«Una commedia in cui non accade nulla, per due volte»: così il critico irlandese Vivian Mercier, in un articolo apparso sull’«Irish Times» nel febbraio 1956, recensiva «Aspettando Godot», dramma in due atti di Samuel Beckett, premio Nobel per la letteratura nel 1969, scritto in francese tra l’ottobre 1948 e il febbraio 1949, la cui prima rappresentazione si tenne il 5 gennaio 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi, per la regia di Roger Blin. È, infatti, la condizione dell’attesa a ordire la trama della piéce, pietra miliare della cultura novecentesca e opera emblematica di quella corrente drammaturgica d’avanguardia che ha raccontato la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e che il critico inglese Martin Esslin ha definito Teatro dell’assurdo.
Con questa tragicommedia, nella quale l’azione vera e propria è ridotta a pochi atti insignificanti e persino surreali, l’autore irlandese si libera delle condizioni naturalistiche del teatro borghese ottocentesco, ormai trasformatesi in sterile routine, e prende a prestito la formula di quello che Peter Szondi ha definito «dramma di conversazione» per svuotarla di tutte le sue componenti più rilevanti, privando cioè il dialogo tra i personaggi della sua funzione significante e rendendolo così fine a se stesso. Samuel Beckett rivoluziona, in questo modo, il linguaggio scenico e lo mette in burletta -sostiene lo scrittore Federico Platania- «con la sua commistione di registri alti e bassi (citazioni teologiche e turpiloquio), il mix dei generi (tragedia, commedia, teatro comico, gag da cabaret), con il suo disinnescare quelli che fino ad allora erano considerati punti fermi intoccabili (azione, trama, significato), con le sue pause, i suoi silenzi, i suoi ritorni inconcludenti».
Vladimiro (Didi) ed Estragone (Gogo), i protagonisti della tragicommedia beckettiana, sono due mendicanti che vivono in strada e che in una landa desolata, definita unicamente dalla presenza di un albero, attendono un certo signor Godot, del quale non conoscono né le fattezze né il giorno e l’orario dell’arrivo, ma che sono certi li salverà dal misero stato in cui si trovano. Per ingannare l’attesa ed esorcizzare il vuoto e l’insicurezza che patiscono di fronte al ripetersi ciclico e privo di senso delle proprie vite, così tristi e inutili da far nascere in loro continui propositi di suicidio non portati a termine per fiacchezza o impossibilità materiale (l’albero è troppo basso, la cintura si spezza), i due uomini parlano del più e del meno. Scelgono a caso un’idea, un ragionamento, il commento di un fatto e subito lo abbandonano per un nuovo argomento di conversazione. Si ha così l’impressione di assistere a continui «numeri attoriali» messi in scena da due vecchi interpreti del teatro di varietà o delle comiche cinematografiche che ripetono, talora svogliatamente e per abitudine, un repertorio ormai consumato.
In questa situazione stagnante fatta di eventi minimi come togliersi le scarpe, mangiare una carota o scambiarsi i cappelli, Vladimiro ed Estragone incontrano una strana coppia di personaggi: Pozzo, un proprietario terriero che conduce legato a una corda il suo servo, Lucky, disfatto dalla fatica di trascinare valigie piene di sabbia e trattato come un animale a suon di frustate. Il passaggio di queste persone, che si ripresenteranno anche nel secondo atto (uno cieco, l’altro muto), non ha, però, alcun effetto concreto sulla situazione dei due clochard: «Beh, ha fatto passare il tempo» / «Sarebbe passato lo stesso» / «Sì, ma più adagio», dicono i due protagonisti.
Il dramma si chiude con l’immagine di Vladimiro ed Estragone che continuano ad aspettare Godot, incapaci di qualsiasi azione. «Allora, andiamo?» / «Andiamo» è il duetto che chiude l’opera, ma entrambi i personaggi -annota la didascalia scenica- non si muovono, perché non hanno progetti e non sanno dove recarsi; sono come anchilosati, impossibilitati a fuggire dalla monotona ripetitività della propria esistenza.
Ma chi è Godot? Sono stati scritti fiumi di inchiostro per dare una risposta a questa domanda. Si è parlato di destino, morte e fortuna; l’ipotesi critica più diffusa sostiene, però, che l’invisibile protagonista della tragicommedia sia il Dio cristiano, oltre che per l’evidente richiamo fonetico tra i termini Godot e God, anche per la descrizione di un giovane emissario mandato ai due clochard, che parla di un vecchio con la barba bianca. L’autore ha, però, sempre rifiutato questa lettura della sua opera, affermando a più riprese «Se avessi saputo chi è Godot, l’avrei scritto nel copione» o Se Godot fosse Dio, l’avrei chiamato così».
È, però, certo che a fare da filo conduttore al lavoro del drammaturgo irlandese sia l’idea di una condizione umana segnata dalla sofferenza e dall’assenza di senso della vita stessa. In Samuel Beckett –scrive, infatti, Paolo Bertinetti- «si trova esplicitamente l’eco di Leopardi e di Schopenauer.
Da un lato c’è la consapevolezza dell’«infinita vanità di tutto». Dall’altro c’è la persuasione che la vita è una punizione per la colpa originaria di essere nati. Per i personaggi di Beckett, come per la «creatura» di Ungaretti, «la morte si sconta vivendo» […]. Idea di un pessimismo per molti insostenibile».
Sulla tragicità della situazione si innesta una comicità che assume toni grotteschi. Poco importa se il pubblico ride perché, come scrisse l’autore al regista Roger Blin in vista della prima messinscena, «niente è più grottesco del tragico». O, per usare le parole di un’altra opera beckettiana, «Finale di partita», «niente è più comico dell’infelicità».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Samuel Beckett durante le prove della tragicommedia «Aspettando Godot»; [fig. 2] Eros Pagni e Ugo Pagliai in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth; [fig. 3] Eros Pagni, Roberto Serpi, Ugo Pagliai, e Gianluca Gobbi in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth.
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