sabato 30 marzo 2019

Da Botticelli a Della Robbia, Montevarchi e i suoi tesori

Figure dall'eleganza senza tempo, velate da un delicato senso di malinconia, scene oniriche illuminate da bagliori d’oro, ambientazioni dall'armonioso equilibrio compositivo e dalla sensibilità intima, quasi domestica: c’è lo stile, personalissimo, di Sandro Botticelli, (Firenze 1445 – 1510), uno dei maggiori esponenti del Rinascimento fiorentino, nella tela «Incoronazione della Vergine e Santi», grande protagonista della mostra «Botticelli, Della Robbia, Cigoli. Montevarchi alla riscoperta del suo patrimonio artistico», allestita negli spazi del recentemente restaurato Palazzo del Podestà di Montevarchi.
Ideata da Luca Canonici, direttore artistico del Museo di arte sacra di San Lorenzo, e curata da Bruno Santi, Lucia Bencistà e Felicia Rotundo, l’esposizione mette insieme per la prima volta dieci importanti opere d’arte -nove dipinti e una statua in terracotta- realizzate nella cittadina tra la fine del Quattrocento e gli ultimi decenni del Settecento, e in seguito allontanate, per circostanze diverse, dai luoghi per i quali erano state eseguite.
La rassegna, allestita fino al prossimo 28 aprile, prova così a ridisegnare una mappatura delle grandi committenze per gli enti religiosi di Montevarchi, quali il convento francescano di San Ludovico, il monastero benedettino di San Michele Arcangelo alla Ginestra, il monastero agostiniano di Santa Maria del Sacro Latte, la chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Cennano e la Collegiata di San Lorenzo.
L’ «Incoronazione della Vergine e Santi» di Sandro Botticelli -collocata al secondo piano del Palazzo del Podestà, a chiusura del percorso espositivo- torna a casa dopo due secoli. Era, infatti, il 1810 quando la tela, a seguito della soppressione napoleonica dei beni ecclesiastici, venne trafugata dalla chiesa di San Ludovico (ora Sant’Andrea a Cennano) per essere portata nei depositi fiorentini in piazza San Marco, giungendo, poi, nella chiesa di San Jacopo di Ripoli e finendo il suo viaggio, nel 1823, alla Villa La Quiete a Firenze, dove tuttora è conservata.
L’olio su tavola, di grandi dimensioni e presumibilmente realizzato tra il 1498 e il 1508, è diviso in due livelli, uno terreno e uno celeste, da un piano di nuvole. «Nella parte inferiore, in un prato fiorito, -scrive Maria Eletta Benedetti in catalogo- un’assemblea di Santi (Antonio da Padova, Barnaba, Filippo apostolo, Ludovico di Tolosa, Maria Maddalena, Giovanni Battista, Caterina d’Alessandria, Pietro, Bernardino, Francesco, Giacomo Maggiore e Sebastiano) rivolge il proprio sguardo al cielo, dove la Vergine viene incoronata da Dio Padre mentre un affollato coro di angeli musicanti celebra con antichi strumenti musicali (un organo portativo, un liuto, un salterio, una lira, un flauto, dei cimbali, un’arpa e un tamburello) il momento solenne, inondato di una luce dorata che filtra fino al cielo terrestre».
La ricchezza e la preziosità dell’abito di San Ludovico di Tolosa, la dolcezza lineare dei volti di Santa Caterina d’Alessandria e della Vergine sono caratteristiche riconducibili alla pittura matura del Botticelli. Ma insieme al maestro è ragionevole pensare che la tavola vide all’opera anche gli allievi della sua bottega. I tratti dei santi in seconda fila appaiono, infatti, impuri e grossolani, così come -racconta ancora Maria Elena Benedetti - «il terzetto di angeli cantatori in alto a sinistra sembra essere realizzato per la delicatezza del tratto, per la resa dei volti e per l’intensità espressiva, da un’altra mano rispetto a quella degli angeli eseguiti sommariamente nella parte destra».
Un altro capolavoro presente in mostra, al primo piano, è l’imponente «Miracolo della mula» di Giovanni Martinelli (Montevarchi 1600 – Firenze 1659), uno degli artisti più affascinanti ed enigmatici della pittura del Seicento, anche se, allo stesso tempo, tra i meno conosciuti.
Questo dipinto -commissionato per la Chiesa di San Ludovico e oggi custodito nella chiesa di San Francesco a Pescia- è stato realizzato nel 1632 probabilmente proprio a Montevarchi con il pittore «suggestionato -spiega Luca Canonici in catalogo- da ciò che il territorio gli suggeriva».
Sullo stesso piano è esposta anche una tela ritrovata da Lucia Bencistà proprio in occasione della mostra a Montevarchi: «Santi francescani in adorazione della Vergine» di Giacomo Tais (Trento 1685 - Pescia 1750).
Oggi conservato nel deposito del Museo del cenacolo di Andrea del Sarto a Firenze, quest’olio su tela, realizzato per la chiesa di San Ludovico nel 1739, è stato recentemente restaurato da Stefania Bracci, il cui lavoro ha restituito al dipinto la sua cromia accesa e luminosa, portando alla ribalta una tavolozza incentrata non solo su toni grigi e bruni, ma anche sulle tonalità del rosso, del giallo e del blu.
«L’opera -racconta Lucia Bencistà in catalogo- è dominata nel registro superiore da due angeli circondati da cherubini e puttini festanti e, più in basso, da quattro santi francescani che attorniano il vano centrale, in atteggiamento di venerazione». I santi sono Margherita da Cortona, Bonaventura da Bagnoregio, autore della «Legenda Maior» (la prima biografia ufficiale di San Francesco), San Pietro d’Alcantara e San Pasquale Baylon, «la cui vita -racconta ancora Lucia Bencistà- fu caratterizzata dall’amore per l’Eucaristia rappresentata nel calice poggiato sulla nuvoletta soprastante».
Sempre dal capoluogo fiorentino, o meglio dal Museo provinciale dei cappuccini toscani, provengono il «San Fedele da Sigmaringen in adorazione della Vergine col Bambino» di Fra’ Felice da Sambuca (Sambuca 1734 – Palermo 1805) e il «San Francesco» di Violante Siries Cerroti (Firenze 1710 - 1783), dipinto nel 1765 per l’altare del santo nella chiesa di San Ludovico.
Nella mostra, al piano terra, è possibile ammirare un altro capolavoro recuperato: un bellissimo dipinto del pittore Jacopo Vignali (Pratovecchio 1592 - Firenze 1664) per il convento dei frati cappuccini di Montevarchi, oggi conservato a Firenze, che raffigura il «Beato Felice da Cantalice che riceve il Bambino Gesù dalle mani della Vergine».
Dalla chiesa del Monastero benedettino di San Michele Arcangelo alla Ginestra a Montevarchi provengono, invece, altre due opere di primissimo piano, entrambe conservate al Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Arezzo: la «Resurrezione di Cristo» di Ludovico Cardi detto il Cigoli (Cigoli di San Miniato 1559 – Roma 1613), firmata dal pittore e datata 1591, e l’intima «Natività della Vergine» di Santi di Tito (Firenze 1536 - 1603).
La mostra presenta, inoltre, altre interessanti sorprese come «Il miracolo di Sant’Antonio taumaturgo» di Mattia Bolognini (Montevarchi 1605 - Siena 1667), pittore nato a Montevarchi al pari del Martinelli, che dipinse quest’opera, oggi nella raccolta di arte sacra della chiesa di San Clemente di Pelago (Firenze), nel 1647 per l’ex Monastero di Santa Maria del Latte.
La mostra è, infine, arricchita da una terracotta policroma invetriata raffigurante «Sant’Antonio Abate», attribuita a Luca della Robbia il giovane e proveniente dall’antica Compagnia di Sant’Antonio abate.
Un percorso espositivo, dunque, di grande fascino quello visitabile a Montevarchi, che permette di riannodare i fili ormai recisi di una storia in cui si intrecciano le decisioni di committenze illuminate e il lavoro di artisti dall'abile mano. Una storia grazie alla quale, nell’Ottocento, la cittadina toscana -ricorda Lucia Bencistà in catalogo- venne inserita tra le «Cento città d’Italia» nell'impresa editoriale del «Secolo» di Milano, che per la prima volta diffondeva tra gli italiani la conoscenza e la bellezza del patrimonio culturale della penisola.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Sandro Botticelli e bottega (Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, Firenze 1445 - 1510), «Incoronazione della Vergine e Santi», 1500-1508. Particolare. Olio su tavola di pioppo bianco, cm 350x159. Firenze, Villa La Quiete Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Ludovico; [fig. 3] Jacopo Vignali (Pratovecchio 1592 - Firenze 1664), «Il beato Felice da Cantalice riceve il Bambino dalle mani della Madonna». Olio su tela, cm 200x142. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Lorenzo dei Padri Cappuccini; [fig. 4] Giovanni Martinelli (Montevarchi 1600 - 1659), «Il miracolo della mula», 1632. Olio su tela, cm 250x200. Pescia (Pistoia), Chiesa di San Francesco Iscrizioni: Io.Es Martinellius Floren. Fecit MDCXXXII; [fig. 5] Fra’ Felice da Sambuca (Sambuca 1734 – Palermo 1805), «San Felice da Sigmaringen ed altri santi cappuccini in venerazione della Madonna col Bambino», 1777 ca. Olio su tela, cm 202x145. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Lorenzo dei Padri Cappuccini; [fig. 6] Santi di Tito (Firenze 1536 - 1603), «Natività della Vergine». Olio su tavola, cm 129x138. Arezzo, Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Michele Arcangelo alla Ginestra; [fig. 7] Violante Siries Cerroti (Firenze 1710 - 1783), «San Francesco d’Assisi», 1765. Olio su tela, cm 178 x 92,5. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Ludovico Iscrizioni: VIOLANTE SIRIES CERROTI FECIT/ EX ELEMOSINIS A. R.P. M. FELICIS ANTONII BICILIOTTI EX VOTIS (in basso a destra); PROPOSTO NEPI 1898/ PROPOSTO CORSI 1921/ 1921 7° CENTENARIO 7 AGOSTO (sul retro)

Informazioni utili 
«Botticelli, Della Robbia, Cigoli. Montevarchi alla riscoperta del suo patrimonio artistico». Palazzo del Podestà di Montevarchi, piazza Varchi, 8 – Montevarchi (Arezzo). Orari: dal giovedì alla domenica, dalle ore 10 alle 13 e dalle ore 15 alle ore 19. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00. Informazioni: Ufficio cultura -Comune di Montevarchi, tel. 0559108230, 0559108314, e-mail: ufficio.cultura@comune.montevarchi.ar.it. Sito web: www.comune.montevarchi.ar.it. Fino al 28 aprile 2019

giovedì 28 marzo 2019

Duchamp e la sua «Scatola in una valigia»: viaggio da Venezia a Firenze per il restauro

Prosegue la collaborazione tra la collezione Peggy Guggenheim di Venezia e l’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze. Dopo l’intervento conservativo dell’opera «Alchimia» di Jackson Pollock, avvenuto nel 2013, tocca ora all’opera «Scatola in una valigia (Boîte-en-Valise)», realizzata da Marcel Duchamp nel 1941, essere oggetto di un importante intervento di studio e conservazione.
Il lavoro è il primo di un’edizione deluxe di venti valigette da viaggio di Louis Vuitton, che raccolgono ciascuna sessantanove riproduzioni e miniaturizzazioni di celebri lavori del poliedrico e dissacrante artista francese. Con la «Boîte-en-Valise», Duchamp intraprese uno dei suoi progetti più ambiziosi: un museo portatile di repliche creato con l'aiuto di elaborate tecniche di riproduzione come il pochoir, simile allo stencil. In questo modo l’artista condusse fino alle ultime battute la rivoluzionaria operazione avviata attraverso i ready-made, dando il via a una parodia estrema dell'arte e dei meccanismi creativi, che colpisce al cuore l'idea stessa di museo.
Nell’edizione deluxe le venti valigie contengono, oltre alle riproduzioni in miniatura delle sue opere, un «originale» diverso per ogni valigetta, e differiscono tutte tra di loro per piccoli dettagli e varianti nel contenuto. L’ «originale» della valigia di Peggy è una riproduzione de «Le roi et la reine entourès de nus vites» (1912), colorata ex-novo per la valigia dallo stesso artista («coloriage original»). Si tratta di una dedica a Peggy Guggenheim, che sostenne economicamente Duchamp in questa sua produzione. L’opera include al suo interno, tra le varie riproduzioni, anche una miniatura del famoso orinatoio rovesciato, «Fontana», del 1917, e una riproduzione di un «ready-made rettificato» del 1919 raffigurante la Gioconda di Leonardo da Vinci, con barba e baffi e l’iscrizione «L.H.O.O.Q.». La sequenza delle lettere pronunciate in francese formano la frase «elle a chaud au cul», convenientemente tradotta da Duchamp come «c’è il fuoco là sotto». Nel corso della sua vita, Duchamp creò trecentododici versioni de «Boîte-en-Valise».
L’idea di creare delle scatole contenenti facsimili e schizzi risale già al 1914: esistono tre o cinque copie di questa prima edizione di scatole, le quali contengono i primi schizzi su carta fotografica di «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» (1915-23). Al momento si conosce l’ubicazione di solo due di queste scatole, una al Centre Pompidou a Parigi e l’altra al Philadelphia Museum of Art.
Prima che l’artista francese iniziasse a dedicarsi alle edizioni principali delle sue «Boîtes en Valise», creò un’ulteriore scatola contenente 93 documenti riguardanti le sue idee su «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» negli otto anni prima del suo completamento. Questa scatola si chiama «La Boîte Verte» (1934) e si trova al Tate Modern a Londra.
Nel 1935 Duchamp comincia a creare le versioni principali delle «Boîtes en Valise», che sono suddivise in sette serie. Nel 1966 creò un’ultima scatola che non è parte delle edizioni principali, «La Boîte Blanche». Si tratta di una scatola in plexiglas con una serigrafia di «Glissière Contenant un Moulin à Eau». Al suo interno ci sono settantanove facsimili realizzati tra il 1914 e il 1923. Questa scatola si trova al Philadelphia Museum of Art.
Ritornando all’opera-compendio conservata alla Peggy Guggenheim di Venezia, questo particolarissimo lavoro è stato realizzato su supporti molto diversi tra loro: pelle, carta fotografica con aggiunte a matita, acquerello e inchiostro. L’intervento sull’opera di Duchamp, dato il carattere polimaterico, sarà coordinato dal dipartimento di conservazione della Collezione Peggy Guggenheim e dal Settore materiali cartacei e membranacei dell’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze, i cui restauratori condurranno le varie fasi di interventi coadiuvati da esperti dei diversi settori dell’istituto che, a vario livello, saranno coinvolti per consulenze e per interventi mirati sui singoli elementi, presenti all’interno.
È prevista una campagna di indagini per l’identificazione delle tecniche grafiche e pittoriche usate, così come sul metodo di assemblaggio dei pezzi.
Trattandosi della prima della celebre serie di valigie deluxe della fine degli anni ‘30 del Novecento, obiettivi dell’intervento saranno, oltre alla risoluzione delle problematiche inerenti la conservazione e l’esposizione di un oggetto molto delicato quale essa è, conoscere meglio il modo di lavorare di Duchamp e il sistema «quasi industriale» che da questo momento attiverà per realizzare le altre serie prodotte.
Particolarmente interessante sarà anche, data la complessità dell’oggetto e la sua stratificazione di contenuti, studiare la resa tridimensionale e la modellizzazione virtuale dell’oggetto, così da permettere una visione «in differita» dell’opera, da offrire al grande pubblico che altrimenti non potrebbe apprezzarlo nella sua completezza.
Come è consuetudine, l’Opificio delle pietre dure si avvarrà, per le indagini diagnostiche e la restituzione virtuale dell’opera, della rete di istituti di ricerca, universitari e del Cnr, che collaborano con l’istituto fiorentino alla ricerca sui materiali dell’arte.
La collezione Guggenheim rinsalda così i fili di un’amicizia durata quasi una vita, quella tra la collezionista americana e Duchamp. I due si conobbero a Parigi, negli anni ’20, quando la mecenate si trovava in Europa insieme al marito, l’artista Laurence Vail.
Quando nel 1938 Peggy Guggenheim aprì la galleria d'arte Guggenheim Jeune a Londra, diede ufficialmente inizio a una carriera che avrebbe influenzato significativamente il corso dell'arte del dopoguerra. Fu Duchamp a presentarle gli artisti e a insegnarle, come lei stessa ebbe a dire nella sua autobiografia «Una vita per l’arte» (Rizzoli Editori, Milano 1998), «la differenza tra l'arte astratta e surrealista». Nello stesso libro, Peggy Guggenheim parlava anche dell’opera dell’artista francese, oggetto oggi di restauro: «Spesso pensavo che sarebbe stato molto divertente andare a trascorrere un fine settimana portandosi dietro quella valigia invece della solita borsa che si riteneva indispensabile».

Per saperne di più
www.guggenheim-venice.it

martedì 26 marzo 2019

«San Giorgio Cafè», La Mantia cucina per Venezia e gli art addicted

In primo piano le barche mollemente adagiate sulle acque della Laguna veneta e sullo sfondo la magnificenza del campanile di San Marco. È una location da sogno quella del nuovo ristorante di Filippo La Mantia, «oste e cuoco» palermitano -per sua stessa definizione- famoso per una cucina ricca di sapori genuini, profumi che rimangono impressi nella memoria e amore per materie prime come agrumi, finocchietto e pistacchi, fiore all’occhiello della sua Sicilia. Da sabato 6 aprile l’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia avrà, infatti, un nuovo spazio dedicato all’arte della cucina e alla cultura gastronomica italiana: il San Giorgio Café.
Il progetto, voluto dalla Fondazione Giorgio Cini nell’ambito delle attività di valorizzazione dell’isola lagunare, è stato progettato da D’Uva con Filippo la Mantia e sarà l’unico luogo di ristoro pubblico sull’isola. Una tappa, dunque, quasi obbligata per gli appassionati d’arte, soprattutto in vista dell’ormai vicina cinquantottesima edizione della Biennale.
Bar, café, bistrot e ristorante: sarà tutto questo il nuovo locale, collocato a fianco del complesso monumentale dell’isola benedettina, tra i principali promotori della vita culturale veneziana con il suo ricco calendario di iniziative, che spaziano dalla stagione concertistica dell’affascinante auditorium «Lo Squero» a importanti convegni e giornate di studio (tra cui si segnala per il 2019, dal 29 al 31 maggio, l’appuntamento internazionale «How Europe discovered the music of the World after World War II. Cold war, Unesco and ethomusicological debate»), senza dimenticare il sempre raffinato calendario espositivo.
Quest’anno, tra le mostre annunciate dalla Fondazione Cini per l’apertura della Biennale di Venezia, merita una segnalazione l’importante retrospettiva dedicata ad Alberto Burri (10 maggio - 28 luglio), realizzata con la collaborazione della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello.
La mostra, a cura di Bruno Corà, nasce dalla volontà di riportare a Venezia le opere più significative dell’artista, uno dei più grandi protagonisti dell'arte italiana ed europea del XX secolo, la cui ultima antologica risale al 1987.
L’esposizione, allestita negli spazi dell’Ala napoleonica, ripercorrerà così cronologicamente le più significative tappe del percorso del «maestro della materia» attraverso molti dei suoi più importanti capolavori: circa cinquanta opere, provenienti dalla Fondazione Burri, da musei italiani e stranieri e da collezioni private.
In primavera sull’isola di San Giorgio Maggiore sarà possibile vedere anche la nuova esposizione del progetto «Le stanze del vetro», iniziativa per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento nata dalla collaborazione tra Fondazione Cini e Pentagram Stiftung: «Maurice Marinot. The Glass, 1911-1934» (25 marzo - 28 luglio), a cura di Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami.
L’esposizione, organizzata insieme al Museo delle arti decorative di Parigi, sarà il primo tributo internazionale a questo grande artigiano, protagonista di una rivoluzione, nella tecnica quanto nel gusto, ancora non pienamente conosciuta dal grande pubblico, che lo ha visto letteralmente inventare un nuovo tipo di vetro, spesso, pesante e come egli stesso lo definì «carnoso».

Dopo una formazione parigina, la carriera di Marinot prende avvio come pittore fauve, ma è col vetro, al quale si avvicina quasi casualmente nel 1911, che l'artista trova la via dell'unicità.
Le prime prove con questo materiale sono decorazioni a smalto di oggetti prodotti dalla vetreria industriale di alcuni amici a Bar-sur-Seine, nella regione dell’Aube.
Il rapporto col vetro diviene, negli anni, sempre più fisico, quasi una lotta a due con la materia. Marinot arriva a padroneggiare la tecnica e, a partire dal 1922-1923, soffia egli stesso creando pezzi unici dalle forme originali e dalle colorazioni raffinatissime. Passa da forme pulite dalle superficie lisce, che giocano con le bolle d’aria sospese nello spessore, a flaconi e vasi che incide con tagli profondi, o corrode con lunghi passaggi nell’acido.
Questa storia, che termina nel 1934, verrà raccontata attraverso duecento pezzi unici e centoquindici disegni, tra schizzi e progetti per oggetti e per allestimenti, provenienti da differenti musei francesi.
In autunno «Le stanze del vetro» proporranno, invece, la mostra «Thomas Stearns alla Venini» (9 settembre 2019 - 6 gennaio 2020), dedicata all’esperienza muranese dell’artista americano che giunse a Murano nel 1960. La mostra, e il relativo catalogo, metteranno insieme per la prima volta tutte le opere che si sono conservate e che in gran parte possono essere considerate pezzi unici.
Mentre l’Ala napoleonica della Fondazione Giorgio Cini vedrà un omaggio a Emilio Isgrò (29 agosto-24 novembre), focalizzato su un tema centrale nella poetica dell’artista, quello della cancellatura.
Sono tanti, dunque, gli appuntamenti d’arte pensati per godere appieno della bellezza dell’isola di San Giorgio Maggiore e ora, al calendario, si aggiunge anche la possibilità di gustare un pasto d’autore. Da qualche giorno è già possibile prenotare on-line il proprio tavolo sul sito www.sangiorgio.cafe, i cui contenuti saranno svelati alla stampa il prossimo 5 aprile. Una prima occasione, quella del sito e delle pagine social su Facebook e Instagram, per «cogliere -raccontano da Venezia- il significato profondo del rapporto integrato tra il San Giorgio Cafè e le tradizionali attività della Fondazione Giorgio Cini a sostegno e valorizzazione dell'Isola».

Informazioni utili 
Per prenotazioni >>> booking@sangiorgio.cafe 
Per informazioni >>> info@sangiorgio.cafe 
Sito ufficiale >>> www.sangiorgio.cafe 
Instagram >>> https://www.instagram.com/sangiorgiocafe
Facebook >>>https://www.facebook.com/sangiorgiocafe/

domenica 24 marzo 2019

«Gauguin a Tahiti», al cinema per scoprire «il paradiso perduto» dell'artista

È il 1° aprile 1891 quando, a bordo della nave Océanien, Paul Gauguin (1848-1903) lascia Marsiglia diretto a Tahiti, in Polinesia. Ha appena ottenuto dal Governo francese una missione gratuita con lo scopo di «fissare il carattere e la luce della regione», allora molto pubblicizzata dagli opuscoli dedicati alle colonie francesi in Oceania. L’artista realizza così, a quarantatré anni, il suo sogno di abbandonare una realtà che sempre meno sembra essergli congeniale per luoghi che, attraverso la lettura del romanzo «Le mariage» di Pierre Loti, gli sembrano il paradiso in terra.
Quella giornata di inizio aprile del 1891 segna l’avvio di un viaggio che due mesi dopo, il 9 giugno, vedrà Paul Gauguin giungere agli antipodi della civiltà, alla ricerca dell’alba del tempo e dell’uomo.
Ai Tropici, l’artista resterà quasi senza intervalli fino alla morte, prima sull’isola di Tahiti, poi in quella di Hiva Oa, nell’arcipelago delle Marchesi, dove giunge il 16 settembre 1901.
Questi dodici anni vedono il pittore francese andare alla ricerca, disperata e febbrile, dell’autenticità di un luogo dalla natura lussureggiante e dai colori accesi, un vero e proprio Eden che farà di lui uno dei pittori più grandi di sempre tra quelli che si ispirarono alle Muse d’Oltremare.
A questa storia guarda il nuovo appuntamento del progetto «Grande arte al cinema»: «Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto», in cartellone il 25, 26 e 27 marzo.
Il nuovo docu-film, con la partecipazione straordinaria di Adriano Giannini, è diretto da Claudio Poli, su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, che firma anche la sceneggiatura, ed è prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo.
Ripercorrendo le tracce di una biografia che appartiene ormai al mito e di una pittura raffinatamente primordiale, il film-evento, che vanta una colonna sonora originale firmata dal compositore e pianista Remo Anzovino, guiderà lo spettatore in un percorso tra i luoghi che Paul Gauguin scelse come sua patria d’elezione e attraverso i grandi musei americani dove sono custoditi i suoi più grandi capolavori: New York col Metropolitan Museum, Chicago con il Chicago Art Institute, Washington con la National Gallery of Art, Boston con il Museum of Fine Arts.
Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio alla scoperta del «romantico dei mari del Sud» saranno anche gli interventi di esperti internazionali: Mary Morton, curatrice alla National Gallery of Art di Washington, Gloria Groom, curatrice all’Art Institute di Chicago, Judy Sund, docente della New York City University, Belinda Thomson, massima esperta di Gauguin, e David Haziot, autore della più aggiornata e accreditata biografia su Gauguin.
«Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto» trasforma in immagini quel libro d’avventura che fu la vita di Gauguin, ma è anche la cronaca di un fallimento. Perché Gauguin non poté mai sfuggire alle proprie origini, alle ambizioni e ai privilegi dell’uomo moderno. Fu sempre il cittadino di una potenza coloniale: dipinse tra le palme, ma con la mente rivolta al pubblico dell’Occidente, alla sua clientela con la malia dell’esotico. Un paradosso, questo, -raccontano da Nexo Digital- che «si riflette nel destino della sua opera, visto che i suoi quadri oggi sono conservati in grandi musei internazionali dove ogni anno milioni di persone si fermano di fronte alle tele di Tahiti, sognando il loro istante di paradiso, un angolo di silenzio in mezzo alla folla».
Ma da dove nasce la fascinazione di Paul Gaugin per i Tropici? Verrebbe da dire dalle sue stesse origini. L’artista, nato a Parigi il 7 giugno del 1848, a soli quattordici mesi viene portato dai suoi genitori -il giornalista Clovis Gauguin e la sudamericana Aline Marie Chazal- in Perù.
Qui, forse, prende il via la sua iniziazione tropicale: egli resterà, infatti, sempre fiero del suo sangue sudamericano, tanto da sostenere con fermezza una sua parentela con gli Aztechi.
Dopo il ritorno a Parigi, Paul Gauguin si avvicina alla pittura e all’Impressionismo, ma presto sente di dover cercare se stesso altrove. Parte così alla volta della costa bretone, un cuneo di roccia proteso sul vuoto dell'Oceano. In questi luoghi rudi, primitivi, malinconici, il pittore pensa di purificarsi dalla città e dalle mode artistiche parigine. Si mette alla ricerca delle forme ancestrali di una nuova pittura. Ed proprio qui, a Pont-Aven, che Gauguin dipingerà alcune delle sue opere più celebri, come il «Cristo Giallo», in cui riproduce un crocifisso ligneo ammirato nella cappella di Trémalo, o «La visione dopo il sermone», in cui il misticismo bretone trova forma nel cloisonnisme, con le sue campiture nette e stesure compatte di colore.
È qui, in Bretagna, che prende il via la sua meravigliosa avventura del colore, con il distacco dagli Impressionisti e dalle loro pennellate frammentarie, con i contrasti violenti con l’amico e collega Vincent Van Gogh e con l’approdo, poi, a un cromatismo nuovo, anti-naturalistico e legato ai movimenti dell’anima come quello di opere come «La orana Maria, Nafea faa ipoipo, Aha oe feii?» o «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?».
Il racconto sarà accompagnato anche dalle parole dello stesso Gauguin, con brani tratti da testi autobiografici (come «Noa Noa» o «Avant et après»), dalle lettere a familiari, amici e alla moglie Mette, alla quale Paul scriverà: «Verrà un giorno, e presto, in cui mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceano a vivere d’arte, seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare, morire».
La storia di Paul Gauguin è, dunque, la storia -recita Adriano Giannini nel trailer- di «un uomo in fuga dall’arte accademia, dal male di vivere della modernità». È la storia di un ribelle che cerca pace in terre lontane. È la storia di un pittore che sembra aver capito ciò che è importante nella vita: «Quando, finalmente gli uomini comprenderanno -dice- il senso della parola libertà? Che mi importa della gloria? Sono forte perché faccio ciò che sento dentro di me».

Per saperne di più
www.nexodigital.it 

venerdì 22 marzo 2019

«Sulla via della folgore di diamante», a Torino una mostra sulla tradizione religiosa tibetana

Non smette di aggiornarsi e di aggiornarci il Mao – Museo d’arte orientale di Torino. Dopo il nuovo allestimento del corridoio dedicato alle stampe policrome giapponesi, si rinnova anche la Galleria della regione hymalayana. A partire da mercoledì 27 marzo i visitatori potranno, infatti, ammirare venticinque nuove opere appartenenti alla tradizione religiosa tibetana, i thang-ka, databili tra il XVII e il XIX secolo. L’occasione è offerta dalla mostra «Sulla via della folgore di diamante».
Il termine thang-ka indica un tessuto dipinto che può essere arrotolato. I dipinti sono eseguiti a tempera, il supporto è una mussola di cotone e la base di preparazione è realizzata con una mistura di gesso e caolino.
I dipinti sono considerati oggetti sacri non solo perché presentano soggetti religiosi e simboli pertinenti alla complessa iconografia buddhista tantrica, ma anche perché fungono da supporto concreto alla meditazione.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
I soggetti iconografici esposti spaziano dalle raffigurazioni del Buddha Shakyamuni a quelle del Buddha primordiale e dei Cinque grandi Buddha cosmici che da esso discendono. Nel sistema «Vajrayana - la Via della Folgore di diamante» - i Cinque grandi Buddha sono, infatti, considerati essere emanazioni delle qualità spirituali del Buddha primordiale, personificazione dell’illuminazione innata. Ciascuno dei Cinque Buddha cosmici è associato a una direzione dello spazio. Amitabha, il «Buddha della Luce Infinita», è collocato a Occidente, mentre Amogasiddhi, «Colui che conduce all’infallibile realizzazione», è il reggente del Nord. Nell’ambito di questo universo spirituale così spazialmente definito, si collocano esseri intermedi, quali i Bodhisattva, ovvero coloro che rinunciano all’estinzione dal ciclo di nascite e morti (nirvana) per indicare la via della salvezza a tutti gli esseri senzienti.
Oltre alle figure spirituali pacifiche troviamo divinità protettrici della religione, dall’aspetto terrifico, come Mahavajrabhairava, il Grande terrifico, o Yamantaka, il distruttore della morte, così come maestri e adepti tantrici, che a loro volta si mostrano gentili come Tson-ka-pa, fondatore della scuola che dal XVI secolo sarà retta dai Dalai Lama, o terrifici nell’atto di scacciare i demoni.
Due thang-ka tibetane del XVIII secolo, piuttosto rare, sono quelle prodotte nell’ambito della scuola monastica del Bon. Si tratta di una via spirituale parallela al Buddhismo, risalente come quella dei Rnyng-ma-pa a un gruppo antico di lignaggi di praticanti tantrici. È la principale forma religiosa del Tibet non buddhista.
Oltre a vari soggetti religiosi, le opere esposte mostrano alcuni tratti stilistici appartenenti a diverse scuole pittoriche. Lo stile della thank-ga «Storie di Mandhatar, Candraprabha, Supriya», del XVIII secolo, si rifà alla scuola karma sgar bris, una delle due grandi correnti stilistiche in cui si divide la pittura tibetana degli ultimi quattro secoli. Questa bella thang-ka proveniente dal Khams, nel Tibet orientale, si distingue per la levità e delicatezza dei toni con cui viene trattato il paesaggio e per l'eleganza da miniatura con cui sono dipinte le piccole figure collocate nei vari edifici o distribuite nei larghi spazi aperti, elementi che rimandano immediatamente all’estetica del Celeste Impero. Tali caratteristiche sono presenti anche nella thang-ka «Il Palazzo Celeste di Shyamatara (Tara verde)», dove l’accento posto sull’architettura e la concezione vivace del paesaggio conferiscono alla composizione una notevole freschezza, nonostante l’artificiosità della costruzione. Anche se un poco indurite, sopravvivono nelle descrizioni della zona inferiore del dipinto le tracce del trattamento del paesaggio proprio di questo stile.
Oltre ai soggetti rappresentati frontalmente, con una disposizione geometrica delle figure minori, che ricordano il primo stile d’origine nepalese, come nella thang-ka «Vajradhara e i mahasiddha», si segnalano dipinti dalla gradazione cromatica particolare, come nella thang-ka« Rol-pa’i-rdo-rje e nove manifestazioni di Amitayus», che appartiene al gruppo dei mtshal-khang (pittura vermiglia), realizzata con sottili tratti dorati su fondo preparato con il rosso cinabro. Il dipinto «Amoghasiddhi», una thang-ka di carattere misto, vede la figura centrale dipinta a tempera con vari pigmenti su un fondo realizzato con la stessa tecnica delle mtshal-thang.
Un’occasione, dunque, questa mostra per conoscere culture lontane dalla nostra, piene di fascino e di grande perizia artistica.

Informazioni utili 
MAO - Museo d’arte orientale, via San Domenico, 11 – Torino. Orari: martedì-venerdì, ore 10.00 -18.00; sabato-domenica, ore 11.00– 19.00; chiuso lunedì. La biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito fino ai 18 anni e abbonati Musei Torino Piemonte. Informazioni: tel. 011.4436927, e-mail mao@fondazionetorinomusei.it. Sito web: www.maotorino.it.

mercoledì 20 marzo 2019

«I volti del Buddha», Bologna riscopre la storia del suo Museo indiano

C’era una volta: potrebbe avere l’incipit delle favole più belle il racconto della mostra «I volti del Buddha», attualmente allestita negli spazi del Museo civico medievale di Bologna per la curatela di Luca Villa, che si è avvalso per l’occasione della collaborazione di Antonella Mampieri. L'esposizione ricompone, infatti, per la prima volta un’ampia parte delle raccolte appartenute al Museo indiano di Bologna, oggi suddivise e conservate in tre diverse sedi: lo stesso Museo civico medievale, il Museo di Palazzo Poggi e, fuori dal capoluogo emiliano, il Museo di antropologia dell’Università di Padova.
Quella del Museo indiano di Bologna, conosciuto anche con il nome di Museo d’indologia e museo di etnografia indiana orientale, è una storia affascinante, che si intreccia con le vicende della città felsinea tra il 1907 e il 1935.
Allestito nel Palazzo dell’Archiginnasio, nelle sale oggi in uso alla biblioteca, il museo nacque per ospitare inizialmente la cospicua collezione di oggetti, fotografie e manoscritti acquisiti da Francesco Lorenzo Pullè (Modena, 1850 – Erbusco, 1934), professore ordinario di Filologia indoeuropea e sanscrito alla Regia Università di Bologna, durante un viaggio compiuto nel 1902 in Vietnam, Ceylon, India e Pakistan, in occasione della sua partecipazione al Congresso internazionale degli orientalisti ad Hanoi.
Lo studioso modenese aveva in animo di creare un museo che rappresentasse non solo l’area geografica a cui dedicava da molti anni le sue ricerche, ma l’intero continente asiatico. Tuttavia, il suo obiettivo poté dirsi raggiunto solo quando il Comune e l’Università di Bologna, enti che avevano partecipato alla creazione di questa nuova realtà culturale cittadina, si impegnarono a incrementare la collezione originale con acquisti e prestiti temporanei.
L’allestimento - di cui abbiamo traccia grazie alla pianta del museo, conservata presso l’Archivio storico comunale di Bologna- comprendeva molte raffigurazioni di divinità del pantheon hindu e, rispetto ai musei dell’epoca, si distingueva per la presenza di una vasta raccolta di immagini che immortalavano le architetture templari dell’India, hindu, buddhiste e islamiche.
Francesco Lorenzo Pullè era un convinto sostenitore dell’utilizzo della fotografia per far conoscere ad un vasto pubblico l’arte e l’archeologia.
Nella sua ricchissima collezione sono presenti così circa trecentocinquanta stampe fotografiche -in parte consultabili sul sito www.cittadegliarchivi.it- in grado di documentare l'archeologia indiana in maniera esauriente e innovativa per l'epoca.
Fatta eccezione per un piccolo rilievo proveniente da un monumento buddhista indiano, raffigurante delle figure principesche adornate da grandi turbanti e gioielli, lo studioso si distinse, inoltre, per non aver prelevato dai Paesi di origine reperti che altri, invece, separarono dalla cultura d'origine.
La parte più consistente della raccolta fotografica riguarda i ritrovamenti archeologici allora conservati presso il Central Museum di Lahore, nell’odierno Pakistan, dove nei decenni precedenti rispetto al viaggio del professore emiliano erano confluiti reperti e lastre figurate recuperate durante gli scavi effettuati nella non lontana valle di Peshawar. Questi oggetti rappresentano oggi l’eredità dell’arte buddhista del Gandhāra, antica area situata tra gli attuali confini di Pakistan e Afghanistan, dove tra gli ultimi decenni del I sec. a.C. e il IV-V sec. d.C. fiorì una tradizione artistica connessa alla devozione buddhista.
Gli arricchimenti successivi -a cominciare dall'acquisto nel 1908 da parte del Comune di undici statue della raccolta Pellegrinelli, quasi tutte raffiguranti divinità del pantheon buddhista cinese- confermano l’interesse per questa tradizione filosofica e religiosa e l'ambizione di Francesco Lorenzo Pullè di voler creare un'ampia raccolta a testimonianza della ricchezza artistica e culturale dell'Asia.
Si trova, inoltre, lungo il percorso espositivo testimonianza di un'attenzione alle tendenze estetiche dell'epoca, che vedevano spesso opere di arte cinese e giapponese presenti nei salotti e negli studi delle case di illustri cittadini, così come nei saloni di prestigiosi locali pubblici. A tale proposito, va ricordato come Pullè seppe agire affinché il Museo indiano partecipasse dell'eredità Pepoli, grazie all'acquisizione di alcuni vasi ora in mostra nelle sale delle Collezioni comunali d'arte, anch'essi, in parte, di provenienza giapponese.
La vicenda del Museo indiano si concluse definitivamente nel 1935 e due anni più tardi si redasse l'atto con cui le raccolte furono suddivise tra Comune e Università, che ne rimangono ancor oggi custodi, e la famiglia Pullè. Quest’ultima pochi anni dopo cedette almeno una parte della collezione pervenuta al figlio del professore, Giorgio, all'Università di Padova, dove lo studioso emiliano aveva insegnato a lungo prima di passare all'Alma Mater.
Tra i pezzi esposti, insieme con la già citata decorazione in arenaria con figure principesche della collezione Pullè, si segnalano due opere entrambe provenienti dalla raccolta Pellegrinelli: un Buddha della medicina, datato alla fine del XIX secolo, e una rappresentazione di Samantabhadra.
 Eiko Kondo, che curò la prima scheda di catalogazione di quest’ultima opera, la considerò prodotta nel XVII secolo in ambito cinese, aspetto, questo, che conferma l'importanza della raffigurazione, riconoscibile per l'elefante a sei zanne su cui è assiso il bodhisattva.
«Sebbene sia una figura meno nota in Occidente -racconta Luca Villa-, Samantabhadra ha, infatti, un ruolo di rilievo per la grande parte dei lignaggi buddhisti, tanto da essere considerato l'Adi-Buddha (il Buddha primordiale), sia secondo la scuola Nyingma del budddhismo tibetano, sia secondo lo Dzogchen, sentiero di realizzazione spirituale sviluppatosi nella stessa area geografica. Nelle correnti Mahayana, invece, Samantabhadra compare insieme a Manjushri accanto al Buddha storico. Oltre all'importante significato simbolico, la delicatezza dell'esecuzione e lo stato di conservazione decisamente buono, stanno a indicare il valore della statua, superiore rispetto ad altri esemplari della stessa raccolta».
 Una mostra, dunque, di particolare pregio quella proposta dal Museo civico medievale di Bologna non solo per gli appassionati dell’arte indiana, ma anche per chi abbia voglia di andare alla scoperta della storia cittadina.

Informazioni utili
 I volti del Buddha dal perduto Museo Indiano di Bologna. Musei civici d’arte antica - Museo civico medievale, via Manzoni, 4 - Bologna. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00 gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e ogni prima domenica del mese. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/arteantica. Fino al 28 aprile 2019 

lunedì 18 marzo 2019

Giornate Fai di primavera, da Palermo a Brescia un ideale «Ponte tra le culture»

«Lo splendido paradosso della bellezza italiana è l’essere insieme quotidiana e straordinaria, a volte sontuosa ed esplicita, altre nascosta e ferita, ma sempre così profondamente nostra da definire chi siamo e ricordarci gli innumerevoli intrecci che hanno tessuto le nostre origini, lasciando impronte nel nostro patrimonio culturale quasi fossero indizi». Nascono da questa considerazione le Giornate Fai di primavera, in programma nel fine settimana di sabato 23 e domenica 24 marzo .
Dal Palazzo della Consulta a Roma al Castello di Melegnano, dal Centro di geodesia spaziale a Matera alla città di Pontremoli, sono tanti i luoghi che, con la complicità del Fai – Fondo per l’ambiente italiano, apriranno le proprie porte per permettere -affermano gli organizzatori- «di guardare l’Italia come non abbiamo mai fatto prima e costruire un ideale «Ponte tra culture» che ci farà viaggiare in tutto il mondo».

Giunta ormai alla ventisettesima edizione, la manifestazione si è trasformata, negli anni, in «una grandiosa festa mobile per un pubblico vastissimo», come dimostrano i numeri messi a disposizione dalla fondazione milanese. Dal 1993 le Giornate Fai di primavera hanno appassionato 10.665.000 visitatori, hanno visto l’apertura di 12.190 luoghi in più di 5.126 città e hanno coinvolto oltre 130.000 volontari e più di 286.000 «Apprendisti ciceroni», studenti della scuola di ogni ordine e grado che hanno scelto, con i loro docenti, di partecipare nell’anno scolastico a un progetto formativo di cittadinanza attiva, che li vedrà raccontare, nel prossimo week-end, le meraviglie del loro territorio.
Il programma messo a punto per il 2019 sembra destinato a non smentire il successo di questa iniziativa del Fondo per l'ambiente italiano, sempre molto attesa in tutta Italia per la possibilità di visitare anche siti inaccessibili ai più. Saranno, infatti, 1.100 i luoghi aperti in 430 località, grazie alla spinta organizzativa dei 325 gruppi di delegati sparsi in tutte le regioni -Delegazioni regionali, provinciali e Gruppi giovani- e grazie a 40.000 «Apprendisti ciceroni».
«FAI ponte tra culture» sarà il leitmotiv di questa edizione delle Giornate Fai di primavera, una due giorni culturale che ha ricevuto la Targa del Presidente della Repubblica quale premio di rappresentanza e che si svolge in collaborazione con la Commissione europea e con la presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della protezione civile e con il patrocinio, tra gli altri, del Ministero per i beni e le attività culturali.
Quest’anno il Fai si propone di amplificare e raccontare le diverse influenze culturali straniere disseminate nei beni aperti in tutta Italia. Molti di questi luoghi testimoniano la ricchezza derivata dall’incontro e dalla fusione tra la nostra tradizione e quella dei Paesi europei, asiatici, americani e africani. Ecco perché -spiegano dagli uffici della fondazione milanese- «in alcuni di questi siti e in alcuni Beni Fai le visite saranno curate da oltre un centinaio di volontari di origine straniera che racconteranno gli aspetti storici, artistici e architettonici tipici della loro cultura di provenienza che, a contatto con la nostra, ha contribuito a dar vita al nostro patrimonio».
Sarà il caso del Gabinetto cinese di Palazzo Reale a Torino, della Scuola Dalmata dei Santi Giorgio e Trifone a Venezia, di piazza Sett’Angeli a Palermo, un libro aperto dove leggere la storia millenaria della città,o della Biblioteca «Carlo Viganò» dell’Università Cattolica a Brescia, che si configura come un vero e proprio viaggio tra le lingue latina, greca, araba e volgare attraverso manoscritti, cinquecentine e opere a stampa che documentano lo sviluppo dell’algebra, dell’astronomia, della fisica e di altre scienze.
Novità di questa edizione, che vede come al solito il sostegno della Rai con una maratona televisiva e radiofonica di una settimana tesa a sensibilizzare sempre più italiani sul valore del nostro straordinario patrimonio artistico e paesaggistico, è anche l’aggiornamento dell’immagine-simbolo dell’evento. «La storica composizione del volto femminile che guarda attraverso le stanze della Rocca di Soragna, realizzata nel 1998 dall’agenzia Armando Testa, aveva bisogno di essere attualizzata. È stato chiesto -raccontano dal Fai- alla stessa agenzia di rimettere mano al visual e di rinnovarlo in modo da renderlo più plurale e dinamico. È nata quindi una campagna multi-soggetto ambientata nei beni della fondazione che vuole parlare a persone di ogni genere ed età, perché questo è l’intento stesso delle Giornate Fai di primavera».
Il catalogo dei siti visitabili durante la manifestazione 2019 raccoglie una proposta così varia e originale che è impossibile da sintetizzare in poche righe. Basti pensare che si parla dell'apertura, tra l'altro, di 296 luoghi di culto, 227 palazzi e ville, 30 castelli, 40 borghi, 35 tra parchi, giardini, boschi e aree naturalistiche , 22 aree archeologiche, 23 tra campanili e torri, 44 piccoli musei, 11 biblioteche, 8 ex ospedali psichiatrici o antichi ospedali, 12 teatri e 2 stadi.
A Roma sarà, per esempio, possibile visitare il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale dal 1955, edificato nella prima metà del Settecento e importante luogo istituzionale nella storia d’Italia. In via eccezionale si accederà anche alla Chiesa di San Silvestro al Quirinale, risalente al X secolo circa e ricostruita nel Cinquecento per volere dei Domenicani della Congregazione di San Marco, e a Palazzo della Rovere, costruito tra il 1475 e il 1490, oggi sede dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che custodisce al piano nobile il «Soffitto dei Semidei», capolavoro del Pinturicchio.
A Matera, Capitale europea della cultura 2019, si svelerà, insieme con il Centro di geodesia spaziale, un luogo della tradizione come la Fabbrica del carro trionfale della festa della Bruna, mentre a La Spezia sono in programma visite eccezionali alla Nave Italia, brigantino di 61 metri, simbolo dell’impegno sociale della Marina militare, e alla Nave Carlo Bergamini, varata nel 2011 e utilizzata nell’operazione «Mare Nostrum». Si respirerà aria di mare anche a Catania, dove tra i luoghi visitabili ci sarà il porto con le opere del progetto «Street Art Silos», che nel 2015 ha coinvolto artisti internazionali per reinterpretare i miti della tradizione avendo come supporti i silos dello scalo.
Tanti saranno anche i luoghi insoliti aperti, dallo stadio comunale Artemio Franchi di Firenze, capolavoro dell’ingegner Pier Luigi Nervi, al Cinema teatro Odeon a Udine, progettato da Ettore Gilberti e oggi dismesso e inutilizzato, senza dimenticare il Bastione di Saint Remy a Cagliari, dove verranno aperti in via eccezionale la «passeggiata coperta» (il corridoio novecentesco) e il percorso archeologico delle mura.
Tra i piccoli musei aperti si segnalano, invece, il Museo Onda Rossa a Caronno Pertusella, che ospita all’interno di un ex calzificio circa 40 modelli di vetture sportive italiane, e il Museo degli Alberghieri ad Armeno, una raccolta unica di oggetti appartenuti a grandi chef, camerieri, maître e portieri di tutto il mondo.
Sono, inoltre, previsti ingressi dedicati e accessi prioritari ai soci Fai a Venezia, alla sede del conservatorio Benedetto Marcello a Palazzo Pisani, e a Napoli, nel teatro del seicentesco Palazzo Donn’Anna, affacciato sul mare, ex studio dell’architetto Ezio De Felice e ora sede della Fondazione De Felice che promuove la museografia, l’architettura e l’arte.
«Le Giornate Fai di Primavera, oltre a essere un momento di incontro prezioso ed emozionante tra il Fai e la gente, sono anche -spiegano dalla fondazione milanese- un’importante occasione di condivisione degli obiettivi e della missione della fondazione. Tutti possono dare il loro sostegno attraverso l’iscrizione annuale (vale tutto l’anno per avere sconti, omaggi e opportunità e in occasione delle Giornate Fai di primavera permette di godere di ingressi dedicati e accessi prioritari), oppure con un contributo facoltativo, preferibilmente da 2 a 5 euro, che verrà richiesto all’accesso di ogni luogo aperto o ancora con l’invio di un sms solidale al numero 45584, attivo fino al 31 marzo». Un’occasione, dunque, quella offerta dal Fondo ambiente italiano per il prossimo fine settimana che ci ricorda che «l’Italia ha bisogno di cure» e che tutti possiamo, nel nostro piccolo, difendere un territorio fragile e meraviglioso come il nostro.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] La Spezia, Nave Italia © Upicom Marina Militare; [fig. 21] Pontremoli MS, Palazzo Negri Dosi Foto di REONstudio © FAI - Fondo Ambiente Italiano; [fog. 3] Roma, Palazzo della Consulta - Foto Giovanni Formosa © FAI - Fondo Ambiente Italiano; [fig. 4] Napoli, Pagoda di Villa Doria D'Angri e dietro Palazzo Donn'Anna - Foto StudioF64 © FAI  - Fondo Ambiente Italiano; [fig.5] Castello di Melegnano (MI) © Fotografia di Adriano Carafòli; [fig. 6] Venezia, Palazzo Pisani, Conservatorio Benedetto Marcello - Foto Maurizio Frisoli © FAI - Fondo Ambiente Italiano; [fig. 7] Badolato (CZ), borgo - Foto Salvatore Paravati © FAI - Fondo Ambiente Italiano 

Informazioni utili
 Per l’elenco completo delle aperture è possibile consultare il sito www.giornatefai.it o telefonare al numero 02.467615399. L’hashtag dell'iniziativa è #giornatefai.

sabato 16 marzo 2019

1949-1979-2019, Peggy Guggenheim e la «Continuità di una visione»

«[..] Organizzai in giardino una mostra di sculture più o meno recenti, ed il professor Giuseppe Marchiori, un critico piuttosto noto, scrisse l'introduzione al catalogo. Esponemmo un Arp, un Brancusi, un mobile di Calder; tre Giacometti che avevo nella mia collezione, ed un Mirko, un Consagra [..] c’era anche un Marino Marini, che avevo comprato a Milano direttamente dall'artista». Sono queste le parole, tratte dalla autobiografia «Una vita per l’arte» (Rizzoli Editori, Milano, 1998), con cui Peggy Guggenheim ricordava la sua prima mostra a Palazzo Venier dei Leoni, la «splendida dimora non finita» sul Canal Grande. Sono passati settanta anni da allora: era, infatti, l’autunno del 1949, quando la mecenate americana faceva di Venezia la sua città, dopo Parigi, Londra e New York.
Paggy Guggenheim rimase lì fino alla sua scomparsa, avvenuta il 23 dicembre del 1979, esattamente quarant’anni anni fa.
1949 – 1979 sono, dunque, due date cruciali per la storia della collezione veneziana, che per l’occasione ha ideato il calendario «Continuità di una visione»: un’ampissima serie di attività gratuite aperte al pubblico, che si svolgeranno dentro e fuori il museo, volte ad attualizzare l’insegnamento coraggioso quanto innovativo della sua ideatrice.
In concomitanza con la mostra «Dal gesto alla forma. Arte europea e americana del dopoguerra nella Collezione Schulhof», in programma fino al prossimo 18 marzo, è stato inaugurato un originale riallestimento della collezione permanente di Palazzo Venier dei Leoni. In mostra la maggior parte delle opere acquistate da Peggy Guggenheim tra il 1938, quando a Londra aprì la sua prima galleria Guggenheim Jeune, e il 1947, anno in cui si stabilì a Venezia.

L’allestimento riflette fortemente l’interesse della mecenate americana per il Cubismo, il Futurismo, la pittura metafisica, l’astrazione europea, la scultura d’avanguardia e il Surrealismo.
Gran parte dei lavori esposti vennero acquisiti attraverso le amicizie e i consigli di artisti e intellettuali come Marcel Duchamp, lo storico dell’arte Sir Herbert Read e lo scrittore Samuel Beckett, che convinse Peggy a dedicarsi all’arte contemporanea poiché «vivente».
Negli spazi della barchessa del palazzo non mancano i dipinti degli espressionisti astratti americani, tra cui spiccano i capolavori di Jackson Pollock, il cui sostegno Peggy Guggenheim annovera come il suo maggior successo di mecenate e collezionista.
Se questa presentazione getta luce sul collezionismo pre 1948, dal 21 settembre al 27 gennaio 2020, l’attesa mostra «Peggy Guggenheim. L’ultima Dogaressa», a cura di Karole P.B. Vail e Gražina Subelytė, celebrerà il collezionismo post 1948: dipinti, sculture e opere su carta acquisite tra la fine degli anni Quaranta e il 1979.
Non mancheranno le opere di artisti italiani attivi dalla fine degli anni Quaranta, come Edmondo Bacci, Tancredi Parmeggiani ed Emilio Vedova, e la produzione di alcuni artisti legati all’arte Optical (Op) e Cinetica, come Marina Apollonio, Alberto Biasi e Franco Costalonga.
L’esposizione permetterà, inoltre, di ricontestualizzare celebri capolavori come «L’impero della luce» (1953-54) di René Magritte, acquistato nel 1954, accanto ad opere meno note al grade pubblico di artisti come René Brô, Gwyther Irwin e Grace Hartigan, e di pittori di origine giapponese come Kenzo Okada e Tomonori Toyofuku, che dimostrano come l’interesse artistico della mecenate superò i confini di Europa e Stati Uniti.
Tra questi due grandi momenti che ripercorreranno a 360 gradi la storia del collezionismo di Peggy Guggenheim, si inserisce il prezioso omaggio a Jean (Hans) Arp, primo artista ad essere entrato a far parte della sua collezione con la scultura «Testa e conchiglia» (1933), acquisita nel 1938.
Dal 13 aprile al 2 settembre la mostra «La Natura di Arp», a cura di Catherine Craft e organizzata dal Nasher Sculpture Center, Dallas, proporrà una lettura suggestiva e a lungo attesa della produzione dell’artista franco-tedesco, il cui approccio sperimentale alla creazione e il ripensamento radicale delle forme d'arte tradizionali lo resero uno degli artisti più influenti del Novecento e il primo ad aver fatto breccia con la sua arte nel cuore della mecenate americana.
Il tributo al collezionismo di Peggy Guggenheim proseguirà anche con la prima mostra del 2020, «Migrating Objects»: un’esposizione che farà luce su un momento cruciale, seppur meno conosciuto, della sua storia di collezionista, ovvero il suo interesse degli anni ’50 e ’60 per le arti dell’Africa, dell’Oceania e delle Americhe.
L’allestimento sarà seguito da un comitato curatoriale che include studiose e curatrici provenienti da prestigiose istituzioni museali internazionali, insieme a Vivien Greene, Senior Curator, 19th- and Early 20th-Century Art, Guggenheim Museum, e Karole P.B. Vail.
A corollario del programma espositivo è stata pensata una lunga lista di attività, eventi, conferenze, workshop, approfondimenti sulle orme di Peggy Guggenheim. Nel 1949, in occasione della mostra di scultura contemporanea, la mecenate aveva aperto la propria casa al pubblico, e così continuò a fare fino al 1979, educandolo alla conoscenza di una delle più importanti collezioni d’arte del Novecento.
Il programma di public programs «Continuità di una visione» intende portare avanti la lezione della sua fondatrice e l’attuale mission della collezione, ovvero divulgare i propri contenuti ad un pubblico quanto più eterogeneo per condividere lo straordinario potere educativo di questa disciplina nel formare e alimentare il pensiero critico.
Ecco così programmi di accessibilità per non vedenti e ipovedenti incentrati sui grandi capolavori del museo, il progetto social «Point of View», che darà voce al pubblico per raccontare il proprio punto di vista sul museo e sulle opere più amate, un’iniziativa partecipativa atta a ricostruire la figura di Peggy Guggenheim attraverso la memoria collettiva nella comunità locale.
Sono, poi, in programma tre conversazioni con tre donne, filantrope e collezioniste visionarie, che hanno fatto dell'arte la loro missione come impegno personale nei confronti della società: Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (8 aprile 2019), presidente dell’omonima Fondazione torinese, tra le figure di maggior spicco del collezionismo italiano e internazionale, Lekha Poddar della Devi Art Foundation (Dehli, India), attiva nel panorama artistico medio-orientale, e Francesca Thyssen-Bornemisza (von Habsburg), fondatrice di Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, tra le maggiori collezioni d’arte contemporanea in Europa. Tre donne, queste, che, come Peggy Guggenheim, possono essere d’ispirazione per le generazioni future.

Per saperne di più 
www.guggenheim-venice.it

venerdì 15 marzo 2019

«Artonauti», arrivano in edicola le figurine dell'arte

«Van Gogh celo, Gauguin celo, Monet manca»: il mondo delle figurine sta per riservare una sorpresa ai suoi estimatori. Da venerdì 15 marzo nelle edicole italiane arriva «Artonauti», un album interamente dedicato alla storia dell’arte. Calciatori, principesse e personaggi dei cartoni animati avranno così -si spera- dei nuovi rivali tra i piccoli ammiratori di un passatempo che sembra non conoscere la crisi.
L’idea e il progetto, riservato ai bambini dai 7 agli 11 anni, sono stati sviluppati da Daniela Re -insegnante, mediatrice culturale ed esperta in riabilitazione cognitiva, con ampia esperienza nel mondo educativo della scuola primaria- e da Marco Tatarella, editore di 22Publishing, casa editrice che si occupa di libri di arte e architettura, di periodici musicali e di servizi editoriali.
Insieme i due hanno fondato Wizart S.r.l.i.s., un’impresa sociale no profit, che con «Artonauti» ha vinto la quarta edizione del bando «Innovazione culturale» di Fondazione Cariplo.
Scoperta, gioco, apprendimento auto-costruttivo e accessibilità: sono le parole chiave che hanno dato vita a questo progetto educativo, ideato con l’intento di avvicinare i più piccoli alla bellezza e alla storia, ma anche di farli appassionare alla vita di grandi pittori e scultori come fossero eroi della televisione o amici di sempre.
Il termine «Artonauti» ben spiega questo intento. Si tratta, infatti, di un neologismo nato dall’unione tra le parole arte, astronauti -per identificare un viaggio avventuroso- e Argonauti -per evocare personaggi epici e i loro fantastici viaggi: una perfetta sintesi, dunque, tra l’aspetto ludico e quello didattico che ogni gioco dovrebbe avere.
Arte e creatività svolgono, inoltre, un ruolo fondamentale per lo sviluppo evolutivo dei bambini. «Numerosi studi -raccontano gli ideatori di «Artonauti»- dimostrano, infatti, che l’arte contribuisce a sviluppare le capacità espressive, il ragionamento logico, matematico e linguistico. Leggendo i più importanti esperti nel campo evolutivo si scopre l’importanza di avvicinare i bambini alle opere artistiche fin dalla più tenera età».
«Maria Montessori -raccontano ancora gli ideatori- pensava che la cultura fosse assorbita dal bambino attraverso esperienze individuali in un ambiente ricco di occasioni, di scoperta e di lavoro. Bruno Munari sosteneva che invece di lunghe spiegazioni è preferibile far vedere come si fa attraverso ‘azioni-gioco’, perché con il gioco il bambino partecipa attivamente, al contrario se ascolta si distrae. Loris Malaguzzi, ideatore del metodo Reggio Emilia, elaborò la teoria secondo la quale l’apprendimento è un processo ‘auto-costruttivo’, cioè il frutto dell’attività dei bambini stessi».
«Artonauti», che sarà in edicola al costo di tre euro (con tre bustine di figurine subito in omaggio), sembra, dunque, un perfetto strumento per incuriosire i più piccoli e allontanarli, almeno per qualche ora, da tablet e smartphone. Si tratta, intatti, molto più di un semplice album di figurine, è la storia di due bambini e un cane che compiono un fantastico viaggio nel tempo alla scoperta dei tesori dell’arte.
L’album è composto, nello specifico, da sessantaquattro pagine che contengono un racconto introduttivo, ventotto illustrazioni, sessantacinque opere d’arte, venti quiz e indovinelli e due pagine di giochi.
Le figurine, in tutto duecentosedici, compongono affreschi, dipinti, sculture, svelando ognuna un particolare di un’opera.
Dalle grotte di Lescaux alle piramidi degli Egizi, passando per i templi greci e l'arte romana, fino ad arrivare a Leonardo, Michelangelo, Raffaello e agli impressionisti ed espressionisti: sono molti i momenti storici che i più piccoli potranno conoscere, seguendo le avventure di Argo, Ale e Morgana.
Inoltre c’è il gioco nel gioco: ogni bustina contiene cinque figurine e una Twin Card. Collezionando tutte le venticinque coppie di Twin Card, i bambini le mischieranno coperte per divertirsi con il tipico gioco di memoria, scoprendole due a due. Ciascuna coppia di carte gemelle raffigura un’opera d’arte contenuta nell’album.
Tutto, sulla carta, fa pensare che «Artonauti» possa conquistare i più piccoli, facendo vincere anche ai più scettici un pregiudizio: l’arte non è un argomento troppo difficile per i bambini, basta trovare il linguaggio giusto.

Per saperne di più
www.artonauti.it