ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
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venerdì 5 aprile 2024

Giacomo Puccini, si arricchisce l’archivio del museo di Torre del Lago

«Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, turris eburnea, vas spirituale, reggia… abitanti 120, 12 case. Paese tranquillo con macchie splendide fino al mare, popolate di daini, cignali, lepri, conigli […]. Tramonti lussuriosi e straordinari»: con queste parole, nel 1900, Giacomo Puccini (1858-1929) celebrava la quiete e la bellezza di Torre del Lago. In questo ridente borgo toscano, dove il maestro compose e sue opere maggiori, tra cui la «Tosca» (1900), «Madama Butterfly» (1904), «La Fanciulla del West» (1910) e «La Rondine» (1917), oggi ha sede la Villa Museo Giacomo Puccini, che custodisce al proprio interno oltre 28.500 pezzi tra missive, fotografie, documenti amministrativi, musica manoscritta e a stampa, carteggi familiari e professionali.
Questo patrimonio consistente, dichiarato fondo di interesse storico dal ministero della Cultura, viene costantemente integrato grazie al lavoro della Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini, che, anno dopo anno, ha portato tra le sale del museo un insieme di documenti unici e inediti, preziosi per lo studio del grande compositore e della sua immensa produzione artistica. In queste settimane, ovvero quelle che conducono al centenario della morte del compositore (che si commemorerà il prossimo 29 novembre), l’archivio si è arricchito di nuovo materiale: manoscritti musicali autografi, lettere, appunti scritti di proprio pugno da Giacomo Puccini e libretti originali delle sue opere liriche, ma non solo.
 
Tra le più recenti acquisizioni, c’è un libretto che la Fondazione ha comprato all’incanto, contenente alcuni scritti del maestro indirizzati alla famiglia della madre, Albina Magi, a partire dal 1898. A tal proposito va ricordato che Giacomo Puccini, sesto di nove figli, orfano del padre in giovanissima età, fu molto legato ai fratelli e ai parenti materni, tant’è che tra i suoi primi insegnanti di musica ci fu proprio lo zio Fortunato Magi, poi divenuto direttore del Conservatorio di Venezia. Mentre da una nota casa d’aste proviene un lotto di manoscritti musicali per pianoforte e organo, che costituiscono le parti mancanti di composizioni già custodite presso l’archivio e perciò elementi indispensabili per la completezza della raccolta.

L’importante operazione di ricostruzione dell’archivio è resa possibile anche grazie alla generosa iniziativa dei privati. Una minuta autografa e alcuni libretti d’opera dell’epoca sono stati, infatti, donati da Luciano Birghillotti, preside in pensione di una scuola fiorentina, appassionato di musica e in particolare di quella pucciniana, che nel 1991 aveva conosciuto la nipote di Puccini, Simonetta, durante la cerimonia di intitolazione di una scuola elementare al maestro. Birghillotti ha devoluto alla Fondazione anche un ritaglio del quotidiano «La Nazione» del novembre 1924, giorno successivo alla scomparsa dell’operista, e un telegramma autografo ricevuto in eredità dal nonno – capostazione a Capalbio nei primi decenni del Novecento, presso il quale il compositore si recava ogni settimana per inviare le sue comunicazioni – che Giacomo Puccini spedì dal paese toscano al drammaturgo e librettista Giovacchino Forzano per avvertirlo che avrebbe assistito alla prova di un’opera al Teatro Regio di Torino. Sandra Nicolini, invece, ha donato una rivista storica, il numero unico pubblicato con la «Gazzetta Mondana» in occasione della scomparsa del compositore, avvenuta nel 1924.
Ma oltre al Puccini autore, conosciuto e acclamato in tutto il mondo, dalle nuove acquisizioni emerge anche una dimensione più intima, quella delle sue relazioni sentimentali, come documentano i sette ritagli di quotidiani sui quali l’operista scrisse degli appunti relativi alla triste vicenda di Doria Manfredi, la giovane cameriera suicidatasi perché accusata dalla moglie di Puccini, Elvira, di avere una relazione con il maestro. Questi frammenti, rinvenuti tra le carte dell’ammiraglio Luigi Romani, che li ha donati con piacere alla Fondazione, possono contribuire a gettare un po’ di nuova luce sul Puccini uomo, marito e amante. A darci la possibilità di indagare, parallelamente alla produzione artistica, anche la sfera privata del musicista, c’è, poi, un fondo composto da una ventina di lettere e memorie, anche queste contenenti commenti autografi relativi alla storia della Manfredi, che la Fondazione ha invece acquistato presso il mercato antiquario.

Infine, ad integrare un fondo già presente in archivio, acquistato da Simonetta Puccini, sono appena giunte al museo di Torre del Lago due lettere che Giacomo Puccini scrisse all’amico e pittore Ferruccio Pagni, donate da Mauro Masini. Quella tra l’operista e l’artista livornese, che frequentò l'Accademia delle belle arti di Firenze sotto la guida di Giovanni Fattori, fu un’amicizia profonda e di lungo corso, iniziata nel 1891 proprio sulle rive del lago di Massaciuccoli, dove Puccini abitava e dove Pagni amava dipingere le sue tele.

Le nuove acquisizioni sono, dunque, documenti di valore eccezionale, che arricchiscono e completano il patrimonio storico-documentario legato alla memoria del grande compositore, aperto agli studiosi di tutto il mondo, e che permettono alla comunità accademica di creare nuove sinergie, dal punto di vista musicale, artistico e documentario.

Informazioni utili 
Fondazione Simonetta Puccini, Viale Giacomo Puccini, 266 - 55049 Torre del Lago, Lucca, tel. +39.0584.341445, e-mail info@fondazionesimonettapuccini.it. Sito web: www.giacomopuccini.it

mercoledì 24 maggio 2023

Dalle polaroid delle Br alla «sconcia stiva» di via Caetani: l’iconografia del «Caso Moro»

«Acciambellato in quella sconcia stiva,/ crivellato da quei colpi, / è lui, il capo di cinque governi, / punto fisso o stratega di almeno dieci altri, / la mente fina, il maestro / sottile / di metodica pazienza, esempio / vero di essa/ anche spiritualmente: lui – / come negarlo? – quell’abbiosciato / sacco di già oscura carne/ fuori da ogni possibile rispondenza / col suo passato / e con i suoi disegni, fuori atrocemente –/ o ben dentro l’occhio/ di una qualche silenziosa lungimiranza – quale? / non lascia tempo di avvistarla / la superinseguita gibigianna». Il poeta , nella raccolta «Per il battesimo dei nostri frammenti», pubblicata nel 1985 da Garzanti Libri, scrive una sorta di didascalia alla fotografia più iconica del «caso Moro», quella con il corpo senza vita dell'onorevole democristiano,  con undici proiettili nel cuore, rannicchiato sotto una coperta, all’interno del bagagliaio di una Renault 4, targata Roma N56786, parcheggiata in via Caetani, a Roma, quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista.

Ritrovamento del corpo dell'onorevole Aldo Moro. 9 maggio 1978. Roma, via Caetani.
Foto: Rolando Fava /Ansa.

È il 9 maggio 1978 e quella concitata scena caravaggesca, con una folla di poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco intorno al veicolo, rappresenta l'ultima di una serie di immagini che scandiscono il tempo dei cinquantacinque giorni che intercorrono tra il sequestro e l’omicidio del leader democristiano; poche per il nostro oggi caratterizzato dall’immediatezza comunicativa di siti internet e social network, molte per gli anni Settanta, con due soli canali televisivi, che da qualche mese avevano conosciuto l’uso del colore.

Ritrovamento del corpo dell'onorevole Aldo Moro. 9 maggio 1978. Roma, via Caetani.
Foto di Gianni Giansanti 

L’«affaire Moro» (per usare un’espressione di Leonardo Sciascia) rappresenta, infatti, una svolta nel modo di fare cronaca e di trattare la politica per la carta stampata e per la televisione: con i cinquantacinque giorni di prigionia dello statista pugliese nel «carcere del popolo» compare per la prima volta l’edizione straordinaria. Il Tg1 la lancia alle ore 9:58 del 16 marzo 1978 e dura 86 minuti e 10 secondi. Bruno Vespa è in studio; ha la faccia sgomenta di chi vede diventare realtà l’inimmaginabile. Paolo Frajese è in via Fani e il suo racconto affannato, ripreso dall’operatore Andrea Ruggeri, rimane nell’immaginario collettivo. Il giornalista si muove tra le macchine tamponate e crivellate di colpi. Ci fa respirare la palpabile costernazione di chi è accorso sul posto. Osserva i particolari della scena: un elicottero in cielo, un tappeto di bossoli sulla strada, una borsa in pelle nera vicino al marciapiede, un cappello da pilota o da metronotte a terra, il caricatore di un mitra, una pistola automatica e un rivolo di sangue. L’inviato del Tg1 porta la nostra attenzione anche sui lenzuoli che coprono i corpi senza vita di quattro dei cinque uomini della scorta del politico democristiano (Francesco Zizzi è l’unico a non morire all’istante, arriva ferito all’ospedale e spira in tarda mattinata). Tre agenti - Oreste Leonardi, Domenico Ricci e Giulio Rivera – sono ancora sulle vetture; uno, il poliziotto Raffaele Iozzino, che aveva cercato di rispondere al «fuoco nemico», è a terra, dietro all’Alfetta bianca che seguiva la Fiat 130 berlina blu su cui viaggiava lo statista pugliese. Sembra un Cristo di Diego Velázquez, crocifisso sull’asfalto.


Quelle trasmesse dalla Rai e, nelle ore successive, pubblicate dai giornali (su Formiche.it si trova la galleria realizzata da Umberto Pizzi, uno dei primi fotografi ad arrivare in via Fani, quando i corpi delle vittime non sono ancora stati coperti dai teli) «sono «immagini in absentia», scrive Ilaria Maria Priscilla Barzaghi nel saggio «Un lungo viaggio fino alla sconcia stiva: iconografia di Aldo Moro tra comunicazione politica e pietas», pubblicato nel 2014 all’interno del volume «Una vita, un Paese» di Rubbettino editore.

L'agguato di via Fani: il cadavere dell'agente Raffaele Iozzino, l'unico che riuscì a rispondere al fuoco delle Brigate Rosse.
Roma, 16 marzo 1978. Foto: AP Photo. Immagine di dominio pubblico

Quelli del 16 marzo 1978 sono, dunque, scatti intrisi della «presenza non visibile» del politico democristiano, presidente della Repubblica in pectore. Sono fotografie che parlano di uomo fatto prigioniero e che fanno riflettere sul suo destino ancora ignoto alla famiglia, ai politici della Dc e degli altri partiti, alle forze dell’ordine, alla stampa, a chi è seduto davanti al piccolo schermo, ai lavoratori che abbandonano le fabbriche e scendono in piazza, ai negozianti che chiudono le attività, alle mamme che, in tutta Italia, vanno a prendere i bambini a scuola prima del suono dell’ultima campanella.

L'agguato di via Fani: il cadavere dell'agente Raffaele Iozzino, l'unico che riuscì a rispondere al fuoco delle Brigate Rosse.
Roma, 16 marzo 1978. Foto: AP Photo. Immagine di dominio pubblico

Il Tg 1 è il primo a entrare nelle case degli italiani con la crudezza di fotogrammi che diventano Storia sotto gli occhi dello spettatore, ma non è il primo a dare la notizia del rapimento del politico di Maglie. I primi – ricorda Ivo Mej nel libro «Moro rapito! Personaggi, testimonianze, fatti» (Barbera editore, Siena 2008), da poco ristampato in un’edizione arricchita e aggiornata da Historica e Giubilei Regnani con il titolo «Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione» (marzo 2023) – sono i giornalisti del Gr2, allora diretto da Gustavo Selva, alle 9:15 (la notizia viene data loro da un collega del «Gazzettino di Roma», che vive in via Mario Fani). Mentre il primo lancio d’agenzia, un’Agi, è delle 9:28. Segue, alle 10:10, l’Ansa, che decide di interrompere lo sciopero proclamato per ventiquattro ore e di riprendere le trasmissioni con un breve comunicato-annuncio delle Br: «Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato, firmato Brigate Rosse».

Gli uomini della scorta di Aldo Moro, uccisi in via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978.
Immagine di dominio pubblico

Nella stessa giornata escono, in edizione straordinaria, anche alcuni quotidiani nazionali: «La Stampa», «Il messaggero», «La Repubblica» e «L’Unità». Poi, per cinquantacinque giorni (e anche nei mesi e negli anni a venire), vengono versati fiumi di inchiostro tanto da far parlare di un’«infodemia del caso Moro», nella quale si respirava e tuttora si respira – racconta sempre Ivo Mej - «un mix di ansia per il futuro, di angoscia, di pervasività del timore».

Inizia così, proprio il 16 marzo 1978, quella «spettacolarizzazione della notizia», che avrebbe raggiunto il suo apice il 12 giugno 1981 con la sfortunata diretta televisiva da Fiumicino, dove il piccolo Alfredo Rampi era caduto in un pozzo, e che non ci avrebbe mai più abbondonato.

Se le parole del «caso Moro» sono tante (forse troppe), le immagini significative, quelle che meglio simboleggiano una delle pagine più drammatiche della storia della Repubblica italiana, si possono, invece, contare sulle dita di due mani.
 
Aldo Moro, prigioniero della Brigate rosse. Foto diffusa il 19 marzo 1978 

Tra queste ci sono le due polaroid in bianco e nero scattate dalle Br al politico democristiano ed entrate nel circuito informativo internazionale il giorno successivo alla diffusione da parte del gruppo eversivo di sinistra alle redazioni dei giornali: il 19 marzo, tre giorni dopo il sequestro, e il 21 aprile, dopo il falso comunicato n. 7 del 18 aprile, quello che annunciava «l'avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante suicidio», e nel quale si comunicava che il corpo giaceva «nei fondali limacciosi» del lago della Duchessa, vicino a Cartore (in provincia di Rieti), in una zona sul confine tra Abruzzo e Lazio.

Nella prima fotografia il politico democristiano viene ritratto a mezzobusto, davanti a un drappo con la stella cerchiata a cinque punte e la scritta «Brigate rosse». La testa è reclinata. Il colletto della camicia, sgualcita, è sbottonato e lascia intravvedere una maglietta. Il volto appare stanco e rassegnato, ma non angosciato. L’espressione è, in realtà, indecifrabile. Sembra addirittura di poter cogliere una sfumatura di scherno sul viso di Aldo Moro. Non sfugge, infatti, all’occhio attento «il mezzo sorriso che, asimmetrico, pare piegargli gli angoli della bocca - scrive Michele Smargiassi sul blog «Fotocrazia» di Repubblica.it - in un’espressione di dignitosa resistenza umana e perfino di superiore compatimento, quell’espressione così intensa e diversa dal tumefatto terrorizzato stupore dei suoi predecessori iconografici (Sossi, Amerio, il tedesco Schleyer)».

Vignetta di Vincino per «Il Male»

Coglie acutamente il valore della fotografia - scrive Ilaria Maria Priscilla Barzaghi - il disegnatore satirico Vincino, con una sua vignetta per «Il Male», all’epoca recepita più che altro come aspramente irriverente e censurata. È un semplice foto montaggio in cui alla Polaroid viene apposto un fumetto che fa dire a Moro: «Scusate, abitualmente vesto Marzotto». Terribile parodia che afferra pienamente il meccanismo semantico e comunicativo messo in atto dalle Br: la destituzione del politico Aldo Moro».

Aldo Moro, prigioniero della Brigate rosse. Foto diffusa il 21 aprile 1978 

Nella seconda immagine lo statista pugliese è ancora in camicia e ha tra le mani una copia del quotidiano «La Repubblica» del 19 aprile 1978, su cui campeggia la scritta, a caratteri cubitali, «Moro assassinato?». L’espressione è malinconica, stanca, pacatamente dimessa.

Entrambe le fotografie servono ai brigatisti per dimostrare che l’ostaggio è vivo e si ispirano, volutamente, alla fotografia di identificazione giudiziaria, poliziesca: i brigatisti – scrive, a tal proposito, Marco Belpoliti nel libro «Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate rosse» (Guanda, Parma 2018) - «vogliono riprodurre, con un metodo del tutto simile a quello agito su di loro da poliziotti e magistrati, la realtà stessa. Si tratta di una forma di ‘realismo traumatico’, in cui la messa in scena del sequestro, il rito della foto segnaletica, più ancora del comunicato o della propaganda scritta, diventa un elemento iperrealistico».

La fotografia di Aldo Moro scattata dalla Br su un giornale. 
Foto: Cordon Press

Le Br fotografano, dunque, Aldo Moro come «un re deposto», che sta giocando la sua ultima partita per restare vivo, e finiscono così per evidenziarne «l’assoluta umanità, che è poi – scrive ancora Marco Belpoliti – la sua mortalità». Lo statista pugliese appare come «un uomo comune», spogliato della sacralità del potere, di quelle insegne che per i brigatisti lo facevano essere – si legge nel primo comunicato – il «gerarca», il «teorico» e lo «stratega indiscusso» del «regime democristiano». Il politico pugliese mostra il suo essere vulnerabile e appare così molto diverso da come l’opinione pubblica era solita vederlo, fino a pochi giorni prima, sui giornali e nei Tg. «Ancora oggi per ricordare il «senso delle istituzioni» che possedeva Aldo Moro – ricorda, a tal proposito, Andrea Pomella su «DoppioZero» - si è soliti ricorrere all’immagine dell’uomo politico che si faceva fotografare in abito, camicia e cravatta tra i bagnanti in costume». Lo statista pugliese è di fatto «l’ultimo esponente di una classe politica, quella del primo secondo Dopoguerra, «senza corpo» e «senza affetti», che fa del decoro, della sobrietà, della riservatezza sul suo privato una cifra stilistica. Non a caso lo scrittore romano, in libreria con il romanzo «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022), ricorda che «si diceva che i democristiani sembrassero perennemente vedovi e senza prole, tanto relegavano la famiglia nel riserbo».

Muro con manifesto del Partito comunista appeso all'indomani del sequestro Moro. 
Foto di dominio pubblico

Dopo queste due polaroid, che secondo Marco Belpoliti si rifanno al linguaggio della pubblicità e che richiamano alla mente lo stile narrativo di Andy Warhol e delle sue icone pop, c’è poco altro dal punto di vista iconografico. Rimangono nella storia le immagini delle perquisizioni per le strade (solo il 16 marzo 1978 furono allestiti 72.460 posti di blocco, di cui 6.296 nella cinta urbana di Roma) e quelle delle aste dei sommozzatori che scandagliano il fondo del lago della Duchessa per cercare il corpo dello statista.

È una scena, questa, che ha dell’incredibile: i sommozzatori vengono spediti a esaminare uno specchio d’acqua montano, a 1800 metri d’altezza, ghiacciato da mesi e raggiungibile unicamente a piedi, dopo tre ore di cammino in mezzo alla neve alta. Il tutto è reso possibile dall’imperizia degli esperti scelti dal Viminale, guidato da Francesco Cossiga, che considerano autentico e attendibile un falso comunicato, fotocopiato e non ciclostilato, pieno di errori d’ortografia di origine romanesca («soppruso», «inpantanato», «trà») e privo dei consueti riferimenti politico -ideologici dei brigatisti, battuto utilizzando una macchina da scrivere diversa da quella dei precedenti testi e con l’intestazione «Brigate rosse» scritta a mano. Si scoprirà più tardi che il falso comunicato n. 7 è stato realizzato da un falsario d’arte specializzato in copie di quadri di Giorgio De Chirico e Gino Severini, ma anche di pale d’altare rinascimentali, con comprovati contatti sia con i Servizi segreti che con la malavita: Antonio Chichiarelli.

I quattro brigatisti che, travestiti da avieri, spararono sulla scorta di Aldo Moro.
Foto di pubblico dominio

Mentre i telegiornali fanno entrare nelle case degli italiani «le immagini di alcuni sommozzatori scafandrati, costretti a infilarsi in un buco da loro stessi provocato facendo saltare una mina, tanto era spessa la lastra di ghiaccio che ricopriva il lago» - scrive il 27 aprile 2018, su «Il fatto quotidiano», lo storico Miguel Gotor, autore di due testi fondamentali nella bibliografia del «caso Moro» come l’edizione critica delle «Lettere dalla prigionia» (Torino, Einaudi 2008) e «Il Memoriale della Repubblica» (Einaudi, Torino 2011) - viene scoperto, in modo rocambolesco (grazie a una perdita d’acqua, probabilmente indotta), il covo romano di via Gradoli n. 96, quello dove vivevano Mario Moretti e Barbara Balzerani. È il secondo fallimento dello Stato nel giro di poche ore e i due eventi accadono in un giorno evocativo per la storia della Dc, il 18 aprile 1978, trentennale della vittoria alle elezioni politiche del 1948 contro il Pci.

Covo di via Gradoli a Roma. Foto di dominio pubblico

La parola «Gradoli» aveva, infatti, già fatto la sua comparsa nelle stanze del potere, tra le pareti della sede della Dc e quelle del Viminale. Era stata pronunciata da Umberto Cavina, addetto stampa del segretario della Dc Benigno Zaccagnini, al quale un giovane Romano Prodi, professore di Economia politica e industriale all’Università di Bologna, destinato a diventare sette mesi dopo ministro dell’Industria, aveva parlato di una seduta spiritica, tenutasi il 2 aprile 1978 in un casolare di Zappolino, una frazione di Valsamoggia a trenta chilometri dal capoluogo emiliano. Stando al racconto - che ha dell’improbabile e del romanzesco, ma che viene preso per vero nel clima di disperazione che sta vivendo il Paese – in una tranquilla domenica uggiosa, un gruppo di amici (tutti professori universitari, economisti dal riconosciuto credito nazionale, come Alberto Clò, Fabio Gobbo e Mario Baldassarri, destinati a ricoprire in futuro importanti incarichi pubblici) decide, per ingannare il tempo e contro ogni precetto cattolico, di evocare gli spiriti di due padri della Democrazia cristiana, Giorgio La Pira e don Luigi Sturzo, con «il gioco del piattino». Dall’Aldilà – secondo quanto sostiene Romano Prodi – rispondono «G-r-a-d-o-l-i-»; muovendosi, il posacenere fornisce anche i nomi delle località geografiche di Bolsena e Viterbo, come riporta una dichiarazione collettiva, datata «Bologna, 3 febbraio 1981» e rilasciata alla Commissione Moro 1 dai dodici partecipanti alla seduta spiritica. La polizia viene informata della pista medianica (definita dal ministro degli Interni Francesco Cossiga «un’ingenua baggianata») e, senza batter ciglio e aprire lo stradario di Roma, parte alla volta di Gradoli, un pacifico paesino del Viterbese, nell’Alto Lazio, abitato da poco più di mille persone. È il 6 aprile 1978; secondo la narrazione dominante - per altro riportata anche nel film «Il caso Moro» di Antonio Ferrara, uscito nelle sale nel 1986 - le forze dell’ordine mettono «a ferro e fuoco» la cittadina con una vera e propria «irruzione militare». In realtà le immagini di uomini in tuta mimetica che entrano con il mitra spianato nelle case coloniche, rievocate in qualche Commissione parlamentare d’inchiesta, sono una finzione cinematografica e i testimoni oculari non ricordano questo blitz, tutto al più due volanti nel centro storico e un elicottero in cielo. Dodici giorni dopo, il 18 aprile 1978, viene scoperto il covo di via Gradoli, al civico 69, dove le forze dell’ordine erano già state un mese prima, il 18 marzo, in seguito alla segnalazione di rumori sospetti in diverse ore del giorno e della notte. La polizia aveva bussato alla porta e, non ricevendo risposta, se ne era andata senza ulteriori approfondimenti. All’interno dell’appartamento si trovano, in bella mostra, divise dell’Alitalia e della polizia di Stato (le stesse usate il 16 marzo 1978), quindici pistole, un mitra, un fucile, munizioni, esplosivi, catene, opuscoli e volantini: un vero arsenale militare. 

Falso comunicato n. 7 

Aldo Moro viene informato di quanto sta avvenendo all’esterno, delle ricerche al lago della Duchessa e della scoperta della base brigatista, ma non della seduta spiritica che diventa di dominio pubblico solo grazie a un articolo de «Il Corriere della Sera», datato 17 ottobre 1978. Con toni sarcastici, in una pagina del suo Memoriale, il politico democristiano definisce questi accadimenti «la macabra grande edizione della mia esecuzione [che] può rientrare in una logica, della quale non è necessario dare ulteriori indicazioni».

Ricerche del corpo di Aldo Moro nel lago della Duchessa. Foto di domino pubblico

Due settimane dopo, il 9 maggio 1978, Aldo Moro viene assassinato; a nulla servono i tentativi di Amnesty International, della Caritas e di papa Paolo VI per salvare un «uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico» di fronte alla prova di forza delle Brigate rosse e all’irremovibilità del cosiddetto «partito della fermezza» e della non trattativa, trasversale nel Parlamento italiano (fatta eccezione per il Psi di Bettino Craxi e qualche voce isolata).

Cover del quotidiano La Repubblica del 20 aprile 1978

L’orologio segna le 12:13 quando Valerio Morucci telefona a casa del professor Franco Tritto, giovane avvocato e assistente alla Sapienza di Roma, per annunciargli la morte del suo maestro: «Brigate Rosse. Ha capito? Non posso stare molto al telefono. Adempiamo alle ultime volontà del presidente, comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro. Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene? Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N5».

Intorno alle 13:30, in una via Caetani irrealmente silenziosa e colma di forze dell’ordine e politici, viene aperto il bagagliaio della Renault 4 e viene ritrovato il corpo senza vita dello statista pugliese, l’uomo che, nel 1975, Pier Paolo Pasolini aveva definito, su «Il Corriere della Sera», il «meno implicato di tutti nelle cose orribili», che, da piazza Fontana a piazza della Loggia, hanno segnato i primi anni Settanta, il «più responsabile di tutti» perché ha conservato il potere.

La conferma della notizia è di un’ora dopo; alle 14:13 l’Ansa, la più grande agenzia di stampa italiana, trasmette: «è confermato che Aldo Moro è stato trovato morto in una Renault rossa in via Caetani».

Ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma. Foto:Mario Giansanti

Rolando Fava, uno dei fotografi storici dell’Ansa, e il giovane fotoreporter Mario Giansanti sono in via Caetani. Si nascondono all’interno di un palazzo, in un appartamento del primo piano con due grandi finestre che si affacciano proprio sulla Renault rossa, e documentano quello che accade sotto i loro occhi. Quegli scatti – in bianco e nero per Rolando Fava, a colori per Mario Giansanti – raccontano così al mondo intero il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro. Il politico democristiano è avvolto in una coperta color cammello, con il bordo di raso; indossa lo stesso abito blu che aveva il giorno del sequestro, con la camicia bianca a righe e la cravatta ben annodata. La barba è incolta e disordinata, il volto reclinato appare abbandonato sulla spalla sinistra. L’incarnato è terreo, la mano destra sembra di cera.

Francesca Garolla, nel suo recente spettacolo teatrale «Se ci fosse luce» (Bologna, dal 28 marzo al 2 aprile 2023; Lugano, 22 e 23 aprile 2023), una riflessione su quanto le ferite del passato lascino traccia nel nostro presente, ha paragonato questo scatto con «La crocifissione di San Pietro» di Michelangelo (Città del Vaticano),  una scena affollata, ma silenziosa, di grande impatto emotivo, nella quale il primo papa della storia, capovolto sulla croce, come egli stesso chiese di essere messo per sottolineare la sua inferiorità nei confronti di Cristo, solleva la testa per testimoniare fino alla fine la sua fede in Dio e offrirsi consapevolmente al martirio.  

Questa sorta di «deposizione laica», «che dovrebbe essere un’immagine privata per eccellenza», una visione accessibile solo ai familiari, «ha una diffusione amplissima, diventa pubblica al massimo grado e assume su di sé la funzione di unire nella pietà», sottolinea con precisione Ilaria Maria Priscilla Barzaghi.

Funerali privati di Aldo Moro. Foto: Umberto Pizzi

Da qui in poi, la famiglia Moro si riappropria del proprio congiunto, che, dal sequestro di via Fani all’epilogo di via Caetani, era diventato – scrive Marco Baliani - un «corpo di Stato». La moglie Eleonora Chiavarelli rifiuta i funerali pubblici e i discorsi di saluto. In uno stringato comunicato, rilasciato alle 17:30 del 9 maggio 1978, scrive: «La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia».

Con i suoi quattro figli, la donna porta il corpo del marito a Torrita Tiberina, un borgo alle porte di Roma, dove viene celebrata nella chiesa di San Tommaso, in gran segreto, una funzione privata, con la bara portata a spalla al cimitero dai familiari sotto la pioggia battente.



I funerali di Stato ci saranno ugualmente, senza le spoglie del politico democristiano e senza la sua famiglia. Verranno celebrati il 13 maggio 1978 in San Giovanni in Laterano dal cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, alla presenza di papa Paolo VI, dei principali rappresentanti della classe politica e delle massime cariche dello Stato. Aldo Moro non avrebbe voluto quella pomposa commemorazione funebre; «per una evidente incompatibilità, - aveva, infatti, scritto in una lettera del 24 aprile 1978 indirizzata al segretario della Dc Benigno Zaccagnini - chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore».

In molti hanno visto in quella commemorazione paludata – scrive Miguel Gotor sulla Treccani -, con i politici «come tanti manichini insaccati nei loro vestiti neri», in piedi dietro ai banchi della chiesa, la celebrazione del funerale della prima Repubblica. Quegli uomini si erano trovati davanti al sofocleo «dilemma di Antigone»: polis o pietas? E avevano deciso di difendere a ogni costo le ragioni dello Stato (e della diplomazia) al posto di salvare la vita di un uomo. Un uomo che non li riteneva nemmeno degni di stare intorno al suo feretro.

Funerali pubblici d Aldo Moro. Archivio Ansa. Foto di dominio pubblico

Guardando le immagini di quella funzione scattate da Rodrigo Pais, il cui archivio è oggi conservato dalla Biblioteca universitaria di Bologna, sembra di trovarsi davanti a una pièce teatrale, con i politici che si inchinano davanti al vuoto e che celebrano la fine di un’epoca. La fine di un modo di intendere la «Cosa pubblica».

Non a caso il critico Cesare Garboli, sul quotidiano «l’Unità» del 7 giugno 1980, parlò di «uno spettacolo che aveva qualcosa di medievale, come se si potesse assistere in Tv allo schiaffo di Anagni o alle umiliazioni di Clemente VII», con «un papa vinto, un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse battute della propria sconfitta».

Ma il sipario sul «caso Moro» non si chiude con il funerale di Stato. Quarantacinque anni dopo la morte dello statista pugliese, sulla narrazione dei fatti intercorsi nei cinquantacinque tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 rimangono ancora alcuni interrogativi senza risposta, anche se la verità è ormai relativamente disegnata e i coni d’ombra lasciati dai tanti processi e dalle molte commissioni parlamentari d’inchiesta, in difficoltà nel dipanare una matassa resa ingarbugliata da deposizioni contraddittorie e da testimoni reticenti, sono destinati, con ogni probabilità, a non essere mai illuminati. La vicenda di Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse è, dunque, - parafrasando Fabrizio Gifuni nel libretto «Con il vostro irridente silenzio» - «una storia passata mai completamente passata». Una storia che, al di là di illazioni e di teorie complottistiche tirate per i capelli, continua a interrogare le nostre coscienze: quanto vale una vita umana di fronte alla ragione di Stato?


Vedi anche
-Il caso Moro e la letteratura

Bibliografia e sitografia essenziale
Corrado Guerzoni, «Aldo Moro», Sellerio, Palermo 2008
Miguel Gotor, «Lettere dalla prigionia», Einaudi, Torino 2008 
Miguel Gotor, «Memoriale della Repubblica», Einaudi, Torino 2011 
Marco Belpoliti, «Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate rosse, Guanda, Parma 2012 
Marco Belpoliti, «La foto di Moro», Nottetempo, Roma 2008 
Sergio Bianchi e Raffaella Perna (a cura di), «Le polaroid di Moro», Derive/approdi, Roma 2012
Ivo Mej, «Moro rapito! Personaggi, testimonianze, fatti», Barbera, Siena 2008 
Ivo Mej, «Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione», Historica Edizioni, Cesena 2023
Ilenia Imperi, «Il caso Moro: cronaca di un evento mediale», Franco Angeli, Milano 2022
Ilaria Maria Priscilla Barzaghi, «Un lungo viaggio fino alla 'sconcia stiva'. Iconografia di Aldo Moro tra comunicazione politica e pietas» in Renato Moro e Daniele Mezzana (a cura di), «Una vita, un Paese», Rubbettino editore, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2014 (anche su https://www.academia.edu/36179431/Un_lungo_viaggio_fino_alla_sconcia_stiva_Iconografia_di_Aldo_Moro_tra_comunicazione_politica_e_pietas)
Michele Smargiassi, La sindone di Moro, simulacro di una sconfitta in Repubblica.it, 3 dicembre 2012, https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2012/12/03/la-sindone-di-moro-simulacro-di-una-sconfitta/
«45 anni dal rapimento di Aldo Moro. Le foto di Pizzi da via Fani», Formiche.it, Roma 16 marzo 2023, https://formiche.net/gallerie/aldo-moro-rapimento-foto-pizzi/
Andrea Pomella, «Aldo Moro e il corpo del reato» in «Doppio Zero», 30 novembre 2022, https://www.doppiozero.com/aldo-moro-il-corpo-del-reato
Francesco Landolfi, «Un oscuro protagonista dell’affaire Moro: Antonio Chichiarelli e il falso comunicato n. 7» in «Diacronie. Studi di storia contemporanea», n. 29, 1/2017, on line il 29 marzo 2017, http://www.studistorici.com/2017/03/29/landolfi_numero_29/  
Nicola Biondo, Massimo Veneziani, «Il falsario di stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo», prefazione di Giancarlo De Cataldo, Cooper, Roma 2008
Miguel Gotor,  «Lago della Duchessa: un falso di Stato per trattare sul serio» in  «Il Fatto quotidiano», 27 aprile 2018, pp. 16-17 (anche su https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/04/27/lago-della-duchessa-un-falso-di-stato-per-trattare-sul-serio/4319361/)
Miguel Gotor, «Il giallo dei due “Gradoli” e la seduta spiritica per salvare la talpa br» in «Il Fatto quotidiano», 6 aprile 2018, pp. 14-15 (anche su https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/04/06/il-giallo-dei-due-gradoli-e-la-seduta-spiritica-per-salvare-la-talpa-br/4274718/)
Miguel Gotor, 9 maggio 1978: lo schiaffo a Paolo VI. Storia e fallimento della mediazione vaticana per la liberazione di Aldo Moro in Treccani.it, 2011, https://www.treccani.it/enciclopedia/9-maggio-1978-lo-schiaffo-a-paolo-vi-storia-e-fallimento-della-mediazione-vaticana-per-la-liberazione-di-aldo-moro_%28Cristiani-d%27Italia%29/
Cesare Garboli, «Un racconto fantastico che incomincia in via Fani» in «L'Unità», 7 agosto 1980, p. 3 (anche su https://archivio.unita.news/assets/main/1980/06/07/page_003.pdf
Leonardo Sciascia, «L’affaire Moro», Sellerio, Palermo 1978
Andrea Pomella, «Il dio disarmato», Einaudi, Torino 2022 
Antonio Iovane, «La seduta spiritica», minimum fax, Roma 2021
Fabrizio Gifuni, «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro», Milano, Feltrinelli, Milano 2022
Marco Baliani, «Corpo di stato. Il delitto Moro», Rizzoli, Milano 2003

[Le presenti fotografie, nel rispetto del diritto d'autore, vengono riprodotte per scopi documentativi e didattici ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941

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mercoledì 17 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo, il «caso Moro» e il cinema

Sono passati quarantacinque anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro (Maglie - Lecce, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), giurista e politico italiano tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, più volte ministro della Repubblica e presidente del Consiglio, passato alla storia quale fautore, nei suoi anni da segretario e presidente della Dc, di una «strategia dell’attenzione» nei confronti del Partito comunista - le cosiddette «convergenze parallele» -, per la quale è stato definito «l’uomo del compromesso storico».

L’«Affaire Moro» in breve

Ricostruzione dell'attentato di via Fani in
un frame del film «Piazza delle Cinque Lune»
di Renzo Martinell
i


È il 16 marzo 1978 - giorno di presentazione di un nuovo Governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti – quando, intorno alle 9 del mattino, all’angolo fra via Stresa e via Fani, nel quartiere romano della Camilluccia, un commando delle Brigate rosse intercetta le due automobili, una Fiat 130 berlina blu e un’Alfetta bianca, che stanno portando Aldo Moro e i cinque uomini della sua scorta alla Camera dei deputati per il voto di fiducia al nuovo esecutivo.

Una 128 bianca, con targa diplomatica, frena davanti all'auto del presidente democristiano; un’altra blocca il veicolo della scorta. Aldo Moro e le sue guardie del corpo sono in trappola quando, da dietro le siepi, sbucano quattro uomini vestiti con uniformi dell'Alitalia. Il commando brigatista, composto da un numero ancora oggi imprecisato di persone, spara più di novanta colpi in poco meno di tre minuti. Quattro uomini della scorta - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino – muoiono all’istante; il quinto, Francesco Zizzi, arriverà ferito all’ospedale e spirerà in tarda mattinata.
 
Un frame del film «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, 
con Gian Maria Volonté. Scena sul sequestro di via Fani 



Il presidente della Dc viene prelevato e sistemato su una Fiat 132 blu; la vettura parte verso via Trionfale, preceduta e seguita da altre due automobili con uomini del commando brigatista a bordo. Il politico pugliese viene rinchiuso in quella che le Br chiamano la «prigione del popolo» per essere processato.

Nove comunicati delle Br, due fotografie del prigioniero e una serie di lettere indirizzate da Aldo Moro ai familiari e ai colleghi di partito scandiscono i cinquantacinque giorni più bui della storia della Repubblica. Mentre in Parlamento il partito della fermezza e quello della trattativa si interrogano: pietas o polis? Ragione di Stato o salvataggio di un’esistenza umana?

Il 9 maggio 1978 il corpo senza vita del politico democristiano viene fatto trovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in via Caetani, dietro Botteghe Oscure, sede del Partito comunista, e poco distante da piazza del Gesù, dove c'è il «quartier generale» della Democrazia cristiana.

Luigi Lo Cascio è il brigatista Mariano nel film 
«Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio

Dopo decenni di indagini, cinque processi e varie commissioni di inchiesta, quello che Leonardo Sciascia definì l'«affaire Moro» è ancora oggi uno dei casi più controversi della nostra storia recente. «Sulla vicenda – scrive l’attore Fabrizio Gifuni nel libretto «Con il vostro irridente silenzio» (Feltrinelli, Milano 2022) - è stato scritto un numero sterminato di pagine che continuano ad andare in stampa – impossibile per chiunque riassumerle -, cui si sommano infinite proliferazioni documentali: atti di processi, commissioni parlamentari, documenti riservati desecretati, in differenti momenti, nel corso degli ultimi decenni. (…) Un poderoso archivio storico, in continuo aggiornamento, oggi reperibile con maggior facilità rispetto al passato grazie alle nuove tecnologie e soprattutto alla rete».

Consultando l’elenco dei libri e saggi dedicati alla figura del presidente della Dc che lo storico Francesco M. Biscione ha recentemente aggiornato per l’Archivio Flamigni di Oriolo Romano, nel Viterbese, si contano, infatti, oltre duemila volumi sulla vicenda e si nota come siano principalmente due i filoni di trattazione dell’«affaire Moro». Da una parte ci sono i testi che accreditano la versione - mai totalmente accertata - dei brigatisti, usando come fonti informative le circa trecento pagine del corposo Memoriale di Valerio Morucci, consegnato nel marzo 1990 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga da suor Teresilla Barillà, e il libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), pubblicato da Anna Laura Braghetti, con la giornalista Paola Tavella. Dall’altro c’è la cosiddetta «saggistica del complotto», che focalizza la propria attenzione su ciò che ancora oggi, dopo cinque processi e varie Commissioni parlamentari d’inchiesta, non torna nelle ricostruzioni ufficiali, a partire dagli errori nelle indagini durante i cinquantacinque giorni del sequestro Scolpite nella memoria collettiva sono, per esempio, la farsa del Lago della Duchessa e il giallo di «Gradoli», con la misteriosa seduta spiritica di Romano Prodi. Ma molti sono anche i coni d’ombra dell’inchiesta giudiziaria, in gran parte nutriti dai colpevoli silenzi e dalle falsità dei testimoni diretti o indiretti. 

Gian Maria Volontè interprete di Aldo Moro
Un frame del film «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, 
con Gian Maria Volonté

La storia del crudele «attacco al cuore dello Stato» e dei cinquantacinque giorni che ne seguirono, l’atto più violento degli «anni di piombo» (quella stagione tra il 1969 e il 1982 caratterizzata dall’eversione armata e dal terrorismo di matrice sia rossa che nera), ha animato non solo la saggistica e la narrativa, ma anche il grande schermo e le sale teatrali. Il racconto cinematografico del sequestro e dell’uccisione del leader democristiano prende avvio nel 1986 con «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, un film-cronaca ispirato al libro «I giorni dell’ira» di Robert Katz (Adnkronos, Roma 1982), che ripercorre cronologicamente, quasi minuto per minuto, l’intera vicenda del rapimento del politico democristiano. Il registra tratteggia la figura di un uomo solo, quasi un alter ego dello Stato, vittima di due schieramenti accecati dai loro miopi obiettivi: da un lato ci sono la Br con i loro ideali rivoluzionari; dall’altro i vertici Dc con una gestione spregiudicata del potere, che le fa anteporre le ragioni di Stato, o meglio la convenienza politica del momento, al diritto alla vita.

A vestire i panni dello statista democristiano nel film - accolto positivamente dalla critica, ma aspramente attaccato dalla politica – è Gian Maria Volonté, che per questa sua interpretazione, capace di rendere potentemente plastica la sofferenza di Aldo Moro dentro il «carcere del popolo», viene premiato con l’Orso d’argento al Festival di Berlino come migliore attore protagonista maschile.

Locandina del film «Todo Modo» di Elio Petri

L’interprete milanese si era già confrontato con la figura di Aldo Moro nel 1976 con «Todo modo» di Elio Petri, un film dal taglio profetico, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia (1974): una parodia, amara e realistica, della classe politico-dirigenziale che deteneva il potere in Italia dal secondo Dopoguerra, la Democrazia cristiana, colpevole di aver sacrificato l’adesione di facciata ai valori cattolici sull’altare della conquista e conservazione del potere con ogni mezzo necessario. Ne scaturisce il ritratto di un ceto politico immorale che, mentre il paese precipita in una misteriosa epidemia, si rifugia nell’eremo fortilizio di Zafer per un percorso di esercizi spirituali sul modello della pratica religiosa ideata da Sant'Ignazio di Loyola. Le meditazioni si alternano a incontri segreti di partito; tra continui litigi e violente accuse reciproche si sviluppa una catena di misteriosi delitti. Della carneficina è vittima anche il personaggio del presidente, denominato semplicemente M., figura apertamente ispirata al politico pugliese nella mimica facciale e corporale, nell’inflessione della voce, nella vena conciliatrice.

Un frame del film «Todo Modo» di Elio Petri

Il film, che presenta una caricatura eccessiva del politico democristiano, visto come una figura «evanescente» ed elusiva, simbolica maschera dello sfascio politico italiano, viene bandito dalle sale dopo nemmeno un mese dall’uscita e per lungo tempo non è più visibile. Ritorna fruibile dal pubblico nel 2015 in una versione restaurata in Dvd dalla Cineteca di Bologna, edita da Mustang e distribuita da CG Entertainment, grazie alla quale è anche possibile rivedere le splendide scenografie realizzate da Dante Ferretti e riascoltare le inquietanti e psicologiche musiche composte per l’occasione da Ennio Morricone.



Il cinema nel Memoriale di Aldo Moro

Locandina di «Forza Italia» di Roberto Faenza

La stessa sorte tocca a «Forza Italia» di Roberto Faenza, un film documentario sulla politica italiana del secondo Dopoguerra, uscito nelle sale nel gennaio del 1978, che offre un ritratto irriverente e spietato della Democrazia cristiana, dal viaggio di Alcide De Gasperi in America, nel 1947, fino al Congresso di Roma del 1976, chiusosi con la promessa, non mantenuta, di rinnovare il partito. Curiosamente, la pellicola, fatta ritirare dalle sale da Francesco Cossiga e ritornata fruibile nel 2016 grazie a Rizzoli, è citata dal politico pugliese, che ne fu anche involontario attore, nel suo Memoriale: «Kissinger, come dicevo innanzi, - scrive Aldo Moro - lo faceva con estremo semplicismo ed una certa dose di rozzezza. Ma la direttiva è quella, mettere fuori uomini vecchi e inutili, anche se possono avere delle benemerenze, e mandare avanti uomini nuovi. (..) Non è detto che tutti siano migliori: sono però nuovi e diversi e portano più modernità, più spregiudicatezza, più laicismo. Infatti il legame con la Chiesa è afflosciato. E per chi abbia visto «Forza Italia», fa impressione il linguaggio, a dir poco, estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al Congresso tra un applauso e l'altro all'On. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili».

2003: l’«Affaire Moro» diventa una spy story


Nel 2003, nel venticinquennale della morte dello statista pugliese, arrivano nelle sale cinematografiche addirittura due film dedicati al rapimento e alla morte di Aldo Moro. Si inizia con «Piazza delle Cinque Lune» di Renzo Martinelli, un giallo che sposa le teorie complottistiche per affrontare i tanti misteri che ancora circondano la vicenda. Protagonista della pellicola – interpretata da Donald Sutherland, Stefania Rocca e Giancarlo Giannini - è il giudice Rosario Saracini, che, nel suo ultimo giorno di lavoro prima della pensione, riceve un film in super 8 girato, in via Fani, la mattina del rapimento del politico democristiano. Le immagini sono state mandate da un colonnello del Sismi, che faceva parte dell’operazione Gladio, promossa dalla Cia, e che si proclama essere il passeggero della fantomatica Honda vista in via Fani appena prima del rapimento di Aldo Moro. La scoperta di questo dettaglio fa partire un'indagine ad alto rischio che arriva a mettere in luce le mille volte sospettate ingerenze dei servizi segreti e della P2 nella morte dello statista democristiano, pedina sacrificabile sulla scacchiera internazionale, intimorita dalla sua apertura nei confronti del Partito comunista.

Ricostruzione dell'attentato di via Fani in
un frame del film «Piazza delle Cinque Lune»
di Renzo Martinell
i

«La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi»: un famoso aforisma di Solone chiude il film; mentre, sui titoli di coda, Luca Moro, il nipote di Aldo, suona alla chitarra la canzone «Maledetti voi (signori del potere)».

Marco Bellocchio e il «caso Moro»


Nello stesso anno sul grande schermo si proietta «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio, con Luigi Lo Cascio, Maya Sansa, Giulio Bosetti e Roberto Herlitzka (nei panni di Aldo Moro). Il film è presentato in concorso alla 60° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e, successivamente, vince numerosi David di Donatello e Nastri d’argento. La trama è liberamente ispirata al libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), scritto dalla brigatista Anna Laura Braghetti (intestataria dell’appartamento di via Montalcini, dove fu probabilmente detenuto il presidente della Dc), con la giornalista Paola Tavella.

Fabrizio Gifuni è Aldo Moro in «Esterno notte» di Marco Bellocchio

Attraverso un resoconto che mescola i fatti raccontati nel volume con documenti televisivi originali dell'epoca, viene rievocato il dramma umano del politico democristiano, ma viene anche narrato il dubbio di una delle brigatiste sulla rigidità ideologica dei suoi compagni (Germano Maccari, Prospero Gallinari e Mario Moretti, nel film rispettivamente Primo, Ernesto e Mariano). Si tratta di Chiara, una giovane donna chiamata a prendere parte al sequestro dello statista che, nel contempo, cerca di vivere un’esistenza «normale» fatta di lavoro, amici, quotidianità.

Fabrizio Gifuni è Aldo Moro in «Esterno notte» di Marco Bellocchio

Il regista piacentino, che adotta la prospettiva dei brigatisti per raccontare i cinquantacinque giorni del «caso Moro», restituisce le sfumature più emozionali che storiche della vicenda e mette lo spettatore di fronte a una suggestione poetica, un sogno che è una non verità dal punto di vista storico: alle fine della pellicola Aldo Moro appare libero, mentre, alle prime luci di una mattinata piovosa, cammina per le strade di una Roma indifferente. Ma, come sa bene Chiara, «l'immaginazione non ha mai salvato nessuno» e, nella realtà, Aldo Moro è morto. Sulle note dei Pink Floyd, prima dei titoli di coda, partono le immagini di repertorio dei funerali pubblici, quelli senza il feretro dello statista democristiano e con l’intera classe politica italiana che si inginocchia davanti al vuoto.

MArgherita Buj è la moglie di Aldo Moro
in «Esterno notte» 
di Marco Bellocchio

Marco Bellocchio ritorna sul «caso Moro» con il recente «Esterno notte», presentato con successo al festival di Cannes nel 2022 e, recentemente, premiato con quattro David di Donatello per la regia, l’attore protagonista, il montaggio e il trucco. Una croce di rose e uno scudo di spine, moderna rivisitazione del simbolo della Democrazia cristiana, campeggiano sulla locandina di questa mini-serie in sei episodi, che è stato proiettata al cinema nel maggio 2022 e che la Rai ha trasmesso per la prima volta sul piccolo schermo nel novembre dello stesso anno.

Il rapimento e il sequestro di Aldo Moro vengono raccontati da più punti di vista: quello sin troppo consapevole dello statista pugliese (Fabrizio Gifuni), quello pieno di dubbi di papa Paolo VI (Toni Servillo), quello tragicamente lacerato di Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), quello fanatico di due brigatisti (Valerio Morucci e Adriana Faranda, interpretati da Gabriel Montesi e Daniela Marra) e quello riluttante di Eleonora Chiavarelli (Margherita Buy), una donna coraggiosa che, quasi da sola e inascoltata, prova a lottare per riavere il marito.


Il risultato è «un dramma shakespeariano», come ha scritto «Le Monde», che è un atto di accusa nei confronti di un certo tipo di potere, quello ipocrita e opportunista, ma che è anche il racconto di una parabola cristologica. In una delle scene più potenti del film, Aldo Moro è, infatti, visto come un uomo costretto a portare la croce sulle proprie spalle, mentre tutti i notabili della Dc, in preghiera, lo osservano sulle note del «Dies irae» di Giuseppe Verdi.


In un intreccio di verità e finzione, Marco Bellocchio non rinuncia, anche in questo suo progetto, al sogno di un finale diverso per i cinquantacinque giorni che colpirono il cuore dello Stato. L’inizio del film è, infatti, visionario. Aldo Moro è stato liberato dai brigatisti e si trova in un letto d’ospedale: al suo capezzale accorrono Francesco Cossiga, Giulio Andreotti e Benigno Zaccagnini. Una voce fuori campo, quella di Fabrizio Gifuni (che ha interpretato lo statista pugliese anche in «Romanzo di una strage» di Marco Tullio Giordana, sull’attentato di piazza Fontana a Milano), recita un passo delle sue lettere: «Alla luce dei recenti fatti, ogni mia futura carica, ogni mio incarico nel partito non sarà più possibile… Mi dimetto dalla Dc». La realtà, purtroppo, è un’altra: il corpo ritrovato il 9 maggio 1978 dentro il bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a Roma, è senza vita.

Maya Sansa è la brigatista Chiara in «Buongiorno, notte» 
di Marco Bellocchio

Sul piccolo schermo l’Aldo Moro di Michele Placido e Sergio Castellitto

Sul piccolo schermo lo statista democristiano è stato impersonato anche da Michele Placido e Sergio Castellitto. Il primo ha interpretato la fiction «Aldo Moro il presidente» di Salvatore Marcarelli e Francesco Piccolo, per la regia di Gianluca Maria Tavarelli, prodotta da Tao Due Film e andata in onda per la prima volta su Canale 5 nel maggio 2008, in occasione del trentennale della scomparsa del politico democristiano. La narrazione si apre con un excursus sull'escalation del terrorismo negli anni Settanta, partendo dai primi attentati delle Brigate rosse a Genova, Milano e Torino per arrivare al rapimento dell’armatore Pietro Costa, per il quale i brigatisti chiedono ben dieci miliardi di lire, cifra assai considerevole per quegli anni. Quei soldi serviranno per la «grande impresa»: il sequestro di un esponente di spicco della Dc. Quel bersaglio sarà Aldo Moro.

Michele Placido è Aldo Moro in «Aldo Moro, il presidente»

La lotta dello Stato contro il terrorismo e le battaglie sul «compromesso storico» fanno da filo conduttore alle due puntate, che si concludono con il dibattito, ancora aperto, sulla possibilità o meno di salvare il politico democristiano.

Dieci anni dopo, nel 2018, la Rai trasmette la pregevole fiction «Aldo Moro il professore», per la regia di Francesco Miccichè, con Sergio Castellitto nella parte del protagonista. Il docu-film, tratto dall’omonimo libro del giornalista Giorgio Balzoni (che fu allievo del politico pugliese), offre un inedito punto di vista sulla vicenda, quello di quattro studenti di Procedura penale alla facoltà di Scienze politiche dell’Università «La Sapienza» di Roma, tenuto proprio dallo statista democristiano.

Sergio Castellitto è Aldo Moro in«Aldo Moro, il professore»

Grazie a immagini di repertorio e interviste ai protagonisti di quella stagione politica, intrecciate alla voce degli studenti di Aldo Moro (Saverio Fortuna, Valter Mainetti, Fiammetta Rossi e Giuliana Duchini) e alla ricostruzione cinematografica del rapimento e della morte dello statista vista attraverso i loro occhi, si dà forma alla storia di un uomo pacato e di un qualificato interprete del diritto e soprattutto della Costituzione italiana, che egli stesso contribuì a scrivere, capace di instaurare un rapporto intimo e privato, fatto di dialogo e confronto, con i suoi allievi.

Il «caso Moro» ritornerà protagonista sul piccolo schermo, nel 2023, con il film «Tina Anselmi - Una vita per la democrazia», diretto da Luciano Manuzzi e con Sarah Felberbaum nel ruolo della politica di Castelfranco Veneto, partigiana a sedici anni, sindacalista in difesa delle operaie, prima donna ad aver ricoperto la carica di Ministro in Italia nel 1976 e presidente della Commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2. Aldo Moro (interpretato da Gaetano Aronica) è il primo, nella Democrazia cristiana, a credere nel valore della coraggiosa e leale Tina Anselmi. La donna vivrà con angoscia i tragici giorni del rapimento del suo mentore e il suo successivo assassinio per mano delle Brigate rosse.

Il «caso Moro» e le teorie complottistiche al cinema

Un frame di «Se sarà luce, sarà bellissimo» di Aurelio Grimaldi

Porta, invece, la data del 2003, l’anno del venticinquesimo anniversario della morte dello statista pugliese, la lavorazione del film «Se sarà luce, sarà bellissimo» di Aurelio Grimaldi, un corposo progetto, mai totalmente realizzato per problemi produttivi, uscito nel 2008 in Dvd. Il film, che si propone di raccontare «un’altra storia» e che sui titoli di coda vede la presenza di alcuni attivisti di sinistra, è politicamente scorretto, provocatoriamente fuori linea, aspro, disturbante e anti-statalista. «Nel realizzarlo - racconta l’autore - avevo due obiettivi: mostrare come la 'santificazione' di Aldo Moro abbia messo in ombra le responsabilità politiche sue e del suo partito, cosa che ho sempre vissuto come un'ingiustizia storica, e una forma di riverenza che ho sempre avuto verso chi è capace di morire per delle idee, chiarendo che a farlo davvero sono i magistrati, i poliziotti e i giornalisti che combattono contro la mafia, ma non una persona come Moro, che non è un martire perché non voleva morire».


Nel 2012 esce, invece, nelle sale «A risentirci più tardi», un documentario di Alex Infascelli che mette l’una di fronte all’altra le due fazioni che nel 1978 si contesero la vita di Aldo Moro: da un lato, l’ex brigatista Adriana Faranda, che abbandonò la lotta armata dopo l’uccisione del leader Dc, dall’altro, Francesco Cossiga, bersaglio di forti contestazioni negli anni Settanta per le misure particolarmente repressive da lui promosse in qualità di ministro dell’Interno.


Il «caso Moro» compare, inoltre, nel film L’anno del terrore» di John Frankenheimer (1991), storia di un giornalista americano che nella primavera del 1978 è a Roma per scrivere un libro sugli «anni di piombo», e ne «Il divo (La spettacolare vita di Giulio Andreotti)» di Paolo Sorrentino (2008). Il regista trasforma Aldo Moro in uno spettro vendicativo, sciolto pirandellianamente dalla maschera del potere. Il fantasma, interpretato da Paolo Graziosi, tormenta, perseguita e non lascia dormire il compagno di partito, che nella primavera del 1978 era presidente del Consiglio. Le sferzanti lettere uscite dal «carcere del popolo», quelle che gli «amici» democristiani consideravano scritte sotto dettatura, sono un macigno difficile da sopportare. Giulio Andreotti è perseguitato dalle parole a lui rivolte, così riassunte da Paolo Sorrentino: «Che cosa ricordare di lei? Non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera, non è questa una colpa. Che cosa ricordare di lei? Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti. Senza un momento di pietà umana. Che cosa ricordare di lei?».

Un frame del film «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, 
con Gian Maria Volonté. Scena sul sequestro di via Fani

Completa la carrellata dei film dedicati al sequestro e all’uccisione del politico democristiano il docu-film «Non è un caso, Moro» di Tommaso Minniti, uscito on-line nel 2021 e in cartellone per la serata del 23 maggio al teatro Caboto di Milano. Il progetto cinematografico trae ispirazione dai libri inchiesta di Paolo Cucchiarelli e si avvale delle musiche originali di Johannes Bickler. Lo statista pugliese viene visto come «una pietra d’inciampo di un tempo che doveva cambiare passo» (Aldo Moro stava cercando un dialogo con il Partito comunista negli anni della «guerra fredda», il periodo di tensione tra gli Usa e l'Unione sovietica intercorso tra il 1947 e il 1991).

«O tu cessi la tua linea politica oppure pagherai a caro prezzo per questo» è la non molto velata minaccia che Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, avrebbe fatto al politico democristiano, ai tempi ministro degli Esteri, il 25 settembre 1974, durante un viaggio negli Stati Uniti. Da questa informazione – riportata in una testimonianza giurata di Corrado Guerzoni in uno dei processi sul «caso Moro» - parte una ricostruzione inedita di ciò che avvenne in Italia nella primavera del 1978: «in via Fani – racconta Tommaso Minniti - c'era l'intelligence americana, lo Stato italiano seppe fin da subito il luogo della prigione e l'uccisione fu decisa proprio mentre il presidente stava per essere liberato».

Un frame del film «Todo Modo» di Elio Petri

La storia è completamente differente da quella che ci è stata raccontata dai protagonisti della vicenda e da svariati processi a dimostrazione di come il «caso Moro» sia ancora oggi – raccontava Marco Baliani in occasione del suo spettacolo «Corpo di Stato» del 1998 - «una materia pulsante e non dipanata dalla lontananza» temporale. I cinquantacinque giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, con i coni d’ombra delle varie inchieste giudiziarie, hanno, infatti, finito per far romanzare la figura di Aldo Moro, ridotto a «un santino della Repubblica» e quasi privato del suo lascito umano e politico, di quel pensiero - complesso e attuale – che l’Università di Bologna sta cercando di far riscoprire grazie alla digitalizzazione di tutti gli scritti morotei sulla piattaforma https://aldomorodigitale.unibo.it. Un’occasione, questa, per confrontarsi con il Moro dalla fede granitica che riflette sull’impegno dei laici nella Chiesa, il Moro giurista contrario all’ergastolo punitivo, il Moro che, da ministro degli Esteri, anticipò, con la firma degli accordi di Helsinki (1975), la caduta del muro di Berlino, il Moro pacato politico della parola.


I principali interpreti di Aldo Moro al cinema e in televisione: Paolo Graziosi ne «Il divo (La spettacolare vita di Giulio Andreotti)» di Paolo Sorrentino; Fabrizio Gifuni in «Romanzo di una strage» di Marco Tullio Giordana; Gian Maria Volonté in «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara, Roberto Herlitzka in «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio; Sergio Castellitto in «Aldo Moro il professore», con la regia di Francesco Miccichè; Michele Placido in «Aldo Moro il presidente» di Salvatore Marcarelli e Francesco Piccolo, Fabrizio Gifuni in «Esterno notte» di Marco Bellocchio  

Nell'immagine di copertinaDaniela Marra in un frame del film «Esterno notte» di Marco Bellocchio. Foto di Anna Camerlingo

Bibliografia e sitografia essenziale
Corrado Guerzoni, «Aldo Moro», Sellerio, Palermo 2008
Francesco Ventura, «Il cinema e il caso Moro» (prefazione di Maria Fida Moro), Le Mani, Recco (Genova) 2008
Armenia Balducci, Giuseppe Ferrara e Robert Katz, «Il Caso Moro» (intervista con Gian Maria Volonté e note di Eleonora Moro al trattamento cinematografico) Pironti, Napoli 1987
Marco Bellocchio, «Buongiorno, notte», Marsilio, Venezia Mestre 2003
Giancarlo Lombardi, «La passione secondo Marco Bellocchio. Gli ultimi giorni di Aldo Moro» in «Annali d’italianistica», 2007, n. 25, pp. 397-408 (anche su https://www.academia.edu/4843000)
Rosario Giovanni Scalia, «Il caso Moro e il cinema: l’elaborazione collettiva di una tragedia nazionale?» in «Luci e ombre» (rivista trimestrale), 2019, a. VII, n. 2, pp. 44-98 (anche su https://www.academia.edu/41387188)
Maurizio Zinni, «’Cattivo, peggiore, pessimo: democristiano!’. Aldo Moro e la Dc in ‘Todo modo’ di Elio Petri», in «Una vita, un Paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento», a cura di Renato Moro e Daniele Mezzana, Soveria Mannelli, Rubbettino, Catanzaro 2014, pp. 801-827 (anche su https://www.academia.edu/22436984)
Renzo Martinelli, «Piazza delle cinque lune. Il thriller del caso Moro», (sceneggiatura di Renzo Martinelli e Fabio Campus), Gremese, Roma 2003
Fabrizio Cilento, «Il caso Moro nei film di Gian Maria Volonté» in «Il caso Moro: memorie e narrazioni», a cura di Leonardo Casalino, Andrea Cedola, Ugo Perolino, Transeuropa, Massa 2016, pp. 163-180 (anche su https://www.academia.edu/14472028)
Fabrizio Gifuni, «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro», Milano, Feltrinelli, Milano 2022
Marco Baliani, «Corpo di stato. Il delitto Moro», Rizzoli, Milano 2003
Il sito del film «Non è un caso, Moro» (https://www.noneuncasomoro.com)


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