9.30 - 18.30. Internet: www.palazzolittacultura.org | Gallerie d’Italia, piazza della Scala, 6 - Milano.  Ingresso gratuito fino al 19 agosto 2018. Dal 21 agosto 2018: tariffe consultabili sul sito. Orari: da martedì a domenica, ore 9.30 - 19.30 (ultimo ingresso ore 18.30); giovedì, ore 9.30 - 22.30 (ultimo ingresso ore 21.30); lunedì chiuso. Internet: www.gallerieditalia.com | Università Bocconi, via Sarfatti, 25 - Milano. Ingresso libero. Orari: da lunedì a venerdì, ore 9.00 - 14.00; chiuso dal 4 al 19 agosto. Dal 27 giugno al 9 settembre 2018. 

giovedì 21 giugno 2018

Ad Arezzo i cavalli di Gustavo Aceves

È una mostra itinerante quella che Gustavo Aceves (Città del Messico, 1957), artista messicano che oggi vive e lavora a Pietrasanta, propone ad Arezzo.
Oltre duecento opere distribuite in cinque sedi espositive compongono il percorso della mostra «Lapidarium: dalla parte dei vinti», una delle tappe fondamentali del suggestivo progetto a cui l’artista sta lavorando dal 2014. San Francesco, la sala Sant’Ignazio, il sagrato del Duomo, piazza Vasari e la fortezza Medicea sono le sedi scelte per questa riflessione sui concetti di viaggio e di migrazione. Con le sculture esposte realizzate con materiali tra i più vari come pietra, bronzo, resina e legno, solo per fare qualche esempio, Aceves intende ricreare idealmente le peregrinazioni della «Quadriga di San Marco», opera che l’artista messicano, appena ventenne ebbe modo di ammirare nella sua Città del Messico, restandone folgorato. Erano gli anni ’70 e prima di essere musealizzati, quegli antichissimi cavalli bronzei provenienti da Costantinopoli, percorrevano un ultimo giro attorno al mondo, che avrebbe messo fine alla serie di migrazioni delle quali, sin dal XIII secolo, erano stati protagonisti.
Da lì è nata l’idea di dare vita a un’opera che potesse ripercorrere lo stesso itinerario fatto dalla «Quadriga di San Marco»: il Lapidarium di Aceves propone così statue dedicate al cavallo, simbolo che evoca il movimento, lo spostamento.

Come nei classici lapidari museali, dove sono conservati frammenti di opere antiche con cui ricostruire la storia, anche l’opera dell’artista messicano è caratterizzata dal «frammento», elemento attraverso il quale ciascuno può recuperare le radici della propria storia.
Il viaggio dei cavalli di Aceves è il viaggio dei popoli migranti, una tema di grande attualità, ma che in assoluto caratterizza ciclicamente l’intera storia dell’umanità. I suoi cavalli itineranti sono mutilati, scheletrici, sopravvissuti: una sorta di monumento equestre inverso, dedicato non ai vincitori ma ai vinti, agli antieroi di ieri, di oggi, di sempre.
Non mancano, poi, i motivi per i quali la mostra «Lapidarium: dalla parte dei vinti» trova una sede privilegiata nella città di Arezzo, il cui simbolo araldico è un cavallo e che ai cavalli affida la celebrazione della sua festa più importante: la Giostra del Saracino. Inoltre alla «Quadriga di San Marco» si legano due episodi importanti: nel 1364, fu l’aretino Francesco Petrarca, ospite d’onore ai festeggiamenti per la sottomissione di Candia alla Repubblica di Venezia, a dare annuncio dell’avvenuto trasferimento del gruppo equestre alla corte dei dogi veneziani. Infine la quadriga ha un rimando immediato a Costantino, figura importante per il percorso umano e intellettuale dello scultore messicano, la cui storia trova nella città toscana la propria consacrazione nel racconto affrescato da Piero della Francesca.
Arezzo offre, dunque, un motivo in più in questi giorni per perdersi tra le sue strade del centro storico: andare alla ricerca dei cavalli mutilati di Aceves, artista che ha già portato il suo progetto in città come Berlino, Roma, Istanbul, Parigi e Venezia con l’intento di evocare, con i suoi scheletri di galeoni spagnoli, il viaggio dei barconi naufragati nelle acque del Mar Mediterraneo, raccontando così gli antieroi di ieri, di oggi, di sempre.

Informazioni utili 
«Lapidarium: dalla parte dei vinti» ad Arezzo. Sedi espositive: San Francesco | Sala Sant’Ignazio | Sagrato del Duomo | Piazza Vasari | Fortezza Medicea . Orari: dalle ore 10.00 alle ore 19.00; giorno di chiusura: lunedì. Ingresso: € 3,00; accesso gratuito per i minori di 12 anni; i biglietti sono acquistabili presso le sedi espositive di Sant’Ignazio e Fortezza Medicea oppure presso l’Info Point di Piazza della Libertà, 1. Informazioni: tel. 0575.356203. Sito internet: www.arezzoaceves.wordpress.com. Dal 16 giugno al 14 ottobre 2018.

martedì 19 giugno 2018

Caserta, Marco Lodola e Giovanna Fra dialogano con la Reggia e la sua storia

Passato e presente si incontrano nelle sale della Reggia di Caserta grazie al progetto espositivo «Marco Lodola – Giovanna Fra. Tempus – Time», che vede la curatela di Luca Beatrice e l’organizzazione di Mary Farina e Augusto Ozzella, con la collaborazione della galleria Deodato Arte.
«La mostra -sottolinea Mauro Felicori, direttore dell’istituzione napoletana- si inserisce nell’importante storia del rapporto che il museo ha avuto con l’arte contemporanea e con la variegata polifonia dei suoi linguaggi, un dialogo lungo e intenso che si è rinnovato costantemente nel corso degli anni nel confronto continuo e forte, sentito tra epoche e stili, che rende sempre attiva e feconda la vita di uno spazio museale così significativo».
Il titolo della mostra, allestita fino al prossimo 15 settembre, è un voluto riferimento al trait d’union che Marco Lodola e Giovanna Fra, grazie alle loro opere, creano fra il Tempus, la dimensione temporale legata all’antichità, al classico, alla storica sede espositiva, e il Time, sintesi del mondo contemporaneo.
Il percorso espositivo -del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Skira editore, con testi, tra gli altri, di Renzo Arbore, Jovannotti e Piero Chiambretti, ma anche di critici quali Achille Bonito Oliva, Philippe Daverio, Gillo Dorfles, Martina Corgnati e Vittorio Sgarbi- si compone di una selezione di opere dei due artisti, che dall’ingresso si snoda negli spazi interni, nel parco reale, fino ad arrivare agli appartamenti del piano nobile.
L’immenso parco della sontuosa villa, nel raggio di un chilometro, è punteggiato da oltre venti monumentali sculture luminose di Marco Lodola, che rappresentano alcuni dei suoi soggetti tipici, uomini e donne, ballerini, danzatrici, animali, figure reali e immaginarie, che metaforicamente partecipano a una festa di corte.
Questi lavori, oltre al forte impatto creato grazie alla loro imponenza e alla vivacità dei colori, si caratterizzano per la loro peculiarità: l’emanare luce, che genera dinamismo, potenza, vitalità; qualità che non riguardano solamente le opere in sé, ma che vengono trasmesse anche all’ambiente circostante.
Le installazioni di Lodola appaiono in grande sintonia con le tele di Giovanna Fra che accolgono il visitatore negli appartamenti reali e, con il loro forte cromatismo, incarnano perfettamente quell’arte contemporanea in cui la contaminazione di tecniche e la sperimentazione sono elementi imprescindibili. L’artista si misura con lo spazio interno e l’architettura vanvitelliana, reinterpretando nelle sue opere i motivi decorativi settecenteschi, arazzi, carte da parati, arredi barocchi e neoclassici, attraverso il linguaggio segnico, costituito da tracce di colore dalle forme imprevedibili e uniche, da textures astratte che si intrecciano con le trame del supporto digitale.
I suoi lavori di matrice informale abbandonano, infatti, i mezzi tradizionali e, partendo da frame fotografici stampati su tela, Giovanna Fra arriva al risultato finale, percorrendo un cammino a ritroso, che la conduce a terminare l’opera con delle pennellate tradizionali, un’ulteriore dimostrazione del legame fra tempus e time e nel caso specifico del «passaggio da time a tempus».
Seppure provenienti da formazioni diverse i lavori di Marco Lodola e Giovanna Fra creano un profondo dialogo e si completano vicendevolmente, ma soprattutto instaurano un forte legame con il luogo che li ospita, come afferma Luca Beatrice nel testo dedicato alla mostra: «Dialogare con stucchi, decorazioni, pitture di genere e, soprattutto, con un’architettura di inestimabile pregio può costituire infatti una sfida ardua eppure affascinante per gli artisti contemporanei, a partire dall’utilizzo di materiali anomali che solo da poco sono entrati nel novero appunto dell’artisticità. Senza contare volumi, cubature e l’immensità di un parco che farebbe spaventare chiunque. […] Realizzare un cortocircuito visivo tra il tempus e il time, ovvero il passato e il presente, è rischio che l’arte di oggi sente di correre con sempre maggior frequenza. Ora, in particolare, tra pittura, elaborazione digitale, plastica e luce».

Informazioni utili 
Marco Lodola – Giovanna Fra. Tempus – Time. Reggia di Caserta, via Douhet, 2/A – Caserta. Orari: Appartamenti storici - tutti i giorni dalle  ore 8.30 alle ore 19.30 (ultimo ingresso ore 19 - uscita dal museo 19.25) | Parco, dalle 8.30 alle 19 (ultimo ingresso ore 18) | Giardino Inglese - dalle 8.30 alle 18 (ultimo ingresso ore 17); martedì chiusura settimanale; aperture serali straordinarie dalle 19.30 alle 22.30 nelle giornate dal 23, 30 giugno; 4, 7, 14, 21 luglio; 10 agosto; 9, 15 settembre con biglietto di ingresso a € 3,00. Ingresso: mostra compreso nel biglietto della Reggia | Appartamenti storici, Parco e Giardino Inglese € 12,00 intero, € 6,00 ridotto | Solo Appartamenti Storici (acquistabile quando il parco è chiuso) € 9,00 intero, € 4,50 ridotto; la prima domenica di ogni mese: Appartamenti storici gratuito - Parco della Reggia € 5,00 intero, € 2,50 ridotto, gratis fino a 18 anni. Informazioni al pubblico: www.tempustime.com - info@tempustime.com. Fino al 15 settembre 2018. 

domenica 17 giugno 2018

«Resistere»: con il crowdfunding un viaggio fotografico nel cuore terremotato del Centro Italia

Si intitola «Resistere. Nel cuore terremotato del Centro Italia» ed è un libro fotografico alla cui realizzazione potranno contribuire tutti. Il volume, realizzato da Alessio Pagani e Francesco Fiorello per le edizioni Seipersei di Stefano Vigni, è, infatti, da poco sbarcato su Ulule, la principale piattaforma di reward-based crowdfunding d’Europa.
Chiunque potrà sostenere il progetto e ricevere a casa il volume che, attraverso decine di fotografie in bianco e nero riunite sotto il nome Genziana Project, racconta i venti mesi successivi al sisma che, il 24 agosto 2016, ha cambiato il Centro Italia.
Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Visso, Ussita, Castelsantangelo sul Nera, Pescara del Tronto, Camerino, Norcia, Castelluccio sono alcuni dei paesi al centro del racconto, che permette di conoscere più da vicino la quotidianità delle zone terremotate sin dai primissimi momenti, la sua evoluzione e le situazioni di difficoltà in cui le persone sono costrette a vivere tutt'oggi.
Si tratta di un progetto importante che ha un solo obiettivo: portare in tutta Italia le immagini e le storie di chi, nonostante tutto, ha scelto di resistere e restare in piedi.
Lo raccontano bene le parole dei due fotoreporter autori delle immagini raccolte nel volume: «Ho un’immagine impressa del 24 agosto 2016 -spiega Alessio Pagani-. A Pescara del Tronto c’è distruzione totale, ma una porta è lì ferma che rimane in piedi. In quel momento ho pensato che non tutto fosse perduto, né per le persone né per noi fotografi: potevamo raccontare non soltanto il dramma, ma anche la grande voglia di riscatto».
«Il cuore del libro fotografico ‘Resistere’ -aggiunge Francesco Fiorello- è la gente dell’Appennino ferito: per questo con il nostro lavoro abbiamo cercato di essere più obiettivi possibile senza però dimenticare mai di stare dalla parte delle popolazioni e della loro resistenza».
«Nelle nostre foto -spiegano entrambi- ci sono le macerie ancora per le strade, la non ricostruzione, le difficoltà. Ma ci sono anche la forza di volontà delle persone che abbiamo conosciuto e fotografato, la loro voglia di restare o ritornare appena possibile, i loro sforzi per andare avanti nonostante tutto, le loro proteste, manifestazioni e marce sempre troppo poco prese sul serio».
Dall’attesa per le soluzioni abitative d’emergenza alla riapertura di una strada, passando per le piccole meraviglie quotidiane come la semina a Castelluccio e ogni tentativo di rinascita che, nonostante tutto, si prova a mettere in campo nei luoghi del terremoto: «Resistere» è la realtà del Centro Italia, «è la fotografia di un popolo indomito che nonostante tutto continua a camminare a testa alta. Chinandosi – chiosano i due autori- solo «per cogliere la genziana», come ci hanno insegnato gli abitanti di quelle terre».
Il lavoro di Alessio Pagani e Francesco Fiorello ha i ritmi lenti di chi ha continuato a scattare anche quando è terminata l’emergenza della quotidianità che si fa cronaca. La loro è una narrazione che non si è mai sottomessa alla pressione di qualche testata dai modi troppo frettolosi per far le cose come si deve, «per seguire – scrive Davide Burchiellaro, vice direttore di «Marie Claire»- l’avventura di una lenticchia che deve germogliare lì, proprio lì, nella Piana di Castelluccio a dispetto delle strade dissestate». Perché la vita vince sempre.

Informazioni utili 
https://it.ulule.com/resistere/

venerdì 15 giugno 2018

Francesco Tricarico in mostra a Bologna: quando le note diventano arte

L’arte sposa le sette note al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna. Fino al 24 giugno le sale del cinquecentesco Palazzo Sanguinetti, che si affaccia su Strada Maggiore, aprono le porte a Francesco Tricarico, cantautore italiano, immaginifico e naif, che ha debuttato nel mondo del pop, all’inizio del millennio, con il singolo «Io sono Francesco» e che, da allora, ha regalato agli amanti della musica leggera italiana album dal sapore poetico, capaci di metterci davanti a tutta la felicità e la malinconia del mondo facendoti stare bene, come «Drago», «La pesca» e «Frescobaldo nel recinto».
Dal 2015 Francesco Tricarico si dedica anche alle arti visite e da questa sua nuova passione prende spunto il progetto espositivo «Quando la musica si mostra. Una nota al museo», curato da Olivia Spatola e organizzato con la galleria Fabbrica Eos di Milano.
L’esposizione, che si avvale anche della collaborazione di Musiche Metropolitane e Vittorio Corbisiero Management, ben si sposa con la storia di Palazzo Sanguinetti, al cui interno sono conservate le prestigiose collezioni di beni musicali della città di Bologna, in un percorso di visita che si snoda attraverso nove sale a ripercorrere sei secoli di storia della musica europea, con oltre un centinaio di dipinti, più di ottanta strumenti musicali antichi ed un'ampia selezione di documenti storici di grande pregio.
L’intento della mostra di Francesco Tricarico è quello di far dialogare l’arte con la musica all’interno di uno stesso spazio che è al contempo sia fisico che metaforico: il concetto della musica in quanto segno espresso - scritto, di contenitore di significanti e di significati che suonano anche quando gli strumenti non sono sfiorati dalle dita del musicista.
In questo spazio che potremmo definire del «silenzio cageano», in cui lo spettatore ha la sensazione di ascoltare qualcosa anche se tutto tace, le opere di Francesco Tricarico svelano in quale modo è possibile controllare e organizzare le nostre percezioni.
I lavori selezionati sono sette come il numero delle note musicali e le sale del museo in cui il percorso artistico si dispiega. Ed è così che le stanze abbandonano temporaneamente la loro consueta numerazione per diventare contrassegnate -attraverso i dipinti dell’artista- dai nomi delle note musicali: la «Stanza del Do», la «Stanza del Re», la «Stanza del Mi», la «Stanza del Fa», la «Stanza del Sol», la «Stanza del La» e la «Stanza del Si». Ma non solo.

In questo caso, il segno - ovvero la relazione tra significante e significato - rappresentato dalla denominazione delle stanze, diventa anche simbolo: vale a dire una realtà altra, che va oltre e da ricomporre; l’espressione dell’inconscio collettivo da cui emergono processi di trasformazione tra ciò che è noto e ciò che non lo è, coinvolgendo lo spettatore.
La «Stanza del Do», dunque, -in questo gioco fra segno e simbolo- non è soltanto la sala in cui Tricarico omaggia la prima nota musicale, ma anche del Do-minus; la «Stanza del Re» del Re-gnare; la «Stanza del Mi» del Mi-stero; la «Stanza del Fa» del Fa-re; la «Stanza del Sol» del Sol-o; la «Stanza del La» del La-voro e la «Stanza del Si» del Si-lenzio, che chiude concretamente e allegoricamente la mostra.
Cos'è l’arte per Francesco Tricarico? È un modo di tornare alla vita, un riscatto, una rivincita, una grande occasione di scoperta e di de-costruzione di tutti i sistemi dell’essere umano. La passione per la pittura nasce fra i banchi di scuola e precisamente durante le lezioni di educazione tecnico-artistiche alle scuole medie: «Ho un grande ricordo di quel periodo -racconta l’artista-. Mentre disegnavo linee diagonali e curve per poi riempirle di colore, mi trovavo a partorire pensieri enormi che forse avrei dovuto affrontare un po’ più avanti. Ma siccome già li affrontavo, la ritualità di quei disegni mi dava la giustificazione di assentarmi e allontanarmi momentaneamente da tutti i miei amici perché mi sentivo in difetto: avevo argomenti che non potevo condividere con loro, c’era la morte, la morte di mio padre, pensieri troppo difficili da gestire. Riempire gli spazi di colore era un modo per riflettere sulla mia solitudine. Per cui -l’arte come la musica- giustificava me stesso e la mia esigenza di prendermi del tempo. Quel mondo dava una sensazione di protezione che poi con il tempo ho rielaborato».
I suoi quadri sono frutto di una ricerca interiore unita alla necessità di produrre contenuti dal valore universale, che lo uniscano agli altri nel concetto di bellezza condivisa. Per Tricarico dipingere non è un tentativo di fuga dalla realtà ma un modo di esserci: «è un modo di essere nella realtà interpretandola. Osservandola in altri modi, osservandola su una tela, innesca un un modo diverso di pensare e l’atto creativo rappresenta un momento che altrimenti non si fermerebbe ed invece si ferma. Tutto ciò mi suscita stupore».
L’arte di Tricarico è un grande caos ordinato, come afferma l’artista stesso. I soggetti delle sue opere cambiano, non sono mai gli stessi. La sua è una ricerca continua, legata a tutti i sensi, alla vista e soprattutto a ciò che non si vede: Tricarico è affascinato dalle cose che non sono visibili ma che allo stesso tempo possiamo intuire, percepire.
I suoi quadri sono delle chiavi d’accesso, piccole magie che aprono altre porte: «la tela mi svela qualcosa che prima non c’era, aiuta a farmi capire cose che probabilmente ancora non so».

Informazioni utili
Mostra personale di Francesco Tricarico. Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna Orari di apertura: da martedì a domenica (festivi compresi), ore 10.00 – 18.30; lunedì chiuso. Ingresso (comprende l'accesso al museo): intero € 5,00, ridotto € 3,00, gratuito per possessori Card Musei Metropolitani Bologna e ogni prima domenica del mese. Informazioni: Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna, tel. +39 051 2757711 o museomusica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/musica. Fino al 24 giugno 2018. 

mercoledì 13 giugno 2018

Venezia, in mostra a Palazzo Fortuny la «stanza di Zoran»

Nel 1950 Zoran Music (Bocavizza, 1909 - Venezia, 2005) ricevette, da parte delle sorelle Charlotte e Nelly Dornacher, l’incarico di decorare il seminterrato della loro villa a Zollikon, nei pressi di Zurigo.
L’insieme doveva costituire un esempio di opera d’arte totale: oltre alle pitture su intonaco, tela di lino e juta, l’artista disegnò i motivi decorativi ricamati sulle tende e sulla tovaglia che ornavano la sala. Alcuni mobili, seppure non progettati da lui, furono scelti con il suo accordo a completamento dello spazio destinato a riunioni conviviali.
La maggior parte dei dipinti furono eseguiti direttamente sull’intonaco murario, cinque composizioni erano su tela di lino tesa su supporti fissati al muro, mentre per la decorazione della porta d’entrata fu utilizzata la tela di iuta: lo stesso tessuto delle tende e di una tovaglia ricamata su disegno dell’artista, che ne scelse i colori e i differenti punti di ricamo.
Dopo anni di incuria e abbandono la stanza è stata recuperata grazie all’intervento di Paolo Cadorin, cognato di Music, direttore del dipartimento di restauro del Kunstmuseum di Basilea, che ha supervisionato lo stacco degli intonaci, il loro trasferimento su pannelli alveolari in alluminio e il recupero delle tele e degli arredi.
Un complesso lavoro portato a termine dai suoi allievi, restituisce finalmente al pubblico la «stanza di Zoran», ricomposta ora a Palazzo Fortuny come elemento centrale di una mostra omaggio al suo autore, curata da Daniela Ferretti e promossa dalla Fondazione Musei civici di Venezia con il sostegno di Charlotte und Nelly Dornacher Stiftung.
L'esposizione presenta, inoltre, un’ampia e accurata selezione di opere realizzate tra il 1947 e il 1953, provenienti da collezioni private e dall’archivio dell’artista.
Sono gli anni del ritorno alla vita dopo le sofferenze dell’esilio e del campo di concentramento; gli anni dell’approdo, tanto agognato, nella solare Venezia. Ed è allora che accetterà di dipingere per le amiche di Paolo Cadorin -come aveva fatto nel suo studio, a quel tempo all’ultimo piano di Palazzo Pisani- le pareti e il soffitto di una cantina, come si usava nel dopoguerra nelle caves di Parigi, per rifugiarsi a ballare o a scaldarsi.
Ne farà un inno alla vita, ricoprendo la cantina di pitture a fresco con quella stessa tecnica usata prima della guerra per decorare le chiese distrutte del Friuli. Un inno in cui egli inserisce tutto il suo universo.
I motivi profusi da Music in questa sala -di una ricchezza quasi vertiginosa– costituiscono, infatti, nel loro complesso, una sorta di summa iconografica della produzione artistica di quegli anni: dai motivi dalmati di donne a cavallo, col parasole, agli asinelli e cavallini nel paesaggio roccioso o danzanti nel vuoto; dai traghetti affollati di cavalli o bovini alle fasce decorative a losanghe, righe, tondi o scandole; dai volti incorniciati e ieratici che ricordano Campigli a un ritratto iconico di Ida allo specchio e al proprio autoritratto.
E poi le vedute di Venezia: le cupole e la facciata della Basilica, Palazzo Ducale, balaustre, archi, i portici della piazza, il Bacino di San Marco, San Giorgio, la Dogana, i bragozzi.
Soni gli stessi temi che ricorrono nelle altre opere in mostra: acquerelli, tempere su carta, oli su tela, pastelli in una pittura dominata da colori minerali e polverosi, che richiama Bisanzio e il mondo ingenuo dell’infanzia; ma anche incisioni e opere realizzate a puntasecca.
Di grande interesse, provenienti dall’Archivio Cadorin Barbarigo Music, sono anche gli studi preliminari per un arazzo intitolato «Storia di Marco Polo», di dimensioni notevoli (2,5 m di altezza su una base di 8 circa, formato al centro in basso «Music 1951») destinato in origine al soggiorno di prima classe del transatlantico Augustus. È una narrazione, una sorta di fregio, diviso in nove episodi. Disegni ricchi di particolari che in realtà si perderanno nella tessitura in un processo di rarefazione delle forme.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Zoran Mušicˇ, Veduta di San Giorgio Maggiore e bragozzi. Dettaglio del soffitto, Olio su intonaco. Collezione privata; [fig. 2] Zoran Mušicˇ, Veduta di Venezia: Bacino di San Marco con l’Isola di San Giorgio Maggiore. Dettaglio di parete. Olio su tela di lino. Collezione privata; [fig. 3] Zoran Mušicˇ,Motivo dalmata, 1947 Tempera su cartone Collezione privata Foto Claudio Franzini,  Venezia, Archivio Cadorin Barbarigo Mušic

Informazioni utili 
Primavera a Palazzo Fortuny. Museo di Palazzo Fortuny, San Marco - San Beneto - 30124 Venezia. Orari: 10.00-18.00; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8.00. Informazioni: www.fortuny.visitmuve.it | info@fmcvenezia.it | 848082000 (dall’Italia) | +3904142730892 (dall’estero). Fino al 23 luglio 2018. 

lunedì 11 giugno 2018

Arezzo, sessant'anni di moda italiana alla Basilica di San Francesco

Dalle linee sinuose degli abiti della Belle Époque a quelle scivolate e audaci dell'epoca Decò, dalla moda austera del periodo bellico alla rivoluzionaria minigonna degli anni Sessanta: racconta l’evoluzione dello stile italiano, nei primi decenni del Novecento, la mostra «Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960», ospitata fino al 4 novembre ad Arezzo, negli spazi della Basilica di San Francesco. L’esposizione, per la curatela di Mariastella Margozzi e Laura Mancioli, allinea una ricca selezione di abiti d’epoca, accessori di moda, oggetti, dipinti, disegni, acquerelli e fotografie, che raccontano non solo la moda indossata in quegli anni, ma anche quella che si ammirava sulle riviste o che veniva rappresentata da artisti reporter come Ottorino Mancioli o da pittori come Fazi, Sobrero, Avenali, ritrattisti della «vita quotidiana».
A raccontare lo stile italiano nella rassegna sono anche oggetti che hanno segnato il Novecento come il grammofono, la radio, il telefono e la televisione.
Il ventesimo secolo ha visto cambiamenti incredibili in ogni campo e ha significato per tutte le classi sociali, ma soprattutto per quelle medio basse, una integrazione continua all'ambiente della vita, ai cambiamenti epocali delle modalità del lavoro, a quelli che inevitabilmente si registrano nei costumi, nelle abitudini, nelle mode e nei modi di rappresentarsi da parte della società a tutti i suoi livelli.
Le città si caratterizzano sempre più come luoghi della modernità, delle fabbriche che impiegano operai, degli alloggi collettivi nei palazzoni, delle ferrovie e della viabilità automobilistica. La vita è frenetica, i tempi dell’esistenza sono ritmati dagli orari di lavoro ancora troppo lunghi, la vita familiare risente moltissimo di questo cambiamento, soprattutto quando le donne lavorano e c'è ancora pochissimo a disposizione per organizzare la giornata dei bambini.
La moda, quella comune e di tutti i giorni, cambia per esigenze di praticità e molto del lavoro femminile ha come prodotto gli indumenti perché con la diffusione dei grandi magazzini destinati agli acquisti delle classi medie, nascono numerosi laboratori sartoriali, nei quali vengono confezionati a cottimo con taglie prestabilite i vari capi.
Non è una moda nel senso del lusso e dell'esclusività quella che si vuole raccontare ad Arezzo attraverso abiti, accessori, dipinti e fotografie; è il gusto condiviso dalla maggioranza delle persone, che non disdegnano di vestire e comportarsi come gli altri, anzi cercano di appartenere a un gruppo, a una categoria, omologandosi nella scelta dei capi d'abbigliamento, nell’arredo della casa, nei comportamenti sociali, nei modi di essere. È la moda della musica ascoltata al grammofono e dei balli sfrenati come il charleston, delle comunicazioni attraverso il telefono, delle trasmissioni della radio e poi della televisione.
Tutti gli oggetti che vengono presentati hanno accompagnato nei sei decenni in esame soprattutto la vita delle donne e hanno fatto parte del loro mondo: borsette e cappelli, abiti per ogni ora importante della giornata, accessori frivoli, ma anche oggetti essenziali per il loro tempo libero: ricami, letture, giochi. E ci sono anche quelli legati ai loro affetti: ai bambini e al loro piccolo universo di abiti e giochi; agli uomini, che pure si rappresentano con i loro cappelli e smoking, con i loro sport, descritti negli anni '30 da Ottorino Mancioli, artista attento a rappresentare la società a lui contemporanea anche nei divertimenti come il ballo o le chiacchiere in spiaggia, mentre Emilio Sobrero restituisce l’intimismo del ritratto degli anni ’30. Nei più problematici e difficili anni '40 la moda e i modi di differenti femminilità sono raccontate da Rolando Monti e da Marcello Avenali, capaci di leggere il profondo legame con il mondo che li circonda attraverso l'immagine di una casalinga o di una donna alla moda.
Le fotografie dell’album di famiglia dai ritratti in posa dei primi decenni del secolo, singoli o di gruppo, teatrini dell'apparire, sorta di biglietto da visita da lasciare come testimonianza di avvenimenti particolari e per essere ricordati, si arricchiscono negli anni ’50 e ’60 di immagini estemporanee, di pose spontanee, di espressioni non convenzionali. Sempre di memoria tuttavia si tratta, di quel senso del tempo, del qui e ora, che solo la fotografia può restituire, con quel suo essere immagine apparentemente immota, eppure generatrice della riappropriazione di un attimo, del recupero di un ricordo. E proprio perché i ricordi siano più reali, negli anni ’60 essi si affidano anche alla cinepresa, oggetto divenuto in quegli anni un must, come il suo uso è divenuto uno degli hobby più praticati dagli uomini.
La «vita come racconto» attraverso i ricordi è l’idea che percorre questa mostra; ogni oggetto evoca non solo momenti che un tempo sono stati personali, ne sottolinea oggi il comune sentire delle epoche, l’appartenenza di mode e modi a intere generazioni che in essi si sono identificate.
La rassegna è arricchita da una sezione speciale con tre abiti riproducono le vesti della Vergine nell’Annunciazione, della Regina di Saba nell’episodio dell’incontro con Re Salomone e di un’ancella nella scena dell’Adorazione del Sacro Legno, raffigurati negli affreschi di Piero della Francesca. Le opere, realizzate dagli studenti della sezione di Design della moda e del costume teatrale del Liceo artistico, coreutico e scientifico Internazionale «Piero della Francesca», annesso al Convitto nazionale «Vittorio Emanuele II» di Arezzo, consentono un suggestivo confronto tra le rappresentazioni pittoriche rinascimentali e le ricostruzioni, realizzate quasi 600 anni dopo, di quegli stessi abiti, tessuti, decorazioni e ornamenti.

Informazioni utili
«Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960».Basilica di San Francesco / Affreschi di Piero della Francesca, piazza S. Francesco – Arezzo. Orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9:00 alle ore 19:00, sabato dalle ore 9:00 alle ore 18:00 e la domenica dalle ore 13:00 alle ore 18:00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00, scuole gratuito. Informazioni: tel. 0575 352727. Sito internet: www.pierodellafrancesca-ticketoffice.it; www.munus.com. Fino al 4 novembre 2018.

sabato 9 giugno 2018

La collezione Magnani-Rocca tra le pagine di un libro

È un punto fermo nel panorama dell'arte internazionale e una meta imprescindibile per chi non può fare a meno della bellezza. Stiamo parlando della Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo, in provincia di Parma, al cui interno sono ospitati capolavori di celeberrimi maestri antichi e contemporanei, testimoni della grande storia d’Europa.
Ora quella raffinata collezione ideata da Luigi Magnani come un Pantheon dell'arte prima per il godimento della propria anima poi per tutti, per sempre, rivive nelle pagine di un libro appena pubblicato per i tipi di Silvana editoriale.
Un dipinto da solo varrebbe il viaggio verso questa magica villa, immersa nel verde: è il grande quadro «La famiglia dell'infante don Luis» (1783-1784) di Francisco Goya, uno dei ritratti di corte più affascinanti di tutta la storia della pittura. Eccezionali sono anche le tre Madonne col Bambino di Filippo Lippi, Albrecht Dürer e Domenico Beccafumi, dipinte a cinquant’anni l’una dall’altra. La collezione ospita, poi, altre opere imperdibili del Carpaccio, del Ghirlandaio, di Rubens, dei Van Dyck, dei Tiepolo e di Füssli. Ma unici sono lavori come «Stimmate di San Francesco» di Gentile da Fabriano, opera rarissima, e l’indimenticabile «Sacra conversazione» di Tiziano (1513), col predominio della costruzione cromatica, tipicamente veneta, rispetto ai valori disegnativi. L’eccellenza dei capolavori pittorici si traduce in scultura con «Tersicore» di Antonio Canova, due figure femminili di Lorenzo Bartolini e i più recenti Leoncillo e Manzù.
Il nucleo contemporaneo è dominato dalle cinquanta opere di Giorgio Morandi, riunite durante la vita del pittore all’interno di un rapporto di stima e di amicizia con Magnani, che illustrano, al massimo livello qualitativo, tutta l’attività del grande artista bolognese. Altro pittore emiliano presente nella collezione è Filippo de Pisis, con un gruppo di dipinti della maturità, intensi e drammatici. Tra le altre opere di artisti italiani una «Danseuse» futurista di Gino Severini, una piazza metafisica di Giorgio de Chirico e alcuni lavori di Renato Guttuso. Importantissimo è anche il «Sacco» di Alberto Burri del 1954, che Magnani considerava il proprio baluardo avanguardistico. Fra i non italiani, Cézanne è rappresentato da un olio con «Bagnanti» e da cinque acquarelli contraddistinti da un'incredibile trasparenza dei colori; splendide poi sono le opere di Renoir, Matisse, de Staël, Fautrier, Hartung, oltre a un incantevole Monet raffigurante un paesaggio marino della Normandia, emblematico della sperimentazione degli impressionisti sulle infinite variazioni dei colori sottoposti ai mutamenti della luce.
Si tratta di capolavori che continuano a suscitare emozioni profonde, altissima espressione dell’intimo e commosso stupore dell’uomo di fronte al segreto della bellezza.
Della capacità dell’arte di conchiudere significati assoluti Magnani era convinto, come pure del suo afflato metafisico; per questo, dopo un lungo soggiorno romano dedicato all’insegnamento, si era ritirato nella sua Villa di Mamiano di Traversetolo, in quiete operosissima, fra non molti amici e le amate opere d’arte, tutte scelte con lenta e infallibile cura. Resta fra esse, come fu per Magnani e come ora per noi tutti, la gioia silenziosa del vedere e del capire, del posare lo sguardo, così spesso affaticato da inezie quotidiane, su questi sublimi frammenti della vicenda umana, raccolti fino alla morte, avvenuta nel 1984, a settantotto anni.
Il percorso della fondazione, ora presieduta da Giancarlo Forestieri, era stato avviato con l’istituzione da parte di Magnani nel 1977, nell’esplicito disegno di destinare i suoi tesori d’arte al godimento di tutti, nel ricordo dei propri genitori. Proseguì nel 1978 con il riconoscimento da parte dello Stato italiano e con l’apertura al pubblico della Villa divenuta sede museale nell’aprile 1990; venivano così definitivamente svelate le opere di una raccolta quasi leggendaria appartenuta a una delle più eclettiche personalità culturali del XX secolo: Magnani fu, infatti, scrittore, saggista, storico dell’arte, compositore, critico musicale e, con le sue ricerche e i suoi scritti su Beethoven, Proust, Stendhal e Morandi, seppe, come pochi, ricongiungere le ragioni del sentimento e quelle dell’intelletto.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nella trasformazione museale, quella che fu la Corte di Mamiano, conserva ancora il ricordo del raffinato studioso e collezionista che «amava spostare le opere per creare dialoghi inediti tra artisti e forme, luce e materia, spazio e idee».
A quarant’anni dall’istituzione e dal riconoscimento della fondazione viene pubblicato il volume «Fondazione Magnani-Rocca. La Villa dei Capolavori» (Silvana Editoriale), a cura di Stefano Roffi, direttore scientifico della fondazione stessa. Molte delle schede delle opere sono quelle elaborate dal giovanissimo Vittorio Sgarbi per Magnani nel 1984, altre derivano dall’edizione del catalogo generale del 2001.

Nel nuovo volume numerosi sono gli aggiornamenti per novità di studi, in particolare per il grande dipinto di Goya, e le aggiunte di schede di nuove opere, dallo stesso Goya a Matisse fino a Manzù. Finalmente la collezione di Luigi Magnani viene così presentata nella sua interezza. A dipinti, sculture e lavori grafici si uniscono arredi e oggetti, prevalentemente di gusto Impero, che Magnani volle come contesto ideale della propria raccolta. I testi introduttivi di storici dell’arte – quali Lucia Fornari Schianchi, Andrea Emiliani e lo stesso Vittorio Sgarbi - che hanno conosciuto e frequentato Magnani, possono evocarne la figura non solo attraverso le opere che ha raccolto ma anche attraverso ricordi di brani di vita; a questi contributi si affianca quello di Stefano Roffi, che ragiona sulla ricerca e sul lascito del fondatore. Insieme agli interventi di Carlo Mambriani sulla storia della dimora e del giardino, e di Mauro Carrera sulla preziosa biblioteca di Magnani, al racconto biografico, frutto di accurati studi d’archivio, e a un ricco apparato iconografico, si viene così a realizzare un vero e proprio libro della Fondazione Magnani-Rocca, che intende principalmente e doverosamente rendere onore alla grande impresa culturale e filantropica di Luigi Magnani.

Informazioni utili
www.magnanirocca.it