ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 20 giugno 2019

Nella Marchesini: una pittura di famiglia, donne e silenzi. A Torino

Visse l’arte come una «stella polare». Lavorò con pennelli, chine e colori con grande dedizione e assaporò quella capacità unica della pittura e del disegno di far dimenticare le «incombenze» della vita quotidiana. Stiamo parlando di Nella Marchesini (Marina di Massa, 1901 - Torino, 1953), artista della prima metà del Novecento a cui la Gam di Torino dedica la sua prossima mostra negli spazi della Wunderkammer, la «Camera delle meraviglie» dove, dal 2009, è possibile scoprire una delle raccolte meno conosciute e più cospicue del museo piemontese, quella dedicata alla grafica d’autore.
Nata a Marina di Massa nel 1901, insieme alla famiglia, Nella Marchesini si trasferisce a Torino durante la Grande guerra. Con le sorelle Maria e Ada, appartiene alla cerchia intellettuale dei giovani raccolti intorno a Piero Gobetti e alle sue riviste. È legata ad Ada Prospero, moglie e poi vedova di Gobetti, partigiana, sposata con Ettore, uno dei fratelli Marchesini. È amica di Carlo Levi, non ancora pittore, e dei futuri letterati e storici Natalino Sapegno, Edmondo Rho e Federico Chabod. È la prima allieva di Felice Casorati, la capostipite della sua Scuola libera di pittura, dove lavorerà fianco a fianco a molte compagne e compagni, fra i quali Lalla Romano, Paola Levi Montalcini, Daphne Maugham, Albino Galvano e Marisa Mori.
La scuola di Casorati è un «chiostro», come lo definirà l’artista stessa, lo spazio di un apprendistato severo e disciplinato e, allo stesso tempo, un luogo aperto, frequentato da amici e personalità come Mario Soldati, Giulio Carlo Argan e Italo Cremona. Il matrimonio, nel 1930, con Ugo Malvano, pittore di formazione parigina, estenderà il raggio delle sue referenze, aprendo il consueto lavoro in atelier, basato sulla lezione degli antichi maestri e concentrato sulla figura e sulla natura morta, a quello dell’arte e dei paesaggi della modernità internazionale. Nella Marchesini esce all’aperto, si addentra nella natura, scoperta e indagata durante le villeggiature estive che trascorre con i tre figli piccoli in Val d’Aosta e poi, negli anni della Seconda guerra mondiale, in Valchiusella, al riparo dai bombardamenti su Torino.
La mostra alla Gam di Torino -curata da Giorgina Bertolino e Alessandro Botta, autori nel 2014 del Catalogo generale dedicato all’artista- presenta un gruppo di trenta opere, fra dipinti e disegni, realizzati tra il 1920 e il 1953. Le opere sono sia provenienti da collezioni private sia di proprietà della Gam, dove giunsero con un’acquisizione del 1954 e grazie alla generosa donazione degli eredi Malvano-Marchesini, accolta da Rosanna Maggio Serra nel 1978.
Attraverso questi lavori vengono ricostruite tutte le stagioni dell’arte di Nella Marchesini e le tappe di una carriera espositiva scandita dalla partecipazione alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma e dalle presenze nelle gallerie private di Torino, Milano, Genova e Firenze.
Dal «Ritratto del padre» (1923) a «Tre donne» (1952), le opere esposte accompagnano il visitatore lungo un tragitto che mette in luce, attraverso il mutare della materia pittorica, le evoluzioni e le ricorrenze dei temi iconografici, dei soggetti e delle fonti. La predominanza dell’autoritratto, nelle diverse fasi dell’esistenza, offre il senso e la chiave di una pittura esercitata nella forma della narrazione e dell’autobiografia.
Le lettere, le cartoline, le fotografie d’epoca, i volumi e alcune pagine degli scritti dell’artista, conservati nell’Archivio Malvano-Marchesini, completano la rassegna, fornendo una mappa di documenti personali che racconta, in parallelo, la Torino fra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento.
«Sarebbe assurdo cercare il posto della sua pittura nel "giro" materiale dell'arte di oggi, di ieri e neppure di domani […] Isolamento? No, eccezione»: disse di lei Filippo Casorati tre anni dopo la sua morte, nel 1956. Nella Marchesini arricchì, infatti, con la sua cifra e voce peculiare il dialogo di quella intensa stagione della pittura italiana che fu l’inizio del Novecento, alimentando il versante di ricerca delle donne artiste attive in quegli anni. Lasciò ai posteri un universo poetico e professionale che si identifica con i confini dello spazio domestico e familiare, in cui figure femminili, nudi, autoritratti, nature morte dialogano con una serie di ritratti di famiglia.
I sobri accordi tonali e le geometrie nitide degli inizi lasciano, con gli anni, spazio a volumi quasi sfaldati, a pennellate rapide e a una luminosità più soffusa e indefinita, come dimostrano «L'Ireos» (1931 circa) e «La finestra dello studio» (1931). Opere, queste, che rendono palpabile anche il ricco mondo interiore dell'artista, quel suo essere sempre -disse Natalino Sapegno- «la più remota e la più silenziosa».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Nella Marchesini, in una fotografia del 1924 circa. Collezione privata; [fig. 2] Nella Marchesini, L’ireos (Autoritratto), 1931. Olio su cartone, 99 x 69,5 cm. Torino, collezione eredi Malvano-Marchesini; [fig. 3] Nella Marchesini, La finestra dello studio, 1931. Olio su cartone, 71 x 50,5 cm. Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea; [fig. 4] Nella Marchesini, Tre donne, 1952. Tempera e olio su compensato, 83 x 84,5 cm. Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea

Informazioni utili
Nella Marchesini. La vita nella pittura. Opere dal 1920 al 1953. Gam – Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, via Magenta, 31 - Torino. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.00, lunedì chiuso. La biglietteria chiude un’ora prima. Biglietti: intero € 10,00, ridotto € 8,00; Ingresso libero Abbonamento Musei e Torino Card. Informazioni: tel. 011.4429518 – 011.4436907, gam@fondazionetorinomusei.it . Sito internet: www.gamtorino.it. Dal 27 giugno al 29 settembre 2019. 

venerdì 14 giugno 2019

«The Self-Portrait and its Double»: Vivian Maier ritrae Vivian Maier

Tata di mestiere, fotografa per vocazione: quando si parla di Vivian Maier (1926-2009) è questa la prima espressione che viene in mente. L’artista americana -conosciuta al grande pubblico solo nel 2007 quando John Maloof acquistò all’asta il suo corposo archivio, composto da più di 150.000 negativi, super 8 e 16mm film, diverse registrazioni audio, alcune fotografie e centinaia di rullini non sviluppati- si occupava, infatti, dell’educazione dei figli degli altri e nel frattempo, con la sua inseparabile Rolleiflex, ritraeva in bianco e nero, con uno sguardo curioso, attratto da piccoli dettagli, scene di strada, ritratti di sconosciuti e il mondo dei bambini.
Vivian Maier era, dunque, un’ottima street photographer, capace di raccontare la bellezza dell’ordinario, scovando le fratture impercettibili e le inflessioni sfuggenti della realtà nella quotidianità che la circondava. Scattare ritratti era per lei una necessità. Era il modo attraverso il quale definiva la propria posizione nel mondo, e quello con cui provava a restituire l'ordine delle cose. Quando i protagonisti dei ritratti erano poveri, lasciava loro una legittima distanza. Quando, invece, appartenevano all'alta società metteva in atto azioni di disturbo facendo in modo che nello scatto risultassero infastiditi. La Maier aveva due facce: quella che accettava la propria condizione di bambinaia, e quella che, invece, la combatteva cercando di essere qualcun altro. Questo dualismo, generato dallo scontro tra le due anime, ha dato vita a una vicenda senza paragoni nella storia della fotografia.
Di Vivian Maier ci sono giunti anche molti autoritratti e sono proprio questi i protagonisti della mostra «The Self-Portrait and its Double», in programma dal 20 luglio al 16 ottobre al Magazzino delle Idee di Trieste, per la curatela di Anne Morin. L’esposizione -realizzata con la collaborazione della madrilena diChroma photography, della John Maloof Collection e della Howard Greenberg Gallery di New York- allinea settanta lavori, di cui cinquantanove in bianco e nero e undici a colori, questi ultimi mai esposti prima d’ora sul territorio italiano.
L'interesse di Vivian Maier per l'autoritratto era più che altro una disperata ricerca della sua identità. Ridotta all'invisibilità, a una sorta di inesistenza a causa dello status sociale, l’artista americana si mise a produrre prove inconfutabili della sua presenza in un mondo che sembrava non avere un posto per lei. Lasciò la sua memoria in tutti i luoghi dove ebbe occasione di lavorare come bambinaia per oltre quarant’anni, a partire dai primi anni Cinquanta e per quattro decenni, da New York a Chicago.
Il suo riflesso in uno specchio, la sua ombra che si estende a terra, o il contorno della sua figura: come in un lungo gioco a nascondino, tra ombre e riflessi, in mostra ogni autoritratto di Vivian Maier è un'affermazione della sua presenza in quel particolare luogo, in quel particolare momento.
Caratteristica ricorrente è l'ombra, diventata una firma inconfondibile nei suoi autoritratti. La sua silhouette, la cui caratteristica principale è il suo attaccamento al corpo, quel duplicato del corpo in negativo «scolpito dalla realtà», ha la capacità di rendere presente ciò che è assente.
Inedito nel percorso espositivo è il nucleo di immagini a colori. Per Vivian Maier, il passaggio al colore è stato accompagnato da un cambiamento dovuto all’utilizzo di una Leica all'inizio degli anni Settanta. La fotocamera è leggera, facile da portare: le foto sono riprese direttamente a livello dell'occhio, a differenza della Rolleiflex che usava prima. Vivian Maier è così in grado di raccogliere il contatto visivo con gli altri e fotografare il mondo nella sua realtà colorata. Il suo lavoro a colori rimane singolare, libero e anche giocoso. Esplora le caratteristiche specifiche del linguaggio cromatico con una certa casualità, elabora il proprio vocabolario, ma soprattutto si diverte con il reale: sottolineando stridenti dettagli di colore, mostrando le discrepanze multicolore della moda o giocando con brillanti contrappunti.
Accompagna gli scatti fotografici in mostra una serie di filmati in super 8mm realizzati dalla stessa Vivian Maier, che ci permettono di seguire il movimento dell'occhio dell’artista. Nel 1960 l’artista inizia, infatti, a filmare scene di strada, eventi e luoghi. Il suo approccio cinematografico è strettamente legato al suo linguaggio da fotografa: è una questione di esperienza visiva, di un’osservazione discreta e silenziosa del mondo che la circonda. Non c'è narrazione, nessun movimento della macchina (l'unico movimento cinematografico è quello della carrozza o della metropolitana in cui si trova). Vivian Maier filma quello che la porta all'immagine fotografica: osserva, si ferma intuitivamente su un soggetto e lo segue. Ingrandisce con la lente per avvicinarsi senza avvicinarsi e concentrarsi su un atteggiamento o un dettaglio (come le gambe e le mani di individui in mezzo alla folla). Il film è sia una documentazione (un uomo mentre viene arrestato dalla polizia, oppure i danni causati da un tornado) sia un oggetto di contemplazione (la strana processione di pecore ai mattatoi di Chicago).
Dall’esposizione triestina emerge, dunque, il ritratto di una fotografa, diventata icona solo in anni recenti, capace non solo di appropriarsi del linguaggio visivo della sua epoca, ma di farlo con uno sguardo sottile e un punto di vista acuto.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Vivian Maier, Untitled, Chicago, IL, 1974_Paper size: 11x14 inches. ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY; [fig. 2] Vivian Maier, Self-portrait on a beach in New York's Staten Island, 1954_ Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm) Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm)©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY; [fig. 3] Vian Maier, n.d.Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm) Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm); [fig. 4] Vivian Maier, 1955_Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm)_Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm) ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, N

Informazioni utili
Vivian Maier, The Self-Portrait and its Double. Magazzino delle Idee, Corso Camillo Benso conte di Cavour, 2 – Trieste. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00-20.00; lunedì chiuso | aperture straordinarie: 15 agosto. Informazioni: info@magazzinodelleidee.it | tel. 040.3774783 | tel. 0481.91697. Sito internet: www.magazzinodelleidee.it | www.vivianmaier.com. Inaugurazione: 19 luglio 2019, ore 18. Dal 20 luglio al 22 settembre 2019. La mostra è prorogata fino al 16 ottobre 2019.

mercoledì 12 giugno 2019

«#AnneFrank. Vite Parallele»: Helen Mirren porta al cinema il «Diario»

«…E cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… non ci fossero altri uomini al mondo». Si chiude così il «Diario» di Anna Frank. È il 1° agosto del 1944. La giovane scrive per l’ultima volta a Kitty, la sua amica immaginaria. Le racconta le sue frustrazioni di ragazzina, quel sentirsi «un fastello di contraddizioni», che la rendono sorella di tanti coetanei adolescenti di tutti i tempi. Tre giorni dopo, il 4 agosto 1944, la Gestapo entra nell’appartamento segreto di Amsterdam, in cui Anna Frank si nasconde con la famiglia per sfuggire alla persecuzione nazista. La sua unica colpa è di essere ebrea in un mondo che crede nella superiorità della razza ariana e che considera nemico ciò che è diverso. La giovane viene deportata nel campo di concentramento nazista di Bergen Belsen, dove muore di stenti tra il febbraio e il marzo del 1945, insieme alla sorella Margot, a causa di un’epidemia di tifo. Di lei ci rimangono poche foto e un diario, pubblicato per la prima volta nel 1947 in tremila copie, per volontà del padre Otto, con il titolo «Het Achterhuis» («Il retrocasa»). Sono quelle pagine, la cui fama circola presto in tutta Europa (la prima edizione italiana è del 1954 e vede la prefazione di Natalia Ginzburg per Einaudi), a restituirci il volto di una ragazzina che sogna di diventare scrittrice e che conquista i lettori con il suo strenuo ottimismo e la sua toccante fede nell'umanità a dispetto dei tempi oscuri. «...È un gran miracolo - si legge, infatti, nel «Diario» - che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell'intima bontà dell'uomo che può sempre emergere...».
Se non fosse morta a Bergen Belsen, Anna Frank, nata il 12 giugno 1929 a Francoforte, quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. Eventi, trasmissioni tv, libri commemoreranno, nei prossimi mesi, il suo anniversario di nascita. Fabbri Editori, per esempio, le dedica un profilo biografico, a cura di Maria Isabel Sánchez Vegara, nella collana «Piccole donne, Grandi sogni»; mentre Rai Tre manderà in onda, nella serata di giovedì 13 giugno, uno speciale a cura di Corrado Augias.
Tra gli appuntamenti più attesi c’è il documentario «#AnneFrank. Vite parallele», scritto e diretto da Sabina Fedeli e Anna Migotto, con la colonna sonora di Lele Marchitelli, la cui produzione è firmata da 3D Produzioni e Nexo Digital in collaborazione con l’Anne Frank Fonds di Basilea, Sky Arte, il Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa.
Il film, in proiezione nei cinema italiani l’11, 12 e 13 novembre, avrà come guida d’eccezione Helen Mirren, premio Oscar® come migliore attrice per «The Queen».
Come sarebbe stata la vita di Anne Frank se avesse potuto vivere dopo Auschwitz e Bergen Belsen? Cosa ne sarebbe stato dei suoi desideri, delle speranze di cui scriveva nei suoi diari? Cosa ci avrebbe raccontato della persecuzione, dei campi di concentramento? Come avrebbe interpretato la realtà attuale, il rinascente antisemitismo, i nuovi razzismi? Sono tante le domande che ci vengono in mente ripensando ad Anna Frank, la cui storia verrà raccontata da Helen Mirren attraverso le pagine del suo «Diario», un testo straordinario che ha fatto conoscere a milioni di lettori in tutto il mondo la tragedia del nazismo, pur non raccontandolo in maniera diretta.
Il set del film è la camera del rifugio segreto di Amsterdam in cui la ragazzina resta nascosta per oltre due anni. È stata ricostruita nei minimi dettagli dagli scenografi del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, fondato da Giorgio Strehler, permettendoci così di ritornare in quel 1942, in cui inizia la storia di Anna Frank nel rifugio olandese. Nella stanza ci sono gli oggetti della sua vita, le fotografie con cui aveva tappezzato le pareti, i quaderni su cui scriveva.
La sua vicenda si intreccia con quella di cinque sopravvissute all’Olocausto, bambine e adolescenti come lei, con la stessa voglia di vivere e lo stesso coraggio: Arianna Szörenyi, Sarah Lichtsztejn-Montard, Helga Weiss e le sorelle Andra e Tatiana Bucci.
L’attrice Martina Gatti, simbolo delle tante teenager che si sentono ancora vicine ad Anna, ci conduce nei luoghi che hanno fatto da scenario alle storie di queste giovani. Viaggia per l'Europa, dal campo di concentramento di Bergen-Belsen in Germania al Memoriale della Shoah di Parigi. Scatta selfie. Scrive post. Compila una sorta di diario digitale, capace di parlare ai suoi coetanei: un modo immediato per mettere in relazione le tragedie passate con il presente, per capire quale sia oggi l’antidoto contro ogni forma di razzismo, discriminazione e antisemitismo. È la sua curiosità, la sua voglia di non restare indifferente, a farci riscoprire l’assoluta contemporaneità delle parole di Anna Frank, ma anche la potenza delle voci di chi ancora può ricordare: Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana. Come la giovane tredicenne di Francoforte, queste donne hanno subito, da giovanissime, la persecuzione e la deportazione. A loro è stata negata l’infanzia. Hanno perduto nei lager madri, padri, fratelli, amici, amori. I loro racconti danno così voce al silenzio del «Diario», che si interrompe improvvisamente con l’arresto del 4 agosto 1944.
Non mancano nel documentario testimonianze, come quelle del rabbino Michael Berenbaum, dello storico della Shoah Marcello Pezzetti, dell’etnopsicologa francese Nathalie Zajde, della violinista di fama internazionale Francesca Dego, del giornalista Yves Kugelmann, di Ronald Leopold dell’Anne Frank House e di Alain Granat, direttore del magazine online «Jewpopo».
In occasione dell’uscita del docu-film, nasce anche il profilo Instagram @CaraAnneFrank: come Kitty contemporanee, tutti noi possiamo parlare ad Anne e alle altre testimoni raccontando loro i nostri pensieri e le nostre emozioni sul tema della memoria. È questo l’invito rivolto a studenti e lettori con l’intento di mettere nuovamente in luce l’assoluta contemporaneità del messaggio e delle testimonianze di Anna, Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana, strumento per decifrare il mondo attuale e come antidoto contro ogni forma di razzismo.

Per saperne di più 
www.annefrankviteparallele.com