ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

sabato 23 dicembre 2017

Un insolito Natale: festa a casa de' Bisognosi

Natale per «Culturando» è sinonimo di favola. Dopo la storia dello scorso anno dedicata a Gioachino Rossini e al suo pantagruelico pranzo del 25 dicembre, gli «Attori in erba» (diciotto ragazzi dagli 11 ai 15 anni) rivolgono la loro attenzione al magico mondo della Commedia dell’arte, soffermandosi sulla figura di Pantalone de’ Bisognosi. Il laboratorio di scrittura creativa della scuola multidisciplinare di teatro «Il cantiere delle arti» ha presentato venerdì 22 dicembre, nell’ambito della lezione aperta «...E che festa sia» (che ha visto in scena anche «I piccoli attori»), una favola-canovaccio redatta nell’ambito del progetto «Tra maschere, lazzi e canovacci». Firmano l’idea Sara Mascheroni e Anna Giulia Pittarello.

LA FAVOLA: Sarà per tradizione. Sarà per autentico sentimento. Ma a Natale siamo tutti più buoni, generosi, affabili e sereni. Tutti, tranne uno: Pantalone de’ Bisognosi. A casa sua non si fanno l’albero e il presepe. Non si scartano i regali. E, soprattutto, non ci si abbuffa con dolci e leccornie. Ne sanno qualcosa Arlecchino, Brighella, Pulcinella, Colombina, la figlia Isabella e lo storico amico Pantofola da Montepulciano, al quale si deve uno dei soprannomi più conosciuti del ricco mercante veneziano: «braccino corto».

Ormai da anni, la sera della Vigilia nella casa di Pantalone si serve in tavola un menù a dir poco insolito: «zuppa di pane (poco) e cipolle (tante), profumo di carne sniffato dalla cucina del vicino, insalata di erbe amare e invidia (sì, proprio invidia, non indivia come farebbero tutti gli altri), e, per dessert, un biscotto secco, anzi secchissimo». Sarebbe stato così anche quell’anno? Sembrava proprio di sì.

Mancavano ormai pochi giorni a Natale e Pantalone rispondeva sempre con un no deciso a tutte le proposte dei suoi servitori.
 «Vado a prendere in ripostiglio l’albero e le decorazioni per abbellire la casa?», chiedeva civettuola Colombina.
 «Un mio amico di Napoli mi ha regalato un bel presepe del Settecento, fatto dagli artigiani di via San Gregorio Armeno. Lo mettiamo in salotto, vicino alla finestra che si affaccia sul Canal Grande?», domandava con il solito atteggiamento svogliato Pulcinella.

«Sior paròn, g’ho già una fame che no ghe vedo. Mi sogno la cena della Vigilia da giorni: mi immagino sulla nostra tavola natalizia bigoli in salsa, risi e bisi, sardele in saor, baccalà mantecato, moleche col pien, baìcoli, torone e il panettone di Meneghino. Giuro che mangerò tutto e ne vorrò ancor di più. Sior paròn, vado a far la spesa così siamo sicuri di avere tutto in dispensa?», chiedeva con un sorriso astuto Arlecchino.
A tutte le domande Pantalone rispondeva «Nooo. Gh’ho dito no ed è no. A casa nostra non si festeggia il Natale». Ma il ricco mercante di Venezia non aveva fatto i conti con un  «buffo uomo vestito di rosso», dalla lunga barba bianca e con la casa piena di regali per i bambini di tutto il mondo.

 La sera del 23 dicembre di quell’anno, in anticipo di qualche ora (forse un po’ troppe), Babbo Natale planò con la sua slitta sul tetto del palazzo de’ Bisognosi, si calò lentamente nel camino, andò in cucina e…rapì Colombina.

Potete immaginare che gran trambusto ci fu in quella casa. Arlecchino piangeva disperato pensando di aver perso per sempre l’amore della sua vita e, soprattutto, la sua locandiera personale. Brighella temeva di dover lavorare anche il giorno di Natale ed era quasi certo che Pulcinella, sempre impegnato dalla mattina alla sera nell’arte del «dolce far niente», non lo avrebbe aiutato nemmeno in quella difficile situazione. Pantalone, invece, era contento, anzi contentissimo: in casa ci sarebbe stata una persona in meno a ricordargli che si stava avvicinando il 25 dicembre. Mentre la slitta di Babbo Natale volava in cielo, il ricco mercante veneziano si era messo addirittura a ridere, saltare e gridare: «Addio Colombina. È stato un piacere averti conosciuta, ma era già da qualche tempo che pensavo di sostituirti con la tua amica Smeraldina. Non ti preoccupare, mi hanno detto che se un buffo uomo vestito di rosso ti mette in un sacco e ti rapisce, non devi aver paura: qualcuno ha chiesto un tesoro per Natale. Ah, ah, che ridere! E adesso mi chiudo nella mia stanza e ci rimango fino al 26 dicembre. Ah, ah, che ridere!».

Babbo Natale sorrise serafico e pensò tra sé e sé: «mio caro vecchio barbagianni, chi la fa, l’aspetti». Colombina era, infatti, il prezioso regalo che avrebbe trovato sotto l’albero Isabella, la figlia di Pantalone, per realizzare il suo più grande sogno: una festa di Natale per tutti i veneziani, che avrebbe riunito intorno allo stesso grande tavolo adulti e bambini, ricchi e poveri, simpatici e antipatici, amici e nemici.

In gran segreto tutte le maschere della Commedia dell’arte stavano arrivando a Venezia, su invito del «buffo uomo vestito di rosso», con un piatto tipico della loro terra: Tartaglia avrebbe portato la pizza napoletana e gli strufoli, Peppe Nappa i cannoli e le cassate, Gianduja i gianduiotti e il bollito misto alla piemontese con il bagnet ross e verd, il dottor Balanzone la mortadella di Bologna e i tortellini da fare in brodo, Meo Patacca gli gnocchi alla romana, Meneghino il panettone e Pantofola da Montepulciano del buon vino toscano. Mentre Colombina avrebbe preparato tutti i piatti veneziani che piacevano tanto al suo amato Arlecchino.

 Ci vollero una notte e un giorno per i preparativi: si dovette diramare l’invito a tutti i veneziani, preparare l’albero e il presepe, incartare i regali e portare di nascosto le pietanze nel palazzo di Pantalone, l’inconsapevole ospitante della festa. Il segreto non durò molto. Al primo vociare di bambini, il vecchio mercante si alzò di scatto dal letto. Uscì dalla sua stanza. Si guardò intorno. Capì che cosa stava succedendo e decise di far pagare a tutti il biglietto di ingresso al palazzo. Ci volle l’intervento di Isabella per far capire al padre che in una serata tanto speciale come quella della nascita di Gesù l’unica moneta da far pagare erano le parole di poesie famose e le note di belle canzoni e così fu, ma non prima che Pantalone dicesse a tutti i presenti: «…E che festa sia!».

 Forse è vero: a Natale siamo tutti un po’ più buoni.

Gli ATTORI IN ERBA di CULTURANDO


venerdì 22 dicembre 2017

Strenne di Natale, Electa Mondadori riedita il «Pinocchio» di Alberto Longoni

«C'era una volta... -Un re!- diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno […]». Era il luglio 1881 e il «Giornale dei bambini», inserto settimanale del quotidiano «Il Fanfulla», pubblicava la prima puntata di «Storia di un burattino», romanzo di Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini) destinato a diventare, con il titolo «Le avventure di Pinocchio», il libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia e di certo uno dei capolavori della letteratura per ragazzi italiana, anche grazie al parere favorevole di Benedetto Croce.
Esuberante fino allo sfinimento, intollerante a qualsiasi regola, bugiardo di fronte all’evidenza, ma anche fiducioso nel prossimo, disposto a fare ammenda dei propri errori e ingenuo come solo i sognatori sanno essere, il «burattino più discolo di tutti i discoli» ha conquistato generazioni di piccoli lettori. Agli albori del Novecento, «Le avventure di Pinocchio» contavano, infatti, ben trecentomila copie stampate; oggi il libro può essere letto in oltre duecentocinquanta lingue (latino ed esperanto compresi) e dialetti, stando agli studi della Fondazione Collodi basati sui dati Unesco.
Tantissimi anche gli illustratori che si sono fatti suggestionare dal burattino più amato dai ragazzi, come, per esempio, Carlo Chiostri (Benporad, Firenze 1912) Emanuele Luzzati (Nuages, Milano 2002), Alvaro Mairani (Lito editrice, Milano 1990) e Cecco Mariniello (Piemme, Casale Monferrato 2002).
Passano, dunque, gli anni; cambiano mode e generazioni, ma la storia del burattino «condannato» dal suo naso ad essere sincero in un mondo di ipocrisia continua a solleticare la fantasia di grandi e piccini, senza mai conoscere eclissi ed oblio, forse perché, per dirla con le parole di Benedetto Croce, attraverso le pagine di questo libro si «trova facilmente la via del cuore».
In occasione del Natale, Electa Mondadori punta proprio su «Le avventure di Pinocchio» per una delle sue più preziose Strenne, ripubblicando l’opera illustrata da Alberto Longoni e pubblicata da Vallardi nel 1963, ormai introvabile sul mercato.
Si tratta di una preziosa edizione numerata a tiratura limitata e numerata (millecinquecento le copie complessivamente stampate), con un formato da cofeee table volto a valorizzare le magnifiche tavole dell’artista, arricchito da una preziosa introduzione di Dino Buzzati.
Alberto Longoni, noto anche per aver vinto nel 1953 il premio Trieste per la caricatura, ci ha lasciato una raffinata e al tempo stesso ironica e pungente interpretazione grafica dei personaggi di questo classico intramontabile della letteratura infantile.
I suoi disegni al tratto, in bianco e nero, sono riprodotti nel volume a piena e a doppia pagina.
Il libro include, inoltre, un folder a quattro ante con la splendida scena del pesce che inghiotte il burattino. Un Pinocchio, dunque, elegante quello di Longoni, apprezzato anche da Dino Buzzati che ebbe a scrivere «ogni generazione ha il Pinocchio che si merita».

Informazioni utili 
Carlo Colldi, Storia di Pinocchio. Le avventure di un burattino, Mondadori Electa, Milano novembre 2017. Illustrazioni di Alberto Longoni, prefazione di Dino Buzzati. Dati tecnici: edizione a tiratura limitata e numerata – 1500 copie | 29 x 43 cm | 74 pp. | costo: € 90,00

giovedì 21 dicembre 2017

Antonietta Raphaël Mafai: in mostra a Roma le opere su carta

«Ho perduto parecchio tempo a disegnare, ma in fondo disegnare non è mai tempo perduto. È piuttosto una chiarificazione di ciò che un artista pensa di realizzare nella pittura e nella scultura». Così, nel 1968, Antonietta Raphaël Mafai parlava del disegno, strumento per lei indispensabile e funzionale nel fissare un’immagine, un’idea, una sensazione sulla quale lavorare senza sosta.
A questo aspetto della ricca produzione della pittrice e scultrice lituana, naturalizzata italiana, è dedicata la mostra allestita fino al 21 gennaio negli spazi del Museo Carlo Bilotti di Roma, nell’Aranciera di Villa Borghese, per la curatela di Giorgia Calò.
L’esposizione, che sarà accompagnata dalla pubblicazione del libro «103 Drawings by Antonietta Raphaël», edito dalla DFRG Press LTD, allinea una cinquantina di carte dell’artista, la maggior parte delle quali inedite e provenienti da collezioni private, che ripercorrono la sua lunga attività, dagli anni Venti fino al 1975, anno della sua scomparsa.
Per la Raphaël Mafai il disegno era -racconta la figlia Giulia, nel suo testo introduttivo per la mostra- «una pausa, un diario continuo, un esercizio, […] un dialogo continuo con se stessa, i suoi pensieri, le immagini sognate, i desideri. Alle volte era una lotta, altre un riposo che con gioia si concedeva come un regalo, quando tornava dallo studio la sera».
Le carte esposte a Roma permettono così di ripercorrere le varie fasi creative dell’artista il suo cambiamento stilistico col passare dei decenni: alle pose bloccate degli anni Trenta, influenzate dal modello egizio e dalla statuaria greca arcaica, si sostituisce, per esempio, una gestualità sintetica e più dinamica.
L’opera grafica si palesa, dunque, come strumento espressivo ricco, complesso e indipendente alla pari della pittura e della scultura stessa, poggiando sul confronto tra diverse tematiche e sull’utilizzo di materiali diversi come la carta e il bronzo.
Tra i temi prediletti ci sono il nudo (prevalentemente femminile), il volto, la maternità e la fertilità. Sono tematiche queste che rispondono a un’ispirazione fatta di richiami alla vita familiare e alla realtà quotidiana, ma anche alla radice ebraica dell’artista. Non a caso Roberto Loghi parlò della Raphaël Mafai come di una «compagna di latte di Chagall» per quel suo far abitare l’opera d’arte da colori infiammati e da storie dal «sapore prettamente russo», tendenti all’arabesco di gusto arcaico e popolaresco.
Centrale è, dunque, nella produzione grafica della pittrice e scultrice lituana la figura femminile, con la cui rappresentazione del corpo «instaura -per usare le parole della figlia Giulia- un rapporto molto forte e diretto, non volgare, finalmente liberato dai falsi pudori e moralismi ottocenteschi e dalle violenze dei nuovi artisti».
Il corpo femminile, nella grafica della Raphaël Mafai, sembra voler uscire, liberarsi, diventare protagonista assoluto alla ricerca di un intimo eros appagante. «La donna viene raccontata come forza primaria e creatrice o, sempre per usare le parole della figlia Giulia, come araba fenice che pugnalata, annientata, distrutta, rinasce sempre».
Alcuni dei disegni in esposizione sono stati realizzati da Raphaël come bozzetti per i suoi lavori scultorei, tecnica a cui l’artista giunge in un secondo momento della sua carriera fino a diventare la sua principale scelta espressiva, con una determinazione che ne farà «l’unica autentica scultrice italiana», come dirà di lei Cesare Brandi.I
l percorso espositivo si apre nella project room per poi proseguire in altre tre salette, una delle quali dedicata alla documentazione con filmati, pubblicazioni e materiali che spiegano il percorso e la carriera di Antonietta Raphaël Mafai, fondatrice, insieme a Mario Mafai e Scipione, della Scuola Romana.
In mostra sono esposte anche alcune sculture, allestite a fianco dello studio preparatorio. Il lavoro di Antonietta Raphaël va, infatti, visto nel suo insieme. Non si può capire fino in fondo la sua ricerca scultorea (e pittorica, di cui vi sono in mostra due splendidi esempi) senza tenere conto dei disegni preparatori, a volte decine che spesso esulano dalla semplice prova tecnica, per diventare opere a sé, indipendenti dal passaggio successivo che li trasformerà in oggetti plastici.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Antonietta Raphaël Mafai, Autoritratto, inchiostro acquerellato, cm 28x22, 1948; [fig. 2] Antonietta Raphaël Mafai, Il sonno, inchiostro ed acquerello, cm 22x28,1966; [fig. 3] Antonietta Raphaël Mafai, Amanti, inchiostro, cm 24x34, 1970

Informazioni utili 
Antonietta Raphaël Mafai - Carte. Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, viale Fiorello La Guardia - Roma. Orari: da martedì a venerdì e festivi, ore 10.00 - 16.00 (ingresso consentito fino alle 15.30); sabato e domenica, ore 10.00 - 19.00 (ingresso consentito fino alle 18.30); 24 e 31 dicembre, ore 10.00-14.00 (ingresso consentito fino alle 13.30) | giorni di chiusura: lunedì, 1 gennaio, 25 dicembre. Ingresso gratuito. Informazioni: 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00). Sito internet: www.museocarlobilotti.it o www.museiincomune.it. Fino al 21 gennaio 2018