venerdì 19 aprile 2019

Tullio Pericoli, le Marche e i suoi paesaggi dell’anima

Sono passati tre anni da quando un drammatico terremoto devastò il centro Italia. Un sisma, soprattutto quando porta con sé lutti e distruzione, diventa quasi sempre occasione per ripensare alla fragilità di un territorio come quello italiano, ma soprattutto per riflettere sull’«anima dei luoghi», ovvero su quei legami complessi e mutevoli che si instaurano tra i suoi abitanti e che vanno a comporre la memoria, individuale e collettiva, di una comunità.
Da quell’agosto del 2016, la città di Ascoli Piceno ha visto ridisegnato il volto del territorio che la circonda: oltre alle gravi lesioni subite dai campanili cittadini delle chiese della Madonna del Ponte e di Sant’Angelo Magno, è il panorama intorno, quell’insieme di verdi colline e dolci declivi che si avvicendano fino al mare, simbolo e orgoglio della terra marchigiana, a non essere più lo stesso.
Ripensare a quell’ambiente, ma anche alla frattura fisica ed emotiva che lo ha colpito, è l’obiettivo della mostra-evento «Tullio Pericoli. Forme del paesaggio. 1970-2018», allestita per oltre un anno, fino al 2 maggio 2020, al Palazzo dei Capitani, edificio medioevale dalla caratteristica torre merlata, affacciato sul «salotto buono» di piazza del Popolo.
Ascoli Piceno ha, dunque, invitato uno dei suoi figli più illustri, Tullio Pericoli (Colli del Tronto - Ascoli Piceno, 1936), a raccontare le radici del suo vissuto attraverso la pittura, o meglio la pittura di paesaggio, un genere che lo ha visto per oltre cinquant’anni dare, con il suo tratto leggero ed elegante, forma e colore a luoghi reali e del cuore, dalle Laghe al Piceno, regalandoci un diario per immagini «fitto -per usare le parole di Giorgio Manganelli- di segni, di tracce e di appunti».
Ne è nato un percorso antologico, per la curatela di Claudio Cerritelli, con una scelta di centosessantacinque opere, commisurata alle caratteristiche ambientali del Palazzo dei Capitani, un luogo simbolo per Tullio Pericoli che oltre sessant’anni fa, nel 1958, tenne qui la sua prima mostra, tappa iniziale di un percorso che, oltre a dipingere, lo ha visto disegnare per importanti testate giornalistiche come il «Corriere della Sera», «L’Espresso», «Linus», «La Repubblica», «The Guardian» ed «El País», nonchè lavorare per il teatro in qualità di scenografo e costumista, illustrare storie e scrivere libri.
«Le «forme del paesaggio» -raccontano a Palazzo dei Capitani- sono proposte, sala per sala, come un viaggio a ritroso nei quasi cinquanta anni di ricerca che l’artista ha dedicato a questo tema: a partire dalle opere più recenti si risale alle radici della pittura di Tullio Pericoli, tramite un susseguirsi di momenti analitici ed emozionali che esplorano il volto mutevole della nostra terra a partire dalla sua natura più profonda».
Si tratta di momenti differenti di un unico viaggio caratterizzato da un segno rigoroso, pur quando emotivo, fatto da «una mano che pensa», una mano che ha avuto modo di riflettere a lungo su quel paesaggio che ha trovato tra i suoi più illustri cantori Lorenzo Lotto. Quei luoghi -racconta lo stesso artista- «ho potuto guardarmeli e fissarmeli nella memoria da tanti punti di vista, alti, bassi e obliqui, sognarli, pensarli e tradurli nella lingua che so parlare meglio».
Il periodo iniziale di questa ricerca si identifica nel ciclo delle «Geologie», realizzato tra il 1970 e il 1973, che vede sulla tela immagini stratificate, sezioni materiche, strutture sismiche.
La fase successiva, che va dal 1976 al 1983, pone in evidenza un diverso trattamento del tema paesaggistico. Il visitatore si ritrova a tu per tu con vedute luminose e lievi - acquerelli, chine e matite su carta-, che l’artista concepisce come «orizzonti immaginari, memorie di alfabeti, tracce di antiche scritture».
L’esplorazione di nuove morfologie paesaggistiche si avverte in un consistente gruppo di opere, realizzate tra il 1998 e il 2009, che, dopo aver rappresentato lo scenario dei colli marchigiani, va progressivamente esplorando i dettagli della natura, i segni e i solchi delle terre.
 «Il paesaggio, dipinto per frammenti, è -raccontano gli organizzatori- una mappa costruita con equilibri diversificati, rapporti instabili che l’artista coglie nella trama di stratificazioni materiche».
L’esposizione documenta, infine, in modo ampio e articolato la stagione più recente, quella iniziata nel 2010, in cui Tullio Pericoli ha individuato nuove profondità del paesaggio, con continui rinnovamenti dell’esperienza pittorica. Queste opere, che traggono origine anche dagli sconvolgimenti paesaggistici dovuti agli eventi sismici, si trovano nella prima sala e accolgono il visitatore in mostra.
Forme dissestate, movimenti tellurici del segno e del colore ci restituiscono la drammatica fragilità del territorio marchigiano e di tutto il patrimonio paesaggistico italiano, segnato più che dagli eventi della «natura madre e matrigna» -per usare un’espressione cara a un altro marchigiano illuste, Giacomo Leopardi- dall’incuria dell’uomo e dalla sua incapacità di uno sguardo volto alla tutela.
Questi paesaggi -scrive Salvatore Settis nel catalogo pubblicato dalle Edizioni Quodlibet- «sono altamente soggettivizzati»; sono come «segmenti rivelatori di un volto». Qui -spiega ancora lo storico e archeologo calabrese- «la ricerca di nuove convenzioni rappresentative, di matrice geologica, archeologica o cartografica, si sposa a una marcata intensità emotiva, che attraverso il gesto del pittore evoca tutta una grammatica del vivere, il modo d’intendere il paesaggio di chi lo andò lentamente forgiando per secoli». È così che in Tullio Pericoli la pittura di paesaggio si fa, magicamente, storia e sentimento, racconto reale eppure immaginario di un luogo.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tullio Pericoli, «Scena», 1999. Acquerello e inchiostro su carta, cm 57,5x76,5; [fig. 2] Tullio Pericoli, «Paesaggio instabile», 1998. Acquerello e inchiostro su carta, cm 51x72; [fig. 3] Tullio Pericoli, «Vita fra le rocce», 2000. Olio su tela, cm 60x80; [fig. 4] Tullio Pericoli, «Pittore e paesaggio», 1999. Acquerello su china e carta, cm 76x57; [fig. 5] Tullio Pericoli, «Paesaggio», 1979. Acquerello e china su carta, cm 57x76; [fig. 6] Tullio Pericoli, «Triassico», 1971. Acrilici e tecnica mista su tela, cm 120x120 

Informazioni utili
«Tullio Pericoli. Forme del paesaggio. 1970-2018». Palazzo dei Capitani, piazza del Popolo – Ascoli Piceno. Orari: martedì, mercoledì, giovedì e venerdì, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00; sabato, domenica, festivi e prefestivi, ore 10.00-20.00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Sito internet: www.formedelpaesaggio.it. Fino al 2 maggio 2020.

giovedì 18 aprile 2019

Bosch, Brueghel e Arcimboldo: il Cinquecento incontra il virtuale e diventa «spettacolo»

L’arte del Cinquecento incontra la tecnologia digitale. Il risultato è uno spettacolo di trenta minuti, con oltre duemila immagini in scala 1:1500, proiettate su mille metri quadrati, e una colonna sonora che spazia dalle «Quattro stagioni» di Antonio Vivaldi a «Stairway to Heaven» dei Led Zeppelin, senza dimenticare i «Carmina Burana» di Carl Orff e Modest Petrovič Mussorsky con i suoi «Quadri di un’Esposizione».
Il tutto permetterà al visitatore di immergersi in un’atmosfera lirica e poetica, popolata da creature fantastiche e allegoriche dai colori vivi e cangianti, in cui lo stile fiammingo delle opere di Hieronymus Bosch e della dinastia Brueghel si incontra con l’arte burlesca e metaforica di Arcimboldo.
Ad ospitare questo progetto espositivo, che nasce sulla scia di tanti altri eventi artistici immersivi e di realtà virtuale in cantiere negli ultimi anni, pur innovandone lo stile, sono gli Arsenali Repubblicani di Pisa.
La regia della mostra-spettacolo, ideata in Francia da Culturespaces a Carrières de Lumières e giunta in Italia grazie ad Arthemisia e Sensorial Art Experience, porta la firma di Gianfranco Iannuzzi, Renato Gatto e Massimiliano Siccardi. Mentre la colonna sonora è stata curata da Luca Longobardi, autore anche della composizione originale per soprano, archi ed elettronica che apre la mostra-spettacolo.
Le atmosfere magiche e sognanti di Bosch, Brueghel e Arcimboldo, autori di opere per lo più inamovibili dalla loro sede e quindi di non facile fruizione, rivivono in mostra grazie a cinquantaquattro proiettori che trasformano in tele e schermi le superfici del suggestivo complesso trecentesco della darsena pisana, dalle vetrate al piano pavimentale.
Alchimia, religione, astrologia, vanità, tentazioni e vizi: tutti i temi che hanno reso grandi i tre artisti cinquecenteschi scorrono davanti agli occhi del visitatore che, grazie alla tecnologia, potrà scrutare nei minimi dettagli le opere, trovandosi a pochi millimetri dalla realtà ritratte, come solo uno studioso con la sua lente di ingrandimento.
Lo spettacolo, diviso in tre parti, inizia con un viaggio nel mondo idealizzato da Bosch: «Il giardino delle delizie», con il suo universo mistico e folle, introduce il visitatore alla mostra, mettendolo, poi, a confronto con personaggi mistici e grotteschi, allegorie di luoghi demoniaci fatti di tentazioni e visioni armoniose di una realtà precedente al peccato originale.
Tra le altre opere di Bosch che il visitatore può ammirare durante la mostra-spettacolo ci sono «Ascesa all’Empireo» (1500), «Tavola dei sette peccati capitali e delle quattro cose ultime» e «Il Giudizio universale», mentre dei Brughel scorrono lungo le pareti «Il giardino dell’Eden e la caduta dell’uomo» (1615 ca., con Pieter Paul Rubens), «Paesaggio fluviale», «Allegoria della Musica» e «Torre di Babele» (1563).
La rappresentazione della vita quotidiana e del paesaggio fiammingo con le sue feste delle stagioni, le danze e i banchetti proiettano così il pubblico, con questi lavori, in momenti di autentica allegria popolare.
Il percorso si chiude con Arcimboldo e le sue celebri nature morte che si ricompongono in ritratti antropomorfi, eccelsi esempi di fantasia e maestria tecnica. Ecco così «Terra» (1570 ca.), «Quattro stagioni in una testa» (1590 ca.), «Primavera» e «Autunno», tratte dalla serie «Quattro stagioni», eseguita per l’imperatore Massimiliano II.
Con l'epilogo della mostra si torna al «Giardino delle delizie», già visto nel prologo, ora in una visione contemporanea: un finale fuori dal tempo e dallo spazio, con la possibilità per il pubblico di muoversi in un giardino incantato popolato da creature straordinarie.
L’arte del Cinquecento si fa così pop e didattica, coinvolgendo anche un pubblico di non esperti. Lo provano i 650mila spettatori della tappa francese, affascinati da Bosch, Brueghel e Arcimboldo, dai loro mondo incantati che, per trenta minuti, diventano luoghi da toccare e in cui camminare per vivere un’esperienza immersiva che stimola la fantasia e l’emotività.

Informazioni utili
Bosch, Brueghel e Arcimboldo. Una mostra spettacolare. Arsenali Repubblicani, via Bonanno Pisano, 2 – Pisa. Orari: tutti i giorni, ore 9.30 – 19.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Biglietti: intero € 13,00, ridotto da € 11,00 a € 6,00. Informazioni e prenotazioni: tel. +39.050806841. Sito internet: www.mostraspettacolare.it/Pisa. Fino al 30 giugno 2019.
   

mercoledì 17 aprile 2019

«Gulp! Goal! Ciak!», un secolo di cinema e fumetto alla Mole di Torino

Nascono entrambi alla fine dell’Ottocento e hanno un intento comune, quello di raccontare non solo a parole, ma anche con le immagini. Eppure sono diversissimi: uno è sempre in movimento e impone allo spettatore i suoi ritmi; l’altro è fermo sulla carta e le emozioni devono essere attivate dal lettore, al quale spetta il compito di creare dentro di sé i suoni, suggeriti dalle parole inserite nelle didascalie e nelle nuvolette, nonché dalle onomatopee. Stiamo parlando del cinema e del fumetto, arti alle quali il Museo nazionale del cinema di Torino dedica, insieme con lo Juventus Museum, la mostra «Gulp! Goal! Ciak!», nata da un’idea di Gaetano Renda e curata da Luca Raffaelli.
Il percorso di visita, fruibile fino al prossimo 20 maggio, parte dall’Aula del Tempio, cuore della Mole Antonelliana, dove nella chapelle del Caffè Torino si trovano i primi esempi di fumetti, linguaggio teorizzato dal ginevrino Rodolphe Töpffer nella prima metà del diciannovesimo secolo. Nella Sala dedicata all’animazione si possono, invece, ammirare importanti acetati originali, in gergo tecnico «rodovetri», sui quali venivano disegnati e colorati i personaggi, che poi sarebbero stati fotografati sopra la giusta scenografia.
Da qui, salendo sulla rampa elicoidale, si snoda un percorso che allinea oltre duecento film e altrettanti fumetti, cinquantaquattro tavole originali, sessanta schermi per più di novanta metri di proiezioni lineari, ai quali si aggiungono i busti di Catwoman e di Batman e cinque manifesti originali, appartenenti alle collezioni del Museo nazionale del cinema.
«L’alternanza di tavole originali e di oggetti, le proiezioni e le postazioni interattive sfruttano il verticalismo antonelliano -raccontano gli organizzatori- e accompagnano il visitatore alla scoperta dei rapporti tra cinema e fumetto, individuando peculiarità di due linguaggi che progressivamente tendono ad avvicinarsi, grazie anche alla loro potenza espressiva e comunicativa».
Quasi in apertura della mostra, in un angolo della scala elicoidale, si trova uno spazio dedicato a Winsor McCay, uno dei primi e più grandi artisti della storia del fumetto e del cinema d’animazione.
Il suo personaggio più celebre è Little Nemo, che apparve per la prima volta nel 1905 sulle pagine del «New York Herald». Le sue avventure, tutte sorprendenti e straordinarie, si concludono sempre con un brusco risveglio. Insieme a questo personaggio, al quale fu dedicato nel 1911 anche un film di animazione, sono in mostra Flap il pagliaccio, il nero Imp e la Principessa di Slumberland.
Il percorso prosegue, quindi, sulla rampa e si sviluppa in sei aree tematiche che raccontano i film storici, il manga e l’anime giapponese, i grandi nomi della storia del fumetto e i loro personaggi più famosi, gli eroi meno conosciuti, i supereroi della D.C. Comics, le trasposizioni cinematografiche di Tim Burton e i romanzi a fumetti che sono diventati film.
Ecco così che il visitatore può ammirare le improvvisazioni da cabaret delle Sturmtruppen o il complesso e variegato mondo del «dio del manga» Osamu Tezuka. Può rivivere le avventure di Batman, Asterix, Hugo Cabret o di Tintin, personaggio del belga Hergé che, nel 2011, Spielberg ha voluto animare con la tecnica della motion capture.
In cima alla rampa, sei cappelle mettono in mostra le performance dei fumettisti, sia quando si mettono davanti alla macchina da presa sia quando vi si mettono dietro, come avviene, per esempio, per Hugo Pratt diretto da Leos Carax, Pino Zac diretto da Monicelli, Bonvi guidato da Samperi e da Sergio Staino, e Gianluigi Bonelli, padre di Tex, nella versione inedita di regista di un piccolo cameo.
Ci sono poi tre film mai realizzati da altrettanti maestri del cinema italiano e disegnati da fumettisti. Massimo Bonfatti interpreta, per esempio, «Capelli lunghi», storia di due ribelli nell’Italia del boom economico, scritta da Mario Monicelli alla fine degli anni Sessanta. Milo Manara racconta «Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet», un film mai fatto pieno di misteri, scritto da Federico Fellini insieme a Brunello Rondi e a Dino Buzzati. Ivo Milazzo, infine, realizza «Un drago a forma di nuvola», storia di un libraio parigino travolto da un amore insolito, che rischia di mettere in crisi il delicato rapporto con la figlia, la cui sceneggiatura fu scritta da Ettore Scola, insieme a Giacomo Scarpelli e Silvia Scola.
Non manca lungo il percorso espositivo una cappella, allestita da Panini, dedicata a Topolino, il settimanale a fumetti più longevo d’Italia, che nei prossimi mesi ospiterà nelle sue pagine alcune storie originali sul cinema. Mentre a chiudere la mostra è un gioco dove ai film viene tolto il sonoro e vengono aggiunte le onomatopee. I ruoli cambiano -verrebbe da dire-, ma la magia resta la stessa.
La mostra, che sarà arricchita da visite guidate e laboratori per bambini e famiglie, prosegue idealmente alla Bibliomediateca Mario Gromo, dove, a partire da materiali conservati nelle sue collezioni, viene proposta una selezione di fumetti in cui il cinema è declinato secondo percorsi diversi e complementari, in un reciproco scambio di influenza tra personaggi e storie. Si tratta di un percorso plurale, declinato secondo sei macro-categorie, alle quali si aggiunge un focus specifico sull’universo di «Star Wars». Ecco così che il visitatore potrà vedere come divi del piccolo schermo quali Charlot, Marilyn Monroe o Rodolfo Valentino siano stati trasfigurati da matite e chine o come un capolavoro del cinema muto quale «Cabiria», diretto nel 1914 da Giovanni Pastrone, riviva nelle tavole illustrate pubblicate da «Topolino» negli anni Quaranta.
Lo Juventus Museum propone, invece, un percorso alla scoperta di come il calcio sia stato affrontato dal fumetto. «C’è un linguaggio migliore per raccontare l’emozione di uno scarpino che tocca il pallone, della sfera che solca l’aria mentre gli sguardi di tutti (giocatori e spettatori) sono coinvolti nel destino di quella traiettoria?». Si è chiesto Luca Raffaelli per costruire questo percorso espositivo. La risposta sembra essere no, guardando le sale del museo torinese dove si trovano personaggi dei fumetti di professione calciatori come l’inglese Roy of the Rovers di Walter Booth, Eric Castel del francese Raymond Reding o il celeberrimo Capitan Tsubasa di «Holly e Benji», ideato dal giapponese Yoichi Takahashi. Ci sono, poi, in mostra anche personaggi che occasionalmente si sono trovati a giocare con un pallone, da Peppa Pig ai Simpson, e tavole di disegnatori quali Mordillo, Forattini e Giannelli.
 Un percorso, dunque, completo quello proposto a Torino per celebrare due linguaggi espressivi, cinema e fumetto, che, da oltre un secolo, si incontrano e percorrono un sentiero comune, fatto di prestiti, reciproche influenze e omaggi, con la medesima volontà di mettere il mondo in immagini, spesso trasfigurandolo e trasformandolo.

 Informazioni utili 
 «Gulp! Goal! Ciak!». #Museo nazionale del cinema, via Montebello 20 – Torino. Orari: lunedì, mercoledì, giovedì, venerdì, domenica, ore 9.00-20.00; martedì e sabato, ore 9.00-23.00.Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00, ridotto scuole € 3,50. Informazioni: info@museocinema.it. Sito internet: www.museocinema.it. #Juventus Museum, via Druento 153 (int. 42) -Torino. Orari: lunedì-venerdì, ore 10.30-18.00; sabato-domenica e festivi, ore 10:30-19:30; chiusura il martedì. Ingresso: € 22,00 museo+stadium tour, € 15,00 solo museo. Informazioni: juventus.museum@juventus.com. Catalogo: Silvana editoriale. Fino al 20 maggio 2019 | La chiusura della mostra è stata prorogata al 17 giugno 2019. 

lunedì 15 aprile 2019

Il Museo del Prado? Una «corte delle meraviglie» da grande schermo

«Il giorno in cui si entra per la prima volta in un museo come quello di Madrid resta scolpito come una data storica nella storia di un uomo […] Il piacere che provavo era così grande che, arrivando alla porta, mi fermai e dissi: ‘Suvvia! Che cosa hai fatto nella vita per meritarti l’onore di penetrare in questo luogo?’». Così Edmondo De Amicis nel 1871, in occasione del suo primo viaggio in Spagna, parlava dell’emozione provata nel visitare il Museo del Prado, una delle collezioni più cospicue e stupende mai accumulate nel corso della storia con le sue oltre millesettecento opere esposte ed altre settemila conservate.
«Fatta più con il cuore che con la ragione», ovvero costruita senza alcune strategia mercantile, la collezione del Prado è «un inventario dal gusto raffinato», che rispecchia le passioni artistiche di re, regine e diplomatici, ma che annovera al proprio interno anche opere giunte a Madrid grazie a successioni ereditarie legate alla corona, doni tra dinastie regnanti d’Europa e guerre tra Stati, oltre che dai lasciti di semplici cittadini che hanno così voluto legare per sempre il loro nome a quello del prestigioso museo spagnolo.
Prendendo a prestito le parole di André Malreaux, scritte nel libro «Les voix du silence», «un museo è uno di quei luoghi che ci danno dell’uomo l’idea più alta». Questo vale anche -e soprattutto- per il Prado, al cui interno sono conservati veri e propri capolavori come «Il giardino delle delizie» di Hieronymus Bosch, trittico con scene bibliche che descrive la storia dell’umanità attraverso la tradizione cristiana medioevale, o l’«Incoronazione di spine» di Antoon van Dyck, con la sua raffigurazione altamente realistica della muscolatura del Cristo o, ancora, «Il buon pastore» di Bartolomé Esteban Murillo, in cui la semplicità della scena agreste nasconde un messaggio dalla forte carica simbolica: la volontà del Padre è di prendersi cura di tutti, soprattutto dei più piccoli e indifesi.
A duecento anni dalla fondazione, la storia del Museo del Prado, un «tesoro di intensità» (a detta dello scrittore e pittore Antonio Saura), diventa un docu-film per i tipi di Nexo Digital, che si è avvalsa per l’occasione del soggetto di Didi Gnocchi, della sceneggiatura di Sabina Fedeli e Valeria Parisi, esperta in comunicazione video, quest’ultima, a cui si deve anche la regia della pellicola.
Il nuovo appuntamento del progetto «La grande arte al cinema», intitolato «Il Museo del Prado. La corte delle meraviglie» e in cartellone nelle sale italiane da lunedì 15 a mercoledì 17 aprile, vede, inoltre, la partecipazione straordinaria del premio Oscar Jeremy Irons, attore britannico conosciuto per le sue interpretazioni in film come «ll mistero Von Bulow», «Il danno», «Mission», «Io ballo da sola» e «La casa degli spiriti». Sarà lui a guidare gli spettatori alla scoperta del patrimonio di bellezza e arte del museo spagnolo, a partire dal Salon de Reinos, il vecchio salone delle feste e degli spettacoli teatrali, un'architettura volutamente spoglia che si anima di vita, luci e proiezioni, riportando così il visitatore al glorioso passato della monarchia spagnola e al Siglo de Oro, quando alle pareti erano appesi molti dei capolavori oggi esposti al Prado, simboli di un viatico universale in grado di comprendere e raccontare i pensieri e i sentimenti degli esseri umani.
Il film diventa così un viaggio non solo attraverso i duecento anni di vita del museo madrileno -la cui fondazione risale al 19 novembre 1819 (giorno in cui per la prima volta si parlò di Museo Real de Pinturas)-, ma anche in almeno sei secoli di storia, perché la vita della prestigiosa collezione del Prado ha inizio con la nascita della Spagna come nazione e con il matrimonio tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia.
Grande protagonista di questo percorso è -non poteva essere diversamente- Francisco Goya, presente al Prado con un corpus ricchissimo di oltre novecento opere, compresi gran parte dei disegni e delle lettere, come la corrispondenza con l'amico d'infanzia Martin Zapater. Tra i suoi quadri al centro del docu-film c’è «Il 3 maggio 1808», dipinto che narra l’effetto della rivolta degli spagnoli contro l'esercito francese, la cui influenza su molti artisti moderni è evidente. Basti pensare a Pablo Picasso, che ha guardato a quest’opera, simbolo di tutte le guerre, per la sua «Guernica».
Tra gli obiettivi del film vi, infatti, anche quello di dimostrare quanto l’arte contenuta in questo museo illumini il nostro presente e ponga interrogativi per il nostro futuro, raccontando la società coi suoi ideali, i suoi pregiudizi, i vizi, le nuove concezioni, le scoperte scientifiche, la psicologia umana, le mode.
Il film non racconta, però, solo le opere conservate al museo, ma anche il paesaggio delle architetture reali che sono state teatro e custodi della nascita e dello sviluppo delle collezioni d'arte. Vélazquez, Rubens, Tiziano, Mantegna, El Greco sono così alcuni dei protagonisti di questo racconto, che focalizza l’attenzione anche su sedi quali l'Escorial, Pantheon dei reali, il Palazzo Reale di Madrid, il Convento de Las Descalzas Reales e, appunto, il Salon de Reinos.
La nascita del Museo del Prado è, infatti, una storia avvincente, che inizia nel 1785 quando Carlo III di Borbone incarica l’architetto di corte, Juan de Villanueva, di disegnare un edificio per ospitare il Gabinete de Historia Natural. Sarà questa la sede del museo che conosciamo oggi, luogo di bellezza, in cui si possono, tra l’altro, ammirare -racconta il film- le opere della fiamminga Clara Peeters, che ha il coraggio di dipingere dei micro-autoritratti all'interno delle sue tele e rivendicare il ruolo femminile dell'arte, o la «Donna barbuta» di Ribera, dove una figura con il volto coperto da una folta barba allatta al seno il neonato che porta in braccio.
Lo sviluppo del docu-film intreccerà, quindi, alla narrazione d’arte anche lo studio dell’architettura e l’analisi di preziosi materiali d’archivio e verrà scandita dalle testimonianze dei vari esperti del museo intervistati, a partire dal direttore Miguel Falomir, ma anche da interventi di personalità di spicco come lord Norman Foster, architetto del progetto del Salón de Reinos (premio Pritzker), Helena Pimenta, direttrice della Compañía Nacional de Teatro Clásico di Madrid, Laura Garcia Lorca, nipote del poeta Federico Garcia Lorca, Marina Saura, figlia del pittore Antonio Saura, la ballerina Olga Pericet e la fotografa Pilar Pequeño.
«Il Museo del Prado. La corte delle meraviglie» si configura, dunque, come un appuntamento da non perdere perché -come dice il trailer, prendendo a prestito una frase di Pablo Picasso- «l’arte lava via dalla nostra anima la polvere della vita di tutti i giorni».

Informazioni utili 
Il film può essere richiesto anche per speciali matinée al cinema dedicate alle scuole. Per prenotazioni: Maria Chiara Buongiorno, progetto.scuole@nexodigital.it, tel. 02.8051633.

domenica 14 aprile 2019

«Il viaggio a Reims», in mostra a Bologna le «memorie di uno spettacolo» rossiniano

«In Bologna ho trovato ospitalità, amicizia. Bologna è la mia seconda patria ed io mi glorio di essere, se non per nascita, per adozione, suo figlio». Così il pesarese Gioachino Rossini esprimeva il suo amore nei confronti della città felsinea, che, all’inizio dell’Ottocento, lo aveva accolto dopo che il padre, fervente sostenitore della Rivoluzione francese, vi aveva trovato rifugio nel tentativo di sfuggire alla cattura da parte delle truppe dello Stato Pontificio.
Nella città emiliana il compositore trascorse gran parte della sua giovinezza: studiò al Liceo musicale e fu aggregato alla prestigiosa Accademia Filarmonica senza nemmeno sostenere il necessario esame di ammissione.
Non può stupire, dunque, che in occasione dei centocinquanta anni dalla morte di Gioachino Rossini, ricordata nel 2018, Bologna abbia organizzato numerosi eventi per onorarne la memoria.
In ideale proseguimento con quelle celebrazioni, il Museo internazionale e biblioteca della musica ospita il progetto espositivo «Il viaggio a Reims. Memorie di uno spettacolo», a cura di Giuseppina Benassati e Roberta Cristofori.
La mostra, già presentata nei mesi passati al ridotto del teatro Comunale di Ferrara, celebra quello che il giudizio storico della critica riconosce come uno dei maggiori spettacoli del Novecento: «Il viaggio a Reims», dramma giocoso in un atto realizzato in prima rappresentazione all’Auditorium Pedrotti di Pesaro nel 1984, in occasione del Rossini Opera Festival, con la direzione di Claudio Abbado, la regia di Luca Ronconi e le scene di Gae Aulenti.
Dalle felice intuizione di Philip Gosset e Janet Johnson, che riscoprirono questo lavoro rossiniano e che decisero di proporlo all’attento pubblico pesarese, nacque uno spettacolo straordinario, rappresentato, dopo il successo della “prima”, sui più importanti palcoscenici internazionali.
Nel 1992 Ferrara, che vedeva il crescere della neonata manifestazione Ferrara Musica, colse al volo l’occasione e realizzò una ripresa memorabile dell'opera rossiniana. A dirigere fu ancora Abbado, alla guida della Chamber Orchestra of Europe e di un cast di altissimo livello.
Questa storia rivive ora a Bologna grazie alla rassegna «Il viaggio a Reims. Memorie di uno spettacolo», allestita fino al prossimo 5 maggio. Il nucleo principale della rassegna si compone di una selezione di trentadue immagini fotografiche, tra gigantografie e formati più piccoli, realizzate da Marco Caselli Nirmal durante la recita del 1992, che ritraggono i tre protagonisti dello spettacolo, insieme alle maestranze, agli orchestrali e a un cast che annoverava eccellenze quali Cecilia Gasdia, Ruggero Raimondi, Carlos Chausson, Lucia Valentini Terrani, Enzo Dara, Cheryl Studer, Frank Lopardo, William Matteuzzi e Lucio Gallo sino ad arrivare a Placido Domingo.
Le istantanee colte durante le prove raccontano il lavoro dietro le quinte, gli allestimenti scenici, i confronti ed i dialoghi tra direttore e i cantanti, tra regista e autore degli allestimenti, geniali creatori e amici di lungo corso, mirando così alla documentazione del processo di creazione dello spettacolo e del lavoro quotidiano all’interno di un teatro durante la progettazione e realizzazione di esso.
Significativi appaiono i ritratti di Claudio Abbado -Marco Caselli Nirmal ne è stato il fotografo ufficiale per oltre vent’anni- e di Luca Ronconi, regista geniale, innovativo e profondo conoscitore del teatro e del suo funzionamento.
Gli scatti sono stati selezionati da un fondo di circa 2.800 fotografie che oggi appartiene allo straordinario Archivio del teatro comunale di Ferrara. Composto da oltre 250.000 immagini, questo patrimonio è stato oggetto di un recente progetto di catalogazione e digitalizzazione, finanziato e coordinato dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna che lo ha reso consultabile su web attraverso l’Opac del Polo bibliotecario ferrarese.
Oltre all’esposizione di cinque bozzetti disegnati da Gae Aulenti per le scenografie, un video con ulteriore materiale fotografico e l’installazione del cavallo e della carrozza originali realizzati per la scenografia, già presentati a Ferrara, la tappa bolognese si arricchisce di una nuova sezione di immagini, opera dello stesso Caselli Nirmal, dedicate allo spettacolo andato in scena al teatro Comunale di Bologna nel 2001, sotto la direzione di Daniele Gatti.
Una naturale integrazione alla mostra viene, inoltre, offerta dalle collezioni del museo al primo piano di Palazzo Sanguinetti, in «uno spazio che -suggerisce Roberto Grandi, presidente dell’Istituzione Bologna Musei- vede Rossini muoversi di stanza in stanza fra strumenti musicali, ripiani e bacheche». In particolare, la figura di Gioachino Rossini si incontra nella sala 7 del percorso espositivo dove, accanto a documenti e oggetti personali che documentano lo stretto legame del compositore con Bologna, si trova esposto il libretto dell’opera «Il viaggio a Reims», scritto da Luigi Balocchi e ispirato da «Corinna o l'Italia» di Madame de Staël.
Le preziose memorie di quest'opera rossiniana, la cui prima si tenne a Parigi nel Théâtre Italien il 19 giugno 1825, rivivono in un catalogo di Longo Editore, curato da Giuseppina Benassati e Roberta Cristofori, che contiene la riproduzione di ottantacinque immagini fotografiche di Marco Caselli Nirmal, sei bozzetti di scena disegnati da Gae Aulenti e i programmi di sala delle edizioni di Ferrara (1992) e Bologna (2001).
Un ricco apparato di testi arricchisce il volume. Tra gli autori ci sono Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, Vittorio Emiliani, autore della più aggiornata e accattivante biografia del genio pesarese, Marino Pedroni, direttore del teatro Comunale di Ferrara, Roberto Grandi, presidente dell’Istituzione Bologna Musei, Gianfranco Mariotti, presidente onorario del Rossini Opera Festival di Pesaro.
Il catalogo presenta, inoltre, le interviste rilasciate da Alessandra Abbado e dal soprano Cecilia Gasdia, oggi sovrintendente e direttore artistico della Fondazione Arena di Verona.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] I musicisti della Chamber Orchestra of Europe e il Maestro Claudio Abbado durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig. 2] Enzo Dara (Barone di Trombonok, maggiore tedesco fanatico per la musica), Ruggero Raimondi (Don Profondo, letterato, amico di Corinna, membro di varie accademie e fanatico per le antichità), Walter Matteuzzi (Conte di Libenskof, generale russo, d’un carattere impetuoso, innamorato della marchesa Melibea ed estremamente geloso) e Carlos Chausso (grande di Spagna, uffizial generale di marina, innamorato di Melibea) avvolti nelle bandiere. Teatro Comunale di Ferrara, 20 febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig. 3] Il Maestro Claudio Abbado suona il violoncello con i musicisti della Chamber Orchestra of Europe durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig.4] La scenografa e costumista Gae Aulenti durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (© Marco Caselli Nirmal); [fig. 5] Il Maestro Claudio Abbado applaude gli interpreti. Teatro Comunale di Ferrara, 20 febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311); [fig. 6] Il regista Luca Ronconi, il direttore Claudio Abbado e la scenografa e costumista Gae Aulenti durante le prove. Teatro Comunale di Ferrara, febbraio 1992. Fotografia di Marco Caselli Nirmal (Archivio Teatro, SPE 1311)

Informazioni utili
«Il viaggio a Reims. Memorie di uno spettacolo». Museo e biblioteca internazionale della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna. Orari: da martedì a domenica, festivi compresi, ore 10.00 – 18.30; chiuso i lunedì feriali e il 1° maggio. Ingresso: sala mostre temporanee gratuito; collezione permanente del museo intero € 5,00, ridotto € 3,00, gratuito Card Musei Metropolitani Bologna. Informazioni: tel. 051.2757711, museomusica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/musica. Fino al 5 maggio 2019

sabato 13 aprile 2019

Aosta, Jacovitti tra Cocco Bill e Pinocchio

Cocco Bill, l'arcipoliziotto Cip, Zorro Kid, Microciccio Spaccavento, il giornalista Tom Ficcanaso, senza dimenticare Tarallino, Occhio di Pollo, Jack Mandolino, Chicchirino e il mitico Pinocchio. Ci sono tutti i personaggi nati dalla mente e dal pennino di Benito Jacovitti (Termoli, 9 marzo 1923 – Roma, 3 dicembre 1997) nella bella mostra monografica allestita al Centro Saint Bénin di Aosta, per la curatela di Dino Aloi e di Silvia Jacovitti.
Oltre duecentocinquanta disegni originali tra schizzi, vignette, tavole di fumetti e illustrazioni compongono l'articolato percorso espositivo, un appassionante viaggio attraverso quasi sessant'anni di carriera di uno dei fumettisti italiani più conosciuti, un artista a cui si deve la creazione di un universo originale e irripetibile, una sorta di paese delle meraviglie in cui tutto è possibile, che ha conquistato più di una generazione di ragazzi.

La mostra, corredata da un catalogo edito dalla casa editrice «Il Pennino» di Torino, propone alcune «chicche», per la prima volta esposte in originale, accanto a tante opere conosciute che, per anni, sono apparse sulle pagine di giornali come «Il Giorno dei ragazzi», il «Corriere dei Piccoli» e «Il Giornalino». È il caso di sessanta disegni di figurine realizzate nel 1954 per l’albo «Genti d’ogni paese» de «Il Vittorioso», in cui l’estro di Benito Jacovitti spazia in giro per i cinque continenti, raffigurando a modo suo ogni popolo.
Ricche di fascino sono anche alcune tra le prime tavole realizzate negli anni Quaranta, veri esempi di calligrafismo disegnato. Tra queste spiccano per bellezza le storie di «Pippo e la guerra», «Mandrago», «L’Onorevole Tarzan», «Pippo in montagna», «Giacinto corsaro dipinto» e «Oreste il guastafeste», recentemente tornate in possesso della figlia dell'artista.
Nella sezione dedicata agli esordi si potrà ammirare una delle primissime panoramiche realizzate da Jacovitti a 17 anni, anticipatrice di quelle meravigliose e affollatissime opere che diventeranno, nel corso del tempo, una sorta di suo marchio di produzione.
Sempre in questa sezione sono esposte sei tavole, le uniche rimaste, della storia inedita «I tre re», disegnata durante la Seconda guerra mondiale.
Sarà, quindi, possibile ammirare il mitico «Diario Vitt», realizzato dal 1949 al 1980, vera icona per gli studenti di quegli anni, a cui il fumettista parlava di temi quali la lealtà, l’amicizia, la fraternità e la solidarietà.
Non mancheranno lungo il percorso espositivo alcune illustrazioni realizzate per il «Pinocchio» di Collodi, edito nel 1964, riconosciute dai critici come tra le opere più significative della lunghissima carriera di Jacovitti.
La mostra di Aosta proporrà, inoltre, un focus sul rapporto dell'artista con la televisione, per la quale egli realizzò importanti «Caroselli» e storie, andate in onda nel programma cult «Supergulp!», con centinaia di personaggi e di battute, personificazione dell’Italia di quegli anni.
Destinato a rimanere impresso nella memoria dei visitatori, soprattutto dei più piccoli, sarà,  poi, il «Patentone», gioco dell’oca sul tema automobilistico riprodotto in grande formato, proprio all’ingresso dell’esposizione, che permetterà ai ragazzi di poter giocare all’interno dello spazio del Saint Bénin con sagome segna posto e un dado in gommaspugna. È, dunque, un percorso in tutto «Il mondo di Jacovitti», per usare il titolo della mostra, quello che va in scena ad Aosta, offrendoci un viaggio - surreale, bizzarro e parodistico- all’interno della nostra storia passata, perché il fumetto -quando è buon fumetto- può anche essere una sorta di manuale di sociologia del nostro tempo.

Informazioni utili
Tutto il mondo di Jacovitti. Centro Saint Bénin, via Festaz, 27 - Aosta. Orari: martedì- domenica, ore 10 -13 e ore 14 - 18; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00. Informazioni: Assessorato Istruzione e Cultura, tel. 0165.275937 |Centro Saint-Bénin, tel. 0165.272687. Sito internet: www.regione.vda.it. Fino al 28 aprile 2019.

giovedì 11 aprile 2019

«Il grande sacrifico», Puglisi e l’«Ultima Cena» di Leonardo da Vinci

La Sacrestia del Bramante a Milano, normalmente non accessibile al pubblico, apre in via straordinaria le proprie porte per una mostra personale di Lorenzo Puglisi (Biella, 1971), artista piemontese, da anni residente a Bologna, la cui ricerca artistica si è focalizzata principalmente, negli ultimi sette anni, su grandi tele che interpretano capolavori del passato.
L’esposizione, a cura di Giovanni Gazzaneo, è un omaggio a Leonardo da Vinci, nell’anno del cinquecentenario della morte, e alla sua opera più celebre: l’«Ultima Cena».
Accanto a due opere dedicate al tema della Passione di Cristo, «Crocifissione» del 2018 e «Nell’orto degli ulivi» del 2017, è esposto l’inedito dipinto a olio su tavola di pioppo «Il grande sacrifico», realizzato dall’artista biellese nel 2019.
Si tratta, con i suoi sei metri di lunghezza e due di altezza, dell’opera più grande realizzata dall’artista: nell’abisso del nero emergono, nella purezza del bianco, le teste e le mani di Cristo e degli apostoli, in una sequenza ritmica e fluttuante.
«La storia dell’arte -scrive Giovanni Gazzaneo nel catalogo pubblico per l’occasione da Manfredi edizioni-, Puglisi l’accoglie nella sua opera non attraverso la perfezione della compiutezza formale, ma offrendoci un’immagine aperta, libera di giocare nelle polarità del bianco e del nero, in un dinamismo che non conosce fine. Dove il nero non è solo orizzonte, tanto meno cornice: è sostanza stessa dell’opera. Dal buio emerge la presenza, una presenza che da quel buio è sostenuta e in quel buio prende vita: bagliori di luce, scaglie di pittura densa e fremente, come in movimento. Il nero invoca la luce e accoglie il generarsi della forma. E nella generazione della forma possiamo cogliere il senso del contemplare l’arte del passato da parte di Puglisi: l’opera non è morta, l’opera è viva, è feconda e il suo splendore attraversa i secoli e continua a illuminare gli uomini e il tempo. Uno splendore che si fa abbagliante per un’icona come l’«Ultima Cena» di Leonardo. Gli apostoli, ritratti di uomini veri colti in un turbine di emozioni e pensieri per l’annuncio inaspettato del tradimento -che si accompagna al miracolo più grande, l’offerta d’amore e di vita di Cristo nella consacrazione del pane e del vino- nella visione di Puglisi si fanno volti e mani di luce, quasi a formare una partitura ideale o forse una costellazione di stelle».
Nel discorso pittorico di Puglisi spazio, luce e figura si risolvono nell’antitesi drammatica della bicromia, con la conseguente sospensione del tempo e dello spazio, in un processo di semplificazione visiva che riduce la composizione dell’opera ai suoi elementi minimali e più profondi, in cui si concentra lo sguardo di chi contempla.
«Nell’«Ultima Cena» –spiega l’artista– Leonardo ha lavorato su quello che più gli interessava, ossia il moto interiore dell’essere umano, la relazione tra gestualità, emozione e pensiero che poi vedremo espressi anche in opere come «La Gioconda» e «La Vergine delle Rocce». È da qui che parte il mio tentativo di riguardare all’opera del Cenacolo, che credo rappresenti una summa di tutti i capolavori della storia della pittura occidentale. Nel 2016 ho presentato a Parigi il primo «Grande Sacrificio» (un metro e mezzo per cinque), cui hanno fatto seguito altri lavori di piccolo e grande formato su carta, tela, tavola e altri materiali incluso il metallo, con l’ambizione e la speranza che a ogni nuova realizzazione dello stesso soggetto il mio lavoro acquisisca maggiore intensità ed energia».
In tutte le opere di Puglisi, incentrate sul bianco e nero, emerge un forte simbolismo cromatico, che vede nel nero non l’assenza bensì la forza del colore, raggiunta attraverso continue stratificazioni, e la rappresentazione della condizione di preesistenza delle cose.
Senza buio non c’è luce, o come sostiene Mark Gisbourne «è dal vuoto più estremo o dall’oscurità che la visione può emergere»: infatti dal nero misterioso, dal buio assoluto dello sfondo che occupa tutta la tavola appaiono, abbaglianti e improvvise, figure composte da pennellate dense, bianche, con soli accenni, talvolta, di rosso e di blu.
Si tratta di tocchi di luce capaci di definire i volumi, i volti, le mani, i piedi, come presenze catturate in un’espressione o in un gesto, frutto di un lungo percorso verso l’essenzialità della rappresentazione. Ispirato dai grandi maestri come Leonardo, Caravaggio, Rembrandt e Goya, Lorenzo Puglisi illumina solo ciò che vuole evidenziare, frammenti che emergono dal buio per cercare la luce.
Scrive, a tal proposito, Alessandro Beltrami nel testo in catalogo: «Puglisi lavora per una completa rimozione del dettaglio. Da una parte con un nero che satura lo spazio, elimina qualsiasi contesto possibile e rende illecito ogni particolare. In un certo senso scarnifica il discorso di qualsiasi aggettivo, di inciso e di struttura complementare, per ridurlo alla proposizione base: soggetto-verbo. Dall’altra opera una ulteriore scarnificazione degli elementi sopravvissuti, tracciati con colpi e velature di colore bianco solo screziate di rosso o giallo: le teste e ciò che noi riconosciamo come parti anatomiche sono in realtà gesti pittorici compendiari che non “dettagliano” nulla o quasi di un volto o di un arto».

Informazioni utili 
«Il grande sacrifico». Basilica di Santa Maria delle Grazie, Sacrestia del Bramante, via Caradosso 1, Milano. Orari: da martedì a domenica, ore 15-19.30. Ingresso libero. Catalogo: Manfredi Edizioni. Informazioni: tel. 392.8139491, fondazionecrocevia@gmail.com. Sito internet www.fondazionecrocevia.it. Fino al 28 aprile 2019

martedì 9 aprile 2019

Milano Design Week 2019, milleduecento eventi per tutti i gusti

Erano i primi anni Ottanta, quelli della Milano da bere e da guardare, quando dalla volontà di aziende attive nel settore dell'arredamento e del design industriale, come Alchimia e Memphis, veniva posato il primo mattone di quello che sarebbe stato il Fuorisalone: non un salon des refusés, ma uno spazio alternativo, slegato dalle regole tipiche di un evento commerciale come era il Salone del mobile, nato nel 1961 al quartiere fieristico.
Negli anni Novanta, grazie alla felice intuizione di Gilda Bojardi, direttore della rivista «Interni», il Fuorisalone aveva il suo battesimo ufficiale con la creazione di un logo e la pubblicazione di una guida.
Da allora sono passati più di vent’anni e Milano sta vivendo una nuova edizione di quella che è diventata, anno dopo anno, una manifestazione dalle dimensioni tentacolari, una vera e propria festa, con i suoi oltre milleduecento eventi tra mostre, installazioni, party, percorsi culinari, concerti e appuntamenti culturali distribuiti in tutta la città.
La manifestazione clou del Fuorisalone, oggi chiamato anche Milano Design Week, è ancora firmata da «Interni». Quest’anno si intitola «Human Spaces» e propone in quattro sedi cittadine -l’Università degli Studi, l’Arco della pace, l’Orto botanico di Brera e la Torre Velasca- una selezione di progetti di architettura e design che mettono al centro l’uomo e le sue esigenze di vita.
Cuore pulsante della manifestazione, in programma fino a domenica 14 aprile, sono, poi, i distretti. Quelli storici sono Tortona, Brera e Lambrate; quelli più recenti Isola, Porta Venezia, Porta Romana, Sant’Ambrogio e le cosiddette 5Vie, una zona ricca di vestigia romane nei dintorni di piazza Missori.
Gli ultimi nati sono il DOS Design Open' Spaces, distretto diffuso promosso da Re.Rurban Studio ed Emilio Lonardo Design che riapre spazi recentemente riqualificati, e il Parenti District, progetto nato da un’idea di Andrée Ruth Shammah, anima del teatro Franco Parenti, che interesserà il quartiere compreso tra piazza Medaglie d’Oro e corso di Porta Vittoria.
Vedere tutti gli eventi in cartellone è praticamente impossibile. Raccontare dove andare, proponendo una selezione del meglio in programma, è altrettanto difficile. Ognuno ha i propri gusti. C’è chi ama gli allestimenti volutamente teatrali e molto chiacchierati, come la «Maestà sofferente» di Gaetano Pesce in piazza Duomo, metafora della violenza sulle donne ispirata alla storica poltrona «Up 5&6» o il vicino bosco di ulivi secolari a «La Rinascente» o, ancora, il «Pratofiorito» di Davide Fabio Colaci per Eataly Milano Smeraldo in piazza XXV aprile.
C’è chi è goloso e non vede l’ora che a CityLife, il nuovo salotto buono della città, Bosch Elettrodomestici inauguri «MuffinLove», un’installazione a forma di mega muffin che sprigionerà un profumo inebriante di dolci appena sfornati e che permetterà a tutti i visitatori di dare sfogo alla propria fantasia e creatività, realizzando la ricetta del proprio muffin perfetto su totem interattivi e con il supporto virtuale dei forni della Serie 6.
C’è, poi, chi non vuole perdersi i progetti più nuovi e sarà, per esempio, incuriosito da «Rent is More», la «casa del lifestyle in affitto» nel centralissimo corso di Porta Ticinese, in cui è possibile scoprire come il fenomeno dell’affitto abbia cambiato le abitudini e lo stile di vita delle persone, coinvolgendo anche i mobili di design per la casa, l’abbigliamento delle grandi firme e le opere d'arte.
C’è, ancora, chi, stanco dalla maratona infinita di opening e di presentazioni, cercherà uno spazio dove riposarsi e lo troverà, forse, in Zona Tortona, al NYX hotel Milan, che accoglie un’installazione di maxi-sedute, realizzate da Kubiko by Skygreen in polietilene, rivestite di erba fucsia e turchese, sulle quali arrampicarsi, magari schiacciando un sonnellino in una Lilliput formato design.
A Milano, nei giorni concitati del Salone del mobile, arriva anche chi ama la moda e non potrà non rimanere incuriosito dall’installazione dei fratelli Campana, Fernando e Humberto, per Melissa e per la presentazione della sua nuova collezione «Crochet», composta da tre inediti prodotti in plastica, dalla caratteristica trama a uncinetto, tra cui un'iconica ballerina in sette differenti colori.
L’appuntamento per gli amanti del genere è in via Palermo, nel cuore pulsante del Brera Design District, zona in cui merita una visita anche «Home Sweet Home», un environment di Alessandra Roveda per il Missoni Showroom di via Solferino, che, con i fili di lana colorati lavorati ancora una volta a uncinetto, riveste oggetti e arredi della memoria.
Non molto distante, alla Galleria Moshe Tabibnia, è possibile, invece, confrontarsi con «Mīror», un progetto del collettivo di design «The Ladies’ Room», formato da Ilaria Bianchi, Agustina Bottoni, Astrid Luglio e Sara Ricciardi.
Si tratta -racconta il gruppo- di «un’installazione di tre sculture riflettenti che nasce dall’esplorazione dell’immagine in un gioco di illusioni ottiche e di alterazione della percezione, alla ricerca di un preciso istante, quello in cui stupirsi scoprendo una forma, un dettaglio, un vuoto, un riflesso o se stessi».
L’arte tessile va in scena anche a Palazzo Reale, nella Sala degli arazzi, con la mostra «De/Coding» (fino al 12 maggio), per la curatela di Domitilla Dardi e Angela Rui, attraverso la quale si esplorano le qualità dell’alcantara come materiale per l’arte e il design. Quattro artisti contemporanei - Constance Guisset, Qu Lei Lei, Sabine Marcelis e il duo Space Popular, formato da Lara Lesmes e Fredrik Hellberg- si confrontano attraverso installazioni site specific, che richiedono l’interazione del pubblico, con il tema del mito, dalle pluriformi dimensioni di Medea all’incarnazione di Scilla, per poi sperimentare la compagnia virtuale degli Argonauti, a partire dalle «Metamorfosi» di Ovidio.
Mentre in un altro spazio istituzionale della città, il Mudec – Museo delle culture, va in scena la rassegna «Moka Alessi. Design e Re-Design», che racconta l’evoluzione delle caffettiere dell’azienda, da Richard Sapper (1979) fino all'ultima, nuovissima, di David Chipperfield (2019). In mostra ci sono anche due opere del cineasta Virgilio Villoresi: un film e un’installazione che è una sorta di «fiaba in movimento», evocativa degli esperimenti pre-cinema. Infine, il bistrot si trasforma in Mokeria, un bar dall’anima super pop e coloratissima per una pausa all’insegna dell’allegria.
In Triennale, invece, c’è da visitare, tra l’altro, il nuovo Museo del design, uno spazio che ripercorre la storia del mondo dal 1946 al 1981 attraverso gli oggetti iconici creati in quegli anni: dal telefono Grillo alla radio Brionvega, dalla poltrona «Proust» di Alessandro Mendini ai Moon Boot, dalla sedia «Superleggera» di Giò Ponti alla mitica «Valentine» di Ettore Sottsass Junior e Terry King per Olivetti.
Alla storia della progettazione guarda anche Knoll, che, nel suo showroom di piazza Bertarelli, omaggia il Bauhaus, scuola tedesca che ebbe un’influenza unica sul progetto della modernità, di cui ricorrono quest’anno i cent’anni dalla nascita.
Il progetto espositivo -curato da Oma, studio co-fondato dall’architetto olandese Rem Koolhaas, con la collaborazione di Domitilla Dardi- «si articola in quattro ambienti/cluster -racconta Ippolito Pestellini Laparelli- che agiscono come scenari di un teatro che invita lo spettatore alla partecipazione, seguendo il più noto degli insegnamenti della scuola tedesca, il celebre «Learning by Doing».
Entrando nei quattro ambienti è possibile toccare con mano oggetti e arredi che sono gli attori principali della scena, creando partiture del racconto che mutano seguendo l’esperienza di ogni partecipante».
Al centro del percorso ci saranno alcuni prodotti iconici di Marcel Breuer, Mies Van Der Rohe e Florence Knoll.
Storia e contemporaneità si incontrano anche a Palazzo Dugnani, dove per pochi giorni sarà visibile la mostra «Ipervisualità. Rendere visibile l'invisibile» (fino al 14 aprile), a cura di Philipp Bollmann, che presenta per la prima volta in Italia, e in generale fuori dalla Germania, una selezione di opere della Wemhöner Collection, una delle più importanti collezioni tedesche d’arte contemporanea. Sei videoinstallazioni di formato museale di alcuni tra i massimi protagonisti della scena artistica internazionale – Isaac Julien, Masbedo, Julian Rosefeldt e Yang Fudong – entrano in dialogo con gli spazi affascinanti e monumentali del palazzo milanesi, edificio storico normalmente chiuso al pubblico che conserva un magnifico affresco del Tiepolo oltre a opere di Ferdinando Porta e della scuola veneta del Settecento.
Il debutto del Parenti Distrect al Fuorisalone vivrà, invece, uno dei suoi eventi più interessanti con la mostra «Immersione libera» (fino al 18 maggio), a cura di Giovanni Paolin, che porterà negli spazi della Palazzina dei Bagni Misteriosi, recentemente riscoperta e resa accessibile al pubblico, i lavori site-specific di dodici giovani artisti italiani. Interazione, libertà e ricerca sono le parole chiave del progetto espositivo, voluto e sostenuto dall’imprenditrice e collezionista Marina Nissim.
Tra gli appuntamenti più attesi di questa edizione della Milano Design Week c’è, infine, la grande installazione sull’acqua di Marco Balich che rende omaggio, alla Conca dell’Incoronata, al genio di Leonardo da Vinci, raccontando, tra ragione e incanto, un piccolo frammento del Rinascimento e del futuro di Milano. Sempre nel segno del maestro toscano, di cui ricorrono quest’anno i cinquecento anni dalla morte, è la mostra all’Ippodromo di San Siro, ideata da Snaitech e curata da Cristina Morozzi, nella quale sono presentate tredici reinterpretazione in chiave pop e avveniristica della celebre statua bronzea del cavallo leonardesco.
Per tutta la settimana saranno visibili anche le mostre inaugurate in occasione della Milano Art Week, l’altra grande manifestazione che, in occasione della fiera internazionale Miart, ha colorato di arte e creatività ogni angolo di Milano e che ora lascia il testimone al mondo del design con i suoi più di mille eventi.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Alessandro Mendini, Poltrona di Proust, 1978. Uno degli oggetti iconici esposti al nuovo Museo del design di Milano;  [fig. 2] La ballerina  della nuova collezione «Crochet» di Melissa, presentata in via Palermo a Palazzo Reale di Milano; [figg. 4 e 5] «Home Sweet Home», environment di Alessandra Roveda per il Missoni Showroom di via Solferino, a Milano; [fig. 6] Frame del video «A new moka is blooming» di Virgilio Villoresi per Alessi; [fig.7] Progetto dell'installazione  «Aqua» di Marco Balich per la Conca dell'Incoronata a Milano; [fig. 8] Progetto per la mostra sul Bauhaus  da Knoll, nello showroom di piazza Bertarelli, a Milano;  [figg. 9 e 10]Vista della mostra  «Ipervisualità. Rendere visibile l'invisibile» a Palazzo Dugnani di Milano 

Informazioni utili 
Orari, luoghi ed eventi del Fuorisalone 2019 sono consultabili sul sito https://fuorisalone.it/

domenica 7 aprile 2019

«La foresta dei violini» protagonista a «Human Spaces», la mostra di «Interni» per la Milano Design Week

Ci sono storie che sembrano uscite da un libro di favole. Quella del liutaio cremonese Antonio Stradivari che, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, se ne va in val di Fiemme a cercare, tra mille sfumature di verde, i legni perfetti per i suoi violini, quelli dell’abete rosso, è una di queste. Quando tra il 29 e il 30 ottobre scorsi un'ondata di maltempo, con venti a duecento chilometri orari, ha sconvolto l’equilibrio secolare di quella parte delle Dolomiti, la notizia dei danni alla foresta di Paneveggio, detta anche «il bosco che suona», ha fatto il giro del mondo, perché è ancora lì, dove la natura si fa musica, che i maestri liutai di Cremona trovano la materia ideale per la costruzione della casse armoniche dei loro violini, violoncelli, clavicembali e arpe.
A questa storia ha rivolto la propria attenzione Piuarch -lo studio milanese di architettura fondato nel 1996 da Francesco Fresa, Germán Fuenmayor, Gino Garbellini e Monica Tricario- per la propria partecipazione alla Milano Design Week, il calendario di mostre, installazioni, party, percorsi culinari ed eventi culturali (in tutto 1256 appuntamenti), in programma da lunedì 8 a domenica 14 aprile, in occasione della 58esima edizione del Salone del mobile.
Ne è nata un’installazione evocativa, intitolata «La foresta dei violini», in mostra all’Università Statale di Milano, su concept progettuale di Nemo Monti, consulente nei processi di comunicazione per le imprese, specializzato nel racconto dell’architettura e del design, e grazie alla sponsorizzazione del progetto CityLife.
Due grandi tronchi di abete rosso emergono dal loggiato del Cortile d’onore: le radici sospese nel vuoto si affacciano a sbalzo dalla balaustra sulla corte, sorrette da un cavalletto architettonico realizzato anch’esso in abete rosso, ma lavorato.
Quelli utilizzati per questa installazione sono alberi della secolare foresta di Paneveggio, spezzati e sradicati dal vento lo scorso autunno, perdendo così il loro legame forte e intimo con la madre terra e diventando, per mano dell’uomo, frammenti di una memoria da preservare.
«Le radici esposte -racconta, a tal proposito, Giuseppe Pino Scaglione, professore di Progettazione urbana e del paesaggio all’Università di Trento (ente patrocinatore dell’evento)- gridano il dolore, il trauma, la ferita, la loro -così come la nostra- provvisorietà; mostrano come una vita lunga possa essere recisa, improvvisamente, in una notte buia e tempestosa da colpi di vento violenti e imprevedibili. Urlano, allo stesso tempo, una denuncia: il nostro pianeta è in pericolo».
Quei due abeti rossi messi davanti agli occhi dei visitatori della Milano Design Week, simbolo degli oltre dodici milioni di alberi distrutti lo scorso ottobre lungo l’arco alpino, sono, dunque, un invito a riflettere sulla natura violata e su ciò che noi possiamo fare per l’ambiente.
Questo è uno dei temi guida di «Human Spaces» (dall’8 al 19 aprile), la mostra diffusa promossa dalla rivista «Interni», dentro la quale si trova appunto «La foresta dei violini» di Piuarch, in cui una serie di installazioni sperimentali e interattive, frutto della collaborazione tra architetti di fama internazionale e aziende di riferimento, oltre che istituzioni e start-up, raccontano come il mondo della progettazione e il design possano e debbano essere a servizio dell’uomo e delle sue esigenze, perché -come diceva Oscar Niemeyer- «la vita è più importante dell’architettura».
I progetti esposti estendono il concetto di «Human Spaces» all’ambiente e alla sostenibilità, a partire da emergenze come l'inquinamento dei mari, il cambiamento climatico o l'esaurimento delle risorse, per raccontare come nell’ambito della progettazione, dalla produzione alla ricerca dei materiali, si possa ancora correre ai ripari grazie ad azioni virtuose.
Ideale punto di partenza della mostra è, nel cortile d’onore dell’Università degli Studi, il lavoro di Maria Cristina Finucci: quattro gigantesche lettere, fatte con circa due tonnellate di tappi di plastica, posizionate sul prato a comporre la lapidaria scritta «Help», che la sera si illuminerà trasformandosi -raccontano gli organizzatori- in «una ferita sanguinaria di magma incandescente», come fosse «un grido dell'umanità al fine di frenare il disastro ambientale dell'inquinamento dei mari, attualmente in corso».
Al mondo marittimo si ispira anche «From shipyard to courtyard», il lavoro ideato da Piero Lissoni per il Cortile del 700: un’imponente costruzione lunga 33 metri, dipinta di rosso, che reinterpreta, astraendolo, lo scafo di uno yacht e che richiama alla mente le strutture in legno costruite, in passato, dai maestri d’ascia, figure di spicco dei cantieri navali.
Di grande impatto scenografico è anche «Sleeping Piles», il progetto dei fratelli Fernando e Humberto Campana per il Cortile della farmacia: sette torri di cinque metri rivestite d'erba che riprendono, rovesciandole, le curve architettoniche delle arcate e dei pilastri del colonnato, invitando i visitatori a vedere quello spazio come un luogo deputato al riposo nei giorni caotici del Salone del mobile.
A dialogare con la storia del Cortile dei bagni e delle sue vasche centrali, costruite a partire dal XVIII secolo, sarà, invece, Piscine Laghetto con «Miraggi», progetto di Luigi Spedini, per il landscape design di Bearesi Giardini.
Acqua e luce sono i due elementi su cui è giocata questa installazione onirica, formata da due aree benessere organizzate intorno a due mini piscine, Playa Living e Dolcevita Divina, che la sera si tingeranno di blu grazie al light design di Davide Groppi, per omaggiare -racconta il progettista- «i corsi d’acqua e il cielo di Milano che si uniscono in un grande sogno».
Tra i tanti progetti esposti non potranno, poi, sfuggire all’attenzione dei visitatori le due monumentali giraffe dall’aria trasognata che sostengono un lampadario classico in stile Maria Teresa, progettate dal designer Marcantonio per il brand Qeeboo, o, sempre nel Cortile d’onore, l’installazione «The Perfect Time», pensata da Ico Migliore con M+S lab per Whirlpool, una grande bolla trasparente nella quale viene presentato il forno W Collection che, grazie a tecnologie di ultima generazione, è in grado di essere programmato anche da remoto, restituendo così all’uomo il valore del proprio tempo.
M + S Architects, ovvero il duo Migliore e Servetto, firma anche il progetto dell’installazione «Abitare il paese» nella hall dell’Aula Magna, ideato con l'intento di promuovere l’adozione di politiche pubbliche per le città e un programma nazionale di rigenerazione urbana. Mentre, al Loggiato Ovest, Fabio Novembre ha ideato per il brand PerDormire, della storica azienda pistoiese Materassificio Montalese, l’installazione «One upon a time», in cui un letto rosso lungo ventuno metri invita i visitatori a fermarsi per condividere spazi, momenti e pensieri, allietati dalla musica classica.
Come ogni anno la mostra di «Interni» esce anche fuori dalle mura dell’Università degli Studi per animare altri luoghi della città. Quest’anno tocca all’Arco della Pace, dove si svolgerà la settima edizione di Audi City Lab, un hub di analisi e riflessione sulla mobilità del futuro, a partire, ovviamente, da quella elettrica. La Torre Velasca, edificio simbolo di Milano, sarà, invece, trasformata in un'icona di luce da Ingo Maurer e Axel Schmid, con un progetto che guarda al cielo, prodotto da Urban Up – Unipol Projects Cities del Gruppo Unipol, proprietario dello storico edificio. «La maestosa torre brillerà in una magia blu, mistica e profonda, -raccontano gli organizzatori- mentre fasci di luce bianca proietteranno la sua geometria nell’infinità del cielo», proiettando una scritta che recita «nel blu dipinto di blu».
Infine, all’Orto botanico di Brera, lo Studio Carlo Ratti Associati racconterà con Eni l’economia circolare, attraverso l’uso di un materiale da costruzione inaspettato: i funghi, la cui radice fibrosa –il micelio–è stata impiegata per creare delle strutture monolitiche ad arco, alte circa quattro metri, che, al termine della mostra, saranno smantellate e riutilizzate in qualità di fertilizzante. Un’installazione, questa, che spiega bene il senso di «Human Spaces», raccontare come l'unico futuro possibile sia in sintonia con la natura e rispettoso dell'ambiente.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1, 2 e 3] Courtesy of Piuarch; [Figg. 6, 7 e 8] Courtesy of Migliore+Servetto Architects

Informazioni utili 
Human Spaces. Sedi: Università degli Studi di Milano (Via Festa del Perdono, 7): dall'8 al 14 aprile 2019, ore 10.00-24.00; dal 15 al 18 aprile, ore. 10.00-22.00; 19 aprile, ore 10.00-18.00; Orto Botanico di Brera – CircularEni (via Fratelli Gabba, 10; via Brera, 28): dall'8 al 14 aprile, ore 10.00-23.00; dal 15 al 18 aprile, ore 10.00-22.00; 19 aprile, ore 10.00-18.00; Arco della Pace e Caselli Daziari - Audi City Lab (piazza Sempione): 8 aprile, ore 10.00-24.00; 9 aprile, ore 10.00-16.00; 10 aprile, ore 20.00-24.00; dall'11 al 14 aprile, ore 10.00-24.00; Torre Velasca: dall'8 al 14 aprile, ore 20.00-03.00. Sito internet: internimagazine.com.