ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 2 maggio 2013

«Lights», Dan Flavin e le sue stanze di luce

La luce è quella di un qualsiasi tubo al neon prodotto su scala industriale e, dunque, reperibile in ogni luogo della nostra quotidianità, dalle strade alla cucina di casa. Ma le combinazioni che ne derivano, giocate su una ristretta gamma di colori (blu, verde, rosa, rosso, giallo e quattro sfumature di bianco), hanno lo scatto della poesia. Dan Flavin (New York, 1933-1996), uno degli artisti più importanti della compagine americana definita con il nome di Minimalismo, ha saputo diventare l'indiscusso maestro della luce artificiale, ridisegnando stanze spoglie con la più immateriale delle materie in natura e creando così ambienti dai mille bagliori capaci di parlare alla mente e al cuore di chi sappia abbandonare i propri pensieri per lasciarsi cullare dalle emozioni.
Dopo un periodo di iniziale snobbismo che fece dire a molti «se voglio un Flavin vado dall'elettricista, mi compro una lampada e me la metto in casa», le opere dell'artista americano, frutto di una perfetta fusione di semplici lampadine o di scarne «stecche di colore», hanno raggiunto oggi ragguardevoli quotazioni di mercato (si parla di cifre che si aggirano tra i 400.000 e gli 800.000 dollari ad installazione) e raccolgono sempre più di frequente la stima non solo della critica, ma anche del grande pubblico.
A Dan Flavin, compagno di avventura di Donald Judd e Carl Andre, dedica un’ampia retrospettiva, a cura di Roland Wäspe, il Kunstmuseum di San Gallo, nella Svizzera orientale. «Lights», questo il titolo della mostra, allinea una trentina di opere, già presentate lo scorso inverno al Mumok di Vienna, che sarebbero senz’altro piaciute al conte Giuseppe Panza di Biumo, il collezionista che per primo, sul finire degli anni Sessanta, diede credito all’artista newyorkese, commissionandogli, nel corso degli anni, numerose opere, tra le quali la nota e suggestiva installazione permanente «Varese Corridor» (1976), una sequenza di luci rosa, gialle e verdi per villa Panza, oggi residenza del Fai (Fondo per l’ambiente italiano).
Partendo dalla serie «Icons» (1961-1964), considerata l’iniziatrice del movimento minimalista con le sue sculture in legno, formica e masonite arricchite da economiche lampadine fluorescenti, l’esposizione permette di immergersi tra le emozioni cromatiche e luminose di lavori noti, anche di grandi dimensioni, come «Pink out of a corner (to Jasper Johns)» (1963), «A primary picture» (1964), «Untitled (To Henri Matisse)» (1964), «Untitled (To Jan and Ron Greenberg)» (1972-1973) e «The diagonal of May 25, 1963 (To Costantin Brancusi)», il primo tubo color giallo oro appoggiato dall’artista in diagonale a una parete.
Non mancano nella rassegna, la prima che la Svizzera dedica all'autore minimalista, alcuni moduli dell’omaggio al collega Donald Judd e una selezione di lavori del ciclo «Monuments for V. Tatlin» (1964-1990), dedicato al leader del movimento costruttivista russo.
L'impatto con l'arte asciutta e immediata di Dan Flavin, che si nutre dell'essenzialità del messaggio della luce e del colore e che si avvale di forme semplici e di materiali economici per creare mondi di pura poesia, ha portato molti critici a scrivere pagine e pagine interrogandosi sul rapporto dell'artista con il sacro. A questo tema ha guardato anche Angela Vettese, che nel catalogo della retrospettiva varesina organizzata nel 1994 per volere del conte Panza di Biumo, si è soffermata sulla religiosità dell’artista, «intesa non come una reverenza a una religione rivelata ma come tensione ideale». Forse la definizione non sarebbe piaciuta allo stesso autore minimalista, che a chi vedeva un significato mistico nelle sue installazioni rispondeva, severo e sempre arrabbiato, mai dimentico dei conflitti con il padre che gli aveva imposto gli studi in seminario: «I miei tubi non si sono mai infiammati nella ricerca di Dio».
Ma è innegabile che l’arte di Dan Flavin abbia alla base una, seppur inconfessata, ricerca di spiritualità. Lo stesso mezzo utilizzato per le opere, lampade al neon condannate ad esaurirsi dopo un certo numero di ore e ad essere sostituite con nuovi modelli, ci racconta il dramma dell'esaurimento della materia, l'impossibilità per l'uomo di eternare non solo la sua vita, ma anche la sua attività. La durata limitata delle installazioni luminose dell'artista americano, costrette a fare i conti con il tempo e con l'innovazione tecnologia, sembrano, dunque, alludere al timore del panta rei, al dramma della caducità umana.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Dan Flavin, «The diagonal of May 25, 1963 (to Constantin Brancusi)», 1963. The Estate Collection David Zwirner. Foto: Billy Jim, New York. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich; [Fig. 2] Dan Flavin, «Pink out of a corner (to Jasper Johns)», 1963. The Estate Collection David Zwirner. Foto: Billy Jim, New York. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich; [fig. 3]Dan Flavin, «Untitled (to Donald Judd, colorist)», 1,7,8,9,10 e 4, 1987. The Estate Collection David Zwirner. Installazione, Kunstmuseum St.Gallen. Foto: Stefan Rohner, St.Gallen. Courtesy of David Zwirner, New York. © 2012 Stephen Flavin / Pro Litteris, Zürich

Informazioni utili 
Dan Flavin - Lights. Kunstmuseum St.Gallen, Museumstrasse 32 – San Gallo (Svizzera). Orari: martedì-domenica, ore 10.00-17.00; mercoledì, ore 10.00-20.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero ChF 10,00, ridotto ChF 8,00, bambini e adolescenti fino ai 16 anni € 4,00. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel +41.712420671 o info@kunstmuseumsg.ch. Sito web: www. kunstmuseumsg.ch. Fino a domenica 18 agosto 2013.

martedì 30 aprile 2013

Ghitta Carell, quando il potere incontra il bianco e nero

«Fotografava solo 'il meglio': aristocratiche con figli e cani aristocratici, poeti, scrittrici, dive intellettuali, generali, gerarchi, membri di case regnanti. Fotografava solo gente bellissima […]: le sue donne sembravano sempre regine inavvicinabili eppure dolcissime, i suoi uomini forti intelligenti, dominatori». Così Natalia Aspesi descrive Ghitta Carell (1899-1972), celebre ritrattista e fotografa di moda ungherese di nascita e italiana d’adozione, alla quale la Fondazione Pastificio Cerere di Roma dedica un’ampia retrospettiva, a cura di Diego Mormorio, che si avvale della consulenza di un comitato scientifico composto da Ottavio Celestino, Flavio Misciattelli, Stefano Palumbo e Marcello Smarrelli.
Un gruppo di quindici fotografie originali e di centoquaranta immagini, quasi tutte stampate per l’occasione, restituiscono la storia di un’epoca, quella a cavallo tra gli anni Trenta e Cinquanta, attraverso i volti e gli sguardi di alcuni dei suoi protagonisti: da papa Eugenio Pacelli al disegnatore americano Walt Disney, passando per Benito Mussolini, Cesare Pavese, la principessa Margareth d’Inghilterra, Maria Josè di Savoia, Camilla Cederna, Giulio Andreotti e tanti altri nobili, ecclesiastici, uomini politici, imprenditori ed intellettuali del tempo.
Dopo un periodo di formazione a Budapest presso lo studio di Szekelu Aladair, Ghitta Carell approda, appena venticinquenne, nel nostro Paese, soggiornando prima a Firenze e poi a Milano. Due anni dopo, nel 1926, inizia la sua ascesa verso la notorietà: a lanciarla è la foto di un bambino vestito da Balilla, scelta per un manifesto di propaganda destinato a tappezzare i muri di tutta la nazione.
La fama, sancita anche da giudizi autorevoli come quello di Ugo Ojetti, dischiude ben presto alla giovane fotografa le porte di una committenza sempre più ampia ed esclusiva. Nasce così la decisione di trasferirsi, nel 1928, a Roma, vicino a piazza del Popolo. Il «bel mondo» capitolino si fa conquistare dal suo inconfondibile stile: Edda e Galeazzo Ciano, Benito Mussolini, Alberto Savino, Giovanni Papini, Alba De Céspedes, Pio XII, i Gonzaga, i Diaz, i Borghese, i Cicogna, i Visconti, i Colonna sono tra i suoi clienti. Nemmeno la promulgazione del leggi razziali nel 1938 contrasta il percorso di Ghitta Carrell, ebrea per parte di padre; le viene solo chiesto di non mettersi troppo in mostra.
Con la fine della guerra, tutto il gotha democristiano, da Alcide De Gasperi a Giovanni Gronchi, posa sotto le sue lampade. Lo stesso fanno scrittori come Cesare Pavese, attrici come Valentina Cortese, giornalisti come Camilla Cederna e personaggi come Walt Disney. Negli anni Sessanta, dopo aver ricevuto la cittadinanza italiana, l'artista decide di trasferirsi a vita privata in Israele (dove muore nel 1972), ma prima cede il proprio archivio alla Fondazione 3M di Segrate (Milano), ente che collabora alla mostra romana al Pastificio Cerere, voluta e sostenuta da Elsa Peretti e corredata da un catalogo trilingue (italiano, inglese e spagnolo) di Celestino editore.
«Ghitta Carell e il potere del ritratto», questo il titolo della rassegna, vuole contribuire a riconsiderare la figura di questa fotografa, spesso definita come l’interprete del mondo del potere, facendone conoscere il suo bianco e nero poetico e la sua perizia nell’arte del ritocco, una tecnica moderna che consisteva nel lavorare con delicatezza le lastre per togliere ombre, durezze, vuoti, restituendo così un’aria meno torva ai fascisti e una più seducente alle dame dell’alta società. Per quanto riguarda l'attrezzatura, l'artista italo-ungherese non si fece, invece, mai conquistare dall’avanzamento tecnologico che proveniva dall’America. Continuò a usare un banco ottico a lastre nel formato 18x24 e, più raramente, una Rolleiflex 6x6, strumenti che le consentivano un’attenzione meticolosa per la scenografia e una raffinata interpretazione psicologica dei soggetti ritratti. Lei stessa amava dire: «ogni persona ha due facce, l’uomo è frutto di luce e ombra, io cerco la luce», l’anima.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Ghitta Carrell, Walt Disney, 1935. Copyright Archivio storico Fondazione 3M; [fig. 2] Ghitta Carrell, La principessa Maria Josè, anni ’30. copyright Fondazione 3M; [fig. 3] Ghitta Carrell, Papap Pacelli, anni '40. copyright Fondazione 3M

Informazioni utili 
Ghitta Carell e il potere del ritratto. Fondazione Pastificio Cerere, via degli Ausoni, 7 – Roma. Orari: > Fondazione Pastificio Cerere, Spazio Cerere, Studio d’arte contemporanea Pino Casagrande >   lunedì-venerdì, ore 15.00-19.00;  Ristorante San Lorenzo > tutti i giorni, ore 19.00-02.00. Ingresso libero. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 06.45422960 o info@pastificiocerere.it. Sito internet: www.pastificiocerere.it o www.fondazione3m.it. Fino a venerdì 17 maggio 2013.

lunedì 29 aprile 2013

«Gli altri volti», scatti dal terremoto emiliano

E’ la notte di domenica 20 maggio 2012 quando una forte scossa sismica di magnitudo 5.9 della scala Richter, con epicentro tra San Felice al Panaro e Finale Emilia, semina morte, distruzione e paura nei territori di Modena, Bologna e Ferrara, ma anche di Mantova e Rovigo. Una settimana dopo, martedì 29 maggio 2012, la pianura padana torna a tremare con forza, nell’area tra Mirandola e Medolla.
Stando ai dati riportati sul sito del Parlamento europeo, il bilancio finale è di 27 vittime, circa 300 feriti, 45mila sfollati, oltre 13miliardi di danni stimati ad attività produttive, infrastrutture, beni storico-artistici, edifici religiosi ed edilizia residenziale. Ciò che la fredda precisione dei numeri non può raccontare è, però, il sentimento di impotenza che si è impadronito di chi, in pochi istanti, ha visto cambiare la propria quotidianità, la forza della solidarietà che ha portato molte persone a mobilitarsi in aiuto dell’Emilia ferita, la voglia di tanti piccoli paesi di rimboccarsi le maniche e di guardare al domani. Sono questi gli aspetti su cui si sono concentrati i fotografi milanesi Andrea Armandola e Michela Benaglia con il loro progetto «Gli altri volti, identità di un Terremoto», un «reportage slow» realizzato in undici settimane, tra il giugno e l’ottobre 2012, con un mezzo ormai d’altri tempi come la Rollei 6x6 e lo scatto in pellicola, che documenta storie, sentimenti e sguardi di chi del sisma emiliano è stato protagonista, davanti e dietro le quinte. Ne sono nati centotrentanove ritratti di persone, soprattutto anziani ed extra-comunitari, che il terremoto ha sradicato dalle proprie abitudini e case, costringendole a vivere nelle tendopoli della Protezione civile o nei campi autonomi, costruiti nel giardino di qualche palazzo.
Sono immagini in bianco e nero, riunite ora in una mostra e in un catalogo, che raccontano cosa accade nei paesi colpiti dal sisma quando le telecamere si spengono e i giornalisti non hanno più l’affanno di cercare, tra le macerie, notizie da prima pagina.
Ecco così che Andrea Armandola e Michela Benaglia sono entrati in punta di piedi in una realtà totalmente sconquassata dalla forza della natura e l’hanno osservata con attenzione, sensibilità e rispetto, fissando sulla pellicola l’entusiasmo dei volontari venuti da tutta Italia per offrire il proprio sostegno, i giochi del bambini nei campi, le riunioni serali a base di lambrusco e parmigiano ‘terremotato’, la convivenza forzata tra persone di religioni ed etnie diverse, la voglia dei più giovani di guardare con speranza al futuro, studiando per un esame o catalogando, con la pazienza e la dedizione di un archeologo, pietre di vecchi palazzi rasi al suolo.
Il progetto, promosso dall’associazione «Make for Social Intent», ha trovato ospitalità, grazie all’interessamento dell’Auser di Rimini, nell'area Mastio del Castello Malatestiano, dove prossimamente (la data è in via di definizione) si terrà un’esposizione multisensoriale con foto, videoproiezioni e performance musicali per raccogliere fondi a favore delle popolazioni terremotate. Ma gli organizzatori hanno intenzione di rendere la mostra itinerante e per questo motivo hanno deciso di chiedere il sostegno della rete sulla pagina italiana di ulule.com, il primo sito europeo di crowdfunding, dove è possibile acquistare il catalogo o una delle foto (stampa fotografica manuale ai sali d'argento, su carta baritata o politenata) in edizione limitata e autografata dall'autore. Servono 15mila euro e c’è tempo fino al 15 maggio per realizzare un sogno d’arte e di solidarietà.

Vedi anche
«Ricreazioni», a Mirandola l'arte racconta il territorio

Didascalie delle immagini
[Figg.1,  2, 3 e 4] Una foto del progetto «Gli altri volti, identità di un Terremoto». Ph Michela Benaglia

 Informazioni utili 
«Gli altri volti, identità di un Terremoto». Raccolta fondi su: http://it.ulule.com/gli-altri-volti

mercoledì 24 aprile 2013

Ricicli d’arte: alla Peggy Guggenheim di Venezia arrivano le «Malefatte»

Riciclare è un’arte: lo sanno bene alla Cooperativa sociale «Rio Terà dei Pensieri», che dal 1994 gestisce attività di formazione professionale e lavorazioni artigianali all’interno delle carceri veneziane, preoccupandosi di dare un’impostazione eco-sostenibile ai propri prodotti. Tra le creazioni di questa vivace cooperativa lagunare, vi è, infatti, la linea «Malefatte», borse interamente realizzate con vecchi striscioni pubblicitari in polivinilcloruro o cloruro di polivinile (il più noto pvc), della cui lavorazione si occupano nei laboratori di serigrafia e pelletteria del penitenziario maschile di Santa Maria Maggiore.
L’idea di questo curioso progetto green e solidale, lanciato nella primavera del 2009, è di Fabrizio Olivetti, art director dell'Ufficio grafico del Comune di Venezia, che ha trovato in Francesca Codrino e nell'illustratore Lucio Schiavon i primi due compagni di una fortunata avventura, la cui realizzazione pratica è affidata da sempre a «Rio Terà dei Pensieri» e che, in poco meno di tre anni, è diventato un ricercato fenomeno di moda.
Un rifiuto difficilmente smaltibile, quale è uno striscione pubblicitario in materiale plastico, viene così trasformato in un oggetto fashion, in un pezzo unico, da collezione e molto resistente, che reca con sé memorie di mostre ed eventi cittadini. Le borse fatte dai detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore sono, infatti, tutte create a mano, assemblando, decontestualizzando e ricucendo frammenti di grandi banner promozionali per dare vita a lavori, originali, non seriali, che coniugano intento artistico, sociale ed ecologico con un immancabile tocco di ironia.
Da mercoledì 24 aprile, le «Malefatte» saranno in vendita anche nei bookshop della Collezione Peggy Guggenheim, ad un costo variabile dai 27 ai 48 euro. Realizzate con i manifesti delle mostre organizzate a Palazzo Venier dei Leoni, le borse conterranno al proprio interno il catalogo di un'esposizione passata, diventando così un originale strumento per portare l’arte a viaggiare in tutto il mondo. Ma non è tutto:  chiunque acquisti una banner bag della serie «Malefatte» potrà farsi una foto in una galleria o in uno spazio espositivo e postarla direttamente sulla pagina Facebook del museo. Il tutto all’insegna dello slogan «Ricicla l’arte e falla viaggiare».

Didascalie delle immagini 
[Figg. 1, 2 e 3] Le borse «Malefatte» della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. Ph Marta Vimercati

Informazioni utili 
 Rio Terà dei Pensieri Cooperativa sociale a r.l., S. Croce, Fond. S. Chiara 495/B - 30135 Venezia,tel/fax 041.2960658, e-mail: info@riotera-ve.it. Sito web: www.rioteradeipensieri.org.

martedì 23 aprile 2013

«Vitrine», in Piemonte l’arte è giovane

E’ un doppio appuntamento con «Vitrine», il progetto dedicato alla giovane ricerca artistica sviluppata in Piemonte dalla generazione nata tra gli anni Settanta e Ottanta, quello che va in scena in questo ultimo scorcio d’aprile alla Gam di Torino.
La seconda edizione dell’iniziativa espositiva, affidata alla curatela di Stefano Collicelli Cagol, presenta, da martedì 23 aprile (inaugurazione alle ore 18.00) a domenica 9 giugno, il lavoro di Ludovica Carbotta (Torino, 1982), vincitrice nel 2011 del Premio Ariane de Rothschild e borsa di studio presso Central Saint Martins Londra, con all’attivo il coordinamento del «Progetto Diogene» e mostre alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, all’Hangar Bicocca di Milano e al Centro di cultura contemporanea di Firenze.
Dopo Paola Anziché (Milano, 1975), Helena Hladilova (Kroměříž, Repubblica Ceca, 1983) e Sara Enrico (Biella, 1979), tutte e tre residenti a Torino, la Gam, nell’angolo retto tra le due pareti che sta ospitando il ciclo «270°», porta, dunque, a conoscenza del visitatore una ricerca artistica caratterizzata da un’attenzione verso la spazio urbano, sempre esperito e riflettuto partendo dal proprio corpo. Dandosi una serie di regole che limitano la propria libertà di operare nello spazio, Ludovica Carbotta realizza, infatti, sculture, video, disegni o installazioni, che hanno nella capacità del fare il loro punto in comune e che pongono l’attenzione su ambiti del quotidiano spesso sfuggenti alla nostra percezione. Ne è esempio una recente serie di fotografie, nelle quali l’artista si antepone tra la macchina fotografica e il profilo di un’architettura in costruzione, oscurandone con la sua presenza il profilo. Viene così testimoniato un attimo irripetibile nella vita del panorama cittadino: una volta terminata la costruzione non rimarrà, infatti, più traccia dello scheletro dell’edificio a lungo visibile e parte dell’esperienza del centro abitato.
Per il ciclo «270°», Ludovica Carbotta si è confrontata con la vasta collezione della Gam, pensando all’opportunità di vedere il proprio lavoro accostato a opere di maestri del passato come Medardo Rosso e Umberto Boccioni, ma anche a quelle di artisti contemporanei in una sorta di museo immaginario. L’artista, tramite una serie di disegni, si è, quindi, interrogata su come tutte le opere che ha visto, studiato o di cui ha sentito parlare sono entrate a fare parte della propria memoria e hanno influenzato il suo modo di pensare e la sua ricerca artistica.
In questi giorni, la giovane torinese è anche tra le protagoniste della rassegna «Alle radici della democrazia», realizzata in occasione delle celebrazioni per il 25 aprile dal Consiglio regionale del Piemonte, con la Gam di Torino. La sua opera, negli spazi della stessa Gam, dialoga con i lavori di altre quattro artiste, selezionate da Stefano Collicelli Cagol: Sara Enrico, Helena Hladilova, Paola Anziché e Dafne Boggeri, in mostra rispettivamente a Torino, negli spazi di Palazzo Lascaris e del Museo diffuso della Resistenza (da giovedì 25 aprile, alle ore 11), a Cuneo, presso il Centro di documentazione territoriale (da mercoledì 24 aprile, alle ore 17.30), e a Verbania, nella sede dell’associazione Casa della Resistenza (da giovedì 25 aprile, alle ore 16.00). Le loro opere, visibili fino a domenica 9 giugno, intendono proporre una riflessione sui temi della memoria, della Liberazione e della Costituzione.
Alla Gam di Torino, negli spazi della Videoteca, è, inoltre, in mostra, da martedì 23 aprile e fino a sabato 8 giugno, il video «Abraham Abraham» di Nira Pereg (Tel Aviv, 1969), acquisito dalla Fondazione Crt per l’arte moderna e contemporanea nell’ultima edizione di «Artissima». L’opera, girata in Israele, è la registrazione di un evento ciclico, un particolare dischiudersi delle frontiere tra ebrei e arabi che ha luogo in una caverna di Hebron, spartita in spazi dedicati a una moschea e a una sinagoga. Il luogo è sacro per entrambe le religioni. Per dieci volte l’anno, in occasione di alcune particolari festività, gli ebrei ripongono la Torah e i loro oggetti rituali all’interno di armadi. Una ronda di soldati armati passano in rassegna gli spazi deserti e lasciano il campo ai musulmani che, in pochi minuti, entrano a riempire il vuoto appena formatosi srotolando sul pavimento i loro tappeti e trasformando per ventiquattrore la sinagoga in moschea. Il silenzio che domina il luogo per i brevissimi istanti che seguono all’andarsene dei soldati, prima dell’arrivo dei nuovi diversi fedeli, è lo spazio vuoto della possibilità: il respiro di un Israele surreale come un sogno.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Ludovica Carbotta, disegno per il progetto «Vitrine.270°» alla Gam di Torino, 2013; [fig. 2] Sara Enrico, «Segnavia#1», 2013. Olio su pietra di granito, 162x100x3 cm. Torino, Palazzo Lascaris; [fig. 3] Paola Anziché, «Rainbow», 2013. Stoffa, 20 mtq. Immagine dell'allestimento. Cuneo, Centro di documentazione territoriale; [fig. 4] Nira Pereg, «Abraham Abraham», 2012. Video

Informazioni utili
«Vitrine». Gam, via Magenta, 31 - Torino. Orari: martedì - domenica, ore 10.00-18.00 (la biglietteria chiude un'ora prima); chiuso lunedì. Ingresso libero. Informazioni: centralino, tel. 011.4429518, segreteria, tel. 011.4429595, e-mail gam@fondazionetorinomusei.it. Fino a domenica 9 giugno 2013. 

«Abraham Abraham» di Nira Pereg. Videoteca Gam, via Magenta, 31 - Torino. Orari: martedì-sabato, ore 10.00-18.00; aperto la prima domenica del mese.Informazioni: tel. 011.4429597, email videotecagam@fondazionetorinomusei.it. Fino a sabato 8 giugno 2013.