ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 5 dicembre 2016

Carol Rama tra passioni e inquietudini

I «vantaggi di essere una donna artista» consistono nel «sapere che la tua carriera potrebbe esplodere quando hai ottant’anni». La dichiarazione del gruppo Guerrilla Girls ben si sposa con quanto è successo a Carol Rama (Torino, 1918-2015), autrice ignorata a lungo dalla storia dell’arte ufficiale per sua rappresentazione dissidente della sessualità femminile, la cui opera è stata riconosciuta a livello internazionale solo nel 2003, con il Leone d’oro della Biennale di Venezia.
Carol Rama è, però, un’artista indispensabile per comprendere i mutamenti della rappresentazione pittorica nel XX secolo e, nel contempo, il lavoro di autrici quali Cindy ShermanKara WalkerSue WilliamsKiki Smith o Elly Strik.
Di grande interesse si rivela, dunque, la mostra, a cura di Teresa Grandas e Paul B. Preciado, che la Gam – Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino dedica all’artista e che ne segna la consacrazione internazionale attraverso l’esposizione di circa duecento opere che abbracciano settant’anni di carriera (dal 1936 al 2005), delle quali rimarrà documentazione in un catalogo edito da Silvana editoriale.
Nata nel 1918 da una famiglia di piccoli industriali torinesi, priva di una formazione artistica accademica, Carol Rama lascia nella sua opera giovanile l’impronta dell’esperienza della reclusione in istituto (fu probabilmente la madre a essere internata in un ospedale psichiatrico) e della morte (il padre, con ogni probabilità, si suicidò).
Negli anni Trenta e Quaranta l’artista inizia a inventare una grammatica visiva tutta sua, attraverso acquerelli figurativi. Nelle serie «Appassionata e Dorina» appaiono membri amputati e lingue erette: sono i corpi malati e istituzionalizzati cui l’opera dell’artista darà visibilità, esaltandoli attraverso una rappresentazione vitalista e sessualizzata e restituendoli come soggetti politici e di delizia. Queste opere del primo periodo si ribellano alle norme dei codici etici imposti dall’Italia fascista. Leggenda vuole che alcuni lavori dell’epoca, esposti per la prima volta nel 1945, furono censurati per «oscenità» dal governo italiano.
Nel decennio degli anni Cinquanta l’artista si associa al Movimento di arte concreta per dare, secondo la sua stessa espressione, «un certo ordine» e «limitare l’eccesso di libertà». Poco a poco si disfa, però, delle convenzioni geometriche del Mac e inizia a sperimentare con nuovi materiali e nuove tecniche. La svolta verso l’astrazione la porta a giocare, negli anni Sessanta, con l’arte informale e lo spazialismo e a sviluppare i suoi bricolage: mappe organiche fatte di unghie, cannule, segni matematici, siringhe e componenti elettrici. Queste opere, fatte per essere «sperimentate» con tutti i sensi più che semplicemente viste, riorganizzano in maniera aleatoria materiali organici e inorganici, includendo parole e nomi quali Bomb, Mao Tse-Tung o Martin Luther King.
Alla fine degli anni Sessanta, il mondo dell’arte sia italiano sia internazionale è soprattutto attraversato dalle opere di artisti uomini e pertanto la sua ricerca rimane isolata.
All’incrocio tra arte povera, junk art e Nouveau Réalisme, l’opera dell’artista torinese è più viscerale e più sporca che povera. Carol Rama aveva, infatti, capito che non solo gli oggetti inorganici dovevano essere recuperati attraverso un nuovo incontro utopico con la materia, ma che il corpo stesso, i suoi organi e fluidi, oggetti della gestione politica e del controllo sociale, dovevano anch’essi essere sottoposti a un recupero plastico.
Negli anni Settanta, l’artista si ricollega alla sua biografia attraverso l’intensità dei materiali. È in quest’epoca che impiega quasi esclusivamente la gomma proveniente dagli pneumatici delle biciclette, materiale che conosce bene poiché il padre aveva avuto una piccola fabbrica che tra l’altro produceva biciclette a Torino. Carol Rama disseziona gli pneumatici, li trasforma in superfici bidimensionali, crea forme attraverso l’assemblaggio di diversi colori e tessiture. Gli pneumatici, invecchiati dalla luce e dal tempo, sgonfiati, flaccidi e in decomposizione sono, al pari dei nostri corpi, «organismi ancora ben definiti e vulnerabili».
Nel 1980 la storia e critica d’arte Lea Vergine, alla quale si deve la riscoperta dell’artista, include una selezione dei suoi primi acquerelli nella mostra collettiva «L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940», in cui riunisce opere di oltre un centinaio di artiste.
Negli stessi anni Carol Rama riprende alcuni temi iconografici degli inizi, tornando alla figurazione.
Nel decennio successivo non ricorre più a figure della femminilità, bensì alla figura dell’animale malato affetto da encefalopatia spongiforme bovina: la mucca pazza. Gli elementi e motivi caratteristici di Carol Rama -il caucciù, le tele dei sacchi postali, i seni, le lingue, i peni, le dentature- si riorganizzano per formare un’anatomia distorta che non può più costituire un corpo. Ciò nonostante, Rama si spingerà fino a definire questi lavori non-figurativi come autoritratti. Un percorso, dunque, interessante quello della mostra torinese che racconta come Carol Rama abbia visto l’arte come un modo per esorcizzare inquietudini esistenziali e paure. Lei stessa diceva, infatti, «la mia sicurezza esiste solo davanti a un foglio da riempire. Il lavoro è l’unico modo di togliermi le paure. La mia trasgressione è la pittura».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Carol Rama, Nonna Carolina, 1936. Acquerello su carta, 24 x 35 cm. Proprietà della Fondazione per l'Arte Moderna e Contemporanea-CRT in comodato presso la Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Torino e presso il Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Photo: Roberto Goffi, Torino; [fig. 2] Carol Rama, La macelleria, 1980. Tecnica mista su tela, 120 x 120 cm. Collezione privata; [fig. 3] Carol Rama, Lusinghe, 2003. Tecnica mista e incisione su carta foderata, 25 x 35 cm. Collezione Charles Asprey, Londra. Photo: Andy Keate; [fig. 4] Carol Rama, Appassionata, 1940. 41.5 x 30.5 cm, Acquerello e matita su carta. Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - GAM – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino

Informazioni utili 
La passione secondo Carol Rama. GaM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, via Magenta, 31 – Torino. Orari: martedì – domenica, ore 10.00-18.00; chiuso lunedì | la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 011. 4429518 o gam@fondazionetorinomusei.it. Sito internet: www.fondazionetorinomusei.it. Fino al 5 febbraio 2017. 

venerdì 2 dicembre 2016

Paolo Venini e la sua fornace in mostra a Venezia

È dedicata a Paolo Venini (1895-1959) la nuova mostra del progetto «Le stanze del vetro», ideato dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia con Pentagram Stiftung. Fino al prossimo 8 gennaio lo spazio espositivo sull’isola di San Giorgio Maggiore ospita trecento opere uscite dalla fornace dell’imprenditore milanese di nascita e muranese d’adozione, che ha scritto nel Novecento un’importante pagina della storia del vetro italiano e internazionale, in compagnia di artisti come Tyra Lundgren, Gio Ponti, Riccardo Licata, Ken Scott, Massimo Vignelli e Tobia Scarpa.
Paolo Venini, dopo una prima esperienza con Giacomo Cappellin nella V.S.M. Cappellin Venini & C. (1921-1925), fondò nel 1925 la vetreria V.S.M. Venini & C. con Napoleone Martinuzzi e Francesco Zecchin. Divenuto in seguito presidente della società, operò instancabilmente come grande regista e direttore della ditta fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1959. Nel corso di quarant’anni di attività si avvalse della collaborazione di grandi artisti come lo scultore Napoleone Martinuzzi, gli architetti Tomaso Buzzi e Carlo Scarpa e il designer Fulvio Bianconi. Ma Paolo Venini, imprenditore colto e interessato sia ai fermenti artistici coevi sia alle esigenze del mercato internazionale, intervenne anche come ideatore di nuove serie di vetri, avvalendosi del proprio ufficio tecnico e contribuendo all’articolato catalogo della vetreria che vide comunque l’intervento di più autori.
Grazie a un attento lavoro di ricerca, la mostra veneziana, con il relativo catalogo edito da Skira, documentano la produzione nata da specifiche scelte di Paolo Venini che hanno portato ad esempio, a serie come i vetri Diamante in cristallo, nella seconda metà degli anni Trenta. È, però, negli anni Cinquanta che l’imprenditore si dedicò con assiduità alla creazione di nuovi vetri ottenendo un grande successo alla Triennale di Milano e alla Biennale di Venezia, ma anche nelle manifestazioni internazionali a sostegno e per la diffusione del design e dell’artigianato italiano che si tenevano sia in Europa che negli Stati Uniti.
Diversi vetri pensati da Paolo Venini nacquero da una raffinata rilettura in chiave innovativa di alcune tecniche tradizionali muranesi come quella dello zanfirico di cui vennero proposte alcune varianti soprattutto tra il 1950 e il 1954. Esemplari sono gli eleganti zanfirici (1950-51) in vetro lattimo o in versione policroma, gli elaborati zanfirici a reticello (1954), monocromi e talvolta ricchi di colore, insieme ai vetri mosaico zanfirico (1954) impreziositi dall’articolata trama bianca che risalta sulla parete colorata. Di grande effetto sono, poi, i vetri mosaico tessuto multicolore (1954), caratterizzati da un’inedita tessitura a fili policromi con tonalità delicate.
Dal 1953 vi fu una ripresa della tecnica della murrina che portò progressivamente alla nascita di ricercate tipologie di tessuto vitreo, perlopiù opaco, (a dame, mezzaluna, a puntini) eseguito con suggestivi accostamenti cromatici. Risentendo dell’influsso del design nordico, la produzione si orientò poi verso delicate monocromie associate a velature o incisioni dovute a lavorazioni a freddo che portarono alla cospicua serie dei vetri incisi (1956-57). Di grande successo, in quegli stessi anni, furono inoltre la variopinta serie di bottiglie e le coloratissime vetrate presentate alla Triennale del 1957, dove si distinsero per il notevole effetto decorativo.
Pur mettendo al centro dell’esposizione la straordinaria personalità e il ruolo di Paolo Venini, la mostra vuole illustrare anche la produzione dovuta agli autori che collaborarono con lui in maniera episodica tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, chiamati dallo stesso Venini o giunti perché interessati alla qualità del lavoro della sua fornace. Alla metà degli anni Trenta risale la collaborazione con la ceramista svedese Tyra Lundgren (1897-1979) che, oltre ad alcuni vasi, propose un ricco bestiario di volatili, pesci, serpenti, e diverse foglie dalle fogge variegate; del Dopoguerra sono le fantasiose bottiglie, i servizi da tavola e le lampade dell’architetto Gio Ponti (1891-1979).
Nella seconda metà del XX secolo transitarono per la vetreria il designer Piero Fornasetti (1913-1988), a cui si deve un originale servizio da tavola, e il pittore di origini russe Eugène Berman (1899-1972) che creò il centrotavola «Le rovine» in vetro trasparente. L’americano Ken Scott (1918-1989) ideò una coloratissima serie di pesci stilizzati in vetro opaco realizzata per il grande magazzino americano Macy’s, mentre Charles Lin Tissot (1904-1994), anch’egli statunitense, propose originali interpretazioni della tecnica dello zanfirico.
Alle sperimentazioni del pittore Riccardo Licata (1929-2014) si deve una piccola ma fortunata serie di vetri, esposti alla Biennale del 1956, caratterizzati da una fascia di murrine di sua ideazione. Dalla metà degli anni Cinquanta anche gli architetti Massimo Vignelli (1931-2014) e Tobia Scarpa (1935) parteciparono alla vita della Venini: il primo, tra il 1954 e il 1958, si dedicò all’illuminazione e ai servizi da tavola, il secondo, tra il 1959 e il 1962, mise a disposizione la sua creatività ideando tra l’altro nuove serie in vetro murrino o battuto. I contatti con i paesi nordici, infine, portarono Paolo Venini a una breve collaborazione, interrotta dalla sua scomparsa, con la designer norvegese Grete Prytz (1917-2010), che realizzò alcuni gioielli in vetro e argento (1958-59).

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Paolo Venini, Vasi in vetro a murrine “a dame” (a scacchiera), 1953; [fig. 2] Paolo Venini, Vasi in vetro della serie "diamante”, 1934-36; [fig. 3] Paolo Venini, Vasi in vetro mosaico con “tessuto” multicolore, 1954; [fig. 4] Paolo Venini, Vasi della serie “incisi”, 1956-57

Informazioni utili
Paolo Venini e la sua fornace. Le stanze del vetro, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Oari: 10.00-19.00; chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org. Fino all’8 gennaio 2016. 

giovedì 1 dicembre 2016

Origgio: tre nuove opere per la «città delle sculture»

Non è un’etichetta semplice da portare quella di «città delle sculture» da poco assegnata a Origgio, paese del Varesotto, nel cui parco comunale hanno da poco trovato collocazione definitiva tre opere di altrettanti artisti contemporanei: Louise Bourgeois, Giovanni Rizzoli e Tristano di Robilant.
La cittadina alle porte di Milano entra così a far parte di quel ricco numero di musei en plein air nati negli ultimi decenni nel nostro Paese, principalmente grazie alla volontà di privati o di lungimiranti amministrazioni comunali, tra i quali si ricordano la Fiumara d’arte in Sicilia, il Marca in Calabria, il Parco di Pinocchio a Pescia, La Marrana a Montemarcello o Villa Verzegnis a Udine.
Il progetto di donazione delle tre opere alla Città di Origgio risale a una quindicina di anni fa: fu in quel periodo che una delegazione del comune varesino, noto agli artisti per la presenza dell’attiva fonderia artistica 3v di Walter Vaghi, si recò a New York e, grazie all’intercessione di Giovanni Rizzoli, chiese con una certa dose di audacia a Louise Bourgeois, allora novantenne, di realizzare una scultura per la città.
L’artista franco-americana assunse e mantenne quell’impegno, ideando un’opera che purtroppo non vide mai realizzata, dopo averne tuttavia modellato il prototipo: «The Couple» (2003).
L’opera, sospesa al ramo di un albero secolare, rappresenta un abbraccio dalle dimensioni imponenti –365,1 x 200 x 109,9 cm– e dal peso di circa 635 chilogrammi, che cattura lo sguardo per la sua gravità trasformata in leggerezza e per la tensione plastica sprigionata dai due corpi – novelli Paolo e Francesca di dantesca memoria – che si attraggono e respingono avvolti in una spirale che ne confonde forme e sembianze.
«Le figure si uniscono, l’una nelle braccia dell’altra -raccontava l’artista durante il disegno di «The Couple»-. Nulla potrà separarle. È uno stato precario e fragile. Malgrado tutti i nostri handicap, ci teniamo fra le braccia a vicenda. Quello che mi interessa veramente è il concetto dell’Altro. Si tratta di un punto di vista ottimistico. Incastrate assieme, vorticano per l’eternità».
Una tensione differente, più intima, è quella proposta dalla scultura «Naughty Girl» (2009-2010) di Giovanni Rizzoli: una gabbia che custodisce una giovane ragazza con ombrellino che, in ginocchio su un trespolo, come un uccellino esotico sembra cercare riparo e protezione da sguardi indiscreti, mentre leggera si accinge a compiere eleganti evoluzioni, «esprimendo un’emozione adolescenziale di coercizione e contentezza allo stesso tempo».
La leggerezza sembra essere il denominatore comune anche della terza scultura, «Elijah’s Cloud» (2012) di Tristano di Robilant.
La «nuvola di Elia» che «risolve anni di siccità», concepita in vetro soffiato e successivamente ingrandita fino a quasi tre metri e mezzo di altezza per la fusione in alluminio, sorge su un gambo di calice, quasi un bicchiere metaforicamente colmo d’acqua, pronto per essere rovesciato.
Un progetto, dunque, interessante quello realizzato da Origgio che entra così a pieno titolo tra i paesi che ospitano musei all’aperto e che può anche dire di essere l’unica città in Europa a esporre una scultura di Louise Bourgeois in uno spazio pubblico non museale.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1[ Louse Bourgeois, The Couple, 2003. Alluminio, scultura appesa, 365,1 x 200 x 109,9 cm. Installation view, Parco di
Origgio. © The Easton Foundation/SIAE; [fig. 2] Tristano Di Robilant, Elijah’s Cloud, 2012. Installation view, Parco di Origgio. Photo: Serena Clessi; [fig. 3] Giovanni Rizzoli, Naughty Girl, 2009-2010. Installation view, Parco di Origgio. Photo: Serena Clessi

Informazioni utili 
www.comune.origgio.va.it