ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 7 maggio 2012

Giuliano Vangi, sculture e disegni sull’uomo e sul vivere quotidiano

Giuliano Vangi (Barberino di Mugello, 1931) è uno degli scultori italiani più conosciuti a livello internazionale. Negli ultimi anni, il suo nome è assurto più volte agli altari delle cronache artistiche per la realizzazione di prestigiose commesse pubbliche: dalla «Lupa» (1996) per il Comune di Siena alla «Donna albero» (1999) per la sede romana della Banca d'Italia, dall’imponente e avveniristico «Crocifisso» per la Cattedrale di Padova (1995) alla scultura «Varcare la soglia della speranza» (1999) per il Vaticano, senza dimenticare i recenti interventi artistici nella Cattedrale di Arezzo (2012).
Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1995, quella curata di Jean Clair, la strada dell'artista toscano è stata costellata anche da importanti affermazioni fuori dai confini nazionali. Si ricordano, a tal proposito, la personale russa, all'Ermitage di San Pietroburgo, del 2001, e l’inaugurazione, l’anno successivo, dell’imponente museo giapponese a lui dedicato dal magnate Kiichiro Okano. L’edificio, costruito dall'architetto Munemoto a Mishima (non lontano da Tokyo e a contatto visivo col monte Fuji), si configura come una modernissima struttura, a picco sul mare, di circa 30.000 metri quadrati (dei quali 2000 coperti e 28.000 in forma di parco), al cui interno sono allocate oltre cento opere della vasta produzione marmorea e non di Vangi, vincitore di svariati premi internazionali, tra i quali il «Premium Imperiale» della Japan Art Association, una sorta di Nobel per pittori e scultori, assegnato in passato anche a Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Christo e Jean Claude.
In occasione dell’inaugurazione del nuovo presbiterio per la Cattedrale di Arezzo (una mensa quadrata in candido marmo bianco di Carrara, sorretta da un angelo in volo fuso in una lega di bronzo e nikel), l’artista di Barberino del Mugello espone, fino a domenica 3 giugno 2012, una selezione di sue opere negli spazi del Mudas Museum.
In cinque sale del primo piano del Palazzo vescovile aretino sono allineate, in un allestimento curato da Daniela Galoppi, con l'interior design Luisa Danesi Gori e l'architetto Gianclaudio Papasogli Tacca, diciassette sculture in marmo, bronzo, avorio e legno e una dozzina di disegni e bozzetti preparatori.
L’insieme delle opere esposte, realizzate tra il 1987 e il 2012, offre una panoramica a tutto tondo sull'arte di Vangi, sulla sua capacità di coniugare il meglio della tradizione figurativa italiana con una ricerca stilistica contemporanea, inserita nel proprio tempo, il cui soggetto ispiratore è l’uomo, con le sue angosce, le sue inquietudini, le sue delusioni, le sue speranze, il suo vivere quotidiano. Emerge, dunque, nei lavori in mostra quella che Franco Russoli ha definito come un'impellente «necessità di dare forma a un'idea della condizione umana moderna, intesa come solitudine, ansia, muta domanda senza risposta».
Le statue del maestro toscano -«solide, compatte e rigorosamente chiuse in se stesse», come ebbe a scrivere Dino Buzzati– diventano biografia della sofferenza e della disperazione leopardiana del nostro tempo, metafore del disorientamento che ci coglie davanti al mistero dell'universo e paradigma del nostro smarrimento di fronte all'imperversare di uno stile di vita sempre più caratterizzato dal motto, di hobbesiana memoria, «Homo homini lupus est». Emblematici, in tal senso, sono la scultura «Stazzema» (2008) e i suoi disegni preparatori, ricordo delle vittime dell’eccidio nazi-fascista del 12 agosto 1944, nel quale è raffigurato un uomo con, in braccio, il suo bambino morto. Guarda, invece, alla storia più recente il disegno «Katrina» (2007), di chiara ispirazione goyesca, piccolo tassello dell’ampio lavoro che l’artista ha dedicato al violento uragano che, nel 2005, devastò New Orleans e la Florida.
Non manca, poi, in mostra un omaggio alla figura femminile, con opere come il marmo policromo «Giulia vestita di verde» (1990) e la scultura in legno «Lucia» (2009), ma centrale è la tematica religiosa con lavori quali «San Giovanni» (1996), «Angelo» (2008) e gli studi preparatori e le due sculture sul tema del «Crocifisso» (1998), senza dimenticare i ritratti a matita e tecnica mista di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Vangi ci parla, dunque, ancora una volta dell'uomo contemporaneo. Crea immagini che ci sorprendono e commuovo, che ci fanno meditare e che, nello stesso, ci trascinano fuori dal mondo. Immagini che, come ebbe a dire Dino Carlesi, rendono «irreale la realtà […] leggero il peso del dolore».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Giuliano Vangi, «Angelo», 2012. Particolare del presbiterio della Cattedrale di Arezzo; [fig. 2] Giuliano Vangi, «Giulia vestita di verde», 1990;[fig. 3] Giuliano Vangi, «Stazzema», 2008 


Informazioni utili
Vangi. Sculture e disegni. Mudas Museum – Museo diocesano d’arte sacra c/o Palazzo vescovile, piazza Duomo, 3 - Arezzo. Orari: lunedì-domenica, 10.00-18.30. Ingresso: intero € 2,00, ridotto € 1,00. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 0575.4027268. Sito web: http://www.diocesiarezzo.it/. Fino a domenica 3 giugno 2012. 

domenica 6 maggio 2012

Carlo Mattioli, nature morte come stati d’animo

Carlo Mattioli (Modena, 1911–Parma, 1994) «taglia, scava, ingozza, incide, pugnala, opera, affonda, offende, strazia, sgualcisce». Giorgio Morandi (Bologna, 1890–1964) «accarezza, modula, sfiora, sfiorisce, sfiata, sfarina, dilava, abbandona, congeda, smaterializza». E’ un approccio diverso alla pittura -lo delineano efficacemente le parole del critico d’arte Marco Vallora- quello dei due artisti emiliani che il Mambo di Bologna mette a confronto, negli spazi del Museo Morandi, a chiusura delle celebrazioni per il primo centenario dalla nascita del maestro modenese, autore noto anche per aver dato vita iconica a opere come «I Ragionamenti» di Pietro Aretino, il «Canzoniere» di Francesco Petrarca, il «Decameron» di Giovanni Boccaccio e la «Divina Commedia» di Dante Alighieri.
Dopo le antologiche di Marsala, negli spazi del Convento del Carmine, e di Roma, nel Braccio di Carlo Magno, tese a focalizzare l’attenzione su tematiche conosciute quali il paesaggio, il ritratto e il nudo, Carlo Mattioli viene, dunque, omaggiato dalla città felsinea con una mostra, molto ricercata e dall’allestimento elegante, che allinea, nelle due sale centrali del museo di Palazzo d’Accursio, una quarantina di sue «Nature morte», per lo più realizzate negli anni Sessanta, nella stagione che precede i più celebri «Notturni». Si instaura così un dialogo silente, intessuto di citazioni e di scontri in punta di pennello, con Giorgio Morandi, le cui opere, comprese le quattro tele della collezione privata di Luciano Pavarotti, recentemente concesse in comodato temporaneo dalle figlie dell’artista, sono visibili nelle sale successive.
Carlo Mattioli guarda al maestro di Bologna, uno dei più eccellenti interpreti dello still life pittorico, come un precedente ineludibile. Ne sono prova i due oli su tela degli anni Trenta esposti, «Senza titolo» (1937) e «Natura morta» (1938), entrambi di impronta morandiana che, pur nei loro risultati ancora accademici, rivelano una notevole abilità tecnica e una raffinata sensibilità cromatica. L’ammirazione per Giorgio Morandi si evince anche dai cinque ritratti che l’artista modenese dedicò al maestro, a partire dal 1969, lavorando sulla memoria di qualche lontano e sparuto incontro. In uno dei primi, il maestro di via Fondazza appare ricurvo su se stesso, con in volto una smorfia amara e triste. La stessa smorfia che anima l’«Autoritratto al chiaro di luna» del 1971, dove Carlo Mattioli dà corpo, con tocchi di ocra, nero e grigio bluastro, al suo carattere schivo, ombroso e saturnino.
Ad accomunare i due artisti non era solo la loro anima malinconica, ma anche un modo simile di intendere il «compito dell’artista»: l’«indefesso lavorare entro una “logora solitudine”» e il rigore etico, inteso «in senso arcangeliano di “intima libertà” e di “costume civile”», sono -per usare le parole di Simona Tosini Pizzetti, curatrice della rassegna bolognese- i fili che tessono le affinità elettive di ricerche che hanno scelto di dialogare con la realtà attraverso il genere della natura morta.
Per il resto, tutto è diverso: alle ordinate e misteriose bottiglie e brocche di Giorgio Morandi, alla sua celebre compostezza formale, Carlo Mattioli risponde con tele logorate da colpi di pennello, scavate da veloci spatolate, abitate da densi e magmatici grumi di colore, impastate con una tavolozza spenta, giocata su poche tonalità: ocra opachi, grigi polverosi, bruni soffocati e qualche, raro, tocco di bianco.
L’artista modenese, con i suoi simulacri di forme e i suoi oggetti dai contorni disfatti (perfetto racconto dell’inquietudine che anima l’uomo contemporaneo), sembra guardare all’esperienza dell’espressionismo astratto americano e all’informale europeo. «Le sue tangenze significative –scrive, infatti, Simona Tosini Pizzetti- sono da ricercarsi in artisti come Fautrier, Dubuffet, De Staël». Non a caso Cesare Garboli ha evidenziato che Mattioli era un «anti-Morandi».
Per i diversi stili di vita, per il mondo di approcciare al genere della natura morta, per la tavolozza cromatica, potremmo forse dare ragione al critico toscano. Ma per l’assoluto che l’arte è stata nella vita di entrambi, sicuramente no.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Veduta della mostra «Carlo Mattioli al Museo Morandi», 2012. Foto: Matteo Monti; [fig. 2] Carlo Mattioli,   «Autoritratto al chiaro di luna», 1971. Olio su tela, cm 70x80. Collezione privata; [fig. 3] Carlo Mattioli,  «Natura morta», 1965. Olio su tavola, cm 40x25,5 - Collezione Privata

Informazioni utili
Carlo Mattioli al Museo Morandi. Museo Morandi c/o Palazzo Accursio, piazza Maggiore,6 – Bologna. Orari: martedì-venerdì 11.00-18.00, sabato, domenica e festivi: 11.00-20.00; chiuso i lunedì non festivi. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Mi). Informazioni: tel. 051.2193338. Fino al 6 maggio 2012.


venerdì 4 maggio 2012

Trescore Balneario, Lorenzo Lotto tra storia e alchimia

Visse incompreso dalla critica ufficiale del suo tempo. Nel volume «L’Aretino, ovvero dialogo della pittura (1557), lo scrittore e grammatico Ludovico Dolce, il panegirista di Tiziano, additò, per esempio, la sua pala veneziana «San Nicola in gloria» (1527-1529) come «assai notabile esempio di cattivo colorire». Mentre Giorgio Vasari, nel libro «Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori» (1568), ne parlò, in un capitolo dedicato anche ad artisti locali quali Francesco da Cotignola e Nicolò Rondinelli, come di un amico di Palma il Vecchio, che «avendo imitato un tempo la maniera de’ Bellini, s’appiccò poi a quella di Giorgione». Vita non facile, dunque, quella di Lorenzo Lotto (Venezia, 1480– Loreto, 1556), «genio inquieto del Rinascimento», riscoperto sul finire dell’Ottocento dal grande critico d’arte Bernard Berenson, che ne parlò come di un «pittore psicologico», «sensibile ai mutevoli stati dell'animo umano».
La vicenda terrena dell’artista, autore di capolavori come la sontuosa «Madonna del Rosario» di Cingoli e la raffinata «Annunciazione» di Recanati (la celebre tela con il gattino terrorizzato dall’apparizione dell’angelo), si risolse in un continuo pellegrinare da Treviso a Jesi, da Roma a Bergamo, da Venezia ad Ancona, Macerata, Loreto e in tanti altri piccoli centri del territorio marchigiano.
In Lombardia, dove soggiornò tra il 1512 e il 1525, il pittore veneziano, del quale Pietro Aretino ebbe a dire (con fare ironico e pungente) «come la bontà buono e come la virtù vertuoso», trascorse uno dei periodi più felici e sereni della propria carriera e, probabilmente, anche della propria vita.
Tante le commissioni di diverso tipo che lo videro impegnato a dare forma e colore alla sua vena narrativa di evidenza popolare, al suo senso profondo di religiosità, ai suoi «umori nordici» che richiamano alla mente l’arte di Albrecht Altdorfer e Matthias Grünewald.
Il catalogo bergamasco di Lorenzo Lotto è lungo e include, tra l’altro, pale d’altare come la «Madonna con il Bambino e santi» per Alessandro Martinengo Colleoni (1513-1516; Bergamo, San Bartolomeo) e il «Polittico dei Santi Vincenzo e Alessandro» per la chiesa parrocchiale di Ponteranica (1524 circa), quadri di carattere devozionale quali «Il commiato di Cristo dalla madre» (1521, Staatliche Museen zu Berlin) e «Le nozze mistiche di santa Caterina da Siena» (1523; Bergamo, Accademia Carrara), ritratti di Lucina Brembati (1518; Bergamo, Accademia Carrara), di Marsilio Cassotti con la sua sposa (1523; Madrid, Museo Nacional del Prado) e di molti altri nobili, senza dimenticare i modelli grafici per le tarsie in legno del coro di Santa Maria Maggiore (1525).
Una delle opere più significative di questi decina d’anni in terra lombarda è, per ampiezza e complessità di tematiche, la decorazione dell’oratorio quattrocentesco di villa Suardi, a Trescore Balneario. Questa «capelleta», collocata sulla strada che collega Bergamo al lago d’Iseo, era stata «fabricata», secondo quanto riporta l’estimo del 1526, «in communione» da Giovan Battista Suardi e dal cugino Maffeo «ad honore de Dio, sua gloriosissima matre et devotissime sancte Barbara e Brigida».
Lorenzo Lotto affrescò questo ciclo pittorico, narrato con il gusto del racconto popolare e della sacra rappresentazione, nel 1524, sicuramente entro la fine dell’estate. L’occasione fu offerta da un voto di Giovan Battista Suardi, che, stando a quanto scrive Roberta D’Adda, commissionò l’opera all’artista «non tanto per ragioni di prestigio, quanto piuttosto per spirito di devozione, in un momento di drammatica urgenza». Per quell’anno, e più precisamente per il mese di febbraio, gli astrologici avevano, infatti, previsto un diluvio catastrofico e, in alcuni casi, anche la distruzione della fede cristiana e l’avvento dell’Anticristo. Nello stesso tempo, nel territorio della val Cavallina (luogo in cui si trova la cappella) si sentiva, in modo pressante, la costante minaccia costituita dalle truppe dei lanzichenecchi, che calavano sull’Italia settentrionale e che portavano con sé i germi della dottrina luterana. E’ quest’ultimo il motivo per cui le pitture di villa Suardi mostrano un profondo valore dottrinale, curioso in un oratorio privato, ma più comprensibile se si pensa che la costruzione era, appunto, ubicata lungo la strada percorsa dai mercenari tedeschi e che veniva spesso aperta ad amici e a contadini del luogo.
La decorazione lottiana della cappella, al cui contenuto dottrinario contribuì il maestro in teologia Girolamo Terzi, si articola sul soffitto e su tre pareti dell’edificio, dialogando con un altro affresco, di autore ignoto (probabilmente un pittore ascrivibile alla cerchia di Jacopo Scipioni), che orna il catino absidale, con raffigurazioni delle sante Barbara, Brigida d’Irlanda, Caterina d’Alessandria, della Vergine assunta in cielo e di Maria Maddalena con l’ostia consacrata, sovrastate da un Cristo di misericordia.
Lorenzo Lotto articolò le pareti orizzontalmente con modanature illusive. Nella spazio superiore creò un fregio in cui profeti e sibille si affacciano gesticolanti da una serie di tondi; mentre attraverso finte colonne e sfruttando le due finestre del piccolo edificio, a una navata e col tetto sorretto da travi di castagno tagliate irregolarmente, creò una suddivisione verticale.
Nella parete sinistra campeggia la monumentale figura del Cristo-Vite, ispirata dal Vangelo di Giovanni (15,5), il cui versetto «Ego sum vitis vos palmites» («Io sono la vite, voi i tralci») compare sopra l’immagine, nella quale sono visibili anche i profili del committente, Giovan Battista Suardi, di sua moglie, Orsolina, e di sua sorella, Paolina.
Dalle dita del Cristo si dipartono tralci, che si avvolgono in girali intorno a immagini di santi e della Madre di Dio, a simboleggiare la chiesa come vigna, ossia come corpo mistico del Cristo. Questi affreschi proseguono sul soffitto, dove si trovano putti e angeli tra foglie e grappoli o appoggiati a cartigli, che recano iscrizioni delle Sacre scritture o della liturgia, con particolare riferimento al mistero dell’eucarestia. Completano il dipinto le figure di alcuni vendemmiatori muniti di roncole e falcetti, gli eretici vissuti nei primi secoli del cristianesimo, che precipitano da due scale appoggiate ai tralci estremi e che sono respinti da sant’Ambrogio e san Girolamo.
Sempre nella parete di sinistra l’artista affrescò -con straordinaria vivacità narrativa e con colori freddi e dagli inconsueti timbri cromatici, carichi di una luce vibrante e tersa- la vita di santa Barbara, secondo la «Legenda aurea», sorta di manuale scritto nel Duecento da Jacopo da Varagine, che costituisce la più diffusa raccolta agiografica del Medioevo. Il racconto, ambientato in movimentate scene cittadine e dal sapore teatrale, parte da sinistra, con la donna imprigionata dal padre in una torre, seguita nei campi dove fugge per evitare il matrimonio, arrestata, processata, torturata e, infine, decapitata, mentre il suo persecutore, l’uomo che le ha dato la vita, viene incenerito da un fulmine.
Alcune scene di questi affreschi, definiti da Roberto Longhi «sublimemente popolareschi» (1929), sono probabilmente ripresi da prototipi delle Stanze Vaticane; il linguaggio di Lorenzo Lotto è, però, molto lontano da quello di Raffaello, che crea scene di drammatica concentrazione. La narrazione del pittore veneto assume, infatti, toni più fiabeschi e un effetto di immediatezza e spontaneità che, nell’antieroismo dei suoi soggetti, richiama alla mente molte pitture del nord Europa. A Trescore protagoniste sono, infatti, figure umili, studiate dal vero: «i contadini –secondo la bella descrizione di Rodolfo Pallucchini- che mietono e raccolgono le messi e le campagnole con i loro cesti di verdure fresche sulla piazza del paese sono personaggi inediti nella pittura italiana del tempo».
Dalle storie di santa Barbara si passa, sulla parete destra, a quelle della vita di santa Brigida d’Irlanda, protettrice del mondo agricolo e protagonista di numerose opere di carità, alla cui vestizione religiosa partecipò la famiglia di Maffeo Suardi. Lotto inscenò nove miracoli della donna in quattro spazi differenti: una cappella gentilizia, una loggia, un paesaggio e uno scorcio di città. Nei miracoli si riconoscono il legno secco rinverdito, l’abito rimasto senza macchia, l’acqua convertita in birra, il dono della vista a un cieco, il porco selvatico ammansito, il maltempo allontanato, l’albero dissecato, il vaso d’argento diviso in parti uguali e, per ultimo, un uomo che scappa a morte violenta, sostituito dalla propria ombra.
Merita, infine, una segnalazione il piccolo cammeo con il quale l'autore volle celebrarsi: sopra la porta d’ingresso è, infatti, visibile l’autoritratto di Lorenzo Lotto in vesti di uccellatore, con un fascio di panioni in spalla e una civetta su una gruccia. Stando a quanto scrive Roberta D’Adda ci troviamo di fronte a una «metafora alchemica»: l’artista si paragone a un cacciatore («un cacciatore di immagini», nella bella definizione di Francesca Cortesi Bosco) e «pone sopra la propria testa, tra i putti vendemmiatori del soffitto, un fanciullo mingente. La figura ha una lunga tradizione iconografica, rappresentando l’acqua sacra e salvifica del battesimo e quindi la benedizione divina, ma ha anche una fondata tradizione alchemica: gli alchimisti ritenevano, infatti, che l’urina dei fanciulli avesse potenti proprietà, essendo un ‘liquido ardente’, la cui essenza è il fuoco. L’interpretazione alchemica –sempre secondo Roberta D’Adda- trova conferma in un gioco di parole: in alchimia, infatti, l’urina è detta ‘lot’ e, quindi, il fanciullo mingente evoca il nome di Lotto, pittore benedetto e ispirato da un principio potente, capace di trasformare e, quindi, di creare». Come ha ben scritto Primo Casalini, in questi affreschi l'artista, infatti, «coglie in ogni gesto, in ogni espressione, in ogni cosa la presenza del numinoso, del significante».
I contemporanei, forse, non avrebbero capito lo stile e il messaggio del «pictor celeberrimus» (la definizione è tratta da un atto notarile del 1505) a Trescore; ma questo ciclo pittorico era destinato a incontrare tanti estimatori, a cominciare da Gabriele D’Annunzio che, nel suo libro «Le città del silenzio» (1903), scrisse: «per l'aria volar parean a schiera / i chèrubi fuggiti da Trescore / quei che Lorenzo Lotto il dipintore / alzò sui tralci della vite vera».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Veduta esterna dell'oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 2] Lorenzo Lotto, «Cristo-Vite»,  1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 3]  Lorenzo Lotto, «Santa Barbara inseguita nel bosco», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 4] Lorenzo Lotto, «Martirio di Santa Barbara», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 5] Lorenzo Lotto, «Miracolo di Santa Brigida», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 6] Lorenzo Lotto, «Santa Brigida allontana l'uragano», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); 


Informazioni utili
Lorenzo Lotto. Oratorio di villa Suardi, via Nazionale, 122 (ingresso da via Suardi, 20) - Teescore Balneario (Bergamo). Visite guidate con prenotazione: dal lunedì al sabato, mattino e pomeriggio. Visite guidate senza prenotazione (sono ammessi 25 visitatori per volta): ogni domenica, alle 15.00 e alle 16.30; domenica 6 maggio e domenica 8 luglio 2012, alle 10.00 e alle 11.00 (ma non al pomeriggio),domenica 27 maggio 2012, alle 9.30 e alle 10.30 (ma non il pomeriggio); domenica 20 maggio 2012, chiuso. Biglietto: € 8,00 (comprensivo di servizio guida in lingua italiana, inglese e francese); per gruppi superiori a 15 persone € 6,00. Informazioni e prenotazioni (sempre obbligatoria per i gruppi da 16 a 25 persone): tel. 035.944777 o info@prolocotrescore.it. Fino al 30 novembre 2012. 




giovedì 3 maggio 2012

Gli affreschi di Castelseprio? «Un giallo dell'arte medioevale»

«Castrum Seprum destruatur, et destructum perpetuo teneatur et nullus audeat vel praesumat in ipso Monte habitare».«Castel Seprio sia smantellato e perpetuamente tenuto tale, né alcuno osi o presuma di potervi ancora abitare». Con queste parole, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1287, l'arcivescovo Ottone Visconti, dopo aver sconfitto la famiglia dei Della Torre, proclamava la fine del castrum sorto, nel IV secolo d.C., lungo la via Como-Novaria, a difesa dei confini al di qua delle Alpi.
Alla distruzione sopravvisse la sola chiesa di santa Maria foris portas, luogo sacro inserito dal giugno 2011 nella lista dei patrimoni mondiali dell'umanità dell'Unesco (insieme con altri sei siti densi di testimonianze architettoniche e pittoriche dell’età longobarda), la cui fama è legata al ciclo di affreschi che decora il vano dell'abside, considerato oggi una tra le più alte testimonianze della pittura muraria europea nell'alto Medioevo.
Le origini del piccolo edificio religioso, ora sconsacrato e di proprietà della Provincia di Varese, sono difficilmente ricostruibili: in passato si è pensato che l’edificazione della chiesa fosse databile al VII-VIII secolo; oggi, in seguito a un’accurata ricerca di Carlo Bertelli (supportata dall’esame della termoluminescenza), si è spostata l’epoca di fondazione intorno al secondo quarto del IX secolo, all’interno della temperie culturale carolingia.
Sebbene edificata con materiali poveri e rinvenuti in zona, quali ciottoli di fiume, l'architettura è raffinata e mostra forti influenze mediorientali (siriache per la precisione), come ben documenta la pianta a trifoglio, non comune in Occidente.
Delle tre absidi, una sola sussiste, ed è quella dove si trovano le pitture rinvenute nel 1944 da Giampiero Bognetti e rimaste a lungo nascoste sotto uno strato d'intonaco quattrocentesco. Pitture, queste, la cui squisita ricchezza contrasta con la disadorna umiltà delle pareti dell’aula e che si ipotizza dovessero essere visibili, nella loro interezza, solo dai celebranti e da quanti erano ammessi nel presbiterio, e non dai fedeli presenti nella navata.
Il programma pittorico, che ha fatto parlare della chiesa di santa Maria foris portas come della «Cappella Sistina del Medioevo», racconta, con un linguaggio fortemente naturalistico e impressionistico, storie dell’infanzia di Gesù (dall’annunciazione alla presentazione al tempio) e celebra il dogma dell’Incarnazione, tema caro alla teologia dei cristiani d’Oriente, nel quale si ‘parla’ della consustanzialità di Cristo, ovvero della perfetta unione tra natura umana, implicita nei soggetti della vita di Cristo incarnato, e natura divina, come nella rappresentazione del Cristo pantocrator. Anche la fonte ha provenienza orientale: ai Vangeli canonici si è preferito un testo apocrifo, compilato in Egitto e diffuso con il nome di Protovangelo di Giacomo.
Difficile datare le pitture, che risalgono in ogni caso a prima della metà del X secolo, per via di un'iscrizione, graffita al di sopra della superficie pittorica, che ricorda Arderico, arcivescovo di Milano, eletto nel 936 e morto nel 948.
La straordinaria libertà nelle composizioni, l'uso di uno spazio illusionistico e scenografico, insieme alle figure allungate e a una tecnica rapida, di grande freschezza, giocata su una combinazione di pochi, essenziali colori (ocra, calce, nero di carbone) ci riportano ad un'atmosfera anticheggiante, memore della grande pittura romano-classica.
La tecnica pittorica del frescante, conosciuto come Maestro di Castelseprio, appare sapiente: la sua mano sembra veloce e sicura (in alcuni casi il disegno dei contorni è fatto direttamente col colore), le velature danno una luminosità diffusa, le ombre sono ben definite e le lumeggiature appaiono pastose.
Il ciclo affrescato, disposto su due ordini e non diviso da riquadri, ha inizio, nell’emiciclo absidale, in alto a sinistra, con la scena dell’annunciazione, dove l’angelo sorprende Maria intenta a filare, il tutto sotto lo sguardo comprensibilmente meravigliato di una giovane donna, forse un’amica della Vergine. Seguono l’episodio della visitazione, del quale una larga crepa ha purtroppo cancellato la figura di santa Elisabetta, e quello con la cosiddetta «prova delle acque amare», prescritta dalla legge ebraica per accertare le gravidanze sospette e a cui anche Maria, secondo i vangeli apocrifi, si sottopose.Dopo un tondo con il busto del Cristo benedicente, a cui ne corrispondeva uno oggi perduto con l’immagine del Battista, ci troviamo davanti all’apparizione dell’angelo a san Giuseppe, scena maestosa e delicata al medesimo tempo, ricca di dettagli finissimi. La narrazione riprende con la raffigurazione del viaggio a Betlemme, con un tenero dialogo tra i due sposi, Maria sull’asino e Giuseppe che la segue a piedi. 
Passando dalla fascia superiore a quella inferiore, si vedono raffigurate la natività e l’annuncio ai pastori: su un fondo roccioso illuminato dalla cometa, la Madonna, adagiata su un giaciglio, ha di fronte a sé l’incredula levatrice Salomè, mentre in basso altre due donne lavano il Bambino. Giuseppe siede in disparte, in attesa pensosa; sopra di lui, dietro a una roccia, in vista di una città, l’angelo annuncia la nascita del Cristo. Solo un albero divide questa scena dalla successiva, l’adorazione dei Magi. Ritornando verso il centro dell’abside, incontriamo, infine, la presentazione al tempio: la Vergine, attorniata da Giuseppe e da altri due personaggi, porge il Bambino al vecchio sacerdote Simeone che lo accoglie con la mano sinistra velata.
Tutte queste pitture sono di elevata qualità stilistica; la rarità dei loro caratteri ne ha fatto, inoltre, parlare come di un anello di congiunzione tra l'arte classica e quella bizantina, tra l’iconografia d’Occidente e quella d’Oriente. Incerta e dibattuta rimane, invece, la loro datazione e il nome dell’autore, tanto da far considerare questo ciclo di affreschi come uno degli enigmi più appassionanti, e affatto risolto, per gli studiosi di tutto il mondo. Un vero e proprio «giallo» dell’arte medioevale.

Didascalie delle immagini
[fig.1] Veduta esterna della chiesa di santa Maria foris portas, a Castelseprio; [fig. 2] Maestro di Castelseprio, «Cristo benedicente», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 3] 
Maestro di Castelseprio, «Presentazione al Tempio», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 4] Maestro di Castelseprio, «Sogno di san Giuseppe», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 5] Maestro di Castelseprio, «Andata a Betlemme», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas

Informazioni utili
Chiesa di santa Maria foris portas, via Castelvecchio 1515 - Castelseprio. Orari: martedì-sabato, ore 08.30-19.20; domenica e festivi, ore 09.30-18.20. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 0331.820438. 

Il «Gold Remi Award» al film «Il merletto, un’arte veneziana»

Parla italiano il documentario che ha vinto il prestigioso premio «Gold Remi Award» alla quarantacinquesima edizione del «WorldFest Houston International Film Festival», una delle più importanti rassegne di cinema e audiovisivo degli Stati Uniti. L'ambito riconoscimento è, infatti, stato assegnato al film «Il merletto, un’arte veneziana» («The Lace, a Venetian Art»), prodotto dalla Fondazione musei civici di Venezia e diretto da Alessandro Bettero.
Espressamente concepito e realizzato in occasione della riapertura del Museo del Merletto di Burano, avvenuta a giugno dell’anno scorso, il documentario narra la nascita e lo sviluppo di una delle arti più secolari della città lagunare, la tradizione del pizzo lavorato a ago, sullo sfondo delle vicende della Serenissima.
Il film, girato in alta definizione e sottotitolato in lingua inglese, è arricchito dai ricordi e da vivide testimonianze di una dozzina di merlettaie di Burano, ma mostra anche suggestive ricostruzioni storiche realizzate con attori in abiti d’epoca e filmate all’interno di alcuni prestigiosi palazzi storici della città, come il Ducale, il Mocenigo, Ca’ d’Oro, la basilica di San Marco e la fornace vetreria di «Formia Luxury Glass» a Murano, oltre che in località caratteristiche del Veneto, tra Burano, Murano, Torcello, Chioggia e Altino.
Rare ed esclusive sono anche le immagini che ripropongono alcuni tra i manufatti più antichi della collezione appartenente al Museo del merletto e alla Fondazione Musei civici di Venezia. Manufatti, questi, che coprono gli ultimi cinque secoli.
Il documentario, della durata di circa quaranta minuti, è stato realizzato con la consulenza di Paola Chiapperino, già direttore del museo veneziano, e con il contributo, per i testi, di Doretta Davanzo Poli, nota storica del merletto e docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
La musica del film è a cura del maestro Alberto De Piero e dell’Orchestra Filarmonia Italiana. La fotografia porta la firma di Lorenzo Pezzano: mentre i costumi sono stati realizzati dagli atelier «Nicolao» e «Pietro Longhi» di Venezia.
Grazie a questo documentario, sempre visibile nella sala introduttiva al primo piano del museo buranese, il pubblico statunitense ha potuto riscoprire o conoscere per la prima volta una delle più antiche e preziose tradizioni veneziane, quella del merletto, un’arte antica legata indissolubilmente alla storia del costume, del tessuto, dell’arte e dell’architettura di Venezia e della sua Laguna.
L’arte cinematografica si è fatta, dunque, strumento di promozione turistica per il giovane museo lagunare, ubicato presso lo storico palazzetto del Podestà di Torcello, già sede, dal 1872 al 1970, della celebre Scuola del merletto, fondata dalla contessa Adriana Marcello. In queste antiche sale di piazza Galuppi, all’interno delle quali Daniela Ferretti ha portato la policromia tipica dell’isola, sono allineati oltre centocinquanta esemplari di pizzi, ma anche dipinti dei secoli XV-XX, incisioni, disegni, documenti, riviste, tessuti e costumi. Manufatti, questi, che raccontano un’arte tramandata di generazione in generazione, un antico mestiere, quasi esclusivamente femminile, che dall’unione di materiali poveri, quali ago e filo, e mani sapienti, continua a creare veri e propri capolavori.

Per saperne di più
«Fogli d'arte», il restyling del Museo del merletto di Burano
Il sito ufficiale del Museo del merletto di Burano


Didascalie delle immagini
[fig. 1] Foto di scena per il documentario «Il merletto, un’arte veneziana» («The Lace, a Venetian Art»), prodotto dalla Fondazione musei civici di Venezia e diretto da Alessandro Bettero; [fig. 2] Veduta esterna del Museo del Merletto di Burano, Venezia. Foto di Mario e Alessia Polesel; [fig. 1] Veduta interna del Museo del Merletto di Burano, Venezia. Particolare dell'allestimento di Daniela Ferretti al primo piano del palazzetto del Podestà di Torcello


Informazioni utili
«Il merletto, un’arte veneziana» («The Lace, a Venetian Art»). Documentario, durata (40 min.). Regia: Alessandro Bettero. Produzione: Fondazione Musei Civici di Venezia. Produttore esecutivo: Amelia Fiorenzato. Coordinatore esecutivo: Paola Chiapperino, con la collaborazione di Chiara Squarcina, Fondazione Musei civici di Venezia. Testi: Doretta Davanzo Poli, Università Ca’ Foscari - Venezia. Fotografia: Lorenzo Pezzano. Focus Pullers: Matteo Bolzonello, Davide Ceccato. Montaggio e post-produzione audio: Luca Giacon. Colorist: Francesco Marotta. Musiche: Alberto De Piero e l’Orchestra Filarmonia Italiana.
Museo del merletto di Burano, piazza Galuppi 187 - Burano (Venezia). Orari: dal 1° aprile al 31 ottobre, ore 10.00–18.00 (biglietteria 10.00– 17.30); dal 1° novembre al 31 marzo, 10.00–17.00 (biglietteria 10.00–16.30); chiuso il lunedì.Ingresso: intero  € 5,00, ridotto € 3,50 [ragazzi da 6 a 14 anni; studenti* dai 15 ai 25 anni; accompagnatori (max. 2) di gruppi di ragazzi o studenti; cittadini ultrasessantacinquenni; personale del Ministero per i Beni e le Attività culturali; titolari di Carta Rolling Venice; soci FAI]. Informazioni: tel. +39.041.730034 o museo.merletto@fmcvenezia.it.