lunedì 30 luglio 2012

Roma, la collezione della famiglia Ingrao in mostra permanente a Villa Torlonia

«Per un compleanno», «A Francesco e Xenia a ricordo di Gaeta, agosto 1978», «Prova d’artista per l’amico Ingrao»: sono, queste, le dediche, affettuose, vergate da Alberto Burri, il maestro delle plastiche combuste e dei sacchi di juta, su tre sue opere (la serigrafia «Oro e nero 6» del 1983, un collage in tempera e carta di giornale del 1978 e un «Cretto bianco» del 1977) donate all’amico Francesco Ingrao, medico specializzato in malattie polmonari e fratello di Pietro Ingrao, direttore del giornale «l’Unità» e, poi, autorevole dirigente del Pci, che, dal 1976 al 1979, rivestì anche il ruolo di presidente della Camera. Questi tre lavori fanno, ora, parte del percorso espositivo del Museo della Scuola romana, al Casino nobile di Villa Torlonia. Dallo scorso settembre, lo spazio museale, che in passato fu anche residenza di Benito Mussolini, accoglie, infatti, trentacinque tele della collezione Ingrao-Guina, donate dall’erede Mirjana Jovic, sorella di Ksenija Guina Ingrao, a Roma Capitale.
Mario Mafai, Mirko Basaldella, Corrado Cagli, Renato Guttuso, Luigi Bartolini, Mino Maccari, Nino Bertoletti, ma anche Giulio Turcato, Sebastian Matta, Pietro Consagra e, naturalmente, Alberto Burri sono gli artisti rappresentati in questa preziosa raccolta, che svela un aspetto particolare del collezionismo romano negli anni del Dopoguerra. Saltando la mediazione di gallerie e mercanti, affidandosi al rapporto personale con gli artisti, conosciuti per motivi professionali o per rapporti di consuetudine, talvolta di vera e propria amicizia, Francesco Ingrao raccoglie, con la collaborazione della moglie Ksenija, un centinaio di tele, schizzi, bozzetti, terracotte, ceramiche e opere grafiche, che sono un saggio della storia dell’arte del Novecento, ma anche –per usare le parole dell’assessore Dino Gasperini- il racconto di una «storia d’amore per l’arte e, andando oltre, di una filosofia che vede nell’opera dell’artista uno strumento di cura dell’anima».
A iniziare il giovane medico agli ambienti culturali romani fu, nei primi anni Cinquanta, il collega, collezionista e scultore Moroello Morellini, primario del reparto di sierologia del «Forlanini», dove Francesco Ingrao iniziò il suo tirocinio. Fra i due nacque subito un rapporto di stima e amicizia molto intenso, favorito dalla comunanza di interessi professionali e da affinità caratteriali e politiche. A cementare il loro rapporto fu la condivisione di uno studio privato a Roma, in piazza Pasquale Paoli. Qui, forse su consiglio di Amerigo Terenzi, amministratore del quotidiano «l’Unità», venivano molti artisti «squattrinati». I due medici prestavano loro (naturalmente gratis) le necessarie cure, e, andando ben oltre la missione professionale, o forse solo svolgendola in modo diverso, tentavano di aiutarli a vendere le loro opere a pazienti più facoltosi, esponendole nello studio stesso. Un’opera di solidarietà, questa, che il più giovane dei due continuò, partecipando alle attività dell’Isa, l’Istituto di solidarietà artistica, fondato nel 1948 con l’intento di sostenere gli artisti in difficoltà economica, fornendo loro gratuitamente consulenze mediche.
In questi stessi anni, Moroello Morellini e Francesco Ingrao, con le rispettive moglie, frequentarono assiduamente anche alcuni dei luoghi più vitali della scena artistica romana, come la celebre trattoria dei fratelli Menghi, in via Flaminia (alla quale Ugo Pirro dedicherà un delizioso libro intitolato «La trattoria dei pittori»), ma anche villa Massimo, dove lavoravano Marino Mazzacurati e Renato Guttuso, lo studio di Corrado Cagli all’Aventino e quello di via Margutta, dove era possibile vedere all’opera Pericle Fazzini e Giovanni Omiccioli. Spesso Moroello Morellini e Francesco Ingrao si ritrovavano anche a casa di Giuseppe Mazzullo, in via Sabazio, frequentata da diversi artisti, fra cui molti siciliani come Emilio Greco e Renato Guttuso.
Prese così avvio una collezione, lontana dalle logiche mercantilistiche di oggi, dal puro tornaconto economico che anima molte raccolte attuali. Una collezione che ha origine nella passione per l’arte e nell’interesse umano verso l’artista. Francesco Ingrao amava trascorre serate appassionate a cenare piacevolmente, a discutere di pittura e di politica, anche con chi, come Alberto Burri, la pensava diversamente. Era un uomo curioso, brillantemente intelligente, aperto alle novità, che, incurante delle posizioni del suo partito e «in anni anche di forte contrapposizione tra astratti e figurativi, tra sperimentazione e realismo, -scrive Claudia Terenzi, nel bel catalogo edito dalla romana Gangemi- non poneva alcuna condizione alle sue scelte».
Quella di Francesco Ingrao è, dunque, una collezione composita, con opere datate prevalentemente tra gli anni Cinquanta e Ottanta, con qualche eccezione che ci riporta nel periodo della Scuola romana. Una collezione dove la firma dell’artista è qualcosa di più di «un marchio di fabbrica». È un attestato di rispetto e di gratitudine, se non di affetto, come testimoniano le numerose dediche che appaiono in calce a molti lavori, donati, spesso, per occasioni intime: feste, vacanze, momenti di comunione.
Nel 1940, Basadella espresse la propria riconoscenza con il dono di una sua china su carta, raffigurante un nudo maschile, recante la scritta «Agli Ingrao con affetto, Mirko». Nel 1965, Corrado Cagli donò una litografia a pennarello dal titolo «Adamo», su cui vergò la dedica «A Francesco e a Xenia con gli auguri per il loro Capodanno 65».
Di poche parole, invece, Giulio Turcato, che omaggiò la famiglia di un mazzo di fiori dipinto e scrisse solo «Ingrao», con il timbro: «L’artistica di via del Babuino 24, angolo via Margutta». Mentre Renzo Vespignani, con la sua spiccata sensibilità, accompagnò il dono di un suo lavoro, un autoritratto, da versi scrissi sul retro, «Come leggero, come nuovo l’ospite di questa sera, diafana malinconia!», e dalla dedica «Prova d’autore, a Xenia, a Franco, affettuosamente».
Scorrono, poi, davanti agli occhi del visitatore tante altre opere, da una raffinata acquaforte acquerellata di Luigi Bartolini, dal titolo «3 ragazze a Fonte Maggiore» (1940), a qualche disegno di Renato Guttuso, come la suggestiva china «Sacra famiglia» (1946), da un piccolo e luminoso acquerello di Giovanni Omiccioli, una marina datata 1949, ad alcuni lavori di Sebastian Matta, tra i quali il pastello «Mitologia» (1980), in cui elementi zoomorfi e antropomorfi si mescolano con ironia a formare figurazioni fantastiche. Non manca, infine, un disegno di Mario Mafai, donato al medico dalla figlia Miriam, dopo le cure per una pleurite. Perché grazie lo si può dire in tanti modi. E Francesco Ingrao, per gli amici Ciccio, lo sapeva.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Francesco Ingrao, con la moglie Ksenija Guina Ingrao;[fig. 2] Renato Guttuso, «Sacra famiglia», 1946. Roma, Collezione Ingrao-Guina; [fig. 3] Giulio Turcato, «Senza titolo»,1972, acrilico e olio su tela. Roma, Collezione Ingrao-Guina;[fig. 4] Pietro Consagra,«Senza titolo», 196o, tempera su faesite. Roma, Collezione Ingrao-Guina; [fig. 5] Giovanni Omiccioli, «Senza titolo», 1949, acquerello e grafite su carta. Roma, Collezione Ingrao-Guina.

Informazioni utili
Collezione Ingrao. Musei di Villa Torlonia - Casino Nobile, via Nomentana, 70 - Roma. Orari: martedì-domenica, ore 9.00-19.00; chiuso il lunedì (la biglietteria chiude 45 minuti prima). Biglietti: Casino Nobile e Casina delle Civette - intero € 7,50, ridotto € 5,50; Casino Nobile - intero € 5,50,, ridotto € 4,50; gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente. Catalogo: Gangemi editore, Roma. Informazioni: tel. 06.0608 (tutti i giorni, ore 9.00–21.00). Siti internet: www.museivillatorlonia.it o www.zetema.it


venerdì 27 luglio 2012

Robert Capa, il fotografo che raccontò la Storia

«Amare la gente e farglielo capire». Era questa la filosofia di vita di Endre Ernő Friedmann, in arte Robert Capa. L’interesse per il «fattore umano» è infatti, sempre stato fondamentale per il fotoreporter ungherese che, con l’obiettivo attento e curioso della sua Leica, ha raccontato i fatti più importanti della storia, fissando sulla pellicola e divulgando attraverso la carta stampata gli sguardi e i volti dei protagonisti di eventi come la Guerra civile spagnola (1936-1939), l’invasione giapponese della Cina (1938), la Seconda guerra mondiale, il conflitto arabo-israeliano (1948) e quello indocinese (1954).
Una selezione di queste immagini, scelte tra gli oltre settantamila negativi del fotografo, conservati presso l’archivio dell’Agenzia Magnum Photos, sono in mostra a Verona, nei suggestivi spazi del Centro internazionale di fotografia Scavi scaligeri, per iniziativa della stessa Magnum Photos, la famosa agenzia che Robert Capa fondò, nel 1947, con gli amici Henri Cartier-Bresson e David Seymour.
L’esposizione, in programma fino a domenica 16 settembre, ripercorre la straordinaria carriera del fotoreporter di Budapest, definito dalla prestigiosa rivista inglese «Picture Post» «il miglior fotoreporter di guerra del mondo», attraverso novantotto immagini in bianco e nero, a partire dal primo reportage, datato 1932 e dedicato al rivoluzionario Leon Trotsky in esilio a Copenhagen, per giungere al 25 maggio 1954, giorno nel quale Robert Capa, poco più che quarantenne, perse la vita, calpestando una mina anti-uomo su un sentiero indocinese, mentre era intento a fotografare le manovre francesi sul delta del Fiume Rosso.
Dagli anni del Fronte popolare a Parigi allo sbarco in Normandia, dalla liberazione anglo-americana della Sicilia alla nascita dello Stato di Israele, dai reportage in Unione Sovietica (1947) e in Giappone (1954) fino all’ultima campagna fotografica, per «Life», in indocina: quello che il fotografo ungherese, l’uomo capace di «mostrare l’orrore di un intero popolo nel volto di un bambino», come ebbe a scrivere il biografo Richard Whelan, consegna al visitatore è il racconto di un ventennio di storia mondiale, un racconto fatto attraverso immagini famose, che sono entrate a far parte del nostro patrimonio visivo del Novecento.
Un esempio su tutti è la chiacchieratissima «Morte di un miliziano lealista», una fotografia del settembre 1936, scattata sul fronte di Cordova, che per l’impatto visivo viene paragonata a «Guernica» di Pablo Picasso. L’immagine ritrae un soldato repubblicano che sta per cadere al suolo con le braccia spalancate, colpito a morte. L’attimo è colto con un tale tempismo che, in anni recenti, più di una persona ha accusato l’autore di aver chiesto al giovane di mettersi in posa. In realtà, la foto sembra essere originale. A tacere, ma mai definitivamente, le voci di dubbio sull’autenticità del celebre scatto, sono state delle ricerche che hanno identificando il soldato raffigurato con Federico Borrell Garcia, caduto in battaglia a Cerro Muriano, e che hanno permesso all'Internation Center of Photography di Manhattan di recuperare il negativo dell’immagine.
Altri scatti leggendari sono quelle che raccontano il D-Day, ossia lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944. Robert Capa arrivò in Francia con i soldati americani, e nella confusione riuscì a catturare perfettamente il clima, la tensione e il pericolo che venne affrontato nello storico attacco annunciato da Dwight David Eisenhower. Quel giorno il fotografo scattò settantadue foto, delle quale ne rimangono soltanto undici tremolanti testimonianze, a causa della fretta maldestra di un tecnico di «Life», che, per accelerare l’asciugatura, ne rovinò irrimediabilmente l’emulsione. Sono scatti, noti per quella didascalia, «Sligtly out of Focus» («Leggermente fuori fuoco»), scelta come titolo per la autobiografia di Robert Capa, che rappresentano il documento per antonomasia di che cosa significhi «essere sulla notizia», nella storia da raccontare, accanto a quei soldati con i quali, nelle settimane precedenti, si era condiviso la sofferenza del conflitto, la solitudine della distanza, la paura di non tornare più a casa.
Robert Capa conosceva bene il dolore che andava raccontando con il suo lavoro. A diciassette anni aveva dovuto abbandonare il Paese natale, l’Ungheria, per l’adesione ad alcune attività studentesche di sinistra contro il regime proto-fascista dell’ammiraglio Moklós Horthy. Due anni dopo, nel 1933, era stato costretto a lasciare la Germania, dove si era rifugiato, per sfuggire all’antisemitismo nazista. Nel 1937, sul fronte spagnolo, durante i combattimenti svoltisi a Brunete, aveva perso la compagna, Gerda Taro, la donna che aveva cambiato per sempre il suo destino, inventando il personaggio del misterioso fotografo americano Robert Capa, del quale solo lei poteva «girare» le fotografie e venderle ai giornali. Più che uno stratagemma pubblicitario, un’incredibile premonizione. Scoperto il bluff, infatti, Endre Ernő Friedmann fu per tutti, sempre e soltanto, Robert Capa. Da tutto questo nasceva quell’«empatia irresistibile» per il prossimo, della quale ha parlato John Steinbeck,
Ma la vita di quest’uomo dal carattere curioso, dall’intelligenza viva e dalla battuta sempre pronta non era fatta solo di guerra e di morte. Robert Capa era anche una persona che sapere ammaliare gli altri, con il suo sorriso guascone e l’inguaribile entusiasmo, tanto da farsi molti amici tra le persone dello spettacolo e della cultura. Ecco così sfilare in mostra a Verona numerosi ritratti di vip dell’epoca: dall’algida Ingrid Bergman ad un innamorato e servizievole Pablo Picasso, da Henri Matisse all’amico Ernest Hemigway, lo scrittore chiamato simpaticamente «papà», che, alla notizia della morte del fotoreporter ungherese, disse: «Capa è stato un buon amico e un grande e coraggiosissimo fotografo. Era talmente vivo che devo mettercela tutta per pensarlo morto».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Robert Capa, Contadino siciliano indica la direzione presa dai tedeschi nei pressi di Troina, Sicilia, 4 - 5 agosto 1943. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto; [fig. 2] Robert Capa, Morte di un miliziano lealista, Fronte di Cordova, inizio settembre 1936. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto; [fig. 3] Robert Capa, Sbarco delle truppe americane a Omaha Beach, Normandia, Francia. 6 giugno 1944. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto; [fig. 4] Robert Capa, Henri Matisse. Cimiez, Nizza, Francia, agosto 1949. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto

Informazioni utili
Robert Capa. Centro internazionale di fotografia Scavi scaligeri – cortile del Tribunale, piazza Viviani – Verona. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-19.00; giovedì aperto fino alle ore 22.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00, ridotto scuole e ragazzi € 1,00. Nota: il giovedì, alle ore 18.30, e la domenica, alle ore 11.00, visita guidata compresa nel biglietto d'ingresso. Catalogo: Silvana editorale, Cinisello Balsamo (Milano). Informazioni: tel. 045.8007490/8013732/8000574 o scaviscaligeri@comune.verona.it. Sito internet: www.comune.verona.it/scaviscaligeri/index.htm. Fino a domenica 16 settembre 2012.

mercoledì 25 luglio 2012

Bergamo, tre Botticelli per una mostra

E’ costruita attorno all’intenso «Vir dolorum» («Cristo Dolente»), recentemente restituito alla mano di Sandro Botticelli, la piccola, ma preziosa mostra temporanea che l’Accademia Carrara di Bergamo propone per tutta l’estate e fino all’inverno. Solo tre le opere esposte, per la curatela di Maria Cristina Rodeschini, negli spazi di Palazzo della Ragione, dal 27 luglio al 4 novembre. Tre opere, queste, raccolte in mostra sotto il titolo di «Sandro Botticelli ‘persona sofistica’» (secondo la definizione di Giorgio Vasari nelle sue «Vite»), che rappresentano una sintesi ad alto livello del percorso professionale del maestro fiorentino, dal primo periodo, documentato dal noto «Ritratto di Giuliano de’ Medici» (1478 – 1480, tempera e olio su tavola, cm 60 x 41), sino ai due versanti tematici, sacro e profano, del «Cristo dolente» e della tavola raffigurante la «Storia di Virginia» (circa 1500 – 1510, tempera e oro in conchiglia su tavola, cm 83 x 165). Tutti questi lavori, sottoposti a restauro negli ultimi anni fanno parte della collezione dell’Accademia Carrara.
Opera dal forte impatto emotivo e dagli effetti luminosi e cromatici di grande raffinatezza, il «Cristo dolente» (1495–1500, tempera e oro su tavola, cm 47x32), a lungo trascurato dalla critica, è stato, in tempi recenti, definitivamente attribuito a Botticelli. L’opera, restaurata da Carlotta Beccaria nel 2010 per essere esposta nella mostra dedicata all’artista al Museo Poldi Pezzoli di Milano, rappresenta un chiaro esempio del tardo stile del maestro, in cui la ricerca di drammaticità ed espressività e il forte carattere mistico e pietistico costituisce un richiamo alla spiritualità savonaroliana della fine del XV secolo.
Le ricerche condotte da Andrea Di Lorenzo hanno ricostruito l’intricata vicenda che ha visto il Cristo separarsi dalla «Mater Dolorosa», con la quale costituiva un dittico destinato al culto privato, che nella mostra bergamasca è “virtualmente” riunito all’opera perduta, finora mai segnalata nel catalogo dell’artista.
Come le altre opere di Botticelli conservate nella Pinacoteca, il «Cristo dolente» giunse nelle raccolte della Carrara dalla donazione del grande storico dell'arte Giovanni Morelli, che lo aveva acquistato a Firenze. In seguito, la tavola raffigurante la Vergine entrò a far parte della collezione della granduchessa Maria di Russia, figlia dello zar Nicola I, ma se ne perderanno le tracce dal 1913, anno in cui è esposto all’Ermitage di San Pietroburgo. La riproduzione della «Mater dolorosa» pubblicata nel raro catalogo di questa mostra (dove si citano anche le misure, del tutto coincidenti con quelle del suo pendant conservato a Bergamo) costituisce l'ultima traccia dell'opera, oggi considerata perduta, ma ha consentito di riunire idealmente due opere destinate a completarsi.
La mostra prosegue con la presentazione del restauro del ritratto del giovane Giuliano de’ Medici, fratello minore di Lorenzo il Magnifico, morto nel 1478 nella Congiura dei Pazzi, che tentò di porre fine all’egemonia della famiglia medicea. L’intrigo segue il giovane -qui azzimato in camicia bianca, giornea e zuppone- oltre la morte e ancora oggi pone l’opera al centro del dibattito: tra le varie copie del suo ritratto realizzate da Botticelli, non si riesce a identificare il prototipo -la versione conservata a Washington, ricca di dettagli, o quella conservata a Berlino, dal modellato più morbido?- e la fonte di ispirazione. Quello che è certo è che si tratta di un ritratto commemorativo.
Il dipinto è stato oggetto di un delicato intervento conservativo, sostenuto da Italia Nostra (sezione di Bergamo) ed eseguito da Carlotta Beccaria, per la superficie pittorica, e da Roberto Buda, per il supporto ligneo, i quali, con la direzione di Amalia Pacia della Soprintendenza per i Beni storici e artistici di Milano, si sono occupati non solo del restauro pittorico, ma prima ancora nel recupero del supporto, con la rimozione della rigida ‘parchettatura’, applicata in precedenti interventi, che aveva causato sulla tavola pericolose fenditure, la maggiore delle quali attraversava l’occhio e il naso scendendo fino alla veste.
Il dipinto raffigurante la «Storia di Virginia», infine, che ha il suo pendant nella «Storia di Lucrezia», conservato all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, era parte integrante di una spalliera, manufatto molto diffuso nell’ultimo quarto del Quattrocento. Riprendendo la vicenda narrata dallo storico Tito Livio, Botticelli rappresenta gli episodi cruciali della triste storia della giovane Virginia: il rapimento da parte del capo dei decemviri, Appio Claudio, e del suo legato Marco Claudio, la morte per mano del padre nel tentativo di salvarne l’onore, e la rivolta popolare che ne scaturì. Le vicissitudini di Virginia, come quelle di Lucrezia, divennero chiaro esempio di castità e fedeltà, spesso raffigurate nei forzieri nuziali, fino a diventare allegorie adottate dall’Umanesimo civile italiano. L’analisi stilistica dell’opera spinge a collocarla tra il 1496 e il 1500, quindi durante l’ultima attività di Botticelli, coadiuvato dai suoi collaboratori. In questa occasione si presenta anche il restauro dell’opera, eseguito nel 2000 da Rossella Lari, con la direzione di Emanuela Daffra della Soprintendenza per i Beni storici e artistici di Milano, nell’ambito del progetto «Restituzioni» della banca Intesa Sanpaolo. In occasione dell’esposizione, che è corredata da una videoguida italiano/inglese, è stato pubblicato il quarto numero della collana «I Quaderni sul Restauro» (Lubrina Editore), con introduzione di Maria Cristina Rodeschini e Serena Longaretti, testo critico e schede di Andrea Di Lorenzo, relazioni di restauro di Carlotta Beccaria, Roberto Buda e Rossella Lari.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Sandro Botticelli,«Cristo Dolente in atto di benedire», 1495 – 1500, Tempera e oro su tavola, cm 47 x 32. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara; [fig. 2] Sandro Botticelli, «Mater dolorosa». Dal catalogo della mostra «L'eredità della granduchessa Maria Nikolaevna», a cura di N. N. Vranghel, San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage, 1913;[fig. 3] Sandro Botticelli, «Storia di Virginia», circa 1500 – 1510, Tempera e oro in conchiglia su tavola, cm 83 x 165. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara; [fig. 4] Sandro Botticelli, «Ritratto di Giuliano de’ Medici», 1478 – 1480, Tempera e olio su tavola, cm 60 x 41. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara. 

Informazioni utili
Sandro Botticelli ‘persona sofistica’. Palazzo della Ragione, piazza Vecchia - Bergamo Alta. Orari: fino a settembre, martedì-domenica 10.00-21.00; sabato sino alle 23.00; da ottobre a novembre, martedì-venerdì 9.30-17.30; sabato e domenica 10.00-18.00. Ingresso: intero € 5,00; ridotto e gruppi € 3,00; scuole, giovani card e family card € 1,50.  Prenotazioni e visite guidate: tel. 035.218041 (lunedì-venerdì, ore 9.00-18.00). Informazioni: tel. 035.399677. Sito internet: www.accademiacarrara.bergamo.it. Dal 27 luglio al 4 novembre 2012. 

lunedì 23 luglio 2012

Montale e De Pisis: dalla poesia alla pittura, andata e ritorno

«Qualche anno fa, a Parigi, portai alcuni quadri e disegni a un vecchio artigiano perché facesse le cornici. Più che vecchio era antico, apparteneva a una razza civile che si sta estinguendo anche in Francia (più lentamente che in Italia), quella dell’artigiano colto. Guardò con indifferenza quadri e disegni che portavano firme note e si fermò su uno: ‘Questo è il più bello. Si capisce che non è di un pittore di professione, ma è pieno di talento. Deve essere di un poeta’». L’opera alla quale fa riferimento questo episodio raccontato da Guido Pioveve, in un numero de «L’Europa letteraria» del 1946, è di Eugenio Montale.
Dal 1938 alla fine degli anni Settanta, l’autore di «Meriggiare pallido e assorto» non si è, infatti, limitato a esprimere emozioni e sensazioni con le sole parole, ma ha anche disegnato e dipinto, cercando di dare forme e colori a luoghi e persone, che erano alle origini delle sue suggestioni poetiche.
Le prime prove dello scrittore e giornalista genovese riguardano disegni a matita e inchiostro, raffiguranti ritratti di amici o composizioni floreali. Il passaggio al colore avviene nel 1945, su sollecitazione di Raffaele De Grada, suo maestro insieme con Guido Peyron.
I temi sono quelli della pittura tradizionale, la natura morta e le vedute paesaggistiche, dipinti a olio su tavola di legno e, dopo il trasferimento a Milano del 1948, tracciati a pastello su carta, cartone o «materiali di fortuna». In questi lavori, in cui il soggetto viene reso attraverso segni rapidi e «lievi cipre di colore», il poeta presenta, a detta del critico Franco Russoli, «vere occasioni di incontro evocativo, di durata intimista, dove l’oggettivazione acquista toni visionari, un candore di tenera magia». I riferimenti più prossimi di questi suoi «paesaggi dell’anima» –è lo stesso artista a rivelarlo- sono Giorgio Morandi e Filippo De Pisis, dei quali possedeva più di un’opera nella sua collezione.
Nel 1955, Eugenio Montale scopre, poi, l’originalità di una pittura dall’evidente prossimità al linguaggio informale, fatta di materiali non tradizionali, che si possono trovare ovunque: caffè, cappuccino, vino bianco e rosso, olio, cenere, rossetto, dentifricio e mozziconi di sigaretta, senza contare l’osso di seppia sul quale, nel 1972, traccia il profilo di un’upupa, uccello al quale lo scrittore dedica addirittura una serie pittorica.
Uno spaccato di questa estrosa produzione rivive, fino a domenica 26 agosto, negli spazi del Museo d’arte Mendrisio, nel Canton Ticino, dove è allestita la mostra «De Pisis e Montale. Le occasioni tra poesia e pittura», a cura di Paolo Campiglio. Una quarantina di carte dipinte e incise del giornalista ligure, del quale sono esposti anche documenti e autografi provenienti dal Fondo Montale del Centro manoscritti dell’Università di Pavia, dialogano con una cinquantina di opere, in prevalenza oli su tela e chine acquerellate, del maestro ferrarese, focalizzando l’attenzione del visitatore su temi quali -precisano gli organizzatori- «il paesaggio mediterraneo e il rapporto con gli elementi naturali, la poetica dell’oggetto e la reificazione dell’io, il motivo degli uccelli impagliati o degli animali tragici, il ritratto come presenza evanescente, la città».
I due artisti, coetanei del 1896, si conobbero a Genova, nel 1919, grazie a un amico comune e, da allora, si frequentarono durante le ferie estive, tra Rapallo e Cortina, si dedicarono opere e si scrissero. Tra le carte di questa loro corrispondenza sono state scoperte anche due chicche: lo schizzo montaliano di un ritratto e il manoscritto originale, fino ad oggi sconosciuto, dell'epigramma «Alla maniera di Filippo De Pisis», inserito nella prima edizione delle «Occasioni», quella del '39, sul quale sono visibili varianti e cancellature per mano dello stesso autore. Un dono, questo, al quale il pittore ferrarese, che aveva iniziato la sua carriera come letterato, rispose, «per amichevole contraccambio», con un altro regalo: l’opera «Natura morta con beccaccino» (1932). Questo olio su tela è esposto, a Mendrisio, accanto ai fogli dell’«Erbario», realizzati dallo stesso artista nel 1917 e provenienti dal Museo botanico dell’Università di Padova, e a altre sue celebri nature morte, composizioni in cui grandi conchiglie, raffigurate in primo piano, dialogano con ampi orizzonti, o opere nelle quali sono rappresentati oggetti come una boccetta di inchiostro, un ventaglio o una scatola di fiammiferi. E’ il caso di «Natura morta marina con guanto» (1927), «Uccelli impagliati» (1947) o «Il ventaglio cinese» (1947) messe, qui, a confronto con alcuni lavori dell’ultimo periodo della vita, provenienti dalla collezione della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Ferrara, come «La rosa nella bottiglia» (1950), dove i soggetti ricorrenti della produzione di Filippo De Pisis appaiono quasi ‘sbiancati’ da una luce abbacinante.
Non manca, poi, in mostra un esaustivo apparato documentario, arricchito da rare edizioni delle prime raccolte liriche del poeta, come la prima edizione delle «Occasioni» fitta di annotazioni di Filippo De Pisis, a fianco dei libri di poesie o con illustrazioni del pittore emiliano, come la ristampa del volume «Poesie», (Vallecchi, 1954), per la quale Eugenio Montale scrisse sul «Corriere della Sera»: «in linea di principio non siamo tra coloro che diffidano dei pittori che scrivono o dei letterati che dipingono». Una chiosa perfetta per questa suggestiva mostra che racconta di un’amicizia fatta di parole, colori, inchiostro e pennelli.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Eugenio Montale, «Roccolo», 1971. Tecnica mista su carta, cm9 x 13.8; [fig. 2] Filippo De Pisis, «Venezia Marina», 1930. Olio su cartone, 50x70 cm. Collezione Piero Zanetti; [fig. 3] Eugenio Montale, «Pseudo-Pound», 1964. Pastelli su carta. cm 13x13; [fig. 4] Filippo De Pisis, «Natura morta», 1930 ca.. Olio su tela, cm 60x73; [fig. 5] Filippo De Pisis, «Natura morta con beccaccino», 1932. Olio su tela, cm73x92; [fig. 6] Eugenio Montale,«Upupa», 1966. Acqueforte colorata

Informazioni utili
De Pisis e Montale. «Le occasioni» tra poesia e pittura. Museo d'arte Mendrisio, piazza San Giovanni, casella postale 142 - Mendrisio (Svizzera, Canton Ticino). Orari:martedì-veneredì, ore 10.00–12.00/14.00–17.00; sabato-domenica, ore 10.00–18.00;; chiuso i lunedì non festivi.Ingresso: intero ChFr 10,00; ridotto ChFr 8,00. Informazioni: tel. +41(0)91.6403350 o museo@mendrisio.ch. Sito internet: www.mendrisio.ch/museo. Fino a domenica 26 agosto 2012.

venerdì 20 luglio 2012

«L’Altro Monferrato», quando il palcoscenico è un prato verde

«Il palcoscenico? Un parco di alberi centenari o l’antico giardino di un castello. Le quinte? I contrafforti di una fortezza medioevale o la vista verdeggiante sulla valle dell’Orba». Ritorna «L’Altro Monferrato», rassegna di spettacoli, incontri e passeggiate che porta il «teatro fuori dal teatro».
A proporre l’iniziativa, in cartellone da sabato 21 luglio a giovedì 16 agosto, è «AgriTeatro», il cantiere d’arte fondato da Tonino Conte, che da tre anni allestisce, tra sentieri e cascine, uno dei festival più verdi e naturali d’Italia.
A segnare il debutto sarà una vera e propria festa teatrale della durata di un week-end, in programma tra il borgo e il castello di Rocca Grimalda e la villa Schella di Ovada.
Si inizierà sabato 21 luglio, alle 17.30, con lo spettacolo «Magic Van», nato da un'idea di Luca Regina e Marco Neri: un furgone d’epoca e dentro un cafè teatro di inizio Novecento, dove lasciarsi stupire da tante piccole magie comiche e degustare deliziosi dolcetti. Ed ecco così dodici minuti di performance, per solo otto spettatori alla volta, che lasceranno a tutti il sorriso sulle labbra.
Si proseguirà, quindi, alle cantine del castello di Rocca Grimalda, dove, alle 19, andrà in scena «Versi a sorsi» di Tonino Conte e Gianni Masella, un percorso, spassoso e sorprendente, tra poesie di Guillaume Apollinaire, Vittorio Alfieri, Stefano Benni, Dino Campana, Aldo Palazzeschi, Trilussa e Paul Verlaine, che permetterà di riscoprire il gusto della lettura, insieme a quello del vino e del cibo.
Si entrerà, poi (alle 21), nel giardino del castello per ridere con Paolo Nani e il suo spettacolo «La lettera», liberamente ispirato al libro «Esercizi di stile» di Raymond Queneau: quindici micro-storie, tutte contenenti la medesima trama, ma interpretate ogni volta da una persona diversa. Uno spettacolo, questo, rappresentato ai quattro angoli del globo, dalla Groenlandia al Giappone, dall’Argentina alla Norvegia, che vanta oltre novecento repliche e che continua a stupire il pubblico con una raffica di sorprese dal ritmo sfrenato.
A concludere la serata (alle 23) sarà, nelle suggestive cantine del castello di Rocca Grimalda, «Amarsi a Versi»: alla luce di fioche candele, Paola Bigatto, Lisa Galantini e Gianni Masella sedurranno gli astanti a colpi di rima ‘baciata’, scegliendo fra le composizione più ardite e sensuali di Giorgio Baffo, Stefano Benni, Catullo, Nicolò Macchiavelli, Ovidio e Paul Verlaine.
Chi vorrà passare il week-end nel Monferrato o chi vorrà tornarci il giorno dopo, troverà ad attenderlo una domenica ricca di eventi. Ad Ovada, nel paradiso botanico di villa Schella, è prevista un’intera giornata dedicata ai bambini e alle famiglie.
Dal tardo pomeriggio, l’artista e attore Antonio Catalano proporrà la sua installazione-spettacolo «Mondi fragili», realizzata con materiali naturali trovati sul posto: foglie, rami, terra, piume, pane, che creano un vero e proprio villaggio da percorrere attraverso visite libere o momenti di narrazione.
Nella stessa giornata, alle 18.30, sarà possibile partecipare allo spettacolo «Gli Incredibili viaggi di Mister Gulliver» del Teatro della Tosse, «un invito –dichiarano gli organizzatori-  a sviluppare la curiosità, motore della conoscenza e del buon senso per futuri adulti illuminati». Mentre, alle 17.00, si terrà la dimostrazione finale degli allievi del corso di «AgriTeatro» per bambini, dedicata a Huckleberry Finn, uno dei più sfortunati e discoli personaggi nati dalla penna di Mark Twain.
A concludere la due giorni di eventi sarà, nel prato del parco, «Ikbal, una storia vera», racconto teatrale recitato da giovanissimi interpreti e diretto dall’attrice Enrica Origo, che porta in scena la vicenda, vera, di un coraggioso bambino pakistano ucciso per aver denunciato al mondo il lavoro schiavizzato di centinaia di migliaia di altri bambini.
Tra l’inaugurazione e la conclusione del 16 agosto, che porterà nel borgo medioevale di Tagliolo Monferrato lo spettacolo «Recitarcucinando», di e con Gianni Masella e Boris Vecchio, sono molti gli appuntamenti nei quali la natura, il paesaggio e la convivialità giocheranno un ruolo da protagonisti. Venerdì 27 luglio, per esempio, Casinelle ospiterà, negli spazi del suo Museo del Territorio, i Freak Clown con il loro spiritoso «Le Sommelier», degustazione ad alto tasso di ironia, tra calici e bottiglie volanti, bicchieri musicali e bottiglie sonore. Mentre sabato 28 luglio si andrà alla scoperta del Castello di Prasco attraverso tre appuntamenti. Alle 16.30, verrà messo in scena lo spettacolo «In Viaggio, Storie in Valigia», di e con Elisabetta Salvatori, accompagnata dal violinista Matteo Ceramelli. Alle 18, si terrà «The Diary Project» di Cuocolo/Bosetti, compagnia italo-australiana che salirà sul palco anche, alle 21, con il suo nuovo spettacolo, «Roberta torna a casa», una performance per non più di venti spettatori, estratti a sorte tra i partecipanti alla giornata. Sempre alle 21, si terrà «Lettori in carrozza!», appuntamento durante il quale il gruppo di lettura Feltrinelli-Teatro della Tosse, dopo un viaggio in treno che partirà da Genova, offrirà il racconto delle avventure dei giovani Carmelo Bene e Tonino Conte, dal libro «L’amato Bene».
Domenica 29 luglio ci si sposterà ad Aqui Terme per «Storie a gettoni», spettacolo a cura di Gianni Masella e nell’interpretazione di Vlad Scolari dall’interno di una cabina-juke box letterario.La rassegna farà, quindi, tappa al Castello di Casaleggio, il più antico del Monferrato (aperto al pubblico per l'occasione), dove, sabato 4 agosto, ci si ritroverà per seguire le avventure di Don Chisciotte e Sancho Panza, con gli allievi del corso di recitazione per adulti condotto da Enrico Campanati (è prevista una replica nella giornata di domenica 5 agosto, nel borgo di Grognardo).
La notte di San Lorenzo, venerdì 10 agosto, sarà, inevitabilmente, dedicata al cielo stellato. Nel bosco della Cascina San Biagio, a Cremolino, verrà rappresentato lo spettacolo «Il giardino segreto», interpretato dall’attrice-giardiniera Lorenza Zambon e con le musiche suonate da Gianpiero Malfatti. Non mancherà, poi, un’osservazione del cielo stellato fra scienza e poesia.
Altro appuntamento da non pendere è quello di sabato 11 agosto: il teatro-picnic, durante il quale attori e spettatori attraverseranno insieme e a piedi boschi e prati, dal Santuario del Sacro Monte di Crea, per arrivare a una radura tra le montagne, dove si rappresenterà «In equilibrio/spettacolo nella natura», a cura di associazione culturale Sarabanda e per la regia di Boris Vecchio.
Il programma di spettacoli promosso da AgriTeatro per l’estate 2012 è stato preceduto ed è intercalato da saggi e seminari dedicati ai bambini, agli appassionati di scrittura (con Laura Curino e Renato Cuocolo) e di recitazione (con Enrico Campanati). Da Rocca Grimalda ad Acqui Terme, da Ovada a Prasco: saranno dieci i comuni e undici le località coinvolte nel filo verde che mette in rete i luoghi più suggestivi, e a volte meno conosciuti, dell’Alto Monferrato. Turismo e teatro si incontrano, dunque, su palcoscenici inusuali, verdi come un prato o illuminati dalla luce delle stelle.

Didascalie delle immagini
[figg. 1 e 2] Una scena dello spettacolo «La lettera», con Paolo Nani, in scena a «L’Altro Monferrato» nella serata di sabato 21 luglio 2012; [fig. 3] Antonio Catalano sarà tra i protagonisti della rassegna  «L’Altro Monferrato», nella giornata di domenica 22 luglio 2012 con la sua installazione-spettacolo «Mondi fragili»; [fig. 4] Una scena dello spettacolo  «In equilibrio/spettacolo nella natura», a cura di associazione culturale Sarabanda, in scena sabato 11 agosto 2012.

Informazioni utili
«L’Altro Monferrato - percorsi d'arte e teatro fra borghi e castelli». Acqui Terme, Casaleggio, Cassinelle, Cremolino, Ovada, Ponzano, Prasco, Serralunga, Rocca Grimalda, Tagliolo Monferrato - sedi varie. Ingresso singolo spettacolo: intero € 10,00, ridotto per bambini € 5,00.  il programma: www.agriteatro.it/public/eventi/53.pdf. Informazioni: associazione culturale Agriteatro, via Caramagna, 36 – Alessandria , tel. 010.2471153 o 346.8724732, e-mail : info@agriteatro.it. Sito web: www.agriteatro.it. Dal 21 luglio al 16 agosto 2012.

mercoledì 18 luglio 2012

Genova, tutti a bordo di una galea del Seicento

Vi piacerebbe scoprire tutti i segreti di una galea genovese del Seicento? Non vi resta che recarvi a Genova, al Galata Museo del mare, che, ad otto anni dalla sua riapertura, si rinnova e propone un inedito allestimento delle sale al primo piano, quelle dedicate all’età del remo nella città della Lanterna, negli anni tra il Cinquecento e il Settecento, tra la figura di Andrea Doria e il governo dei Dogi, che accompagnarono gli ultimi, faticosi, secoli della Repubblica.
Il nuovo percorso espositivo esprime bene la filosofia museale del Galata: una forte impostazione storica tesa alla divulgazione, un patrimonio di opere di grande pregio e un approccio scenografico, multimediale e interattivo per imparare toccando, muovendosi e interagendo con le installazioni. Il visitatore del Galata diventa così «visit-attore»: dopo aver esplorato l’arsenale, può salire a bordo della galea, fin sul ponte di voga, per esplorarne l’interno e scoprire la vita di bordo, vestendo i panni di un membro dell’equipaggio, scegliendo di essere uno schiavo, un forzato o un buonavoglia. Può interagire con personaggi tipici dell’epoca quali «aguzzini» e «papassi»; assistere all’animata discussione tra il senatore, il capitano e il maestro d’ascia e approfondire, nella «Ludoteca della Galea», alcuni aspetti della vita di bordo.
Prima di poter accedere alla galea, il visitatore come in una macchina del tempo, viene riportato indietro nello stesso luogo dove oggi sorge il Galata, nell’arsenale di Genova, nella prima metà del Seicento. Tre straordinarie opere originali -un modello di galea, un dipinto con il porto di Genova nel Seicento e l’opera raffigurante una battaglia tra galee imperiali e galee turche di De Wael- precedono l’ingresso nell’armeria della darsena. Qui, tra strutture di rovere e cancellate di ferro, sono esposte corazze, elmi, armi e cannoni originali.
Si entra, quindi, nell’area operativa dell’arsenale: lo scalo della galea in riparazione. Sovrastati dal suo grande sperone rosso, si viene avvolti dai suoni di un tempo: le grida dei maestri d’ascia e quelle dei calafati, il rumore degli attrezzi da lavoro.
Avvicinandosi sul lato sinistro della nave, si viene, dunque, richiamati da una delle persone a bordo che, prendendo il visitatore per uno dei tanti membri della ciurma, lo invita a salire e a chiarire la propria identità: «schiavo, forzato o buonavoglia?», visto che ognuno riceveva un trattamento diverso nonostante il comune compito di vogatori. Il visitatore può scegliere la propria categoria di appartenenza, attivando un dialogo con il maestro d’ascia, che introduce alla vita e al lavoro sulla galea.
Nello stesso tempo si può osservare l’interno della nave, percepirne gli spazi angusti e pieni di materiali: dalla camera delle vele alla «santabarbara», con i barilotti di polvere da sparo e le palle di pietra dei cannoni, dai barili dell’acqua ai sacchi di juta del «biscotto», la galletta, il principale alimento dei vogatori.
Da qui si sale al ponte di voga, attraverso una scaletta: come da un boccaporto, il visitatore vede i banchi di voga, la corsia, dove corrono gli «agozili» (aguzzini), che riempiono di bastonate i vogatori che non tengono il tempo, la «rembata» (da cui il verbo «arrembare»), dove stanno i soldati e le artiglierie. In particolare si può vedere una coppia di remi di galea e percepirne la grandezza e il peso (9 metri di lunghezza per oltre 100 kg l’uno). I remi, che rappresentano il vero motore della nave, sono stati realizzati dal maestro d’ascia Roberto Guzzardi, che li ha ricostruiti secondo documenti seicenteschi e con la consulenza del Corpo forestale dello Stato-Foreste casentinesi.
A questo punto del percorso, grazie a una postazione multimediale che rispecchia lo stile interattivo del museo, si può assistere all’animata discussione tra il senatore, il capitano e il maestro d’ascia. Il tema è antico, ma sempre attuale: la nave deve essere pronta eppure mancano i soldi per gli approvvigionamenti, e i fornitori si rifiutano di anticipare i materiali. Scene di una pubblica amministrazione in crisi, quale era quella genovese del XVII secolo, presa tra la volontà politica di potenza e le ristrettezze dei bilanci, situazione che partoriva trucchi ed escamotage per sopravvivere alla giornata.
Si scende, quindi, dal ponte alla camera poppiera. Qui il visitatore-galeotto incontra due figure molto importanti: l’«agozile» e il «papasso». Il primo, uno dei capi della ciurma, era una figura complessa: senza scrupoli nel tempestare di bastonate i rematori, viveva con loro, ne condivideva il destino e ne organizzava la giornata. L’altro era il capo della ciurma musulmana, poteva essere un imam, un cadì o comunque un esponente islamico di condizione, autorevole sui suoi compagni e in grado di opporsi e contrastare aguzzini, comiti e magistrati dell’arsenale.
Nella ludoteca (progetto curato da Costa edutainment), si può, invece, trovare risposta a tante domande: Come funzionava un cannone dell’epoca? Cosa si mangiava? Cosa si provava ad essere incatenati ai banchi di voga? Come funzionavano gli strumenti di navigazione dell’epoca?
Si sale, quindi, al primo piano, in un’area particolarmente ricca di fascino perché costruita intorno ai grandi pilastri dell’arsenale Nella galleria che si affaccia sulla galea, sono stati disposti i principali tesori del Galata relativi a quell’epoca: quadri di Agostino Tassi, di Lazzaro Calvi e dei fratelli De Wael, intervallati da rari reperti sopravvissuti come la cariatide poppiera, un’opera policroma settecentesca, e lo straordinario fanale che guidava le galee.
Le opere esposte al primo piano aiutano a percorrere un viaggio lungo alcuni secoli, tra gli inizi del ‘500 fino al secondo decennio del XIX secolo. È, infatti, nell’epoca post-napoleonica che, per l’ultima volta, compaiono le galee nell’arsenale di Genova, che dopo il Concilio di Vienna viene assegnato con i territori della vecchia repubblica al Regno di Sardegna. In quello che diviene l’arsenale della regia marina, i corpi delle galeotte e delle mezze galere, sono i resti anacronistici di un passato sempre più lontano. Le rivoluzioni hanno spazzato schiavi, forzati e buonavoglia; i musulmani sono tornati a casa, con le coccarde tricolore della rivoluzione, ma ai loro posti da vogatori sono andati i forzati, i renitenti alla leva, gli indisciplinati: la galea si è trasformata, definitivamente, in galera.


Didascalie delle immagini
[figg.1,2, 3 e 4] Immagini relative all'allestimento di una galea genovese seicentesca al Galata Museo del mare di Genova. Foto messe a disposizione dall'ufficio stampa di Costa edutainment. 


Informazioni utili 
Galata Museo del mare -Calata De Mari, 1  (Darsena, via Gramsci) – Genova. Orari: da novembre a febbraio: martedì–venerdì, ore 10.00–18.00 (ultimo ingresso, ore 16.30); sabato, domenica e festivi, ore 10.00–19.30 (ultimo ingresso 18.00); da marzo a ottobre: lunedì–domenica, ore 10.00 – 19.30 (ultimo ingresso 18.00). Ingresso: intero €   12,00, gruppi  € 9,00: militari, senior (sopra i 65 anni), disabili € 10,00; ragazzi 4–12 anni € 7,00; scuole € 5,50; bambini 0-3 anni, gratuito.  Sito web: www.galatamuseodelmare.it. 

martedì 17 luglio 2012

Varese, «Tre civette sul comò»...e i «nonni» vanno a teatro

«Ambarabà ciccì coccò / tre civette sul comò / che facevano l'amore / con la figlia del dottore»: inizia così una delle filastrocche per bambini più conosciute del nostro Paese. Questa cantilena, gioiosa e senza senso, ha colpito l'attenzione di diversi protagonisti del mondo della cultura italiana, da Umberto Eco, che ne ha tracciato l'analisi del testo in uno spassoso e paradossale saggio di semiotica, pubblicato nel volume «Il secondo diario minimo», a Nilla Pizzi, che, in coppia con Maria Teresa Ruta, ha cantato la canzone trash «Ambarabà», passando per Giuseppe Culicchia, Lucio Dalla e Vasco Rossi. Nemmeno il teatro è rimasto indifferente al fascino delle «tre civette sul comò». Questa vecchia conta, che secondo il linguista italiano Vermondo Brugnatelli ha origini latine e deriverebbe dall'espressione «hanc para ab hac quidquid quodquod» (traducibile in «ripara questa mano da quest'altra che fa la conta»), ha, infatti, suggestionato anche la fantasia dello scrittore e drammaturgo romano Romeo De Baggis, attuale direttore artistico dell'Atelier Carbonnel di Avignone. E' nato così il testo teatrale «Tre civette sul comò», portato in scena per la prima volta nel 1982 da Paola Borboni, Diana Dei e Rita Livesi, con la regia di Fabio Battistini, e rimasto in cartellone per ben tre anni.
La commedia brillante, sapiente mix tra comicità e nonsense, ritorna a calcare le assi del palcoscenico per iniziativa dell'associazione culturale «Educarte». Lo spettacolo sarà, infatti, al centro del progetto itinerante «Nonni a teatro», promosso dalla stessa associazione culturale «Educarte», con il patrocinio e il sostegno economico della Fondazione comunitaria del Varesotto onlus, che ha stanziato un contributo di 20mila euro nell’ambito del bando «Arte e Cultura 2012».
Cinque gli appuntamenti in cartellone nel mese di luglio, in occasione della prima fase di questa rassegna teatrale per gli anziani e le loro famiglie, che coinvolgerà, fino al prossimo ottobre, luoghi di interesse storico-artistico e case di riposo della provincia di Varese.
La tournèe prenderà il via venerdì 13 luglio, alle 21.15, dal teatro Sociale di Busto Arsizio. Farà, quindi, tappa a Samarate, al Giardino delle balaustre di Villa Montevecchio (venerdì 20 luglio, ore 21.30), a Besozzo, alla casa di riposo Villa Ronzoni della «Fondazione Giuseppe e Giulia Ronzoni» onlus (sabato 21 luglio, ore 21.15), a Busto Arsizio,  all'istituto «La Provvidenza» onlus (via San Giovanni, 3), e a Castellanza, nel cortile del Palazzo municipale (venerdì 27 luglio, ore 21.15).
Sotto i riflettori e sui “palchi” scelti dalle amministrazioni comunali che hanno deciso di aderire al progetto saliranno, per la regia di Delia Cajelli, gli attori Ambra Greta Cajelli, Gerry Franceschini e Anita Romano, con la stessa Delia Cajelli.
«Il progetto «Nonni a teatro» -raccontano dall'associazione culturale «Educarte»- intende utilizzare il linguaggio drammaturgico come strumento di comunicazione per contrastare l'isolamento della cosiddetta «terza e quarta età», soprattutto di quegli anziani che vivono lontano dalla propria famiglia o in casa di riposo. Lo spettacolo proposto ha, infatti, come scopo quello di creare, soprattutto per chi è avanti con gli anni, nuovi momenti di socialità, da condividere magari con figli e nipoti, ma vuole anche ‘regalare’ un momento di svago e di divertimento».
«Tre civette sul comò» è, in effetti, una commedia divertente. Non presenta azioni, ma solo dialoghi stralunati, al limite del demenziale. Protagoniste sono tre anziane sorelle, economicamente povere: l'eccentrica Agnese (Delia Cajelli), la cui follia è degna di uno dei migliori personaggi del cabaret; la premurosa e dolcemente svagata Virginia (Anita Romano), che -pur essendo cieca- riesce a sbrigare tutte le faccende domestiche; e la «futurista» Matilde (Gerry Franceschini), sempre alla ricerca di una eleganza nell'abbigliamento, che ormai non può più permettersi.
«Per evidenziare la dimensione "assurda" di questo personaggio, -spiega Delia Cajelli- la parte sarà attribuita a un uomo». Tale scelta rientra in quel filone di «teatro en travesti», molto in voga negli ultimi anni. Basti pensare alla compagnia de «I Legnanesi» o alle sorelle Marinetti. Ma si rifà anche a una nobile tradizione di teatro sperimentale, che ha i propri antecedenti in Sarah Bernhardt, attrice che più volte ha interpretato parti maschili, dall'«Amleto» di William Shakespeare all'«Aiglon» di Edmond Rostand. Una tradizione, questa, che, in tempi più recenti, ha portato sui palcoscenici italiani uno spettacolo come «Romeo e Giulietta - Nati sotto contraria stella» di Leo Muscato, interamente recitato da uomini, secondo il più autentico spirito elisabettiano, e nel quale la parte della giovane innamorata è stata affidata a un anziano attore comico, che «ha il tutù come una ballerina di Degas e le "alucce" come le bambine alle recite scolastiche, ma veste la maglietta della salute ed esibisce la barba bianca».
Le novità della rivisitazione proposta dalla regista Delia Cajelli non si, però, limitano all'omaggio al «teatro en travesti». Il testo di Romeo de Baggis è, infatti, stato arricchito da citazioni, musicali e non, della filastrocca «Ambarabà ciccì coccò», ma anche di un nuovo personaggio: la «gatta Achiropita della Magna Grecia» (Ambra Greta Cajelli), una micia calabrese, con la passione per le melanzane ripiene, che balla e canta sopra i tetti, aiuta l'anziana Matilde nelle sue cure di bellezza e sogna di raccontare le mirabolanti avventure che vive di notte con l'amico Moz in un libro. A ben guardare, con le «Tre civette sul comò» ce n’è proprio per tutti i gusti!

Didascalie delle immagini
[figg.1, 2, 3 e 4] Una scena dello spettacolo «Tre civette sul comò» di di Romeo de Baggis e Delia Cajelli, per la regia di Delia Cajelli e con gli attori del teatro Sociale di Busto Arsizio. Foto: Danilo Menato

Informazioni utili
«Nonni a teatro» - rassegna teatrale promossa dall’associazione culturale «Educarte», con il patrocinio e il sostegno economico della Fondazione comunitaria del Varesotto onlus. Spettacolo rappresentato: «Tre civette sul comò», resto di Romeo de Baggis e Delia Cajelli. Regia di Delia Cajelli con gli attori del teatro Sociale. Cast: Ambra Greta Cajelli (la gatta Achiropita), Delia Cajelli (Agnese), Gerry Franceschini (Matilde) e Anita Romano (Virginia). produzione associazione culturale «Educarte» - teatro Sociale di Busto Arsizio. 
Calendario appuntamenti di luglio
· venerdì 13 luglio 2012, ore 21.15 - Busto Arsizio, teatro Sociale - ingresso libero e gratuito – informazioni: Comune di Busto Arsizio - Ufficio Grandi Eventi, tel. 0331.390310 e tel. 0331.390266, grandieventi@comune.bustoarsizio.va.it [Lo spettacolo è promosso con la collaborazione dell'Amministrazione comunale di Busto Arsizio, nell'ambito di «BA Estate 2012»]
· venerdì 20 luglio 2012, ore 21.30 - Samarate, Giardino delle balaustre di Villa Montevecchio (via Lazzaretto) – ingresso libero e gratuito – informazioni: Assessorato alla Cultura, Comune di Samarate, tel. 0331.720526 [Lo spettacolo è promosso con la collaborazione dell'Amministrazione comunale di Samarate, nell'ambito della rassegna «Sipario d’Estate»]
· mercoledì 25 luglio 2012, ore 15.00 - Busto Arsizio, Istituto «La Provvidenza» onlus, via San Giovanni, 3 – ingresso libero e gratuito [Lo spettacolo è promosso in collaborazione con l’Istituto «La Provvidenza» onlus di Busto Arsizio]
• sabato 21 luglio 2012, ore 21.15 - Besozzo, Villa Ronzoni – Casa di riposo (via degli Orti, 14) – ingresso libero e gratuito – informazioni: Fondazione «Giuseppe e Giulia Ronzoni» onlus, tel. 0332.770216 [Lo spettacolo è promosso in collaborazione con la Casa di riposo - Fondazione Giuseppe e Giulia Ronzoni onlus]
venerdì 27 luglio 2012, ore 21.15 - Castellanza, cortile del Palazzo municipale (via Rimembranze, 4) - ingresso libero e gratuito – informazioni: Ufficio cultura – Comune di Castellanza, tel. 0331.526263, cultura@comune.castellanza.va.it [Lo spettacolo è promosso con la collaborazione dell'Amministrazione comunale di Castellanza, nell'ambito della rassegna «Incontri per le strade 2012»]

lunedì 16 luglio 2012

Perugia: da Canova a Thorvaldsen, tra le sale del «nuovo» Museo dell’Accademia di Belle arti

E’ una delle Accademia di Belle arti più antiche d’Italia. Fondata dal pittore Orazio Alfani e dall'architetto e matematico Raffaello Sozi nel 1573, come Accademia di Disegno, è seconda solo a quella fiorentina, nata una decina d’anni prima, nel 1562. Stiamo parlando della «Pietro Vannucci» di Perugia, ubicata, dal 1901, presso l'antico convento di San Francesco al Prato (accanto al celebre Oratorio di San Bernardino, opera dello scultore Agostino di Duccio). In questi spazi, a cominciare dal 1974, ha preso corpo e forma una ricca e preziosa collezione d’arte, oggi ordinata in tre sezioni: Gipsoteca (galleria dei gessi), Galleria dei dipinti e Gabinetto dei disegni e delle stampe.
Nel 1997, il forte sisma che colpi Umbria e Marche, lo stesso che danneggiò la volta di Cimabue nella Basilica superiore di Assisi, costrinse alla chiusura forzata del Museo dell’Accademia di Belle arti e allo sfollamento del suo prezioso patrimonio, che conta seicento gessi, quattrocento dipinti, dodici mila disegni e sei mila e trecento incisioni.
Dopo tre lustri di silenzio e di polvere, interrotti solo da qualche esposizione temporanea in altre sedi, le raccolte sono, da qualche giorno, tornate visibili al pubblico, grazie alla lungimiranza generosa della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, che ha interamente finanziato l'oneroso e complesso insieme dei costi.
Per l’occasione, il museo ha un nuovo e moderno allestimento, firmato dall’architetto Fabio Mongelli, con la collaborazione di Bardia Azizi e Alessandro Gori. Un allestimento, questo, che si avvale di colori e materiali di assoluta originalità, di un’esaustiva «premessa-promessa» all’ingresso, di «passeggiate tematiche» che mettono in relazione le opere selezionate e di un raffinato studio illuminotecnico, con sorgenti di led, a basso risparmio energetico, per una miglior visione possibile di quadri e sculture.
E’, così, un vero piacere poter passeggiare tra le sale del museo perugino, il cui ricco patrimonio artistico, con la sua incalzante sequenza di epoche e di stili, è il risultato non solo di donazioni di enti e di privati, ma soprattutto di lavori prodotti dagli accademici che, in qualità di studenti, docenti o collezionisti hanno voluto lasciare un segno tangibile del proprio attaccamento ai ‘colori’ della scuola.
Il primo nucleo della collezione è, infatti, nato contestualmente alla formazione dell'Accademia del Disegno, con la donazione dei calchi in gesso, eseguiti dal perugino Vincenzo Danti, nel 1573, delle sculture michelangiolesche che sottolineano i sarcofagi delle tombe medicee della Sacrestia nuova di San Lorenzo di Firenze: «Aurora», «Giorno», «Crepuscolo», «Notte».
Qualitativamente rilevanti sono le acquisizioni che si hanno tra Sette e Ottocento, sotto la direzione di Baldassarre Orsini, con il lascito del romano Carlo Labruzzi, che invia a Perugia il suo «Torso di Belvedere», e con l’arrivo, nel 1818, dell'imponente «Ercole Farnese», dono del Municipio di Perugia.
Il verbo classico continua a imporsi con la donazione del cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato della Santa Sede, che nel 1822, in segno di ringraziamento per la nomina ad Accademico di onore, dona il «Discobolo», la «Cerere», «Giove», «Urania» e il «Busto del Nilo».
Nel 1836, Francesco Guardabassi cede al museo il suo «Laocoonte». Datano, invece, agli anni Settanta dell’Ottocento l'acquisto dei calchi della cornice esterna per la porta del Paradiso nel Battistero di San Giovanni a Firenze, opera dello scultore Lorenzo Ghiberti, e quello dei calchi robbiani dell'«Assunzione», del «Presepio» e della «Madonna col Bambino», eredità del cavalier Silvestro Friggeri Boldrini. E’, infine, del 1895 l’acquisizione del calco di una porzione del fregio nord della cella del Partenone, conservato al British Museum di Londra.
Capolavoro e simbolo indiscusso della gipsoteca è il gruppo «Le Tre Grazie» di Antonio Canova (replica dell'opera eseguita per il duca di Bedford nel 1815), pervenuta per dono dell’autore nel 1822; dell’artista neoclassico sono anche altre opere donate, nel 1829, da monsignor Sartori e dal cavalier Stecchini: «Il Pugilatore Demosseno», «La danza dei figli di Alcinoo», «L'uccisione di Priamo», «La testa di cavallo per il monumento equestre di Carlo III di Borbone, re di Spagna», ideata nel 1807 e collocata a Napoli, in piazza del Plebiscito.
Nel 1823, la collezione della gipsoteca si arricchisce di un altro capolavoro: il «Pastorello» di Bertel Thorvaldsen, filologico e rigoroso esempio di imitazione dell'antico. Fra i dipinti spiccano, invece, l’«Autoritratto con pappagallo» di Mariano Guardabassi e quadri di Annibale Brugnoli, Domenico Bruschi, Armando Spadini, Mario Mafai, Alberto Burri e Gerardo Dottori: tante piccole perle di un museo che ritorna a far parlare di sé.

Didascalie delle immagini
[figg. 1, 2 e 3] Nuovo allestimento del Museo dell'Accademia di Belle arti di Perugia. © foto di Daniele Paparelli; [fig. 4] Antonio Canova (Possagno 1757 - Venezia 1821), «Le tre grazie»  (part.), 1815 - 1817. 76x100x60 cm; [fig. 5] Mariano Guardabassi (Perugia 1823 - 1880), «Autoritratto con pappagallo», 1855 c..Olio su tela, 88x72 cm.

Informazioni utili
Museo dell'Accademia di Belle arti, piazza San Francesco al Prato, 5 - Perugia. Orari: giovedì-domenica, ore 10.00-13.00 e ore 15.30-18.00. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00. Informazioni: tel. 075.5730631. Sito web:www.museoabaperugia.com.

venerdì 13 luglio 2012

A Roma Joan Mirò e il suo grande atelier tra «poesia e luce»

«Perché i frutti crescano si devono tagliare le foglie, e in un determinato momento bisogna anche potare. […] Le cose seguono il loro corso. Diventano grandi, maturano. Si deve fare degli innesti e anche irrigare, come è il caso della lattuga». Più che da uno dei grandi maestri dell'arte del Novecento, queste parole sembrano essere state dette da un esperto di botanica. Eppure era così che ideava Joan Mirò (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983), coltivando la propria creatività in più «orti» -pittura, incisione, litografia, scultura e ceramica -, come si legge nel volumetto «Lavoro come un giardiniere», apparso in Italia, nel 1964, per i tipi delle celebri e prestigiose Edizioni del Cavallino di Venezia.
Il risultato è un alfabeto espressivo, magico ed evocativo, fatto di segni ritmici e fantastici, di grafismi stilizzati e fanciulleschi, di macchie pure e squillanti, di impronte e abrasioni, che -a dispetto della propria apparente elementarità e spensieratezza- sa parlare di qualcosa che attiene al segreto della vita, sa essere una vera e propria «mappa dello spirito».
Astri, soli, lune, stelle filanti, code d’aquilone, strani personaggi dalle fattezze umane e animalesche, ma anche occhi, teste ed elementi di origine sessuale sono le immagini che, più di sovente, ricorrono in questa, affascinante e incantatrice, narrazione pittorica di uno dei più abili cantori di sogni del secolo scorso, di un’anima dall’evidente «audacia visionaria», per usare le parole di Maurizio Calvesi. Un’anima che regala al suo ‘spettatore’ un universo immaginifico, apparentemente ingenuo e giocoso, privo di riferimenti nel mondo dell’arte contemporanea, cioè estraneo a movimenti pittorici, seppure inserito nell’ambito del Surrealismo e con un occhio rivolto, negli ultimi anni, all’esperienza dell’Action painting e dell’Espressionismo astratto americano.
«L'incontro di fantasia e di controllo, di oculatezza e di generosità, che forse si può considerare una caratteristica della mentalità catalana, può spiegare, in parte almeno, la base fondamentale dell'arte e della personalità» dell’autore del «Muro del Sole» e del «Muro della Luna» per il palazzo dell’Unesco a Parigi, scrive, sagacemente, Gillo Dorfles, per dare ragione di un lavoro unico nel suo genere, di un lavoro costantemente in bilico tra divertissement e metafisica del cuore.
All’insaziabile sperimentalismo dell’artista spagnolo guarda la mostra «Mirò! Poesia e luce», a cura di María Luisa Lax Cacho, che riunisce a Roma, nella cornice rinascimentale del Chiostro del Bramante, un’ottantina di lavori, per lo più inediti, tra cui cinquanta oli di grande formato, realizzati prevalentemente tra il 1956 e il 1983, anni vissuti dall’artista nella casa di campagna sull’isola di Maiorca. Qui, nel paese natale della madre Dolores e della moglie Pilar, Joan Mirò realizza un sogno a lungo agognato: un «grandissimo studio», fatto costruire dall'amico architetto Josep Lluis Sert, dove -per usare le sue stesse parole- «disporre di spazio sufficiente per molte tele», «cimentarsi nella scultura, nella ceramica, nella stampa», e «per quanto possibile, andare oltre la pittura da cavalletto».
Sono anni, questi, in cui l'artista, dopo una pausa di riflessione sul suo lavoro o, come egli stesso la definisce, «una pulizia del cervello», distrugge molti suoi vecchi dipinti e schizzi e, talvolta, vi ridisegna sopra. E’ il caso di una delle tele esposte: un paesaggio del 1908, occultato da Joan Mirò con un giornale, su cui aveva posto la firma e la data del dipinto eseguito, nel 1960, sul retro.
Il libero canto miroiano, un canto da «usignolo della pittura moderna», per usare le parole di Carlo Argan, viene reinventato. E’ questo il momento in cui l’artista, messa da parte la pittura a cavalletto, dipinge a terra, cammina sulle proprie tele, vi lascia l’impronta della propria mano con il colore, vi si stende sopra, sporcandosi «tutto –lo scrive egli stesso nel 1974- di pittura, faccia, capelli». Il pennello sgocciola, il gesto si fa ampio e istintivo, forse brutale.
In alcuni casi le squillanti macchie di blu, rosso, giallo e verde, che rendono riconoscibile a tutti l’arte di Joan Mirò, lasciano spazio a una tavolozza cromatica ridotta al bianco e nero, a una figurazione che evoca la predilezione dell’artista per la calligrafia orientale, conosciuta direttamente nei suoi due viaggi in Giappone (1966 e 1969).
Tra le opere esposte, si potranno ammirare l’olio «Donna nella via» (1973), un intenso «Senza titolo» dallo sfondo blu (1978), i bronzi «Donna» (1966) e «L’equilibrista» (1969), gli schizzi per la decorazione murale della Harkness Commons-Harvard University, lavori tutti provenienti da Palma di Maiorca dove la «Fundació Pilar i Joan Miró» detiene molte opere dell'artista, concesse in via del tutto straordinaria per questa mostra italiana. Una mostra che testimonia come il maestro catalano sia sempre stato fedele al suo stile, incurante delle mode del momento, come sia cresciuto artisticamente fino all’ultimo respiro, senza arenarsi mai. Il cartellone ferroviario che Joan Mirò aveva scovato in un negozio e appeso alla porta del suo studio -lo ricorda Janis Mink- sembrava fatto apposta per lui: «Questo treno non fa fermate».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Joan Mirò, «Femme dans la rue», 1973. Olio, guazzo e acrilico su tela, 195 x 130 cm. Fundació Pilar i Joan Miró, Mallorca. Foto: © Joan Ramón Bonet & David Bonet /. Cortesía Archivo Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca; [fig. 2] Joan Mirò, «Senza titolo», 1978. Olio su tela, 92 x 73 cm. Fundació Pilar i Joan Miró, Mallorca. Foto: © Joan Ramón Bonet & David Bonet / Cortesía Archivo Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca; [fig. 3] Joan Mirò, «Senza titolo», n.d. Olio, acrilico e carboncino su tela, 162,5 x 131 cm. Fundació Pilar i Joan Miró, Mallorca. Foto: © Joan Ramón Bonet & David Bonet / Cortesía Archivo Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca; [fig. 4] Joan Mirò, «Senza titolo», 1972. Giornale, guazzo, inchiostro, corda, legno e filo metallico, 40 x 13 x 8 cm. Fundació Pilar i Joan Miró, Mallorca. Foto: © Joan Ramón Bonet & David Bonet / Cortesía Archivo Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca; [fig. 5] Joan Mirò, «Senza titolo», n.d. Acrilico su tela, 162,5 x 130,5 cm. Fundació Pilar i Joan Miró, Mallorca. Foto: © Joan Ramón Bonet & David Bonet / Cortesía Archivo Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca


Informazioni utili
Miró! Poesia e luce. Chiostro del Bramante, via della Pace - Roma. Orari: lunedì-venerdì, ore 10.00-20.00; sabato e domenica, ore 10.00-21.00 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero € 12,00, ridotto [65 anni compiuti (con documento); ragazzi fino a 18 anni non compiuti; studenti fino a 26 anni non compiuti (con documento); militari di leva e appartenenti alle forze dell’ordine; portatori di handicap; ex ridotti legge] € 10,00; biglietto famiglia [solo genitori e figli - minimo 3 persone] € 30,00; ridotto gruppi € 10,00, ridotto gruppi scolastici € 5,00; giovedì universitari (promozione estiva per studenti) € 5,00. Catalogo: 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE. Informazioni: tel. 06.68809036 o tel. 06.916508451. Sito internet: www.mostramiro.it o www.chiostrodelbramante.it o www.facebook.com/Miropoesiaeluce. Fino a giovedì 23 agosto 2012.