ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 10 marzo 2017

«Discovering Tiziano»: al Forte di Bard la storia di un'attribuzione

Come dipingeva Tiziano? Quale forza creativa ispirava il suo pennello? Perché l’artista tornava a distanza di tempo sullo stesso soggetto? Quale differenza c’è tra una replica e una copia? La mostra «Discovering Tiziano», allestita al Forte di Bard, nella Cappella della fortezza, tenta di rispondere a queste domande essenziali, presentando la «Deposizione di Gesù Cristo al Sepolcro» (olio su tela, 138 x 177 cm, collezione privata), oltre ai risultati dello studio iconografico e storico-artistico svolti sull’opera.
La rassegna, che sarà inaugurata nel pomeriggio di sabato 11 marzo da Antonio Paolucci, già Ministro per i beni e le attività culturali e direttore dei Musei Vaticani, include la proiezione del filmato «Scoprire Tiziano. Indagine sulla pittura», per la regia di Antonio Pintus (2016), la cui ideazione è firmata da Andrea Donati e che vede tra i collaboratori alla realizzazione il Seminario patriarcale di Venezia, la Pinacoteca Manfrediana e la Basilica di Santa Maria della Salute.
Il film, che illustra la vicenda attributiva della tela e le caratteristiche del grande olio tizianesco, contiene al suo interno interventi dello stesso Andrea Donati, a cui si deve la scoperta, oltre che di Ileana Chiappini di Sorio e Silvia Marchiori.
Tiziano dipinse almeno quattro dipinti della «Deposizione»: il primo e più antico (risalente al 1526-1527) è al Louvre, il secondo è andato perduto, il terzo e il quarto si trovano al Prado, il quinto alla Pinacoteca Ambrosiana.
Una sesta versione dell’opera, cronologicamente anteriore a quella dell’Ambrosiana e unanimemente considerata l’ultima e incompiuta, è stata riscoperta da Andrea Donati e viene ora esposta al Forte di Bard.
L’opera proviene dalla collezione italo-spagnola de la Riva-Agüero e Francesca Basso della Rovere. Dopo tre anni di indagini sulla pittura, si è potuto stabilire che il dipinto corrisponde verosimilmente a quello posseduto da Jeronimo Sanchez Coello, fratello del pittore di corte di Filippo II. Costui lo comprò nello studio di Tiziano nel 1576 e, in seguito, lo portò prima a Madrid, poi a Siviglia, dove è attestato la prima volta nel 1586, la seconda agli inizi del Seicento. Infine nel 1725 l’opera risulta essere nella collezione di Manuel de la Riva-Agüero e Francesca Basso della Rovere, discendenti di due illustri famiglie che si trasferirono a Lima, dando origine al ramo di famiglia del primo presidente del Perù.
La «Deposizione» de la Riva-Agüero, trasmessa in linea diretta fino agli ultimi eredi, è rimasta a lungo sconosciuta agli storici dell’arte finché non è stata oggetto di uno studio approfondito, curato da Andrea Donati. Hanno espresso parere favorevole all’attribuzione illustri storici dell’arte specialisti di Tiziano e di pittura veneziana del Cinquecento: Antonio Paolucci, Paul Joannides (Emerito dell’Università di Cambridge), Ileana Chiappini di Sorio (Università Ca’ Foscari), Giorgio Tagliaferro (Università di Warwick) e Fabrizio Biferali (Scuola Normale di Pisa).
Un’occasione, dunque, preziosa quella offerta da Forte di Bard per scoprire non solo una nuova opera tizianesca, ma anche le modalità con cui si procede all’attribuzione di una tela.

Informazioni utili
«Deposizione di Gesù Cristo al Sepolcro». Forte di Bard – Valle d’Aosta. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-18.00; sabato, domenica e festivi, ore 10.00–19.00; chiuso il lunedì. Ingresso libero. Informazioni: Associazione Forte di Bard, tel. 0125.833811 | info@fortedibard.it. Sito web: www.fortedibard.it. Dall’11 marzo al 4 giugno 2017. 


giovedì 9 marzo 2017

Trento, Matteo Boato racconta le sue piazze al Muse

Fondamento della socialità e spazio pubblico aperto al dialogo e al confronto, la piazza è protagonista di molti lavori pittorici Matteo Boato. Venezia, Trento, Mantova, Cremona, Siena, Roma, Padova, Pisa, Gubbio, Milano, Firenze, Feltre e Peschiera sono le città che l’artista trentino ha impresso nelle sue tele, grazie a un sapiente uso del colore. Una quarantina di questi lavori sono in mostra, fino al 26 marzo, al Muse – Museo delle scienze di Trento.
«La piazza – racconta Boato - è un luogo dove chiunque passi lascia un frammento di vita, uno sguardo, un pensiero, un'idea. La piazza è il luogo dove la città si incontra perché ne è il cuore. Benché le persone non si conoscano e non ci sia alcuna relazione tra di loro, esiste questo punto di comune contatto, di scambio. Infatti chi passa, chi vi accede, coglie un vissuto altrui e lascia a sua volta un pezzo di sé. La piazza simboleggia il mondo fisico, reale, la terra dove siamo ed esistiamo».
Le opere esposte rappresentano i momenti salienti di una ricerca iniziata nel 1999 sui nuclei antichi, che ha dato origine alle serie pittoriche «Le case danzanti» e «Cielo di tetti». L'intento del percorso espositivo è quello di portare il visitatore a riscoprire l'anima della città, indagata attraverso case, facciate, porte e finestre. Impregnati degli umani umori, questi edifici conservano impresse nella loro materia costruttiva le storie delle persone che le hanno abitate e il senso del loro agire. L'aggettivo «danzanti» relativo alla prima serie, non ha solo connotazione gioiosa, ma si può collegare al tema delle danze macabre, affascinanti affreschi gotici nei quali l'apparire della morte nei festini di donne e cavalieri richiama alla precarietà dell'umano.
I lavori, originariamente molto colorati, hanno, con gli anni, abbracciato la bi-tri cromia, intraprendendo un racconto pittorico più intimo, attraverso l’accostamento di grafite e colore a olio materico. Il racconto grafico/pittorico si avvale di schizzi e appunti presi dal vero, in piazza, appunto. La vera fase realizzativa, però, avviene in studio e si arricchisce di un punto di vista nuovo e non sperimentato, cioè a volo d'uccello.
Il punto di vista «non visto», fantastico, dal cielo, risulta quello dominante. In molti lavori, la matericità e la conseguente presenza di ombre suggerisce questo incontro tra realtà e sogno, come se ci si trovasse in una «terra di mezzo» non ben collocabile. Colature copiose, inoltre, che solcano la superficie pittorica suggeriscono la sovrapposizione di tempi diversi, passato e presente insieme, suggeriscono il fluire inevitabile della vita e della morte, il succedersi di generazioni che una sull’altra e, nello spazio pittorico, una accanto all’altra, dialogano.
Per tutto il periodo di apertura, all’esposizione si affianca anche il progetto partecipativo «La voce della città». Come in un vero spazio cittadino, dove dal chiacchiericcio dei passanti emergono stralci di conversazioni, confronti e istantanee di vita, il Muse metterà a disposizione il proprio spazio non solo alle opere pittoriche, ma anche a quanti avranno voglia di condividere in pubblico un racconto, un messaggio, un ricordo, un tema a loro caro. Il risultato sarà una sorta di racconto corale, una miscela di esperienze ed emozioni che renderanno il museo un luogo ancora più inclusivo e coinvolgente. Al termine del progetto, tutte le narrazioni verranno registrate e pubblicate sul canale YouTube e sui social del Muse.

Informazioni utili
«Piazza» – personale di Matteo Boato. Muse – Museo delle scienze, corso del Lavoro e della Scienza, 3 – Trento. Orari: da martedì a venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato, domenica e festivi, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 0461.270311. Sito internet: www.muse.it. Fino al 26 marzo 2017.

mercoledì 8 marzo 2017

A Torino una mostra sulla calligrafia giapponese

È un viaggio alla scoperta di un’arte antica come la calligrafia quello che propone il Mao – Museo d’arte orientale di Torino con la mostra «Shodo – L’incanto del segno», realizzata con il patrocinio del Consolato generale del Giappone a Milano.
L’esposizione, allestita fino al 19 marzo, espone per la prima volta in Italia novantacinque opere di altrettanti artisti calligrafi giapponesi, oltre a sessantadue sho (calligrafie vere e proprie), a ventuno ventagli, undici opere intagliate su legno e un grande lavoro di sette metri raccolto a libro.
Il percorso di visita, realizzato in collaborazione con ViaggioinGiappone by J&W Travel, costituisce un’occasione rara per apprezzare diverse tipologie di lavori dei più autorevoli artisti giapponesi di calligrafia contemporanea.
Spicca tra i maestri in mostra Usuda Tosen insignito del premio più importante in questa forma d’arte, il «Mainichi Shodo Kensho», e considerato un luminare soprattutto per la tecnica dell’intaglio sul legno.
Accanto a lui, lungo il percorso espositivo si trovano Yanagisawa Kaishu, ideatore e disegnatore del logo del campionato mondiale di calcio Corea/Giappone del 2002, Nagai Oshu, maestro di calligrafia, di cerimonia del tè e di ikebana, e Inoue Kyoen, importante maestra di calligrafia e tra le poche donne ad aver avuto riconoscimenti a livello nazionale, nota soprattutto per la sua opera ispirata al Monte Fuji.
In Oriente come in Occidente, viviamo ormai in società dove le parole non si scrivono quasi più: si digitano. E se disgrafia o agrafia di ritorno sono in agguato per le poche lettere del nostro alfabeto, possiamo solo immaginare la dimensione del problema per lingue come il cinese e il giapponese, che richiedono di memorizzare migliaia di caratteri e di saperli scrivere tratto dopo tratto. Parlare di calligrafia nel XXI secolo assume, quindi, il valore inedito di una riscoperta, la riscoperta del piacere del segno scritto in un mondo che –se le tendenze degli ultimi decenni continueranno– rischia in un futuro non troppo distante di non saper più scrivere a mano.
In Oriente la calligrafia -shodō, via della scrittura- è considerata una forma d’arte vera e propria; anzi, è arte per eccellenza insieme a pittura e poesia, in quanto le tre forme espressive non possono essere completamente disgiunte l’una dalle altre. Tradizionalmente esse sono i mezzi attraverso cui l’artista (letterato, colto, elitario) dà voce al proprio sentire o –in maniera contraddittoria solo per le nostre menti occidentali– annulla il proprio io e lascia che la Natura trovi espressione sulla carta o sulla seta attraverso il suo cuore e la sua mano, il pennello e l’inchiostro. Il carattere viene usato in numerose occasioni per contraddistinguere la pratica di un’arte che richiede un impegno costante e che in diversi modi può assumere le caratteristiche di un percorso che conduce, tramite un perfezionamento tecnico, a un affinamento interiore dell’individuo.
Il Mao ha avviato da tempo un programma di mostre temporanee per approfondire tematiche che non sono presenti nelle esposizioni permanenti e per presentare al pubblico altri aspetti della straordinaria ricchezza e originalità delle culture orientali. In questo programma non poteva mancare un’esposizione sulla calligrafia giapponese, nella quale si dimostra come questa via della scrittura sia ancora viva e vitale in Giappone, rivisitando la tradizione in senso contemporaneo e quindi più accessibile anche a un pubblico occidentale.

Informazioni utili 
 «Shodo – L’incanto del segno». Mao - Museo d’arte orientale, via San Domenico, 11 – Torino. Orari: martedì-venerdì, ore 10.00-18.00; sabato-domenica, ore 11.00–19.00; chiuso lunedì | la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 011.4436927, e-mail mao@fondazionetorinomusei.it. Sito internet: www.maotorino.it. Fino al 19 marzo 2017.

martedì 7 marzo 2017

Milano, cinque giorni alla scoperta della Street Art

Era l'8 marzo 2007 quando il Pac - Padiglione d'arte contemporanea di Milano inaugurava «Street Art, Sweet Art. Dalla cultura hip hop alla generazione ‘pop up’», la prima mostra in Italia a consacrare ufficialmente, all’interno di un’istituzione museale pubblica, i writers e gli street artist della scena milanese e bolognese, diventando punto d’arrivo o di partenza per molti di loro.
Considerato per anni un movimento spontaneo e outsider, un semplice prodotto della sottocultura di massa, il linguaggio del graffitismo e della street art, a distanza di dieci anni da quella mostra, è entrato prepotentemente nella scena artistica ufficiale, nei musei, nelle gallerie, nelle mostre, nelle fiere d’arte.
Cinque giorni di incontri e conferenze, in programma al Pac di Milano da mercoledì 8 a domenica 12 marzo, saranno l’occasione per ripensare la street art oggi, in rapporto alla storia delle sue origini e ai cambiamenti che si sono susseguiti in questi anni, e per verificare l’attualità di una forma espressiva che si contamina con la città, la società e le sue forme del vivere. Da movimento culturale e artistico dal basso, dalla forte carica dissacrante, l’esperienza estetica del muralismo è diventata strumento di coesione sociale, di partecipazione e di riqualificazione urbana sempre più di frequente utilizzata dalle amministrazioni pubbliche e dagli enti privati per esprimere messaggi encomiastici o celebrativi.
Il programma, a cura di Chiara Canali, prenderà avvio mercoledì 8 marzo con una serata introduttiva che affronterà lo Stato della street art oggi tra illegalità, istituzionalizzazione e mercato. Durante l’incontro si parlerà anche della controversa eredità lasciata a Milano dalla mostra del 2007: il gigantesco intervento sulla facciata del Pac, realizzato dagli artisti emiliani Blu ed Ericailcane, da anni al centro di accese discussioni tra chi desidera cancellarlo e chi invece vorrebbe restaurarlo per garantirgli una durata nel tempo.
In agenda c’è, poi, nella giornata di giovedì 9 marzo un focus sul tema del restauro e della conservazione delle opere murali pubbliche, con interventi di Alessandra Collina e Antonio Rava, tra i massimi esperti di restauro della street art e del muralismo, che presenteranno analisi diagnostiche della facciata stessa del Pac ed esempi di restauri conservativi già realizzati sulle opere di Keith Haring.
La manifestazione proseguirà, quindi, nella giornata di venerdì 10 marzo con un dibattito pubblico durante il quale esperti d’arte valuteranno qual è oggi il valore simbolico, artistico e storico del murales realizzato da Blu ed Ericailcane.
Il giorno successivo è, invece, in programma una giornata di studi finalizzata a fare chiarezza su forme ed espressioni che ancora oggi vengono denominate «Street Art», documentando movimenti, stili, tendenze in rapporto con l’istituzione pubblica, il territorio, il mondo dell’impresa e il sistema dell’arte contemporanea. Verranno, inoltre, presentate le esperienze di writers e street artist protagonisti della mostra «Street Art, Sweet Art», in dialogo con curatori, critici, direttori di musei, giornalisti, committenti pubblici e privati.
Dal 9 al 10 marzo il Pac farà da scenario anche a una serie di workshop formativi diretti alle scuole superiori di Milano a cura degli artisti Airone, Orticanoodles e Pao per studiare e sperimentare il linguaggio del writing e della street art. Domenica 12 marzo, infine, sono previsti due appuntamenti: un tour a piedi per le vie di Milano e la proiezione in anteprima europea del documentario «Saving Banksy», diretto da Colin M. Day. Il film narra dei goffi tentativi di un collezionista di preservare un dipinto di Banksy dalla distruzione e dalla vendita all’asta, riflettendo così sulla legittimità, la pratica e l’etica di rimuovere la Street Art dalla strada e sulla sua mercificazione.
In contemporanea al programma ufficiale del Pac, si svolgeranno numerose a Milano altre iniziative sempre dedicate all’arte di strada. L’8 marzo, in occasione della Giornata mondiale della donna, il poeta e artista Ivan darà, per esempio, avvio, in piazza Duomo, alla performance «La grande pagina bianca e la poesia nascosta», prodotta da Artkademy: un ampio spazio di libera espressione in grado di un far dialogare differenti realtà e culture.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Blu e Ericailcane. Vista della mostra «Street Art, Sweet Art». Photo di Mario Tedeschi, 2007; [fig. 2] Ozmo. Vinyl on glass. Vista della mostra «Street Art, Sweet Art». Photo di Mario Tedeschi, 2007; [fig. 3] Blu ed Ericailcane al Pac di Milano

Informazioni utili
Street Art, Sweet Art - 10 anni dopo. Pac - Padiglione d’arte contemporanea, via Palestro, 14 - Milano. Eventi a ingresso gratuito. Sito internet: www.pacmilano.it. Dall'8 al 12 marzo 2017. 

lunedì 6 marzo 2017

Da Steve McCurry a Uliano Lucas, alla scoperta del Brescia Photo Festival

Venti fotografi e il loro «momento magico», ovvero quel particolare attimo della vita professionale nel quale hanno preso le distanze dai propri maestri e hanno inventato la loro personalissima grammatica artistica: ecco quanto racconta la mostra «Magnum. La première fois – La prima volta», allestita a Brescia, negli spazi del Museo di Santa Giulia, in occasione della prima edizione del Brescia Photo Festival.
La rassegna, visibile dal 7 marzo al 3 settembre, raccoglie i reportage di venti selezionati fotografi dell’agenzia Magnum: un insieme di centotrentuno fotografie e undici video-proiezioni, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale, attraverso i quali è possibile scoprire il momento che li ha «singolarizzati» e che ha segnato un vero e proprio giro di boa nei loro percorsi artistici.
Naturalmente non si tratta di una «parata» casuale. Ciascun artista in mostra racconta attraverso le immagini esposte, ma anche con le parole, la sua «Première fois», rivelando le ragioni che lo hanno portato a individuare esattamente quelle immagini o non altre.
C’è così chi motiva la scelta di determinate foto perché quelle hanno determinato il superamento di particolari difficoltà tecniche o logistiche o la sensazione di aver trovato la perfetta congiunzione che trasforma un’immagine di cronaca in un documento della Storia.
Il Brescia Photo Festival rende omaggio all’agenzia fondata da Robert Capa anche con la mostra «Magnum’s First».
La storia che sta dietro a questa rassegna, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale, ha dell’incredibile. Nel 2006, in una cantina di Innsbruck a qualcuno viene la voglia di capire cosa ci sia in un paio di casse ricoperte da polvere, lì abbandonate «da sempre».
Viene così alla luce un autentico tesoro.
In quelle casse, a metà degli anni Cinquanta, era state infilate le immagini di quella che fu la prima mostra del gruppo Magnum: «Gesicht der Zeit» («La faccia del tempo»), proposta in cinque città austriache tra il giugno 1955 e il febbraio 1956.
L’eccezionalità del ritrovamento riguarda innanzitutto il patrimonio di immagini originali ritornate alla luce, ma anche la possibilità, grazie alle didascalie e ai supporti anch’essi inseriti nelle casse, di rivedere la mostra esattamente così come l’hanno pensata gli stessi fotografi che di essa erano i protagonisti e come l’hanno ammirata gli austriaci all’epoca oltre sessanta anni fa.
«Magnum’s First», aperta dal 7 marzo al 3 settembre al Museo di Santa Giulia, si compone di oltre ottanta stampe vintage in bianco e nero accompagnate da otto testi di fotografia firmati da Henri Cartier-Bresson, Marc Riboud, Inge Morath, Jean Marquis, Werner Bischof, Ernst Haas, Robert Capa ed Erich Lessing. Ci sono immagini che sono entrate nella storia della fotografia, dal reportage di Robert Capa al Festival delle province basche agli scatti della Dalmazia fatti di Marc Riboud, senza dimenticare le diciassette immagini scelte da Henri Cartier-Bresson per ricordare il funerale del Mahatma Gandhi.
Tra le altre mostre molto attese del Brescia Photo Festival si segnala quella su Uliano Lucas, per la curatela di Tatiana Agliani e Renato Corsini: «Archeologia del mio vissuto», in programma dal 7 marzo al 3 settembre al Centro italiano di fotografia
Centocinquanta immagini raccontano la Milano dell'immigrazione e del boom economico, il mondo degli «altri» visto attraverso gli occhi di chi vive nelle carceri e negli ospedali psichiatrici, le contestazioni del ‘68 vissute in presa diretta. Ma non mancano in mostra nemmeno i reportage realizzati in Cina e a Sarajevo.
La prima edizione del festival fotografico bresciano presenta, poi,una imperdibile prima mondiale: «Steve McCurry. Leggere»Biba Giacchetti e, per i contributi letterari, da Roberto Cotroneo, che presenta uno scenografico allestimento di Peter Bottazzi.
La rassegna, allestita dal 7 marzo al 3 settembre negli spazi del Complesso di Santa Giulia, presenta circa settanta fotografie che ritraggono persone da tutto il mondo assorbite nell’atto intimo e universale del leggere. Dai luoghi di preghiera in Turchia alle strade dei mercati in Italia, dai rumori dell’India ai silenzi dell’Asia orientale, dall’Afghanistan all’Italia, dall’Africa agli Stati Uniti: sono svariati i Paesi che hanno toccato la più che trentennale ricerca di Steve McCurry tra i momenti di quiete durante i quale le persone si immergono nei libri, nei giornali, nelle riviste. Giovani o anziani, ricchi o poveri, religiosi o laici: per chiunque e dovunque c’è un momento per la lettura.

Per saperne di più
Brescia Photo Festival celebra i settant'anni di Magnum 
Italia, settant'anni di Magnum in cinque mostre 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Steve McCurry: Sana'a, Yemen, 1997. © 2012-2017 Steve McCurry ; [fig. 2] Steve McCurry: Afghanistan, 2002. © 2012-2017 Steve McCurry Steve McCurry: Afghanistan, 2002. © 2012-2017M; [fig. 3] Steve McCurry Erich Lessing: German Border Patrol at maneuvers, Coburg, Germany, 1953 copy: © Erich Lessing / Magnum Photos

Informazioni utili 
«Brescia Photo Festival». Sito internet: www.bresciaphotofestival.it. Dal 7 al 12 aprile 2017.