lunedì 29 novembre 2021

Dall’antico Egitto al contemporaneo, a Bologna tutti i segreti della ceramica Faïence – Faenza

È una statuetta del faraone Sethi I, trovata nel 1817 dal padovano Giovanni Battista Belzoni nella Valle dei Re, a Tebe Ovest, ad aprire il percorso espositivo della mostra-dossier «Faïence – Faenza. Dall’antico Egitto al contemporaneo», a cura di Daniela Picchi e Valentina Mazzotti, allestita fino al 30 gennaio negli spazi del Museo civico archeologico di Bologna.
Particolarmente raro per materiale, dimensioni (circa ventisei centimetri), qualità di esecuzione e tono di azzurro, questo manufatto funerario, conosciuto con il nome di ushabti, introduce il pubblico alla sezione dedicata alla faenza silicea, che gli egiziani chiamavano «la brillante», le cui prime produzioni si attestano intorno al IV millennio a.C.. Questo tipo di faïence ante litteram era una maiolica creata con un quarzo friabile, ricoperto da una sottile invetriatura a base alcalina, così da assomigliare a pietre preziose come il turchese e il lapislazzulo, utilizzata, soprattutto nei decenni del Nuovo Regno (dal 1530 a.C. al 1080 a.C.), per decorare gli interni dei palazzi, per arricchire i corredi funerari e per infiniti altri manufatti di uso quotidiano.
Le caratteristiche estetiche così come le molteplici declinazioni cromatiche, oltre alla facilità di reperimento delle materie prime resero, infatti, la faïence di grande attrattiva e di ampia diffusione.
Un ulteriore aspetto da considerare è la valenza magica attribuita a questo materiale, con il quale furono realizzati gran parte degli amuleti in uso tra il popolo egiziano, ma anche un numero considerevole di statuette funerarie del tipo ushabti, la cui produzione è attestata dal Medio Regno all’Epoca Tolemaica (2046-306 a.C.). La maggior parte di questi manufatti ha aspetto mummiforme e raffigura principalmente il dio Osiris, il signore dell’Oltretomba; più rari sono quelli in abito di vivente.
Sempre dall’antico Egitto provengono pettorali e scarabei, che venivano appoggiati sulla mummia per indurre il cuore a non tradire il defunto nel tribunale dell’Oltretomba, permettendogli così di aspirare alla rinascita eterna sotto la protezione delle dee Isis e Nephtis.
Il focus tematico prosegue con una sezione dedicata alla faïence nel mondo islamico, di cui è un importante riferimento è il trattato sulla ceramica scritto nel 1301 da Abu’l Qasim, esponente di una famiglia di vasai di Kashan. Dieci parti di silice (sabbia), una parte di fritta alcalina (vetro macinato) e una parte di argilla bianca devono comporre il materiale, che ha un grande produttore nell’Iran, la cui industria si sviluppò già dalla fine dell’XI secolo in parallelo con quella egiziana.
Tra gli oggetti esposti, si segnala la brocca in faenza silicea con decorazione dipinta in nero sotto vetrina, di produzione iraniana del XII-XIII secolo, che mostra sul corpo globulare una decorazione impressa a «nido d’ape» a probabile imitazione delle coeve produzioni in vetro o in metallo. Di squisita realizzazione è, poi, il frammento di rivestimento murale, proveniente dall’Asia centrale e datato al XV secolo. Il mattone, probabile bordura a un pannello decorativo, mostra un intreccio di girali che creano quadrilobi con all’interno piccoli trifogli. Il profondo intaglio dell’ornato a rilievo è evidenziato dalla densa e lucente invetriatura turchese. Sotto i Timuridi (1370-1507), i portali, le cupole e intere pareti di edifici furono ricoperte di elementi ceramici invetriati, in faenza e in faenza silicea, dalle forme geometriche e vegetali che si intrecciano insieme a eleganti iscrizioni.
Il visitatore trova, quindi, una sezione espositiva dedicata alla faenza dipinta a lustro tra Oriente e Occidente. Si tratta di un complesso procedimento decorativo, applicato sul rivestimento vetroso già cotto, che dopo successiva cottura a temperatura relativamente bassa (tra i 650 e i 700°C) in ambiente riducente consente di ottenere pellicole metalliche dai riflessi iridescenti della madreperla e dalle tonalità generalmente giallo dorate e rosso rubino.
Già perfettamente sviluppata nell’Iraq abbàside del IX-X secolo, questa antica tecnica mutuata dall’arte vetraria giunse in Egitto sul finire del X secolo e conseguì vette di grande virtuosismo nella ceramica persiana del XII-XIII secolo.
Dall’Oriente la produzione faenza dipinta a lustro giunse in Occidente a seguito della conquista musulmana della Penisola Iberica che ebbe inizio nel 711 d.C. e terminò nel 1492 con la presa di Granada da parte dei re cattolici. Si affermò così lo «stile moresco», caratterizzato da decori geometrici, del quale sono uno splendido esempio le faenze smaltate (maioliche) con decorazione dipinta a lustro prodotte a Valencia nei secoli XV-XVII. Le forme tipiche sono piatti, ciotole, scodelle ad ampia tesa di diverse dimensioni e albarelli per contenere erbe officinali e vivande, nei quali gli artigiani adottarono un ricco repertorio decorativo di motivi vegetali a foglie di brionia, edera, felce, cardo, rosette, pseudo-margherite.
Questi manufatti esercitarono una notevole influenza stilistica sulla ceramica italiana del Quattrocento e del Cinquecento, soprattutto per quella delle fabbriche di Deruta e Gubbio.
L’ambivalenza semantica della parola «faenza», toponimo della città romagnola famosa per le sue maioliche, ma anche vocabolo che indica un genere di ceramica a pasta colorata, porosa, rivestita con uno smalto bianco, brillante, a base di ossido di piombo e di stagno, è centrale nella sezione dedicata al Rinascimento e al Barocco.
Tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500 si impose una cultura decorativa incentrata sulla figura umana, dipinta sulla superficie maiolicata del vasellame ma anche modellata in magnifiche composizioni scultoree con scene tratte dai miti della classicità o con soggetti di carattere devozionale raffiguranti la Madonna con il Bambino, la Pietà, il Compianto e la Natività.
Sono coeve le raffigurazioni pittoriche del vasellame amatorio con «belle», recante l’effige idealizzata della persona amata, da cui si giunse alla formulazione di vere e proprie «istorie».
La vera fortuna degli artefici faentini fu, però, l’elaborazione, a partire dalla metà del XVI secolo, di uno stile antitetico al vivace decorativismo e cromatismo delle maioliche precedenti, che per la predominanza dello smalto bianco, coprente e applicato a spessore, assunse la denominazione di «bianchi» di Faenza, la cui fortuna si protrasse per tutto il XVII secolo, alimentata dall’apprezzamento per gli esemplari delle botteghe di Virgiliotto Calamelli, dei Bettisi e di Enea Utili, solo per citare le più famose.
Tra i pezzi più preziosi di questa sezione c’è uno splendido calamaio in maiolica della fine del XV secolo, conservato ai Musei civici d’arte antica di Bologna, che raffigura i quattro Santi protettori di Bologna e la città turrita.
La mostra si chiude con una sezione dedicata al contemporaneo. Da Fontana a Leoncillo, da Melotti a Valentini, differenti esperienze hanno valorizzato l’antico linguaggio della Faenza. L’esposizione dà voce a Luigi Ontani, artista sperimentatore e anticonformista, che unisce ironia e narcisismo, mito e favola, Oriente e Occidente. La sua scultura «ErmEstEtica AiDialettica», realizzata in collaborazione con la Bottega Gatti di Faenza, è un omaggio alla cultura egizia e alla sua icona più emblematica, l’Erma.

Informazioni utili
«Faïence – Faenza. Dall’antico Egitto al contemporaneo». Museo civico archeologico, via dell'Archiginnasio, 2 – Bologna. Orari: lunedì, mercoledì, ore 9:00-14:00; giovedì, ore 15:00-19:00; venerdì, sabato, domenica, festivi, ore 10:00-19:00; martedì chiuso. Ingresso: intero € 6 | ridotto € 3 | ridotto speciale € 2 ≥ 18-25 anni | gratuito possessori Card Cultura. Sito web: www.museibologna.it/archeologico. Fino al 30 gennaio 2022

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