ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 4 maggio 2012

Trescore Balneario, Lorenzo Lotto tra storia e alchimia

Visse incompreso dalla critica ufficiale del suo tempo. Nel volume «L’Aretino, ovvero dialogo della pittura (1557), lo scrittore e grammatico Ludovico Dolce, il panegirista di Tiziano, additò, per esempio, la sua pala veneziana «San Nicola in gloria» (1527-1529) come «assai notabile esempio di cattivo colorire». Mentre Giorgio Vasari, nel libro «Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori» (1568), ne parlò, in un capitolo dedicato anche ad artisti locali quali Francesco da Cotignola e Nicolò Rondinelli, come di un amico di Palma il Vecchio, che «avendo imitato un tempo la maniera de’ Bellini, s’appiccò poi a quella di Giorgione». Vita non facile, dunque, quella di Lorenzo Lotto (Venezia, 1480– Loreto, 1556), «genio inquieto del Rinascimento», riscoperto sul finire dell’Ottocento dal grande critico d’arte Bernard Berenson, che ne parlò come di un «pittore psicologico», «sensibile ai mutevoli stati dell'animo umano».
La vicenda terrena dell’artista, autore di capolavori come la sontuosa «Madonna del Rosario» di Cingoli e la raffinata «Annunciazione» di Recanati (la celebre tela con il gattino terrorizzato dall’apparizione dell’angelo), si risolse in un continuo pellegrinare da Treviso a Jesi, da Roma a Bergamo, da Venezia ad Ancona, Macerata, Loreto e in tanti altri piccoli centri del territorio marchigiano.
In Lombardia, dove soggiornò tra il 1512 e il 1525, il pittore veneziano, del quale Pietro Aretino ebbe a dire (con fare ironico e pungente) «come la bontà buono e come la virtù vertuoso», trascorse uno dei periodi più felici e sereni della propria carriera e, probabilmente, anche della propria vita.
Tante le commissioni di diverso tipo che lo videro impegnato a dare forma e colore alla sua vena narrativa di evidenza popolare, al suo senso profondo di religiosità, ai suoi «umori nordici» che richiamano alla mente l’arte di Albrecht Altdorfer e Matthias Grünewald.
Il catalogo bergamasco di Lorenzo Lotto è lungo e include, tra l’altro, pale d’altare come la «Madonna con il Bambino e santi» per Alessandro Martinengo Colleoni (1513-1516; Bergamo, San Bartolomeo) e il «Polittico dei Santi Vincenzo e Alessandro» per la chiesa parrocchiale di Ponteranica (1524 circa), quadri di carattere devozionale quali «Il commiato di Cristo dalla madre» (1521, Staatliche Museen zu Berlin) e «Le nozze mistiche di santa Caterina da Siena» (1523; Bergamo, Accademia Carrara), ritratti di Lucina Brembati (1518; Bergamo, Accademia Carrara), di Marsilio Cassotti con la sua sposa (1523; Madrid, Museo Nacional del Prado) e di molti altri nobili, senza dimenticare i modelli grafici per le tarsie in legno del coro di Santa Maria Maggiore (1525).
Una delle opere più significative di questi decina d’anni in terra lombarda è, per ampiezza e complessità di tematiche, la decorazione dell’oratorio quattrocentesco di villa Suardi, a Trescore Balneario. Questa «capelleta», collocata sulla strada che collega Bergamo al lago d’Iseo, era stata «fabricata», secondo quanto riporta l’estimo del 1526, «in communione» da Giovan Battista Suardi e dal cugino Maffeo «ad honore de Dio, sua gloriosissima matre et devotissime sancte Barbara e Brigida».
Lorenzo Lotto affrescò questo ciclo pittorico, narrato con il gusto del racconto popolare e della sacra rappresentazione, nel 1524, sicuramente entro la fine dell’estate. L’occasione fu offerta da un voto di Giovan Battista Suardi, che, stando a quanto scrive Roberta D’Adda, commissionò l’opera all’artista «non tanto per ragioni di prestigio, quanto piuttosto per spirito di devozione, in un momento di drammatica urgenza». Per quell’anno, e più precisamente per il mese di febbraio, gli astrologici avevano, infatti, previsto un diluvio catastrofico e, in alcuni casi, anche la distruzione della fede cristiana e l’avvento dell’Anticristo. Nello stesso tempo, nel territorio della val Cavallina (luogo in cui si trova la cappella) si sentiva, in modo pressante, la costante minaccia costituita dalle truppe dei lanzichenecchi, che calavano sull’Italia settentrionale e che portavano con sé i germi della dottrina luterana. E’ quest’ultimo il motivo per cui le pitture di villa Suardi mostrano un profondo valore dottrinale, curioso in un oratorio privato, ma più comprensibile se si pensa che la costruzione era, appunto, ubicata lungo la strada percorsa dai mercenari tedeschi e che veniva spesso aperta ad amici e a contadini del luogo.
La decorazione lottiana della cappella, al cui contenuto dottrinario contribuì il maestro in teologia Girolamo Terzi, si articola sul soffitto e su tre pareti dell’edificio, dialogando con un altro affresco, di autore ignoto (probabilmente un pittore ascrivibile alla cerchia di Jacopo Scipioni), che orna il catino absidale, con raffigurazioni delle sante Barbara, Brigida d’Irlanda, Caterina d’Alessandria, della Vergine assunta in cielo e di Maria Maddalena con l’ostia consacrata, sovrastate da un Cristo di misericordia.
Lorenzo Lotto articolò le pareti orizzontalmente con modanature illusive. Nella spazio superiore creò un fregio in cui profeti e sibille si affacciano gesticolanti da una serie di tondi; mentre attraverso finte colonne e sfruttando le due finestre del piccolo edificio, a una navata e col tetto sorretto da travi di castagno tagliate irregolarmente, creò una suddivisione verticale.
Nella parete sinistra campeggia la monumentale figura del Cristo-Vite, ispirata dal Vangelo di Giovanni (15,5), il cui versetto «Ego sum vitis vos palmites» («Io sono la vite, voi i tralci») compare sopra l’immagine, nella quale sono visibili anche i profili del committente, Giovan Battista Suardi, di sua moglie, Orsolina, e di sua sorella, Paolina.
Dalle dita del Cristo si dipartono tralci, che si avvolgono in girali intorno a immagini di santi e della Madre di Dio, a simboleggiare la chiesa come vigna, ossia come corpo mistico del Cristo. Questi affreschi proseguono sul soffitto, dove si trovano putti e angeli tra foglie e grappoli o appoggiati a cartigli, che recano iscrizioni delle Sacre scritture o della liturgia, con particolare riferimento al mistero dell’eucarestia. Completano il dipinto le figure di alcuni vendemmiatori muniti di roncole e falcetti, gli eretici vissuti nei primi secoli del cristianesimo, che precipitano da due scale appoggiate ai tralci estremi e che sono respinti da sant’Ambrogio e san Girolamo.
Sempre nella parete di sinistra l’artista affrescò -con straordinaria vivacità narrativa e con colori freddi e dagli inconsueti timbri cromatici, carichi di una luce vibrante e tersa- la vita di santa Barbara, secondo la «Legenda aurea», sorta di manuale scritto nel Duecento da Jacopo da Varagine, che costituisce la più diffusa raccolta agiografica del Medioevo. Il racconto, ambientato in movimentate scene cittadine e dal sapore teatrale, parte da sinistra, con la donna imprigionata dal padre in una torre, seguita nei campi dove fugge per evitare il matrimonio, arrestata, processata, torturata e, infine, decapitata, mentre il suo persecutore, l’uomo che le ha dato la vita, viene incenerito da un fulmine.
Alcune scene di questi affreschi, definiti da Roberto Longhi «sublimemente popolareschi» (1929), sono probabilmente ripresi da prototipi delle Stanze Vaticane; il linguaggio di Lorenzo Lotto è, però, molto lontano da quello di Raffaello, che crea scene di drammatica concentrazione. La narrazione del pittore veneto assume, infatti, toni più fiabeschi e un effetto di immediatezza e spontaneità che, nell’antieroismo dei suoi soggetti, richiama alla mente molte pitture del nord Europa. A Trescore protagoniste sono, infatti, figure umili, studiate dal vero: «i contadini –secondo la bella descrizione di Rodolfo Pallucchini- che mietono e raccolgono le messi e le campagnole con i loro cesti di verdure fresche sulla piazza del paese sono personaggi inediti nella pittura italiana del tempo».
Dalle storie di santa Barbara si passa, sulla parete destra, a quelle della vita di santa Brigida d’Irlanda, protettrice del mondo agricolo e protagonista di numerose opere di carità, alla cui vestizione religiosa partecipò la famiglia di Maffeo Suardi. Lotto inscenò nove miracoli della donna in quattro spazi differenti: una cappella gentilizia, una loggia, un paesaggio e uno scorcio di città. Nei miracoli si riconoscono il legno secco rinverdito, l’abito rimasto senza macchia, l’acqua convertita in birra, il dono della vista a un cieco, il porco selvatico ammansito, il maltempo allontanato, l’albero dissecato, il vaso d’argento diviso in parti uguali e, per ultimo, un uomo che scappa a morte violenta, sostituito dalla propria ombra.
Merita, infine, una segnalazione il piccolo cammeo con il quale l'autore volle celebrarsi: sopra la porta d’ingresso è, infatti, visibile l’autoritratto di Lorenzo Lotto in vesti di uccellatore, con un fascio di panioni in spalla e una civetta su una gruccia. Stando a quanto scrive Roberta D’Adda ci troviamo di fronte a una «metafora alchemica»: l’artista si paragone a un cacciatore («un cacciatore di immagini», nella bella definizione di Francesca Cortesi Bosco) e «pone sopra la propria testa, tra i putti vendemmiatori del soffitto, un fanciullo mingente. La figura ha una lunga tradizione iconografica, rappresentando l’acqua sacra e salvifica del battesimo e quindi la benedizione divina, ma ha anche una fondata tradizione alchemica: gli alchimisti ritenevano, infatti, che l’urina dei fanciulli avesse potenti proprietà, essendo un ‘liquido ardente’, la cui essenza è il fuoco. L’interpretazione alchemica –sempre secondo Roberta D’Adda- trova conferma in un gioco di parole: in alchimia, infatti, l’urina è detta ‘lot’ e, quindi, il fanciullo mingente evoca il nome di Lotto, pittore benedetto e ispirato da un principio potente, capace di trasformare e, quindi, di creare». Come ha ben scritto Primo Casalini, in questi affreschi l'artista, infatti, «coglie in ogni gesto, in ogni espressione, in ogni cosa la presenza del numinoso, del significante».
I contemporanei, forse, non avrebbero capito lo stile e il messaggio del «pictor celeberrimus» (la definizione è tratta da un atto notarile del 1505) a Trescore; ma questo ciclo pittorico era destinato a incontrare tanti estimatori, a cominciare da Gabriele D’Annunzio che, nel suo libro «Le città del silenzio» (1903), scrisse: «per l'aria volar parean a schiera / i chèrubi fuggiti da Trescore / quei che Lorenzo Lotto il dipintore / alzò sui tralci della vite vera».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Veduta esterna dell'oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 2] Lorenzo Lotto, «Cristo-Vite»,  1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 3]  Lorenzo Lotto, «Santa Barbara inseguita nel bosco», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 4] Lorenzo Lotto, «Martirio di Santa Barbara», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 5] Lorenzo Lotto, «Miracolo di Santa Brigida», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); [fig. 6] Lorenzo Lotto, «Santa Brigida allontana l'uragano», 1524. Oratorio di villa Suardi, Trescore Balneario (Bergamo); 


Informazioni utili
Lorenzo Lotto. Oratorio di villa Suardi, via Nazionale, 122 (ingresso da via Suardi, 20) - Teescore Balneario (Bergamo). Visite guidate con prenotazione: dal lunedì al sabato, mattino e pomeriggio. Visite guidate senza prenotazione (sono ammessi 25 visitatori per volta): ogni domenica, alle 15.00 e alle 16.30; domenica 6 maggio e domenica 8 luglio 2012, alle 10.00 e alle 11.00 (ma non al pomeriggio),domenica 27 maggio 2012, alle 9.30 e alle 10.30 (ma non il pomeriggio); domenica 20 maggio 2012, chiuso. Biglietto: € 8,00 (comprensivo di servizio guida in lingua italiana, inglese e francese); per gruppi superiori a 15 persone € 6,00. Informazioni e prenotazioni (sempre obbligatoria per i gruppi da 16 a 25 persone): tel. 035.944777 o info@prolocotrescore.it. Fino al 30 novembre 2012. 




giovedì 3 maggio 2012

Gli affreschi di Castelseprio? «Un giallo dell'arte medioevale»

«Castrum Seprum destruatur, et destructum perpetuo teneatur et nullus audeat vel praesumat in ipso Monte habitare».«Castel Seprio sia smantellato e perpetuamente tenuto tale, né alcuno osi o presuma di potervi ancora abitare». Con queste parole, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1287, l'arcivescovo Ottone Visconti, dopo aver sconfitto la famiglia dei Della Torre, proclamava la fine del castrum sorto, nel IV secolo d.C., lungo la via Como-Novaria, a difesa dei confini al di qua delle Alpi.
Alla distruzione sopravvisse la sola chiesa di santa Maria foris portas, luogo sacro inserito dal giugno 2011 nella lista dei patrimoni mondiali dell'umanità dell'Unesco (insieme con altri sei siti densi di testimonianze architettoniche e pittoriche dell’età longobarda), la cui fama è legata al ciclo di affreschi che decora il vano dell'abside, considerato oggi una tra le più alte testimonianze della pittura muraria europea nell'alto Medioevo.
Le origini del piccolo edificio religioso, ora sconsacrato e di proprietà della Provincia di Varese, sono difficilmente ricostruibili: in passato si è pensato che l’edificazione della chiesa fosse databile al VII-VIII secolo; oggi, in seguito a un’accurata ricerca di Carlo Bertelli (supportata dall’esame della termoluminescenza), si è spostata l’epoca di fondazione intorno al secondo quarto del IX secolo, all’interno della temperie culturale carolingia.
Sebbene edificata con materiali poveri e rinvenuti in zona, quali ciottoli di fiume, l'architettura è raffinata e mostra forti influenze mediorientali (siriache per la precisione), come ben documenta la pianta a trifoglio, non comune in Occidente.
Delle tre absidi, una sola sussiste, ed è quella dove si trovano le pitture rinvenute nel 1944 da Giampiero Bognetti e rimaste a lungo nascoste sotto uno strato d'intonaco quattrocentesco. Pitture, queste, la cui squisita ricchezza contrasta con la disadorna umiltà delle pareti dell’aula e che si ipotizza dovessero essere visibili, nella loro interezza, solo dai celebranti e da quanti erano ammessi nel presbiterio, e non dai fedeli presenti nella navata.
Il programma pittorico, che ha fatto parlare della chiesa di santa Maria foris portas come della «Cappella Sistina del Medioevo», racconta, con un linguaggio fortemente naturalistico e impressionistico, storie dell’infanzia di Gesù (dall’annunciazione alla presentazione al tempio) e celebra il dogma dell’Incarnazione, tema caro alla teologia dei cristiani d’Oriente, nel quale si ‘parla’ della consustanzialità di Cristo, ovvero della perfetta unione tra natura umana, implicita nei soggetti della vita di Cristo incarnato, e natura divina, come nella rappresentazione del Cristo pantocrator. Anche la fonte ha provenienza orientale: ai Vangeli canonici si è preferito un testo apocrifo, compilato in Egitto e diffuso con il nome di Protovangelo di Giacomo.
Difficile datare le pitture, che risalgono in ogni caso a prima della metà del X secolo, per via di un'iscrizione, graffita al di sopra della superficie pittorica, che ricorda Arderico, arcivescovo di Milano, eletto nel 936 e morto nel 948.
La straordinaria libertà nelle composizioni, l'uso di uno spazio illusionistico e scenografico, insieme alle figure allungate e a una tecnica rapida, di grande freschezza, giocata su una combinazione di pochi, essenziali colori (ocra, calce, nero di carbone) ci riportano ad un'atmosfera anticheggiante, memore della grande pittura romano-classica.
La tecnica pittorica del frescante, conosciuto come Maestro di Castelseprio, appare sapiente: la sua mano sembra veloce e sicura (in alcuni casi il disegno dei contorni è fatto direttamente col colore), le velature danno una luminosità diffusa, le ombre sono ben definite e le lumeggiature appaiono pastose.
Il ciclo affrescato, disposto su due ordini e non diviso da riquadri, ha inizio, nell’emiciclo absidale, in alto a sinistra, con la scena dell’annunciazione, dove l’angelo sorprende Maria intenta a filare, il tutto sotto lo sguardo comprensibilmente meravigliato di una giovane donna, forse un’amica della Vergine. Seguono l’episodio della visitazione, del quale una larga crepa ha purtroppo cancellato la figura di santa Elisabetta, e quello con la cosiddetta «prova delle acque amare», prescritta dalla legge ebraica per accertare le gravidanze sospette e a cui anche Maria, secondo i vangeli apocrifi, si sottopose.Dopo un tondo con il busto del Cristo benedicente, a cui ne corrispondeva uno oggi perduto con l’immagine del Battista, ci troviamo davanti all’apparizione dell’angelo a san Giuseppe, scena maestosa e delicata al medesimo tempo, ricca di dettagli finissimi. La narrazione riprende con la raffigurazione del viaggio a Betlemme, con un tenero dialogo tra i due sposi, Maria sull’asino e Giuseppe che la segue a piedi. 
Passando dalla fascia superiore a quella inferiore, si vedono raffigurate la natività e l’annuncio ai pastori: su un fondo roccioso illuminato dalla cometa, la Madonna, adagiata su un giaciglio, ha di fronte a sé l’incredula levatrice Salomè, mentre in basso altre due donne lavano il Bambino. Giuseppe siede in disparte, in attesa pensosa; sopra di lui, dietro a una roccia, in vista di una città, l’angelo annuncia la nascita del Cristo. Solo un albero divide questa scena dalla successiva, l’adorazione dei Magi. Ritornando verso il centro dell’abside, incontriamo, infine, la presentazione al tempio: la Vergine, attorniata da Giuseppe e da altri due personaggi, porge il Bambino al vecchio sacerdote Simeone che lo accoglie con la mano sinistra velata.
Tutte queste pitture sono di elevata qualità stilistica; la rarità dei loro caratteri ne ha fatto, inoltre, parlare come di un anello di congiunzione tra l'arte classica e quella bizantina, tra l’iconografia d’Occidente e quella d’Oriente. Incerta e dibattuta rimane, invece, la loro datazione e il nome dell’autore, tanto da far considerare questo ciclo di affreschi come uno degli enigmi più appassionanti, e affatto risolto, per gli studiosi di tutto il mondo. Un vero e proprio «giallo» dell’arte medioevale.

Didascalie delle immagini
[fig.1] Veduta esterna della chiesa di santa Maria foris portas, a Castelseprio; [fig. 2] Maestro di Castelseprio, «Cristo benedicente», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 3] 
Maestro di Castelseprio, «Presentazione al Tempio», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 4] Maestro di Castelseprio, «Sogno di san Giuseppe», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 5] Maestro di Castelseprio, «Andata a Betlemme», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas

Informazioni utili
Chiesa di santa Maria foris portas, via Castelvecchio 1515 - Castelseprio. Orari: martedì-sabato, ore 08.30-19.20; domenica e festivi, ore 09.30-18.20. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 0331.820438. 

Il «Gold Remi Award» al film «Il merletto, un’arte veneziana»

Parla italiano il documentario che ha vinto il prestigioso premio «Gold Remi Award» alla quarantacinquesima edizione del «WorldFest Houston International Film Festival», una delle più importanti rassegne di cinema e audiovisivo degli Stati Uniti. L'ambito riconoscimento è, infatti, stato assegnato al film «Il merletto, un’arte veneziana» («The Lace, a Venetian Art»), prodotto dalla Fondazione musei civici di Venezia e diretto da Alessandro Bettero.
Espressamente concepito e realizzato in occasione della riapertura del Museo del Merletto di Burano, avvenuta a giugno dell’anno scorso, il documentario narra la nascita e lo sviluppo di una delle arti più secolari della città lagunare, la tradizione del pizzo lavorato a ago, sullo sfondo delle vicende della Serenissima.
Il film, girato in alta definizione e sottotitolato in lingua inglese, è arricchito dai ricordi e da vivide testimonianze di una dozzina di merlettaie di Burano, ma mostra anche suggestive ricostruzioni storiche realizzate con attori in abiti d’epoca e filmate all’interno di alcuni prestigiosi palazzi storici della città, come il Ducale, il Mocenigo, Ca’ d’Oro, la basilica di San Marco e la fornace vetreria di «Formia Luxury Glass» a Murano, oltre che in località caratteristiche del Veneto, tra Burano, Murano, Torcello, Chioggia e Altino.
Rare ed esclusive sono anche le immagini che ripropongono alcuni tra i manufatti più antichi della collezione appartenente al Museo del merletto e alla Fondazione Musei civici di Venezia. Manufatti, questi, che coprono gli ultimi cinque secoli.
Il documentario, della durata di circa quaranta minuti, è stato realizzato con la consulenza di Paola Chiapperino, già direttore del museo veneziano, e con il contributo, per i testi, di Doretta Davanzo Poli, nota storica del merletto e docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
La musica del film è a cura del maestro Alberto De Piero e dell’Orchestra Filarmonia Italiana. La fotografia porta la firma di Lorenzo Pezzano: mentre i costumi sono stati realizzati dagli atelier «Nicolao» e «Pietro Longhi» di Venezia.
Grazie a questo documentario, sempre visibile nella sala introduttiva al primo piano del museo buranese, il pubblico statunitense ha potuto riscoprire o conoscere per la prima volta una delle più antiche e preziose tradizioni veneziane, quella del merletto, un’arte antica legata indissolubilmente alla storia del costume, del tessuto, dell’arte e dell’architettura di Venezia e della sua Laguna.
L’arte cinematografica si è fatta, dunque, strumento di promozione turistica per il giovane museo lagunare, ubicato presso lo storico palazzetto del Podestà di Torcello, già sede, dal 1872 al 1970, della celebre Scuola del merletto, fondata dalla contessa Adriana Marcello. In queste antiche sale di piazza Galuppi, all’interno delle quali Daniela Ferretti ha portato la policromia tipica dell’isola, sono allineati oltre centocinquanta esemplari di pizzi, ma anche dipinti dei secoli XV-XX, incisioni, disegni, documenti, riviste, tessuti e costumi. Manufatti, questi, che raccontano un’arte tramandata di generazione in generazione, un antico mestiere, quasi esclusivamente femminile, che dall’unione di materiali poveri, quali ago e filo, e mani sapienti, continua a creare veri e propri capolavori.

Per saperne di più
«Fogli d'arte», il restyling del Museo del merletto di Burano
Il sito ufficiale del Museo del merletto di Burano


Didascalie delle immagini
[fig. 1] Foto di scena per il documentario «Il merletto, un’arte veneziana» («The Lace, a Venetian Art»), prodotto dalla Fondazione musei civici di Venezia e diretto da Alessandro Bettero; [fig. 2] Veduta esterna del Museo del Merletto di Burano, Venezia. Foto di Mario e Alessia Polesel; [fig. 1] Veduta interna del Museo del Merletto di Burano, Venezia. Particolare dell'allestimento di Daniela Ferretti al primo piano del palazzetto del Podestà di Torcello


Informazioni utili
«Il merletto, un’arte veneziana» («The Lace, a Venetian Art»). Documentario, durata (40 min.). Regia: Alessandro Bettero. Produzione: Fondazione Musei Civici di Venezia. Produttore esecutivo: Amelia Fiorenzato. Coordinatore esecutivo: Paola Chiapperino, con la collaborazione di Chiara Squarcina, Fondazione Musei civici di Venezia. Testi: Doretta Davanzo Poli, Università Ca’ Foscari - Venezia. Fotografia: Lorenzo Pezzano. Focus Pullers: Matteo Bolzonello, Davide Ceccato. Montaggio e post-produzione audio: Luca Giacon. Colorist: Francesco Marotta. Musiche: Alberto De Piero e l’Orchestra Filarmonia Italiana.
Museo del merletto di Burano, piazza Galuppi 187 - Burano (Venezia). Orari: dal 1° aprile al 31 ottobre, ore 10.00–18.00 (biglietteria 10.00– 17.30); dal 1° novembre al 31 marzo, 10.00–17.00 (biglietteria 10.00–16.30); chiuso il lunedì.Ingresso: intero  € 5,00, ridotto € 3,50 [ragazzi da 6 a 14 anni; studenti* dai 15 ai 25 anni; accompagnatori (max. 2) di gruppi di ragazzi o studenti; cittadini ultrasessantacinquenni; personale del Ministero per i Beni e le Attività culturali; titolari di Carta Rolling Venice; soci FAI]. Informazioni: tel. +39.041.730034 o museo.merletto@fmcvenezia.it.