giovedì 20 giugno 2019

Nella Marchesini: una pittura di famiglia, donne e silenzi. A Torino

Visse l’arte come una «stella polare». Lavorò con pennelli, chine e colori con grande dedizione e assaporò quella capacità unica della pittura e del disegno di far dimenticare le «incombenze» della vita quotidiana. Stiamo parlando di Nella Marchesini (Marina di Massa, 1901 - Torino, 1953), artista della prima metà del Novecento a cui la Gam di Torino dedica la sua prossima mostra negli spazi della Wunderkammer, la «Camera delle meraviglie» dove, dal 2009, è possibile scoprire una delle raccolte meno conosciute e più cospicue del museo piemontese, quella dedicata alla grafica d’autore.
Nata a Marina di Massa nel 1901, insieme alla famiglia, Nella Marchesini si trasferisce a Torino durante la Grande guerra. Con le sorelle Maria e Ada, appartiene alla cerchia intellettuale dei giovani raccolti intorno a Piero Gobetti e alle sue riviste. È legata ad Ada Prospero, moglie e poi vedova di Gobetti, partigiana, sposata con Ettore, uno dei fratelli Marchesini. È amica di Carlo Levi, non ancora pittore, e dei futuri letterati e storici Natalino Sapegno, Edmondo Rho e Federico Chabod. È la prima allieva di Felice Casorati, la capostipite della sua Scuola libera di pittura, dove lavorerà fianco a fianco a molte compagne e compagni, fra i quali Lalla Romano, Paola Levi Montalcini, Daphne Maugham, Albino Galvano e Marisa Mori.
La scuola di Casorati è un «chiostro», come lo definirà l’artista stessa, lo spazio di un apprendistato severo e disciplinato e, allo stesso tempo, un luogo aperto, frequentato da amici e personalità come Mario Soldati, Giulio Carlo Argan e Italo Cremona. Il matrimonio, nel 1930, con Ugo Malvano, pittore di formazione parigina, estenderà il raggio delle sue referenze, aprendo il consueto lavoro in atelier, basato sulla lezione degli antichi maestri e concentrato sulla figura e sulla natura morta, a quello dell’arte e dei paesaggi della modernità internazionale. Nella Marchesini esce all’aperto, si addentra nella natura, scoperta e indagata durante le villeggiature estive che trascorre con i tre figli piccoli in Val d’Aosta e poi, negli anni della Seconda guerra mondiale, in Valchiusella, al riparo dai bombardamenti su Torino.
La mostra alla Gam di Torino -curata da Giorgina Bertolino e Alessandro Botta, autori nel 2014 del Catalogo generale dedicato all’artista- presenta un gruppo di trenta opere, fra dipinti e disegni, realizzati tra il 1920 e il 1953. Le opere sono sia provenienti da collezioni private sia di proprietà della Gam, dove giunsero con un’acquisizione del 1954 e grazie alla generosa donazione degli eredi Malvano-Marchesini, accolta da Rosanna Maggio Serra nel 1978.
Attraverso questi lavori vengono ricostruite tutte le stagioni dell’arte di Nella Marchesini e le tappe di una carriera espositiva scandita dalla partecipazione alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma e dalle presenze nelle gallerie private di Torino, Milano, Genova e Firenze.
Dal «Ritratto del padre» (1923) a «Tre donne» (1952), le opere esposte accompagnano il visitatore lungo un tragitto che mette in luce, attraverso il mutare della materia pittorica, le evoluzioni e le ricorrenze dei temi iconografici, dei soggetti e delle fonti. La predominanza dell’autoritratto, nelle diverse fasi dell’esistenza, offre il senso e la chiave di una pittura esercitata nella forma della narrazione e dell’autobiografia.
Le lettere, le cartoline, le fotografie d’epoca, i volumi e alcune pagine degli scritti dell’artista, conservati nell’Archivio Malvano-Marchesini, completano la rassegna, fornendo una mappa di documenti personali che racconta, in parallelo, la Torino fra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento.
«Sarebbe assurdo cercare il posto della sua pittura nel "giro" materiale dell'arte di oggi, di ieri e neppure di domani […] Isolamento? No, eccezione»: disse di lei Filippo Casorati tre anni dopo la sua morte, nel 1956. Nella Marchesini arricchì, infatti, con la sua cifra e voce peculiare il dialogo di quella intensa stagione della pittura italiana che fu l’inizio del Novecento, alimentando il versante di ricerca delle donne artiste attive in quegli anni. Lasciò ai posteri un universo poetico e professionale che si identifica con i confini dello spazio domestico e familiare, in cui figure femminili, nudi, autoritratti, nature morte dialogano con una serie di ritratti di famiglia.
I sobri accordi tonali e le geometrie nitide degli inizi lasciano, con gli anni, spazio a volumi quasi sfaldati, a pennellate rapide e a una luminosità più soffusa e indefinita, come dimostrano «L'Ireos» (1931 circa) e «La finestra dello studio» (1931). Opere, queste, che rendono palpabile anche il ricco mondo interiore dell'artista, quel suo essere sempre -disse Natalino Sapegno- «la più remota e la più silenziosa».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Nella Marchesini, in una fotografia del 1924 circa. Collezione privata; [fig. 2] Nella Marchesini, L’ireos (Autoritratto), 1931. Olio su cartone, 99 x 69,5 cm. Torino, collezione eredi Malvano-Marchesini; [fig. 3] Nella Marchesini, La finestra dello studio, 1931. Olio su cartone, 71 x 50,5 cm. Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea; [fig. 4] Nella Marchesini, Tre donne, 1952. Tempera e olio su compensato, 83 x 84,5 cm. Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea

Informazioni utili
Nella Marchesini. La vita nella pittura. Opere dal 1920 al 1953. Gam – Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, via Magenta, 31 - Torino. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.00, lunedì chiuso. La biglietteria chiude un’ora prima. Biglietti: intero € 10,00, ridotto € 8,00; Ingresso libero Abbonamento Musei e Torino Card. Informazioni: tel. 011.4429518 – 011.4436907, gam@fondazionetorinomusei.it . Sito internet: www.gamtorino.it. Dal 27 giugno al 29 settembre 2019. 

venerdì 14 giugno 2019

«The Self-Portrait and its Double»: Vivian Maier ritrae Vivian Maier

Tata di mestiere, fotografa per vocazione: quando si parla di Vivian Maier (1926-2009) è questa la prima espressione che viene in mente. L’artista americana -conosciuta al grande pubblico solo nel 2007 quando John Maloof acquistò all’asta il suo corposo archivio, composto da più di 150.000 negativi, super 8 e 16mm film, diverse registrazioni audio, alcune fotografie e centinaia di rullini non sviluppati- si occupava, infatti, dell’educazione dei figli degli altri e nel frattempo, con la sua inseparabile Rolleiflex, ritraeva in bianco e nero, con uno sguardo curioso, attratto da piccoli dettagli, scene di strada, ritratti di sconosciuti e il mondo dei bambini.
Vivian Maier era, dunque, un’ottima street photographer, capace di raccontare la bellezza dell’ordinario, scovando le fratture impercettibili e le inflessioni sfuggenti della realtà nella quotidianità che la circondava. Scattare ritratti era per lei una necessità. Era il modo attraverso il quale definiva la propria posizione nel mondo, e quello con cui provava a restituire l'ordine delle cose. Quando i protagonisti dei ritratti erano poveri, lasciava loro una legittima distanza. Quando, invece, appartenevano all'alta società metteva in atto azioni di disturbo facendo in modo che nello scatto risultassero infastiditi. La Maier aveva due facce: quella che accettava la propria condizione di bambinaia, e quella che, invece, la combatteva cercando di essere qualcun altro. Questo dualismo, generato dallo scontro tra le due anime, ha dato vita a una vicenda senza paragoni nella storia della fotografia.
Di Vivian Maier ci sono giunti anche molti autoritratti e sono proprio questi i protagonisti della mostra «The Self-Portrait and its Double», in programma dal 20 luglio al 16 ottobre al Magazzino delle Idee di Trieste, per la curatela di Anne Morin. L’esposizione -realizzata con la collaborazione della madrilena diChroma photography, della John Maloof Collection e della Howard Greenberg Gallery di New York- allinea settanta lavori, di cui cinquantanove in bianco e nero e undici a colori, questi ultimi mai esposti prima d’ora sul territorio italiano.
L'interesse di Vivian Maier per l'autoritratto era più che altro una disperata ricerca della sua identità. Ridotta all'invisibilità, a una sorta di inesistenza a causa dello status sociale, l’artista americana si mise a produrre prove inconfutabili della sua presenza in un mondo che sembrava non avere un posto per lei. Lasciò la sua memoria in tutti i luoghi dove ebbe occasione di lavorare come bambinaia per oltre quarant’anni, a partire dai primi anni Cinquanta e per quattro decenni, da New York a Chicago.
Il suo riflesso in uno specchio, la sua ombra che si estende a terra, o il contorno della sua figura: come in un lungo gioco a nascondino, tra ombre e riflessi, in mostra ogni autoritratto di Vivian Maier è un'affermazione della sua presenza in quel particolare luogo, in quel particolare momento.
Caratteristica ricorrente è l'ombra, diventata una firma inconfondibile nei suoi autoritratti. La sua silhouette, la cui caratteristica principale è il suo attaccamento al corpo, quel duplicato del corpo in negativo «scolpito dalla realtà», ha la capacità di rendere presente ciò che è assente.
Inedito nel percorso espositivo è il nucleo di immagini a colori. Per Vivian Maier, il passaggio al colore è stato accompagnato da un cambiamento dovuto all’utilizzo di una Leica all'inizio degli anni Settanta. La fotocamera è leggera, facile da portare: le foto sono riprese direttamente a livello dell'occhio, a differenza della Rolleiflex che usava prima. Vivian Maier è così in grado di raccogliere il contatto visivo con gli altri e fotografare il mondo nella sua realtà colorata. Il suo lavoro a colori rimane singolare, libero e anche giocoso. Esplora le caratteristiche specifiche del linguaggio cromatico con una certa casualità, elabora il proprio vocabolario, ma soprattutto si diverte con il reale: sottolineando stridenti dettagli di colore, mostrando le discrepanze multicolore della moda o giocando con brillanti contrappunti.
Accompagna gli scatti fotografici in mostra una serie di filmati in super 8mm realizzati dalla stessa Vivian Maier, che ci permettono di seguire il movimento dell'occhio dell’artista. Nel 1960 l’artista inizia, infatti, a filmare scene di strada, eventi e luoghi. Il suo approccio cinematografico è strettamente legato al suo linguaggio da fotografa: è una questione di esperienza visiva, di un’osservazione discreta e silenziosa del mondo che la circonda. Non c'è narrazione, nessun movimento della macchina (l'unico movimento cinematografico è quello della carrozza o della metropolitana in cui si trova). Vivian Maier filma quello che la porta all'immagine fotografica: osserva, si ferma intuitivamente su un soggetto e lo segue. Ingrandisce con la lente per avvicinarsi senza avvicinarsi e concentrarsi su un atteggiamento o un dettaglio (come le gambe e le mani di individui in mezzo alla folla). Il film è sia una documentazione (un uomo mentre viene arrestato dalla polizia, oppure i danni causati da un tornado) sia un oggetto di contemplazione (la strana processione di pecore ai mattatoi di Chicago).
Dall’esposizione triestina emerge, dunque, il ritratto di una fotografa, diventata icona solo in anni recenti, capace non solo di appropriarsi del linguaggio visivo della sua epoca, ma di farlo con uno sguardo sottile e un punto di vista acuto.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Vivian Maier, Untitled, Chicago, IL, 1974_Paper size: 11x14 inches. ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY; [fig. 2] Vivian Maier, Self-portrait on a beach in New York's Staten Island, 1954_ Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm) Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm)©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY; [fig. 3] Vian Maier, n.d.Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm) Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm); [fig. 4] Vivian Maier, 1955_Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm)_Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm) ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, N

Informazioni utili
Vivian Maier, The Self-Portrait and its Double. Magazzino delle Idee, Corso Camillo Benso conte di Cavour, 2 – Trieste. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00-20.00; lunedì chiuso | aperture straordinarie: 15 agosto. Informazioni: info@magazzinodelleidee.it | tel. 040.3774783 | tel. 0481.91697. Sito internet: www.magazzinodelleidee.it | www.vivianmaier.com. Inaugurazione: 19 luglio 2019, ore 18. Dal 20 luglio al 22 settembre 2019. La mostra è prorogata fino al 16 ottobre 2019.

mercoledì 12 giugno 2019

«#AnneFrank. Vite Parallele»: Helen Mirren porta al cinema il «Diario»

«…E cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… non ci fossero altri uomini al mondo». Si chiude così il «Diario» di Anna Frank. È il 1° agosto del 1944. La giovane scrive per l’ultima volta a Kitty, la sua amica immaginaria. Le racconta le sue frustrazioni di ragazzina, quel sentirsi «un fastello di contraddizioni», che la rendono sorella di tanti coetanei adolescenti di tutti i tempi. Tre giorni dopo, il 4 agosto 1944, la Gestapo entra nell’appartamento segreto di Amsterdam, in cui Anna Frank si nasconde con la famiglia per sfuggire alla persecuzione nazista. La sua unica colpa è di essere ebrea in un mondo che crede nella superiorità della razza ariana e che considera nemico ciò che è diverso. La giovane viene deportata nel campo di concentramento nazista di Bergen Belsen, dove muore di stenti tra il febbraio e il marzo del 1945, insieme alla sorella Margot, a causa di un’epidemia di tifo. Di lei ci rimangono poche foto e un diario, pubblicato per la prima volta nel 1947 in tremila copie, per volontà del padre Otto, con il titolo «Het Achterhuis» («Il retrocasa»). Sono quelle pagine, la cui fama circola presto in tutta Europa (la prima edizione italiana è del 1954 e vede la prefazione di Natalia Ginzburg per Einaudi), a restituirci il volto di una ragazzina che sogna di diventare scrittrice e che conquista i lettori con il suo strenuo ottimismo e la sua toccante fede nell'umanità a dispetto dei tempi oscuri. «...È un gran miracolo - si legge, infatti, nel «Diario» - che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell'intima bontà dell'uomo che può sempre emergere...».
Se non fosse morta a Bergen Belsen, Anna Frank, nata il 12 giugno 1929 a Francoforte, quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. Eventi, trasmissioni tv, libri commemoreranno, nei prossimi mesi, il suo anniversario di nascita. Fabbri Editori, per esempio, le dedica un profilo biografico, a cura di Maria Isabel Sánchez Vegara, nella collana «Piccole donne, Grandi sogni»; mentre Rai Tre manderà in onda, nella serata di giovedì 13 giugno, uno speciale a cura di Corrado Augias.
Tra gli appuntamenti più attesi c’è il documentario «#AnneFrank. Vite parallele», scritto e diretto da Sabina Fedeli e Anna Migotto, con la colonna sonora di Lele Marchitelli, la cui produzione è firmata da 3D Produzioni e Nexo Digital in collaborazione con l’Anne Frank Fonds di Basilea, Sky Arte, il Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa.
Il film, in proiezione nei cinema italiani l’11, 12 e 13 novembre, avrà come guida d’eccezione Helen Mirren, premio Oscar® come migliore attrice per «The Queen».
Come sarebbe stata la vita di Anne Frank se avesse potuto vivere dopo Auschwitz e Bergen Belsen? Cosa ne sarebbe stato dei suoi desideri, delle speranze di cui scriveva nei suoi diari? Cosa ci avrebbe raccontato della persecuzione, dei campi di concentramento? Come avrebbe interpretato la realtà attuale, il rinascente antisemitismo, i nuovi razzismi? Sono tante le domande che ci vengono in mente ripensando ad Anna Frank, la cui storia verrà raccontata da Helen Mirren attraverso le pagine del suo «Diario», un testo straordinario che ha fatto conoscere a milioni di lettori in tutto il mondo la tragedia del nazismo, pur non raccontandolo in maniera diretta.
Il set del film è la camera del rifugio segreto di Amsterdam in cui la ragazzina resta nascosta per oltre due anni. È stata ricostruita nei minimi dettagli dagli scenografi del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, fondato da Giorgio Strehler, permettendoci così di ritornare in quel 1942, in cui inizia la storia di Anna Frank nel rifugio olandese. Nella stanza ci sono gli oggetti della sua vita, le fotografie con cui aveva tappezzato le pareti, i quaderni su cui scriveva.
La sua vicenda si intreccia con quella di cinque sopravvissute all’Olocausto, bambine e adolescenti come lei, con la stessa voglia di vivere e lo stesso coraggio: Arianna Szörenyi, Sarah Lichtsztejn-Montard, Helga Weiss e le sorelle Andra e Tatiana Bucci.
L’attrice Martina Gatti, simbolo delle tante teenager che si sentono ancora vicine ad Anna, ci conduce nei luoghi che hanno fatto da scenario alle storie di queste giovani. Viaggia per l'Europa, dal campo di concentramento di Bergen-Belsen in Germania al Memoriale della Shoah di Parigi. Scatta selfie. Scrive post. Compila una sorta di diario digitale, capace di parlare ai suoi coetanei: un modo immediato per mettere in relazione le tragedie passate con il presente, per capire quale sia oggi l’antidoto contro ogni forma di razzismo, discriminazione e antisemitismo. È la sua curiosità, la sua voglia di non restare indifferente, a farci riscoprire l’assoluta contemporaneità delle parole di Anna Frank, ma anche la potenza delle voci di chi ancora può ricordare: Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana. Come la giovane tredicenne di Francoforte, queste donne hanno subito, da giovanissime, la persecuzione e la deportazione. A loro è stata negata l’infanzia. Hanno perduto nei lager madri, padri, fratelli, amici, amori. I loro racconti danno così voce al silenzio del «Diario», che si interrompe improvvisamente con l’arresto del 4 agosto 1944.
Non mancano nel documentario testimonianze, come quelle del rabbino Michael Berenbaum, dello storico della Shoah Marcello Pezzetti, dell’etnopsicologa francese Nathalie Zajde, della violinista di fama internazionale Francesca Dego, del giornalista Yves Kugelmann, di Ronald Leopold dell’Anne Frank House e di Alain Granat, direttore del magazine online «Jewpopo».
In occasione dell’uscita del docu-film, nasce anche il profilo Instagram @CaraAnneFrank: come Kitty contemporanee, tutti noi possiamo parlare ad Anne e alle altre testimoni raccontando loro i nostri pensieri e le nostre emozioni sul tema della memoria. È questo l’invito rivolto a studenti e lettori con l’intento di mettere nuovamente in luce l’assoluta contemporaneità del messaggio e delle testimonianze di Anna, Arianna, Sarah, Helga, Andra e Tatiana, strumento per decifrare il mondo attuale e come antidoto contro ogni forma di razzismo.

Per saperne di più 
www.annefrankviteparallele.com

Depero, un artista tra futurismo e pubblicità

«Si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti delle strade, dappertutto. Si tentò perfino di proiettarla sulle nubi. È insomma un’arte viva che penetra e si diffonde ovunque, moltiplicata all’infinito e che non rimane sepolta nei musei. Arte libera da ogni freno accademico. Arte gioconda, spavalda ed esilarante». Così nel 1933, sulla rivista «Futurismo» di Roma, Fortunato Depero (Fondo, 30 marzo 1892 – Rovereto, 29 novembre 1960) esprimeva il proprio amore per la pubblicità, un linguaggio che lo aveva fortemente affascinato agli inizi degli anni Venti e che avrebbe ininterrottamente praticato fino alla fine degli anni Cinquanta, anche perché fonte di remunerazione irrinunciabile.
A questo aspetto della carriera dell’artista trentino, rappresentante di spicco del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, guarda la mostra allestita al Lu.C.C.A.-Lucca Center of Contemporary Art, in occasione del decennale dalla fondazione dello spazio espositivo.
La rassegna, aperta fino al 25 agosto, si avvale della curatela Maurizio Scudiero, storico dell’arte di riferimento per quanto riguarda la stagione futurista, e di Maurizio Vanni, museologo e direttore del centro lucchese, a cui si deve anche il salto nel mondo della tecnologia e dell’interattività di questa esperienza di visita, resa possibile dalla collaborazione delle aziende Thinkinside e Dimension, che hanno studiato un sistema di geolocalizzazione e uno chabot per ricevere informazioni, in italiano e in inglese, sulle opere che si stanno visionando in mostra.
A raccontare il mondo ironico, eclettico e visionario di Depero, un artista che seppe precorrere i tempi con la sua capacità di comprendere la svolta mercantilistica che stava allora prendendo il mondo dell’arte, sono ottanta lavori tra disegni, bozzetti e dipinti, realizzati a partire dal 1915 e fino al 1930, con una piccola incursione negli ultimi capolavori, come testimoniano le due belle maquette in legno verniciato «Pupazzo che beve il Campari soda» (1960) e «Pupazzo con cannuccia» (1960), provenienti dalla Galleria Campari di Sesto San Giovanni, nel Milanese.
«L’esposizione -commenta Maurizio Scudiero- ha un impianto che si potrebbe definire didattico in quanto accosta le opere pubblicitarie con i disegni esecutivi finali, o di progetto. Viene così svelato il procedimento della nascita dei prodotti artistici di Depero, ovvero dall’ideazione all’esecuzione finale, ma anche come le idee dell’artista si muovessero trasversalmente nel tempo: nessun progetto bocciato veniva buttato via, ma conservato in attesa di tempi migliori e quindi riproposto».
Il percorso espositivo si apre con un focus sugli inizi futuristi di Depero, in chiave interventista e astrattista, ma anche con un occhio attento agli studi sul movimento di Umberto Boccioni, come documentano il collage «Guerra! Italia» del 1915 e le tele «Corsa ippica tra le nubi» del 1924 e «Gondoliere» del 1927, tutte e tre di proprietà dell’Archivio Depero di Rovereto, che ha collaborato attivamente alla mostra toscana.
Tra le opere storiche dell’artista sono esposti a Lucca anche due disegni a carbone, «Ballerina Capri» (1917) e «Ballerina» (1917), che ne ricordano l’amore per il teatro, al quale Depero diede il suo contributo con la collaborazione, nel 1916, con Sergeij Diaghilev, impresario dei balletti russi, per la realizzazione delle scenografie e dei costumi per «Le chant du rossignol» di Igor Strawinskij, e, tra il 1917 e il 1918, con il poeta svizzero Gilbert Clavel per lo spettacolo «Balli plastici», dove gli attori vennero sostituiti da automi colorati.
Dagli inizi futuristi la mostra traghetta, quindi, il visitatore alla stagione in cui l’artista trentino aderì al Fascismo, come documentano le numerose copertine per la «Rivista illustrata del Popolo d’Italia» esposte.
Grande spazio, poi, è dato alla pubblicità con disegni, collage e grafiche per le campagne dell’Acqua San Pellegrino, del liquore Strega, del mandorlato Vido, dei mattoni Verzocchi, del tamarindo Erba, del cioccolato Unica, ma soprattutto per l’azienda Campari, a cui è dedicata un’intera sala, nella quale è esposta anche la tela «Squisito al selz», con cui l’artista partecipò nel 1926 alla Biennale di Venezia. Si dispiega così la storia dell’industria italiana, a cui Fortunato Depero diede il suo personale contributo rivoluzionando i criteri del manifesto pubblicitario e rivedendone anche l’impostazione puntando soprattutto sul carattere tipografico, considerato elemento caratterizzante e simbolo del prodotto.
L’esposizione, infine, racconta anche un lato poco conosciuto di Depero: la sua fase americana, risalente al biennio 1928-1930. A New York l’artista realizzò gli ambienti del ristorante «Zucca» e della sala da pranzo «Enrico and Paglieri» (ambedue distrutti neanche un anno dopo per far posto al Rockfeller Center), studiò soluzioni sceniche per il Roxy Teathre e per il balletto «American Sketches», lavorò come illustratore per libri d’infanzia (in mostra ci sono le opere per l’edizione americana di «Cappuccetto Rosso» del 1929) e riviste quali «The New Yorker», «Vogue», «Vanity Fair» e «Sparks».
New York fu per Fortunato Depero una sorta di nuova Babele più che «una città che sale». All'inizio la metropoli lo conquistò con le sue luci, gli incontri, la cultura e il progresso. Poi- complice anche la grande depressione del '29, che rese difficoltosa la vendita dei suoi quadri- la città americana mostrò all'artista tutte le sue crepe.
«Una baraonda di folle in cui tutte le razze ballano un brutale ballo della vita. Tram – automobili a milioni – treni sottoterra e aerei. Si balla, ci si spintona, ci si calpesta le scarpe e ci si sputa il fumo in faccia. Occorrono nervi d’acciaio»: così scriveva in una lettera a un amico parlando della Grande mela. Non restava che ritornare a casa, portando con sé il ricordo di due anni di «molte soddisfazioni e durezze all’infinito». Forse, dopo tutto, era meglio il suo Paese e per dirlo Fortunato Depero trovò un modo molto pubblicitario, uno slogan da cartellone: «America dollari. Italia sole. W il sole!».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Fortunato Depero, Squisito al selz, 1926. Olio, 70x100 cm. Collezione privata; [fig. 2] Fortunato Depero, Bitter Campari (Automa al tavolino che beve), 1928. Manifesto, 100x70 cm. Archivio Depero, Rovereto; [fig. 3] Fortunato Depero, Strega (Liquore), 1928. Collage, 46x34,5 cm. Collezione privata; [fig. 4] Fortunato Depero, Copertina per la rivista “Vanity Fair”, 1930. Cromolitografia, 33x25 cm. Archivio Depero, Rovereto; [fig. 5] Fortunato Depero. La Rivista (progetto per copertina), 1931/32. Collage, 46x32 cm. Studio 53 Arte, Rovereto

Informazioni utili
Fortunato Depero - Dal sogno futurista al sogno pubblicitario. Lu.C.C.A.-Lucca Center of Contemporary Art, via della Fratta, 36 – Lucca. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10 alle ore 19.Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: info@luccamuseum.com, tel. 0583.492180. Sito internet: www.luccamuseum.com. Fino al 25 agosto 2019

lunedì 10 giugno 2019

«L’isola del tesoro», Stevenson incontra le marionette dei Colla

Sarà il Piccolo Teatro Grassi di Milano ad ospitare la prima mondiale del nuovo progetto della compagnia Carlo Colla & Figli. Da martedì 11 a domenica 23 giugno la sala di via Rovello aprirà le proprie porte allo spettacolo «L’isola del tesoro», tratto dall’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson.
Commissionata dal New Victory Theater di New York, che ospiterà la versione inglese del lavoro nel marzo 2020, la nuova produzione si avvale della riduzione scenica di Eugenio Monti Colla (nella foto), che aveva accettato la sfida di confrontarsi con uno dei testi più classici della letteratura d’avventura, dopo aver scritto più di quaranta nuovi spettacoli nel corso della sua carriera marionettistica.
Per l’artista, scomparso prima di veder concretizzare in realtà la sua ultima fatica, lo spettacolo sul testo di Robert Louis Stevenson rappresentava l’ennesima occasione per mostrare le potenzialità delle marionette e la loro capacità di diventare interpreti di grandi storie, quali «I promessi sposi» e «Il giro del mondo in ottanta giorni».
Dopo la morte di Eugenio Monti Colla, l’opera è stata completata dai collaboratori storici che lui aveva formato e che lo hanno aiutato per decenni nel suo lavoro di salvaguardia, di innovazione e di trasmissione della tradizione artistica e teatrale della Carlo Colla & Figli, a suggellare il passaggio di testimoni di una grande tradizione marionettistica.
Il mondo dei pirati, la ricerca del tesoro, un’isola da esplorare, gli intrighi e i tradimenti sono gli ingredienti tipici del romanzo, che vengono utilizzati dalle marionette per creare un mondo illusorio in cui il pubblico, dimenticandosi della materia di cui sono fatti gli attori “virtuali” in palcoscenico, viene trascinato e portato a immedesimarsi con i protagonisti.
«Il personaggio di John Silver, forse uno dei più controversi della storia della letteratura, che nella sua ambiguità non arriva mai a essere completamente buono o completamente cattivo, icona di libertà e spregiudicatezza, si affianca -raccontano dalla compagnia- alla figura del giovane Jim, che nella storia affronta un percorso pieno di sfide e imprevisti che lo porterà dall’adolescenza alla maturità».
Le atmosfere dell’isola misteriosa, in cui si alternano combattimenti, tranelli, imprevisti e cambiamenti repentini di fronte e di alleanze fino al lieto fine che conclude la storia, permettono alle marionette di diventare, ancora una volta, le protagoniste di una grande avventura che vuole affascinare il pubblico di ogni età e di ogni provenienza.
Il tutto viene sottolineato dalle musiche appositamente composte dal maestro Danilo Lorenzini, che si rifanno al gusto delle orchestrine fin de siècle, già sperimentato nell’allestimento del «Giro del mondo in ottanta giorni» del 1992.
La scelta, condivisa con Sergio Escobar, di proporre lo spettacolo al Piccolo Teatro Grassi, prima della tournée negli Stati Uniti, conferma la validità e la lungimiranza del progetto, iniziato quasi vent’anni fa, di proporre le grandi produzioni internazionali della Carlo Colla & Figli al pubblico milanese. Ora tocca a «L’isola del tesoro» con il suo canto piratesco diventato icona: «Quindici uomini sulla cassa del morto | Io-ho-ho, e una bottiglia di rum!»

Informazioni utili
«L’isola del tesoro» - produzione compagnia marionettistica Carlo Colla & Figli. Biglietti: platea intero euro 25,00 / ridotto fino a 25 anni euro 17,00 / ridotto anziani euro 12,50 / ridotto ragazzi fino a 12 anni euro 10,00 // balconata intero euro 22,00 / ridotto fino a 25 anni euro 15,00 / ridotto anziani e ragazzi fino a 12 anni euro 10,00. Orari: martedì, giovedì e sabato ore 19.30 | mercoledì e venerdì ore 20.30 | domenica ore 16 | lunedì riposo. Informazioni e prenotazioni: tel. +39.02.4241.1889. Da martedì 11 a domenica 23 giugno 2019.

domenica 9 giugno 2019

«Milano incontra la Grecia»: musica, danza e teatro al Piccolo e al Castello Sforzesco

Sarà il musicista e cantautore cretese Loudovikos Ton Anogion ad aprire la decima edizione di «Milano incontra la Grecia», festival di arte performativa ellenica, in cantiere dal 10 al 12 giugno, che offrirà al pubblico sei appuntamenti di teatro, danza e musica.
La manifestazione, che si avvale della collaborazione del Piccolo Teatro e dell'Estate Sforzesca, si propone di dimostrare come la Grecia, pur continuando a vivere in uno stato di forte depressione economica e tensione sociale, abbia una grande ricchezza dal punto di vista creativo e culturale.
Lunedì 10 giugno, alle ore 19, al Chiostro Nina Vinchi Loudovikos Ton Anogion porterà magicamente il pubblico sotto un albero, al tramonto, nella sua Creta dei miti per raccontargli, come un cantastorie, l'amore e i suoi colori attraverso le note di un mandolino.
A seguire (sempre lunedì 10 giugno, alle ore 20.30), al Piccolo Teatro Studio andrà in scena la prima nazionale di «Clean City», uno spettacolo-documentario creato da Anestis Azas e Prodromos Tsinikoris negli anni della crisi più profonda, quando la Grecia ha visto crescere le narrative di estrema destra che promettevano di allontanare gli stranieri dal Paese. Protagoniste del racconto scenico, realizzato in collaborazione con il festival Mittelfest di Friuli, sono cinque donne delle pulizie migranti, che offriranno il loro punto di vista sulle derive xenofobe nel territorio ellenico.
L'11 giugno, alle ore 20.30, ci si sposterà al Castello Sforzesco per ascoltare le «Composizioni per due pianoforti e voci» di Manos Hadjidakis, evento realizzato in collaborazione con la Greek National Opera Alternative Stage. Nei suoi lavori per pianoforte, il compositore greco esprime un linguaggio personale, dialogando con la forma classica attraverso i suoi riferimenti ai compositori classici, così come alla musica popolare greca, a cui si è avvicinato anche studiando il rebetiko.
Il giorno successivo, alle ore 19.30, si ritornerà al Piccolo Teatro Studio per «BSTRD», un assolo di danza basato sui concetti dell’impurità e dell’ ibridazione. «Ispirata principalmente dalla pratica di amalgamazione della cultura musicale House, la coreografa Katerina Andreou -raccontano gli organizzatori- ha sviluppato una fisicità che serve accuratamente il concetto di pura impurità. La scenografia è composta da un unico giradischi che diventa strumento per il discorso politico e poetico di una figura bastarda, libera da ogni recinzione e codificazione, ma rispettosa della sua realtà».
A seguire -sempre il 12 giugno, alle 22- sarà, invece, la volta di «In Case Of Loss», una ricerca sulla perdita e sulla volontà di ritornare. L’accattivante e illimitato movimento di Konstandina Efthimiadou e il suono unico di Panú creeranno una performance ricca e intensa dove la danza si nutre dalla musica e viceversa. «Fallendo e ricominciando, tornando indietro, ricostruendo, -raccontano gli organizzatori- i due artisti costruiscono un paesaggio visivo e musicale di oggetti mancanti, situazioni, persone che cercano la via del ritorno, che ritornano dall'Oscurità alla Luce».
Nella stessa serata, tra uno spettacolo e l’altro, dalle 20.30 alle 22.00, e a seguire alle 23.00, i dj di Radio Raheem, communication partner del festival e punto di riferimento per la scena indipendente, aspettano il pubblico in via Strehler per uno street party pieno di sapori greci, una grande festa per celebrare l'inizio dell'estate.
Artisti emergenti come le giovani coreografe Katerina Andreou e Konstantina Efthimiadou, ma anche artisti noti come i registi innovativi Anestis Azas e Prodromos Tsinikoris sfileranno, dunque, in due location simbolo della città, il Piccolo Teatro e il Castello Sforzesco, dando al pubblico la possibilità di conoscere una realtà culturale che raramente riesce ad emergere all’estero. Ancora una volta «Milano incontra la Grecia» tra teatro, danza e musica.

Per saperne di più
milanoincontralagrecia.com

venerdì 7 giugno 2019

«Il disegnatore è libero»: Ivan Graziani e le arti visive

Sono gli anni Sessanta. In Italia si va via via affermando la figura del cantautore impegnato, mentre arriva da Oltreoceano la musica che rivoluzionerà tutto: il rock’n’roll. Sono anche gli anni in cui Ivan Graziani (Teramo, 6 ottobre 1945 - Novafeltria, 1º gennaio 1997), ancora minorenne, muove i suoi primi passi come musicista autodidatta nel complesso «Nino Dale and His Modernists».
La chitarra è la sua grande passione insieme alle matite colorate, che lo porteranno ad iscriversi, nel 1966, all’istituto d’arte di Urbino.
La città natale di Raffaello, adagiata lungo le verdi colline marchigiane tra la valle del Metauro e la valle del Foglia, non è certo il centro del mondo. Ma è pur sempre un polo universitario in cui è facile trovare qualcuno con cui condividere le proprie passioni. Ivan Graziani incontra Velio Gualazzi e Walter Monacchi, con cui fonda gli «Anonima Sound». «Parla tu», la b-side del loro primo 45 giri intitolato «Fuori Piove», piace a Renzo Arbore e Gianni Boncompagni; il disco passa spesso in radio e arriva così la partecipazione al «Cantagiro», allora la manifestazione canora più importante della penisola assieme al Festival di Sanremo.
Per Ivan Cattaneo è l’inizio di una bella carriera nel mondo della musica ed è con lui, personaggio fuori dagli schemi e decisamente “avanti” rispetto ai suoi contemporanei, che il rock incontra per la prima volta la canzone d’autore. Nascono, anno dopo anni, singoli di successo come «Lugano addio», «Firenze (canzone triste)», «Pigro», «Agnese», «E sei così bella», «Monna Lisa», «Maledette malelingue». Ma Ivan Cattaneo non abbandona mai in tutto l’arco della sua breve vita le amate matite colorate, la carta e la china. Il suo percorso nelle arti visive, da molti definito il suo lato B, è in questi giorni al centro della mostra «Il disegnatore è libero», curata da Olivia Spatola e Manuela Valentini, in collaborazione con Francesco Colafella.
Il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna continua così il ciclo delle personali dedicate agli artisti che hanno messo al centro il dialogo tra arte e musica, avviato con «ALIAS capitolo secondo» di Giorgio Faletti e con la personale «Quando la musica si mostra. Una nota al museo» di Francesco Tricarico.
Il cantautore abruzzese amava dire che «il disegnatore è libero di fare quello che vuole», a differenza del cantante che «è sempre nelle mani di troppa gente». Da questa affermazione -che ben documenta il carattere ribelle dell’artista, poco incline a scendere a patti con le ingerenze dei discografici- prende spunto il titolo della mostra, nella quale sono raccolte oltre trenta opere, molte delle quali inedite. Si tratta di disegni, incisioni e grafiche provenienti dall’archivio della famiglia Graziani, tratte da quaderni di schizzi e appunti che l’artista aggiornava con regolarità.
L'ironia sfrontata dell'artista nello scagliarsi contro le ingiustizie e i luoghi comuni, la sua vivacità creativa ben sottolineata dall’approccio istrionico per cui le sue liriche divennero così note, si armonizzano perfettamente negli schizzi, nei bozzetti, nelle strisce estratte dai blocchi e dai fogli volanti riempiti continuamente nel corso della vita, anche in occasione di viaggi e tournée musicali.
I disegni di Ivan Graziani - ricorda Vincenzo Mollica- «vivevano con le sue canzoni come vasi comunicanti, si alimentavano della stessa fonte di emozioni». A conferma di questo, la rassegna bolognese presenta una serie di schizzi che si riferiscono ad alcuni dei più grandi successi del cantautore come «Firenze» o «Maledette malelingue», presentata a Sanremo nel 1994. In un’opera, poi, si può riconoscere la «Signora Bionda dei Ciliegi» o nell’uomo che piange si può riscontrare quella che avrebbe dovuto essere la copertina di uno dei suoi primi album «Desperation», pubblicato nel 1973 dall'etichetta Freedom Records.
La mostra, allestita nella Sala mostre temporanee al piano terra di Palazzo Sanguinetti, si completa con l’esposizione di alcuni oggetti personali appartenuti allo scomparso artista abruzzese, che entrano in dialogo con la collezione permanente del museo nelle sale al primo piano: un autoritratto, alcuni quaderni con schizzi e una chitarra elettrica Kramer Neptune NJ, decorata dallo stesso Graziani agli inizi degli anni ‘80 con un’immagine della moglie Anna e dei figli piccoli sul corpo dello strumento, che è stata una delle più usate nei suoi live.
Il tutto permette di approcciarsi ad un aspetto per molti inedito di un artista anticonformista e bizzarro, i cui disegni atipici e geniali ne hanno fatto «un pioniere -per usare le parole di Andrea Scanzi- e un rivoluzionario dell’arte».

Informazioni utili
«Il disegnatore è libero».Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 - Bologna. Orari: da martedì a domenica (festivi compresi), ore 10.00 – 18.30; lunedì chiuso. Ingresso (comprende l'accesso al museo): 
intero € 5,00 | ridotto € 3,00 | giovani tra 18 e 25 anni € 2,00  | gratuito per possessori Card Musei Metropolitani Bologna e il giovedì nelle ultime due ore di apertura del museo. Informazioni: tel. +39.051. 2757711 o museomusica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/musica. Fino al 23 giugno 2019

giovedì 6 giugno 2019

«E…sperimentiamo», a Gallarate sei adolescenti raccontano il mondo del bullismo

Insulti, offese, prese in giro, fastidiosi nomignoli, intimidazioni, esclusione sociale, e, in alcuni casi, addirittura schiaffi e botte. In una parola bullismo, traduzione italiana del termine inglese «buylling», teorizzato negli anni Settanta dallo psicologo svedese Dan Olweus, con il quale si indica un comportamento aggressivo di natura fisica, verbale e psicologica, reiterato nel tempo, nei confronti di una persona incapace di difendersi. Stando agli ultimi dati Istat, presentati lo scorso 27 marzo dal presidente Gian Carlo Blangiardo nel corso di un'audizione alla Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza, in Italia un ragazzo su due si dichiara vittima di episodi di bullismo o di cyberbullismo, fenomeno vessatorio, quest’ultimo, che si diffonde tramite Internet e i social network. L’età più a rischio è quella compresa fra gli 11 e i 17 anni.
I dati fotografano, dunque, una situazione emergenziale, che diventa ancora più preoccupante entrando nel dettaglio: una percentuale significativa del campione intervistato, quasi uno su cinque (19,8%), ha, infatti, dichiarato di aver subìto azioni tipiche di bullismo una o più volte al mese nell'ultimo anno; in circa la metà di questi casi (9,1%), ciò è avvenuto una o più volte a settimana. Un confronto fra i sessi mostra, inoltre, una prima differenza sostanziale: il 55% delle giovani contro il 49,9% dei loro coetanei maschi si è dichiarato oggetto di prepotenze. Le differenze sono considerevoli anche a livello territoriale, con una netta prevalenza del fenomeno nel nord del Paese, dove le vittime di azioni vessatorie rappresentano il 23% dei ragazzi tra gli 11 e 17 anni.
Il linguaggio teatrale con la sua capacità di parlare al cuore dei giovani e di farli entrare in empatia con i personaggi narrati rappresenta uno strumento utile non solo per formare il loro carattere, ma anche per promuovere la cittadinanza attiva e per contrastare atteggiamenti vessatori come quelli di cui tanto si parla in televisione e sui giornali. Lo dimostra chiaramente «E…sperimentiamo (sei ragazzi nel mondo del bullismo)», il saggio-spettacolo che gli «Attori in erba» porteranno in scena sabato 8 giugno, alle ore 21, negli spazi della Palestra Gallaratese di Gallarate (in via Pegoraro, 1).
Sul palco saliranno sei ragazzi dai 12 ai 16 anni: Giada Banca, Alice Capasso, Anita Croci, Camilla Dall’Aglio, Tiziano Locarno e Alerik Moisiu. La regia e la scrittura scenica sono a cura dell’attore professionista e insegnante Davide De Mercato.
Dopo la partecipazione al saggio «Coco e il dia dello spettacolo», andato in scena lo scorso 18 maggio al teatro Auditorium di Jerago con Orago, dove hanno interpretato una scena dedicata ai colori e alle atmosfere della festa messicana del giorno dei morti, gli adolescenti della scuola di teatro che «Culturando» cura artisticamente, da questa stagione, per la Palestra Gallaratese si confronteranno, dunque, con un tema di grande attualità, al quale guarda sempre più il mondo del teatro come dimostra il recente musical «Bulli Zoo» all’Olimpico di Roma.
Al centro della rappresentazione, ideata come una sorta di esperimento sociale dove i ragazzi vestiranno alternativamente i panni del bullo e del bullizzato, ci saranno sei improvvisazioni, frutto della fantasia degli «Attori in erba». A tessere la trama e l’ordito del racconto scenico saranno, poi, due storie vere che, attraverso parole, movimento e musica parleranno di giovani e di relazioni, di prepotenze e di paure, sia dal punto di vista della vittima (con la vicenda di Giancarlo Catino, resa famosa sul web dal monologo di Paola Cortellesi) che dalla prospettiva del carnefice, raccontata attraverso un episodio di cyberbullismo.
«Lo spettacolo -spiega Davide De Mercato- racconta tutte le classiche fasi del bullismo: dall’autocommiserazione della vittima alla sua volontà non soddisfatta di chiedere aiuto, sino all’evento scatenante che porta a un cambio di prospettiva e a una presa di coscienza della situazione. La rappresentazione non vuole, però, fornire soluzioni al problema o facili moralismi. Vuole proporre al pubblico un itinerario emozionale, che gli faccia sorgere domande, dubbi. Abbiamo, poi, voluto finire con un invito alla speranza, tutto da scoprire».
Che ad avere la meglio sia il «bullizzato»? Forse sì, ce lo ha insegnato Giancarlo Catino: un abbraccio può sconfiggere un bullo.

Informazioni utili 
«E…sperimentiamo (sei ragazzi nel mondo del bullismo)» è a ingresso gratuito. È gradita la prenotazione al numero 0331.792164 o all'indirizzo e-mail info@palestragallaratese.it. Per maggiori informazioni su «Culturando» è possibile consultare la pagina www.facebook.com/associazioneculturando/.

martedì 4 giugno 2019

Il Mapa di Gus & Waldo a Milano: due cuori e un museo al NYX Hotel Milan

Innamorati, giramondo e di successo. Stiamo parlando della coppia di pinguini Gus & Waldo, nata nel 2005 dalla matita di Massimo Fenati (Genova, 1944), architetto genovese trapiantato a Londra dal 1995, dove ha lavorato come pubblicitario per Nokia, Alessi e Cappellini e come designer negli studi di Jasper Morrison, Pentagram e David Chipperfield Architects, prima di dedicarsi al fumetto e all’animazione per ditte di produzione televisiva.
Con le loro oltre settantamila copie vendute con traduzioni in sei lingue (dal finlandese al tedesco), i due pinguini innamorati, che hanno conquistato anche i giornalisti di due importanti quotidiani britannici come «The Times» e «The Guardian», sono diventati, negli anni, dei veri e propri influencer, puntuali e graffianti, sui temi sempreverdi dell’amore e del sesso.
Gus & Waldo appaiono, infatti, come due perfetti esperti dell’argomento. Appartengono alla specie dei pinguini, una delle più fedeli nel mondo animale. Sono estremamente felici della loro vita insieme, iniziata con uno sguardo complice sulle scale di un centro commerciale. E sono disposti a tutto per riaccendere la scintilla del desiderio quando la quotidianità li mette a dura prova: fanno shopping insieme, vanno al ristorante, si scambiano regali griffati, viaggiano per il mondo e soprattutto accettano le diversità dei loro caratteri.
«Gus, quello col becco a punta, -raccontava nel 2011 Massimo Fenati a Raffaella Serini sulle pagine di «Vanity Fair»- è un maniaco del pulito, un po' nervosetto, legge romanzoni da seicento pagine e veste con stile. Waldo ha il becco arrotondato, un carattere più docile, è trasandato e incasinato. Divora riviste di gossip e ascolta musica pop».
I due teneri pinguini dal tratto morbido e leggero, diversi nei gusti e simili nella capacità di investire tempo ed energie sul loro legame, sono, dunque, una coppia fissa e inossidabile come tante altre e che siano etero o omosessuali poco importa perché -raccontava qualche anno fa, sempre a «Vanity Fair,» il fumettista genovese- «se Waldo si chiamasse Wanda e avesse lunghe ciglia da femme fatale, la loro storia non cambierebbe».
Ideati quasi per caso, quando da un piccolo scarabocchio su un post-it nasce in Massimo Fenati l’idea di realizzare un libro per festeggiare il primo anniversario con il compagno Walter, Gus & Waldo sono ora un vero e proprio brand, al centro di poster, magliette, libri di successo e anche cortometraggi animati, che hanno vinto premi al festival di animazione IRIS di Rio de Janeiro, al Queersicht Film Festival di Berna e al concorso Sub-It alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 2009.
In Italia i due simpatici pinguini sono arrivati nel 2008, quando Tea ha pubblicato il volume «Il libro dell’amore di Gus & Waldo»; mentre le ultime strisce edite sono quelle di «Arte pinguina», un libro che ha visto la luce nel nostro Paese nel 2015. Si tratta di un omaggio, in chiave divertita e divertente, ai più grandi capolavori della nostra cultura visiva, simboli iconici di varie epoche, tutti conservati nell’immaginifico e inimitabile MoPa – Museum of Penguin Art.
Dalla Venere di Sandro Botticelli alle ballerine di Edgar Degas, dalla Gioconda di Leonardo da Vinci all’autoritratto di Vincent Van Gogh, senza tralasciare il Bacco di Caravaggio, Massimo Fenati non si dimentica proprio di nessuno nelle sue tavole. Dal 14 giugno al 31 ottobre i suoi lavori saranno in mostra a Milano, negli spazi del NYX Hotel Milan, albergo della catena Leonardo Hotels Group che si distingue per la sua attenzione alla street art e alla video art, con mostre curate, tra gli altri, da Iris Barak, curatrice della Dubi Shiff Art Collection di Tel Aviv.
L’esposizione di Massimo Fenati si avvale dell’organizzazione della galleria di arte diffusa Question Mark Milano di Daniele Decia e Stefania Sarri, che ha recentemente presentato le opere del fumettista genovese nella sua sede di via Briosi.
Le incursioni di Gus & Waldo nell’arte egizia e in quella bizantina, nelle tele del Rinascimento o in quelle degli impressionisti, nelle opere di contemporanei come Hopper e Magritte sono al tempo stesso pop, fumettistiche, poetiche e comunicano in modo leggero capitoli fondamentali della nostra cultura visiva.
Fa sorridere, per esempio, il pinguino impacchettato alla Christo e non intimorisce l’improbabile naufragio di Gus & Waldo su un gommone in mezzo al mare e con un piccolo ombrello a protezione degli schizzi d’acqua, timorosi per l’arrivo della grande onda di Katsushika Hokusai.
 Diverte la rivisitazione del celebre «Pomeriggio alla Grande Jatte» di Georges Seurat, in cui tutti i personaggi sullo sfondo si tramutano in oche, pappagalli e struzzi. Stessa sorte tocca alle donne de «Le déjeuner sur l'herbe» di Édouard Manet, trasformate in due bianchi volatili, totalmente disinteressati alla conversazione tra i due pinguini in abiti ottocenteschi.
Ma le sorprese non finiscono qui. Lungo il percorso espositivo, Waldo finisce con il travestirsi da Monna Walda e da sposa dei Coniugi Arnolfini di Van Eyck. Gus sfoggia lunghi riccioli rossi come Venere botticelliana e diventa anche un’icona pop di Andy Warhol. Entrambi fluttuano nell’immaginifico universo segnico di Mirò in «Due innamorati che guardano alla luna».
Una bella occasione, dunque, quella proposta dal NYX Hotel Milan per ripassare la storia dell’arte con il sorriso sulle labbra e dire «ah ma questo l’ho già visto!».

Informazioni utili 
Arte pinguina. Una mostra di Massimo Fenati. NYX Hotel Milan, piazza Quattro Novembre, 3 – Milano. Orari: 9.00 – 21.00. Ingresso libero. Inaugurazione: giovedì 13 giugno, ore 18.30, su invito. Catalogo: Tea edizioni (€ 13 - ISBN 8850241585). Dal 14 giugno al 31 ottobre 2019

Jean François Migno a Bologna: una danza di colori al Museo civico medioevale

Passato e presente si incontrano quest’estate al Museo civico medioevale di Bologna. Palazzo Ghisilbardi, una delle espressioni più significanti del Rinascimento nel capoluogo emiliano, apre le porte alla mostra «La forza del colore», prima personale in Italia dell’artista francese Jean François Migno. L’esposizione, a cura di Graziano Campanini e Riccardo Betti, prosegue il percorso di indagine sulle dinamiche di interazione tra le opere e i reperti di epoca medievale appartenenti al patrimonio museale della città felsinea e le espressioni della creazione artistica attuale. Dopo le rassegne di Gianni del Bue (estate 2018) e Bruno Ruspanti (estate 2017), è, dunque, la volta di Jean François Migno (Chatou, 1955), artista dalla formazione eterogenea -con alle spalle studi all’École des Beaux Arts di Parigi e all’École du Louvre in architettura, disegno e serigrafia-, interessato all’uso dei colori primari sulla tela e debitore nei confronti delle teorie dell’Espressionismo astratto americano, dagli Action Painting di Jackson Pollock ai Color Field di Sam Francis, e dell’Informale.
Il nucleo principale della mostra si trova racchiuso nella sala del Lapidario per, poi, espandersi all’interno di altre sale del museo: la sette, dominata dall’austera statua di papa Bonifacio VIII in lastre di rame dorato, la quattro, con le arche monumentali dedicate ai Dottori dello Studio bolognese, e la tredici, nel piano interrato, con le lastre di arte funeraria.
L’intera vicenda dell’artista francese, contrassegnata da una continua sperimentazione su diversi mezzi e materiali che rifiuta una piena e concreta definizione della sostanza in favore di un’astrazione dall’aspetto figurativo, viene ripercorsa attraverso una selezione di circa quaranta lavori, comprensiva dei principali cicli della sua produzione, come «Palissade», realizzato negli anni Novanta, e il più recente «Passages» degli anni Duemila.
Questi lavori testimoniano una pratica della pittura vissuta come confronto totalizzante con la tela, un corpo a corpo frontale -fisico, emotivo, intellettuale- in cui il gesto esplora nuove possibilità formali ed espressive di materie e incontri coloristici in convulse partiture spaziali cadenzate da spazi bianchi. Sulle superfici delle tele si scontrano forze e segni da cui si generano grovigli di pasta pittorica che attestano un profondo processo di assimilazione e superamento di alcune delle esperienze figurative più intense del Novecento: l’Informale, l’Espressionismo Astratto d’oltreoceano e la poetica di Henri Matisse, dichiarata fonte di ispirazione di Jean François Migno per la sensuale fisicità del colore e la creazione di una «pittura volumetrica», una sorta di scultura sulla tela, secondo la definizione del co-curatore Riccardo Betti, in cui l’acrilico si unisce alla caseina.
Ed è attraverso l’elemento cromatico, lavorato fino alla perdita percettiva dei suoi confini e movimenti sulla superficie, che la materia si accumula in aggètti grumosi attuando una vocazione alla terza dimensione e alla occupazione dello spazio reale in una sorta di corrida, in un’intensa «danza del colore», insieme «rituale e primitiva», come ricorda Thomas Michael Gunther nel suo testo critico per il catalogo pubblicato dalla Tipografia Bagnoli di Pieve di Cento.
«Il risultato finale -raccontano al Museo civico medioevale- è un'armonia impossibile, imperfetta come la vita stessa che, anche al di là delle contraddizioni, tende verso l'essenziale. Un vibrante inno alla pittura di cui Migno è il gioioso celebrante».
Particolarmente interessante nel lavoro dell’artista è la serie «Portovenere», dedicata al piccolo borgo ligure a picco sul mare, un tempo abitato da soli pescatori e fonte d’ispirazione per grandi poeti come Eugenio Montale e George Byron. Migno riesce a rendere sulla tela la bellezza insita nel luogo, caratterizzato da un'abbagliante luce mediterranea e da mare cristallino in cui ai giorni sereni estivi, con il tranquillo sciabordio delle acque contro gli scogli, se ne alternano altri, in cui la violenza e l’irrequietezza della tempesta la fa da padrona.
«I suoni, i colori e i profumi -scrive, a tal proposito, Riccardo Betti in catalogo- si corrispondono e si confondono, diventando una sola cosa; così come i suoni, i colori e i profumi di Portovenere si fondono sulla superficie bianca dello spazio. Nascono quindi immagini non convenzionali, che non soddisfano appieno le nostre aspettative, il cui disordine però è in grado di attivare in noi percorsi autentici e inaspettati capaci di riportare la nostra mente agli strilli e alle grida dei gabbiani, ai vivaci colori delle case del litorale e ai nostalgici profumi del mare ligure».
Interessante è anche la riflessione scritta da Graziano Campanini per il catalogo, nella quale si va alla ricerca dei debiti di Migno nei confronti della grande arte del Novecento: «Personalmente -scrive il curatore-, i suoi lavori mi ricordano opere di Emilio Vedova, come «Premier Passage», «Apesanteur» del 1990, «Palissa-des» del 1993 o «Collage» del 2009, per le tracce diagonali che sa mettere nelle sue tele, ma anche un altro grande pittore italiano come Giuseppe Santomaso, per l’uso sapiente dei colori, vedi «Avant l’apesanteur» del 1990, «Collage» del 1996 oppure «Passages» del 2014. Altre opere, in cui sono presenti in preponderanza bianchi e neri, riportano immediatamente alla mente Alberto Burri, come «Palissades» del 1991 e del 1997 e «Cercle, Apesanteur» del 1990».
Una mostra, dunque, interessante quella del Museo civico medioevale di Bologna che porta il visitatore a tu per tu con il colore, strumento principe nella ricerca di Migno, tanto che sembra impossibile non pensare a una frase di Paul Klee guardando le sue opere: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell'ora felice: io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Jean François Migno, Grand rouge, 2016. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 130 x 194; [fig. 2] Jean François Migno, Senza titolo, 2017. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 3] Jean François Migno, Passages, 2015. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 4] Jean François Migno, Colonnes, 2014. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 114 x 193

Informazioni utili
Jean François Migno. La forza del colore. Museo civico medievale, via Manzoni, 4 – Bologna.Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso i lunedì feriali. Ingresso: intero € 6,00 | ridot-to € 3,00 | gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e il giovedì nelle ultime due ore di apertura del museo. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito web: www.museibologna.it/arteantica. Fino all’8 settembre 2019.