Entrambe le opere citavano in modo non servile, ma sorprendentemente innovativo capolavori del passato: «Le dèjuner sur l’herbe» rivisitava il «Concerto campestre» (1510 circa) di Tiziano (allora attribuito al Giorgione) e un’incisione (1517-1520 circa) di Marcantonio Raimondi tratta dal perduto «Giudizio di Paride» del Raffaello; «Olympia» guardava, invece, alla «Venere di Urbino» (1538) del Tiziano. Lo studio dei maestri del Rinascimento italiano, insieme con quello del Seicento spagnolo, ebbe, infatti, un ruolo determinante nel plasmare l’impianto linguistico di Édouard Manet, «pittore della vita moderna» la cui opera, snodo tra il forte realismo di Gustave Courbet e l’Impressionismo dalle luci vibranti di Claude Monet, fu fondamentale per il rivoluzionario cambio di rotta dell’arte francese di fine Ottocento.
A mettere in luce la portata di questo legame ideale con il nostro Paese, e in particolare con la pittura veneta del Cinquecento, sono le ottanta opere (tra dipinti, disegni e documenti) esposte al Palazzo Ducale di Venezia, per la curatela di Stéphane Guégan e sotto la direzione scientifica di Guy Cogeval e Gabriella Belli, nella mostra «Édouard Manet. Ritorno a Venezia», promossa dalla Fondazione musei civici veneziani e dal Musèe d’Orsay di Parigi, istituzione che conserva il maggior numero di dipinti del pittore francese.
Il percorso espositivo, il cui allestimento è stato curato da Daniela Ferretti nell’Appartamento del Doge, si articola in nove sezioni e, attraverso nature morte, visioni marine, rappresentazioni della passione di Cristo e ritratti dell’alta società, racconta quanto l’arte di Manet debba non solo agli spagnoli Francisco Goya e Diego Velazquez, come spesso ha sottolineato la critica, ma anche a maestri italiani quali Tiziano, Tintoretto, Carpaccio, Lorenzo Lotto, Andrea del Sarto, Raffaello e Antonello da Messina.
La conoscenza della pittura italica, soprattutto di quella del Rinascimento veneto e toscano, da parte dell’artista francese trova fondamento in tre lunghi soggiorni di studio a Venezia, a Firenze e, forse, a Roma, negli anni 1853, 1857 e 1874, e, prima ancora, nel tirocinio giovanile al Louvre, le cui sale il pittore visitò spesso da bambino in compagnia dello zio materno e, dal 1850, frequentò come copista, secondo i dettami del maestro Thomas Couture.
L’artista parigino, come tutti i geni che hanno cambiato la Storia, non si limitò, però, a copiare i modelli antichi; se ne appropriò a tal punto da reinventarli, giocando liberamente con forme e contenuti, ribaltandone completamente il significato. Lo dimostra chiaramente l’accostamento tra la «Venere di Urbino» del Tiziano e l’«Olympia» di Édouard Manet (opera che non ha mai lasciato la Francia), per la prima -e forse unica- volta a confronto nelle sale di Palazzo Ducale grazie ai prestiti degli Uffizi di Firenze e del Musèe d’Orsay di Parigi.
La tela tizianesca, realizzata nel 1538 per Guidobaldo II della Rovere come dono nuziale da dare alla giovane moglie Giulia Varano, è un capolavoro di erotismo languido: la donna raffigurata, con la testa leggermente inclinata a guardare il visitatore e la mano delicatamente posata sul pube, mostra le proprie morbide nudità consapevole della bellezza che la anima. Édouard Manet studiò questo capolavoro durante il suo secondo viaggio italiano e, nel maggio del 1865, presentò al Salon «Olympia», provocando l’indignazione della stampa e dei colleghi. Jules Claretie scrisse che nel quadro era raffigurata «un’odalisca con il ventre giallo». Amedee Cantaloube vi vide «una specie di femmina di gorilla». Gustave Courbet arrivò a dire che la donna raffigurata era «una regina di picche appena uscita dal bagno». Non maggiormente clemente fu il pubblico, che più volte minacciò l'integrità dell'opera con ombrelli e bastoni, tanto da far spostare la tela –secondo quanto si legge in una copia del quotidiano «Le Figaro» del tempo- «a un'altezza a cui non fu mai appesa nemmeno l'ultima delle croste».
A dare scandalo era il soggetto raffigurato: Olympia non era una cortigiana del passato, era una femme de plaisir contemporanea (sia pur interpretata dalla modella Victorine Meurent), non molto attraente, con un collare al collo e babbucce ai piedi, simile a tante «parigine perdute» raffigurate nelle foto pornografiche che andavano a ruba nel secondo Impero. Nessuno vi scorse echi del passato, se non, nel 1897, Léonce Bénédite, direttore del Musée du Luxembourg e conservatore del Musée Rodin.
Medesima sorte ebbe l’altra opera presentata da Édouard Manet al Salon del 1865 ed esposta nella rassegna veneziana: «Jesus insulté par des soldats» (1864), un olio su tela bollato dalla critica come «volgarità inconcepibile» per l’evidente umanità di Gesù, le cui fonti di ispirazione vanno ricercate, secondo l’originale taglio critico dato da Stéphane Guégan, nel «Cristo deriso» (1542-‘44 circa) di Tiziano, conservato al Louvre. Mentre l’acquerello del celebre «Le Christ aux anges» (1864 circa), presentato (con l’usuale scia di polemiche) al Salon del 1864 e oggi conservato al Metropolitan di New York, viene abbinato nel percorso espositivo al «Cristo morto sostenuto da tre angeli» (1475) di Antonello da Messina, proveniente dal vicino museo Correr di Venezia, e da una copia del «Cristo dei dolori» di Andrea del Sarto, disegnata dallo stesso Manet nel 1857 presso la Basilica della Santissima Annunziata di Firenze ed esposta a Palazzo Ducale per la prima volta in assoluto.
Molti ancora sono gli artisti con i quali il maestro parigino si confronta nelle sale di Palazzo Ducale: il quadro «Le Balcon» (1868-1869) dialoga con le «Due dame veneziane» (1495 circa) di Carpaccio, il «Portrait d’Émile Zola» (1868) con il «Ritratto di giovane gentiluomo» di Lorenzo Lotto, il «Bal masqué à l'Opéra» (1873-1874) con «Il Ridotto di Palazzo Dandolo a San Moisé» (1740-1750 circa) di Francesco Guardi, del quale pare echeggiare i temi degli amori mascherati e del gioco ambiguo dell’identità.
Scorre, inoltre, sotto gli occhi dei visitatori un nucleo di opere davvero straordinarie, generosamente prestate dal Musée d’Orsay, tra le quali «Angelina» (1865), «La Lecture» (1865/1866-1873), «Le Fifre» (1866), «Sur la plage» (1873), «Portrait de Stéphane Mallarmé» (1876) e «Lola de Valence» (1862-1863, modificata dopo il 1867), quest’ultima superbamente restaurata per l’occasione. Deliziosa è anche la sezione dedicata alle nature morte, nella preziosa Sala degli stucchi, dove sono esposti piccoli quadri destinati per essere donati ad amici e conoscenti, come «Il limone» (1880-1881), «Stelo di peonie e forbici» (1864) e «L’asparago» (1880), appartenuto alla collezione del banchiere Charles Ephrussi. Un’opera, quest’ultima, della quale si parla anche nel bel libro «Un’eredita di avorio ed ambra» (Bollati e Boringhieri, 2011) di Edmund De Waal e che ha una storia curiosa, raccontata per la prima volta da Marcel Proust: «Charles comprò un quadro che ritraeva un fascio di asparagi da Manet, una delle sue straordinarie nature morte [...] Era un fascio di venti asparagi legati da un laccio. Manet voleva 800 franchi, Charles gliene inviò 1000. Una settimana dopo Charles ricevette una piccola tela firmata con una semplice M. Era un gambo di asparago posato su un tavolo ed era accompagnato da un biglietto: ‘Sembra che questo sia rimasto fuori dal fascio’».
L’opera emana una libertà espressiva e compositiva straordinaria, la stessa che si respira nella piccola tela «Le Grand Canal à Venise» (1874), uno scorcio del Canal Grande impresso a futura memoria nel fulgore della luce settembrina e giocato su toni di blu cobalto. Una delle poche vedute italiane del pittore parigino, di cui Edgar Degas recitò, durante la cerimonia funebre, il mea culpa di un’intera generazione: «Era più grande di quanto pensassimo».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Édouard Manet, «Le Grand Canal à Venise». («Canal Grande a Venezi».a), 1874. Olio su tela, 57x48 cm. Collezione privata; [fig. 2] Édouard Manet, «Olympia»., 1863. Olio su tela, 130x190 cm. Parigi, Musée d’Orsay. Donata allo Stato nel 1890 grazie a una sottoscrizione voluta da Claude Monet. © Musée d'Orsay, Dist. RMN-Grand Palais / Patrice Schmidt; [fig. 3] Tiziano, «Venere di Urbino»., 1538. Olio su tela, 119x165 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali); [fig. 4] Édouard Manet, «Le balcon». («Il balcone».), 1868-1869. Olio su tela, 170x124,5 cm. Parigi, Musée d’Orsay. Lascito Gustave Caillebotte, 1894. © RMN (Musée d'Orsay) / Hervé Lewandowski; [fig. 5] Vittore Carpaccio, «Due dame Veneziane»., 1495 circa. Olio e tempera su tavola, 94x63 cm. Venezia, Museo Correr; [fig. 6] Édouard Manet, «Le Christ aux anges». («Cristo morto con gli angeli».), 1864 circa. Mina di piombo, acquerello, gouache, penna a inchiostro di china 32,4x27 cm. Parigi, Musée d’Orsay. Dono Mme Zola allo Stato con riserva di usufrutto, 1918. © RMN-Grand Palais (musée d'Orsay) / Thierry Le Mage
Informazioni utili
«Édouard Manet. Ritorno a Venezia». Palazzo Ducale, San Marco, 1 - Venezia. Orari: domenica-giovedì, ore 9.00-19.00; venerdì e sabato, ore 9.00-20.00 (la biglietteria chiude un'ora prima). Ingresso: intero € 13,00, ridotto € 11,00, ridotto speciale € 7,00. Catalogo: Skira, Milano. Infoline: tel. 041.8520154 (dall’Italia e dall’estero) o info@fmcvenezia.it. Sito web: www.mostramanet.it. Fino a domenica 1° settembre 2013.
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