ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 19 luglio 2017

Pistoia omaggia Giovanni Pisano

L’arte antica fa il suo debutto a Palazzo Fabroni. In occasione di Pistoia capitale italiana della cultura, l’edificio trecentesco fatto costruire dalla famiglia Dondori, che dal 1990 è sede di numerose esposizione d’arte contemporanea, apre le porte al genio di Giovanni Pisano, scultore vissuto a cavallo tra Duecento e Trecento che proprio a Pistoia, negli spazi della pieve romanica di Sant’Andrea, ha lasciato una delle sue opere più importanti: il famoso pulpito marmoreo terminato nel 1301. La rassegna, nata da un’idea di Giovanni Agosti, si avvale della curatela di Roberto Bartalini e Sabina Spannocchi, che hanno selezionato poche opere, dalle quali risulta la straordinaria gamma creativa e l’inventività iconografica dell’artista, oltre al suo dominio di materie diverse come pietra e legno.
Si parte con un preludio: il rilievo con le «Stimmate di San Francesco» di Nicola Pisano, padre di Giovanni. È quanto resta di un monumento funebre risalente agli anni Settanta del Duecento, molto probabilmente eretto nella chiesa di Santa Maria del Prato, prima chiesa francescana di Pistoia, in luogo della quale fu poi costruita l’attuale chiesa di San Francesco. Il destinatario di questo sepolcro era probabilmente Filippo da Pistoia, già vescovo di Ferrara, di Firenze e arcivescovo di Ravenna.
Le altre otto stanze sono dedicate a Giovanni Pisano. Nella seconda trova spazio una «Madonna con Bambino», tondo in marmo che rappresenta uno dei vertici dell’opera del giovane scultore, proveniente dalla collegiata di Sant’Andrea e attualmente conservato al Museo di Empoli. Le forme armoniche mostrano come l’artista avesse iniziato a muovere i primi passi sotto la guida paterna, ma la torsione del volto della Vergine permette di cogliere, in fieri, quell’idea di movimento che Pisano svilupperà nell’arco della sua carriera.
Per tutto il Medioevo fu frequente la pratica di riutilizzare le opere d’arte a seconda di nuove esigenze del culto: ne è un probabile esempio l’opera lignea esposta nella terza stanza, un «Angelo in veste di diacono che ostende la testa di San Giovanni Battista». Il delicatissimo Angelo, che regge una grande e drammatica testa del Battista, presenta dissonanti aspetti stilistici: l’Angelo, in tutto corrispondente ai più noti esempi di scultura gotica francese della metà del Duecento, reggeva probabilmente in mano un oggetto più piccolo. Il volto del Battista, molto grande e dalle palesi differenze stilistiche rispetto al corpo della statua, è sicuramente attribuibile a Giovanni Pisano, all’epoca ancora giovane.
Il momento in cui l’arte di Giovanni Pisano inizia a distinguersi nettamente da quella del padre Nicola è esemplificato, in mostra, da una delle cosiddette «Ballerine», figure ideate per le ghimberghe del Battistero di Pisa. Si tratta di statue che dovevano risultare visibili a distanza e quindi erano scolpite con fare rapido e abbreviato. Queste figure femminili danzanti, che sembrano originate e tenute in vita da un soffio d’aria, offrono i primi saggi del dinamismo impetuoso e dell’espressionismo caratteristici del Pisano. «Fu solo dopo la guerra, quando le grandi figure furono tirate giù dalle nicchie e poste nel Battistero [a Pisa], che io potei vederle da vicino e fu allora che fui colpito dalla tremenda forza drammatica che avrei poi indicato come la caratteristica qualità scultorea, lo stile e la personalità di Giovanni» scrisse nel 1969 lo scultore britannico Henry Moore.
Nelle successive quattro stanze, quattro Crocifissi diversi, ciascuno testimone di una diversa maturazione artistica dello scultore. Il Crocifisso della chiesa di San Bartolomeo in Pantano, opera monumentale sconosciuta ai più, va ascritto all’ultima, straordinaria fase creativa: è molto diverso dagli altri suoi crocifissi lignei, sia per le dimensioni che per la resa formale. Privo dell’effetto di torsione e del dinamismo di altri lavori, è concepito non come oggetto processionale, ma per essere posto in relazione simbolica con la mensa dell’altare.
Il Crocifisso della Cattedrale di Siena è l’unico tra quelli processionali a conservare ancora la croce originale ed è un’opera della prima maturità dell’artista, databile al 1285-90. Il corpo presenta un netto stacco rispetto alla croce ed esprime tensione drammatica attraverso un movimento articolato: a differenza delle forme abbreviate che Giovanni Pisano prediligeva nello scolpire il marmo, quest’opera lignea si contraddistingue per un alto grado di finitezza nell’intaglio.
Il Crocifisso della pieve di Sant’Andrea mostra, invece, un’evoluzione rispetto al precedente nel movimento tormentato, che riguarda ogni fibra del corpo e che induce nello spettatore un forte sentimento di compassione. Tra i Crocifissi realizzati nella maturità da Pisano questo è il meno spigoloso, anche per la qualità del legno di noce impiegato.
Mentre l’ultimo crocifisso ad essere presentato è quello della chiesa di Santa Maria a Ripalta, conservato oggi nella pieve di Sant’Andrea, venerato per i miracoli che gli si riferirono durante la pestilenza di fine Trecento e concepito per essere portato in processione.
L’ultima opera esposta è marmorea: una sobria figura allegorica della «Giustizia», che faceva parte del monumento funebre di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, morta di peste nel 1311. L’incarico di realizzarlo fu affidato al quasi settantenne Giovanni Pisano, considerato il miglior scultore di allora in Italia. Pur anziano, Giovanni dà prova di un’ulteriore, inaspettata evoluzione del suo stile, raggiungendo con quest’opera le vette di un’espressività meno stridente, più armonica, con la dolce mestizia del volto della «Giustizia».

Informazioni utili
Omaggio a Giovanni Pisano. Palazzo Fabroni, via Sant’Andrea 18 – Pistoia. Orari: dal martedì alla domenica e festivi, lunedì 24 luglio e lunedì 14 agosto, ore 10.00-18.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 6,00 - ridotto € 3,00. Giornale della mostra: € 4,00. Informazioni: 0573 371214. Sito internet: www.pistoia17.it | www.palazzofabroni.it. Fino al 20 agosto 2017.

lunedì 17 luglio 2017

Tra «sogno e colore»: il mondo di Miró in mostra a Bologna e Recanati

«Il Miró uomo si trasforma nel Miró pittore quando prende in mano il pennello. Allora tutto quello che gli vive dentro -i sogni, i sentimenti, la gioia, il dolore- gli si riversa all'esterno, per poi esplodere sulla tela», così lo scrittore George E. Kent raccontava il ricco mondo interiore e il modus operandi del pittore, scultore e ceramista spagnolo che con la sua arte ha dato forma a una poetica unica in bilico tra sogno e colore.
A raccontare il codice artistico del genio catalano è, fino al prossimo 17 settembre, una mostra allestita a Bologna, negli spazi di Palazzo Albergati, che vede in prima linea la Fondazione Pilar e Joan Miró di Maiorca, diretta da Francisco Copado Carralero, all’interno della quale sono conservati oltre cinquemila lavori dell’artista e nella quale è possibile vedere anche il suo studio, con pennelli, tavolozze e attrezzi del mestiere rimasti lì dal giorno in cui è morto, come lui li aveva lasciati.
«Miró! Sogno e colore» -questo il titolo della rassegna bolognese, che vede la curatela scientifica di Pilar Baos Rodríguez- raccoglie, nello specifico, centotrenta opere, tra cui cento olii di sorprendente bellezza e di grande formato, che ripercorrono il rapporto dell’artista con la variopinta e fascinosa isola di Maiorca, dove egli visse dal 1956 fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1983.
Qui, sulle isole Baleari, nel paese natale della madre Dolores e della moglie Pilar e nella grande tenuta di campagna di Son Boter, Joan Mirò (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983) realizza un sogno a lungo agognato: un «grandissimo studio», fatto costruire dall'amico architetto Josep Lluis Sert, dove -per usare le sue stesse parole- «disporre di spazio sufficiente per molte tele», «cimentarsi nella scultura, nella ceramica, nella stampa» e, «per quanto possibile, andare oltre la pittura da cavalletto».
In questo bianco edificio, inondato di luce e immerso nel verde e nella pace della natura, l’artista reinventa il suo stile e il suo alfabeto espressivo si fa via via più anticonformista e selvaggio, senza perdere quella vena contemplativa, giocosa, magica, onirica e apparentemente ingenua, fatta di segni ritmici e fantastici, di grafismi stilizzati e fanciulleschi, di macchie pure e squillanti, che lo ha fatto conoscere nel mondo. Ne nasce un canto libero -da «usignolo della pittura moderna», per usare le parole di Carlo Argan-, estraneo ai dettami dei principali movimenti pittorici del tempo, seppure inserito nell’ambito del Surrealismo e con un occhio rivolto, negli ultimi anni, all’esperienza dell’Action painting e dell’Espressionismo astratto americano.
Nei trent’anni trascorsi a Maiorca, Joan Mirò si dedica ai suoi temi prediletti, dalle donne agli uccelli, da code d’aquilone a paesaggi astrali. Con il passare del tempo, il pennello sgocciola; il gesto si fa ampio e istintivo, forse brutale. Nascono lavori, quelli degli ultimi anni, fatti con le dita, stendendo il colore con i pugni e spalmando gli impasti su compensato, cartone e materiali di riciclo.
L’insaziabile sperimentalismo porta l’artista a confrontarsi con la sua opera anche attraverso l’intero corpo: cammina sulle sue tele e vi si stende sopra, sporcandosi «tutto –lo scrive egli stesso nel 1974- di pittura, faccia, capelli».
In alcuni casi le squillanti macchie di blu, rosso, giallo e verde, che rendono riconoscibile a tutti l’arte di Joan Mirò, lasciano spazio a una tavolozza cromatica ridotta al bianco e nero, a una figurazione che evoca la predilezione dell’artista sia per l’arte rupestre sia per la calligrafia orientale, conosciuta direttamente nei suoi due viaggi in Giappone, avvenuti nel 1966 e nel 1969.
Nel suo studio di Maiorca, l’artista si confronta anche con la ceramica, la scultura e i libri d’artista. Crea collage e «dipinti-oggetto», che traggono ispirazione da ciò che raccoglie sull’isola e colleziona, interessato non tanto all’aspetto estetico o formale quanto all’energia che gli trasmette ciascun materiale.
Tra le opere esposte a Bologna, allineate in base a un percorso cronologico e tematico allo stesso tempo, si possono ammirare capolavori come «Femme au clair de lune» (1966), «Oiseaux» (1973) e «Femme dans la rue» (1973), oltre a schizzi, tra cui quello per la decorazione murale per la Harkness Commons-Harvard University.
Una delle stanze al primo piano è allestita per un’esperienza immersiva: un gioco di emozioni da vivere sdraiandosi sul divano contemplando le proiezioni delle opere sul soffitto. La visione è accompagnata da musica, che permette all’osservatore di stabilire una connessione molto intima con le opere dell’artista, per conoscere meglio le creazione di un esploratore di sogni e racconti fantastici che di sé diceva: «lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l'ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado».
A Joan Mirò e al suo profondo e giocoso legame con le parole e la poesia è dedicata anche la mostra in programma a Recanati, negli spazi di Villa Colloredo Mels, fino al prossimo 5 novembre. L’esposizione, corredata da un catalogo con testi di Sebastiano Guerrera, è incentrata sulle litografie realizzate dall’artista catalano nel 1971 per il libro «Le lezard aux plumes d’or».
La genesi del libro fu piuttosto travagliata. Già nel 1967, l’artista aveva realizzato diciotto litografie a colori che illustravano il poemetto per conto dell’editore Louis Broder. Ma le stampe risultarono lacunose nella resa dei colori a causa, pare, di un difetto nella fabbricazione della carta e l’intera tiratura fu distrutta. Poiché nel frattempo le matrici erano state annullate non fu possibile ristamparle e il pittore catalano dovette attendere alla realizzazione di nuove lastre, che furono stampate da Mourlot e pubblicate, sempre da Broder, solo nel 1971.
Le nuove litografie «diventano -scrive Sebastiano Guerrera- il luogo dove la scrittura-segno si determina e si trasfigura, in tutta la sua concretezza lineare, nell’immagine-segno», dando vita anche a «una baraonda cromatica in cui le immagini zampillano» con una profusione che non conosce limiti. «È evidente -aggiunge lo studioso che ci troviamo in un contesto fiabesco. Perché Miró fu sempre un pittore di favole ed è palese la sua propensione ad un tipo di poesia che, pur mettendo in luce echi degli automatismi surrealisti e affinità col nonsense dadaista, si fa testimone di relazioni animistiche e magiche tra uomo e natura, di un mondo in cui gli animali -ma anche le cose inanimate- aiutano il mondo a rinascere: perciò il genere di Mirò, come scriveva Argan, «è la favola, che si richiama e rivolge pur sempre ad una infanzia, all’eterna condizione di infanzia dell’uomo».


Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Joan Miró, Untitled, 1978. Olio su tela, 92x73 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 2]  Joan Miró, Maqueta para Gaudí X, 1975. Gouache, ink, pencil, pastel and collage on paper, 30,2x25,2 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 3] Joan Miró, Untitled, 1950. Ceramic. Stoneware and porcelain, 38,5x29x13 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 4  e 5] Immagini tratte dal volume  «Le lezard aux plumes d’or».

Informazioni utili 
«Miró! Sogno e colore». Palazzo Albergati, via Saragozza, 28 - Bologna. Orari: tutti i  giorni, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00; ridotto gruppi € 10,00, ridotto universitari € 9,00, ridotto scuole da € 5,00 a € 3,00. Informazioni: tel. 051.030141. Sito internet: www.palazzoalbergati.com. Fino al 17 settembre 2017 

«Miró. Le lezard aux plumes d’or». Villa Colloredo Mels – Recanati. Orari: fino al 1° settembre - tutti giorni, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00; tutti venerdì fino alle ore 23.00; dal 1° settembre - dal martedì alla domenica, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00. Ingresso: intero € 10,00; ridotto € 8,00 (gruppi minimo 15 persone, possessori di tessera FAI, Touring Club, Italia Nostra, Coop, Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Bordest, Estense); ridotto € 5,00 (gruppi accompagnati da guida turistica abilitata, gruppi scolastici da 15 a 25 studenti); omaggio minori fino a 19 anni (singoli), soci Icom, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e la persona che li accompagna; con il biglietto della mostra si accede al circuito museale di Recanati (Musei Civici di Villa Colloredo Mels, Museo dell’Emigrazione Marchigiana, Museo Beniamino Gigli, Torre del Borgo). Informazioni e prenotazioni: Sistema Museo - Call center, tel. 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 17.00, il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00, escluso i festivi); callcenter@sistemamuseo.it. Sito internet: www.infinitorecanati.it. Fino al 1° ottobre 2017. Prorogata al 5 novembre 2017.

sabato 15 luglio 2017

«La terra inquieta», quando l’arte racconta il fenomeno migratorio

È una mostra che consegna all’arte e a una polifonia di voci la responsabilità di raccontare la storia e il nostro presente, a partire da un tema di scottante attualità quale quello delle migrazioni e della crisi dei rifugiati, «La terra inquieta», progetto espositivo curato da Massimiliano Gioni per la Triennale di Milano, con la Fondazione Nicola Trussardi, che porta fino al prossimo 20 agosto, nelle sale del museo di via Alemagna, le opere di sessantacinque artisti internazionali provenienti da quaranta Paesi, tra i quali Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia.
Installazioni, video, sculture, dipinti, immagini di reportage, assemblaggi di reperti, materiali storici e oggetti di cultura materiale tratteggiano un ritratto collettivo capace di restituire voce e dignità alle moltitudini senza volto del nostro tempo, gettando luce anche sul ruolo politico e sociale, nell’accezione più nobile del termine, che l’arte ha nel raccontare i cambiamenti e le trasformazioni del nostro breve e instabile scorcio di secolo, il presente come territorio in fibrillazione e sempre più globalizzato e interconnesso.
La rassegna milanese, che prende a prestito il titolo da una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Édouard Glissant, ricostruisce così, all’interno della galleria al piano terra della Triennale per poi proseguire al piano superiore, l’odissea dei migranti e le loro storie individuali e collettive grazie a un percorso che si snoda attraverso una serie di nuclei geografici e tematici: il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide.
Seguendo le trasformazioni dell’economia e le relazioni pericolose che si intrecciano tra corpi, merci, capitali e rotte di scambio e commercio nell’epoca della globalizzazione, «La Terra Inquieta» si configura, dunque, -per usare le parole degli organizzatori- come il «racconto di uomini che attraversano confini e –assai più tristemente– la storia di confini che attraversano gli uomini».
Al centro dell’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo bilingue edito da Electa, è posta l’installazione-video «The Mapping Journey Project» dell’artista marocchina Bouchra Khalili, che raccoglie le storie di migranti che hanno attraversato interi continenti alla ricerca di un varco nella fortezza Europa, mentre con un pennarello tracciano su una cartina il percorso fatto, nascondendo sotto la semplicità di quel gesto un’odissea drammatica.

Dalla Panda stracarica di oggetti e senso di non appartenenza di Manaf Halbouni, che ha lasciato Damasco per sfuggire al servizio militare e che ora non può più fare rientro in patria, a una bellissima «Mappa» di quelle che Alighiero Boetti faceva ricamare alle artigiani di Kabul, il visitatore si ritrova davanti a lavori raccontati da artisti che conoscono e descrivono in prima persona il mondo da cui provengono i migranti e per questo ne parlano con il senso di responsabilità di chi vuole restituire la complessità di un evento drammatico senza incorrere nelle consuete banalizzazioni e nei sentimentalismi ai quali siamo abituati dai tradizionali canali di informazione. «Il risultato -scrive Massimiliano Gioni- sono opere d’arte in cui i codici tradizionali del giornalismo e della narrazione documentaria si accompagnano ad approcci più vicini a quelli della letteratura, dell’autobiografia e della finzione. È precisamente in questo scontro tra narrazioni discordanti che l’opera di molti artisti cerca di inserire un coefficiente di dubbio e di critica al linguaggio delle immagini e dei mezzi di comunicazione di massa in particolare». Nascono così racconti, sospesi tra l’affresco storico e il diario in presa diretta, come quelli di John Akomfrah, Yto Barrada, Isaac Julien, Yasmine Kabir o Steve McQueen. Queste e altre opere esposte aprono una riflessione sul diritto all’immagine che è un altro dei temi fondamentali affrontati dai molti artisti contemporanei, il cui lavoro si confronta con una rappresentazione delle migrazioni globali e della crisi dei rifugiati molto spesso contraddistinta dalla voracità e dalla velocità comunicativa dei media.
Lo sguardo obliquo delle fotografie di Yto Barrada, le elisioni di volti e dettagli nei video di Mounira Al Solh o le trasformazioni grottesche nei disegni e nelle animazioni di Rokni Haerizadeh, sono solo alcuni degli esempi più lampanti con cui questi artisti della crisi globale rifiutano di soccombere all’estetizzazione della miseria e cercano piuttosto di restituire dignità ai migranti, ritraendoli come soggetti storici, capaci di compiere scelte e decisioni, o proteggendoli dall’eccesso di visibilità a cui sono sottoposti dai mezzi di comunicazione di massa.
Da Kader Attia con i suoi abiti sparsi sul pavimento ad Adel Abdessemed con il suo barcone pieno di immondizia, da Mona Hatoum a Meschac Gabaacquista con le sue tre lanterne affiancate a una pila di coperte grigie, da El Anatsui a Hassan Sharif, sono molti gli artisti che raccontano speranze, manchevolezze e crisi associate alla cosiddetta globalizzazione in un esercizio che spesso è di empatia e di dialogo tra culture.
Conclude l’ampia mostra un video di Steve Mc Queen girato in 35 millimetri che riprende, dall’alto di un elicottero, un'inconsueta immagine della Statua della Liberà. È proprio a Ellis Island, davanti a questo monumento simbolo, che all’inizio del ventesimo secolo le fotografie di Lewis Hine e di Augustus Sherman documentavano un’esperienza della migrazione dura, ma comunque molto diversa da quella contemporanea. Eppure i sogni e le paure non erano gli stessi? E sui volti dei migranti di ieri e di oggi non vediamo le stesse espressioni confuse e spaventate di fronte a una terra promessa, che spesso si rivela, invece, matrigna? Quasi a dire che la storia si ripete ciclicamente e che non sempre impariamo dal nostro passato.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3 e 5] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Gianluca di Ioia; [fig. 4] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Marco De Scalzi

Informazioni utili
«La terra inquieta». La Triennale di Milano, via Alemagna, 6 – Milano. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 20.30; ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,50, ridotto gruppi € 5,50, ridotto scuole € 4,50. Informazioni: tel. 02.724341 o info@triennale.org. Sito internet: www.triennale.org. Fino al 20 agosto 2017.

giovedì 13 luglio 2017

Pintoricchio e «il mistero svelato di Giulia Farnese»

«Ritrasse sopra la porta d'una camera la Signora Giulia Farnese nel volto d'una nostra Donna, e nel medesimo quadro la testa d'esso Papa Alessandro che l'adora»: una affermazione di poco, o nessun interesse, per la storia dell’arte se non per il fatto che a metterla nero su bianco fu, nel 1550 e ancora nel 1568, Giorgio Vasari, all'interno della biografia del Pintoricchio, contenuta nell’opera «Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori».
L’affermazione del famoso biografo aretino elevava a rango di verità storica un gossip del tempo, riportato per scritto anche da François Rabelais e Stefano Infessura, secondo cui il controverso papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia (1431-1503), nutriva una vera e propria predilezione per la raffinata, giovane e bellissima Giulia Farnese (1475-1524), ironicamente nota alla corte pontificia come «sponsa Christi», tanto da farla ritrarre all’interno dei suoi appartamenti in Vaticano, nelle fattezze della Vergine, con lui adorante, in ginocchio, ai suoi piedi.
Ma quella riportata da Giorgio Vasari era solo una diceria malevola o una verità storica? E la Madonna raffigurata, bellissima ed eterea, chi era? Era veramente la concubina del papa? E che fine hanno fatto i frammenti dell’affresco, fatto staccare, centocinquanta anni dopo la sua realizzazione, da papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi (1655-1667), e smembrato in tre parti, con l’intento di dimenticare quella vicenda, frutto visibile di un pontificato, quello di Rodrigo Borgia, che aveva assecondato intrecci dinastici, veleni di palazzo, calunnie e gelosie? A queste domande prova a rispondere, dopo secoli di ricerche e di indagini scientifiche, la mostra «Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese», allestita fino al 10 settembre ai Musei capitolini di Roma, per la curatela di Cristina Acidini, Francesco Buranelli, Claudia La Malfa e Claudio Strinati, con la collaborazione di Franco Ivan Nucciarelli e con la supervisione di Francesco Buranelli.
L’esposizione, corredata da un interessante catalogo della Gangemi editore, vuole introdurre il visitatore in quello stupefacente periodo della cultura romana di fine Quattrocento e nel grande fermento umanistico che lo caratterizza, tutto rivolto alla riscoperta della memoria dell'antica Roma, sulla quale la Chiesa, quasi una sorta di «nuova Atene», fonda il proprio «rinascimento» politico e religioso.
Sono gli anni in cui l'arte della stampa, da poco inventata da Johannes Gutenberg, fiorisce e molti editori aprono le proprie stamperie in città, a partire da Sweynheym, Pannatz e Eucharius Silber che hanno una sede a Campo de’ Fiori. Vengono pubblicate le opere dei grandi retori latini, Cicerone e Quintiliano, dei filosofi greci, dei poeti e dei drammaturghi antichi. I monumenti della classicità sono ammirati da pellegrini e visitatori e i cortili dei grandi palazzi dei membri della Curia e del mondo laico si riempiono di statue, rilievi e iscrizioni antiche. Alessandro VI è amante del lusso, del bello e dell’arte al pari dei suoi contemporanei: tra l’autunno del 1492 e la fine del 1494, chiama a Roma uno degli artisti più estrosi del tempo, Bernardino di Betto, detto il Pintoricchio (c.1454-1513), per fargli decorare il suo appartamento nel Palazzo apostolico della Basilica di San Pietro, sei grandi stanze nel corpo quattrocentesco fatto edificare da papa Niccolò V, cui è stata aggiunta una torre.
Tra pitture ricche di contenuti umanistici e teologici, che evocano in maniera sapiente l’arte romana antica e che dimostrano l’interesse del pittore per l’ornato prezioso, si trovava l’opera citata dal Vasari nelle sue «Vite». Quel dipinto, menzionato dall'artista e scrittore aretino in modo fuggevole, e solo per raccontare l’adorazione di papa Borgia per la «Signora Giulia» -una passione adulterina per altro condannata pubblicamente da Girolamo Savonarola- si impregnò, con il tempo, di storie e significati tali da offuscare, alla sensibilità del tempo, il valore artistico nella sua composizione d’insieme.
Oggi sappiamo che, quasi sicuramente, Giorgio Vasari non ebbe mai accesso agli appartamenti papali e che per descriverli si servì prevalentemente di informazioni di seconda mano e delle incisioni a stampa che (soprattutto per le Stanze di Raffaello) iniziarono ben presto a far scuola di quelle meraviglie.
La storiografia ci dice anche che, come spesso accade, il «venticello della calunnia» che qualcuno alitò in maniera impalpabile, ma efficace sulla decorazione dell’appartamento Borgia si rivelò vincente: papa Pio V (Antonio Ghislieri, 1566-1572) fece nascondere l’opera da una doppia pesante tappezzeria da parati e da un nuovo dipinto della «Madonna del Popolo». Alessandro VII, con la complicità del cardinale nipote Flavio I Chigi, lo disperse in più frammenti: le due immagini della Madonna e del Bambino, ormai due dipinti a sé stanti con cornici volutamente differenti e circa duecento numeri di distanza nell’inventariazione, entrarono a far parte della collezione privata dei Chigi, mentre il ritratto di Alessandro VI scomparve definitivamente. L’esatta composizione del dipinto, tuttavia, non andò perduta grazie a una copia realizzata nel 1612 dal pittore Pietro Fachetti.
Oggi, a oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere, è possibile presentare per la prima volta vicini i due frammenti: quello del volto della Madonna, mai esposto fino a ora, insieme a quello ben noto del «Bambino Gesù delle mani», conservato all’interno della collezione della Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia.
Ma la mostra offre anche l’occasione di rivedere la «leggenda» sulla presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia, destituendo di ogni fondamento una delle convinzioni più durevoli della storia dell’arte moderna. Le sembianze della Vergine risultano, infatti, vicinissime al più classico tipo dei volti di Madonna del Pintoricchio: un viso dolcemente allungato, senza nessuna ricerca ritrattistica, pieno di amorevole concentrazione e assorto compiacimento nei confronti della scena alla quale sta assistendo. Ne da prova il confronto fra l’opera al centro della mostra e altre due tele del pittore entrambe esposte a Roma: la «Madonna della Pace» di San Severino Marche e la «Madonna delle Febbri» di Valencia, alle quali sono accostate un’altra trentina di capolavori del Rinascimento e sette antiche sculture di età romana, provenienti dalle raccolte capitoline, che documentano quanto l’artista abbia attinto all’antico.
Il volto ritrovato della «Madonna» del Pintoricchio, messo accanto al «Bambino delle mani», ci permette, dunque, di ricomporre parzialmente un’opera di forte valenza iconografica ed evidente significato teologico, riconoscendovi, invece, una rarissima iconografia di investitura divina del neoeletto pontefice. Una lettura, questa, «che spazza definitivamente il campo da tutte le precedenti interpretazioni decisamente più “terrene”, -dichiara Francesco Buranelli- che ne hanno al tempo stesso tramandato la memoria e provocato la distruzione e che restituisce alla Chiesa e al mondo un’opera somma che ha già pagato un caro prezzo per la miopia del genere umano».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Bambin Gesù delle mani, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 48,6 x 33,5 x 6,5 circa. Perugia, Fondazione Guglielmo Giordano; [fig. 2] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 39,5 x 28, 5 x 5. Collezione privata; [fig. 3] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna della Melagrana, c. 1508-1509. Tempera su tavola, cm 54.5 x 41. Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. 387; [fig. 4] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna delle Febbri, c. 1497. Olio su tavola, cm 158 x 77,3. Valencia, Museo de Bellas Artes de Valencia (colleción Real Academia de Bellas Artes de San Carlos), inv. 273

Informazioni utili 
«Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese». Musei Capitolini - Palazzo Caffarelli, piazza del Campidoglio – Roma. Orari: tutti i giorni, ore 9.30-19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso (integrato per il museo e comprensivo di tassa di turismo): intero € 15,00, ridotto € 13,00. Catalogo: Gangemi editore, Roma. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni, ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it. Fino al 10 settembre 2017 

martedì 11 luglio 2017

La 5 Continents Editions racconta i capolavori «rari e preziosi» del Mann di Napoli

Tra le tante iniziative con cui il Mann di Napoli rivela al pubblico i capolavori del suo immenso patrimonio -talora esposti e altre volte custoditi nei ricchissimi depositi– vi è dal 2016 anche una nuova e originale collana di eleganti volumetti intitolata «Oggetti rari e preziosi al Museo archeologico nazionale di Napoli», edita con la casa editrice 5 Continents Editions di Milano. I testi di Valeria Sampaolo, conservatore capo delle collezioni del museo napoletano, raccontano insieme con le straordinarie fotografie di Luigi Spina, i più importanti capolavori conservati nelle sale dell’istituzione partenopea, offrendo -racconta il direttore Paolo Giulierini- «un’esplorazione assolutamente impressionante e capace di sorprendere anche chi conosce bene questi oggetti».
Ad aprire la raccolta è stato il libricino «Memoria del vaso blu», dedicato a quell’unicum scoperto nel 1837 a Pompei, in una nicchia della piccola tomba a camera prospiciente la Villa delle Colonne a mosaico, e realizzato come se si trattasse di un cammeo con l’incisione dello strato vetroso bianco sovrapposto a disegnare tralci d’uva e scene di vendemmia, importante momento della vita dei campi raffigurato più volte nel corso dei secoli dagli antichi artigiani sulla ceramica, in affreschi, in mosaici o nel marmo. Ma se nella maggior parte delle rappresentazioni di vendemmia è presente il senso della fatica, qui c’è invece un’atmosfera giocosa, i piccoli personaggi sembrano divertirsi nel suonare i vari strumenti e sembrano muoversi con leggeri passi di danza. Oltre ad essi e, ovviamente, ai tralci di vite, ecco maschere su foglie d’acanto, rami di quercia, ghirlande d’edera, uccelli, spighe di grano, capsule di papaveri, mele cotogne, rami di alloro, melograni e tanti altri frutti dell’estate e dell’autunno, contrapposti e mescolati nell’evocazione di una natura feconda e generosa. La scelta delle essenze vegetali non è casuale: ognuna di esse è carica di significati religiosi e simbolici. Il rimando a Dioniso si coglie in molti elementi, ma tanti altri messaggi allusivi sono presenti nelle scene che decorano questo vaso che attraverso la sua decorazione comunicava un messaggio di rinascita e sopravvivenza dopo la morte.
A questo volume si sono ora aggiunti due nuovi titoli: «Amazzonomachia» e «Centauri».
Il primo libro presenta il celebre cratere a volute con la scena di combattimento tra greci e amazzoni scoperto a Ruvo di Puglia da un canonico e da un farmacista, appassionati di antichità, nel 1838 e ora in attesa di essere esposto nella sezione del Mann sulla Magna Grecia che si inaugurerà nel 2018.
Questo reperto si distingue, tra i tanti vasi decorati a figure rosse, per le grandi dimensioni dei personaggi che combattendo in concitati duelli si dispongono sull’intera superficie in una sequenza che sembra derivare dai fregi o dai frontoni in pietra dei templi.
Autore della decorazione è il Pittore dei Niobidi, una delle figure più rappresentative della ceramografa attica del secondo quarto del V secolo a.C., che certamente si ispirava alla grande pittura di Mikon o di Polignoto, per noi del tutto perduta e della quale possiamo avere un’idea proprio attraverso le sue opere nelle quali anche la posa e le espressioni dei personaggi contribuiscono a dare drammatica vitalità alle scene.
La varietà dei particolari dell’abbigliamento e delle armature delle amazzoni e dei greci, dei loro volti e dei loro corpi, viene messa in primo piano dagli oltre settanta scatti a colori di Luigi Spina attraverso i quali si notano dettagli che sfuggono alla visione diretta dell’opera.
«Centauri» mette, invece, in luce la coppia di schiphi d’argento rinvenuta anch’essa a Pompei, assieme ad altri dodici oggetti dello stesso metallo, nella casa che sarebbe stata chiamata «dell’argenteria». Queste coppe sono gli esemplari meglio conservati tra i recipienti lavorati nella stessa tecnica a sbalzo custoditi nel Museo. Per la loro fragilità –a lamina d’argento è sensibile alle variazioni di temperatura tra giorno e notte– sono al momento custoditi in ambiente climatizzato in attesa di idonei espositori.
Quelli che la 5 Continents Editions dedica ai capolavori del Mann sono, dunque, libri rivelatori, libri che ci portano dentro l’opera, tra i decori realizzati da antichi artigiani e dai primi artisti, nelle pieghe della materia e del tempo.
Gli scatti di Luigi Spina, i suoi primi piani e gli ingrandimenti, mettono in luce dettagli che sfuggono alla visione diretta di questi oggetti, «rari e preziosi», e ci introducono in un universo fatto di mille particolari: nell’abbigliamento e nelle armature delle amazzoni e dei greci, nei chiaroscuri dell’argento sbalzato tra centuari e amorini, nei simboli di rinascita e di morte inseriti con perizia nella decorazione del «Vaso blu» (metà del I secolo d.C.) che - per buone condizioni di conservazione e per la rarità della tecnica di esecuzione - è uno dei pezzi di maggior pregio del Museo di Napoli.

Informazioni utili
5 Continents Editions s.r.l., Piazza Caiazzo, 1 - 20124 Milano | tel. 02.33603276 | info@fivecontinentseditions.com.