Si può solo immagine la gioia del nobile cremonese
Amilcare Anguissola davanti alla lettera di
Michelangelo Buonarroti che lodava le doti pittoriche della giovane figlia Sofonisba, allora appena ventenne. Con quella missiva, il maestro toscano, ammaliato dalla bellezza di un disegno con una fanciulla intenta a ridere di cuore per le difficoltà di lettura di una signora anziana concentrata nello studio dell’alfabeto, chiedeva alla giovane pittrice di cimentarsi in un lavoro che mostrasse il sentimento opposto.
Sofonisba Anguissola (Cremona, 2 febbraio 1532 – Palermo, 16 novembre 1625) accettava la sfida e ritraeva il fratello Asdrubale intento ad affondare le mani in un cesto di granchi vivi e in lacrime per il dolore di un morso. Era il 1554 e quel disegno a carboncino e matita su carta cerulea, che oggi si trova nel Gabinetto di disegni e stampe del Museo di Capodimonte a Napoli, otteneva la stima di Michelangelo, tra i primi a riconoscere il talento della giovane artista lombarda, che poco dopo sarebbe diventata pittrice ufficiale alla corte di
Filippo II di Spagna, a Madrid.
L’episodio, raccontato per la prima volta da
Tommaso Cavalleri in una lettera a
Cosimo I de’ Medici, datata 20 gennaio 1562, è tra gli aneddoti che
Leticia Ruiz Gómez, capo del dipartimento di pittura del Rinascimento spagnolo al Museo del Prado di Madrid, ripercorre nel
documentario «La rinascita delle pittrici dimenticate», per la regia di
Hilka Sinning, disponibile gratuitamente fino al prossimo 18 dicembre sul
canale europeo Arte.Tv, nella
versione sottotitolata in italiano.
Il filmato
in lingua tedesca, della durata di poco più di cinquanta minuti, focalizza l’attenzione su
tre artiste, vissute tra il XVI e il XVII secolo, che si ribellarono alla convinzione del loro tempo che riteneva la pratica artistica inaccessibile alle donne, riuscendo a farsi apprezzare dai loro contemporanei e arrivando persino «a ritrarre – si legge nella presentazione - i reali di Spagna e il papa, nonché a conquistare l’attenzione di Michelangelo e Van Dyck».
Quelle tre donne entrate, oggi, nel mito sono Sofonisba Anguissola,
Lavinia Fontana e
Artemisia Gentileschi.
SOFONISBA ANGUISSOLA, LA «PITTRICE D'ANIME» AMMIRATA DA MICHELANGELO
Ma come sono riuscite queste artiste, sottratte dal lungo oblio della storia dalle femministe degli anni Settanta, a formarsi e a lavorare in un’epoca nella quale alle donne era precluso l’accesso alle accademie di belle arti e alle botteghe dei pittori, «considerate -ricorda
Millo Borghini nel documentario- degli ambienti moralmente non consigliabili»?
A Sofonisba Anguissola venne in aiuto il padre Amilcare, un umanista dallo spirito libero e dalle spiccate capacità manageriali, che la fece istruire in casa del pittore lombardo
Bernardino Campi.
La ragazza mostrò da subito un interesse spiccato per la ritrattistica e, già giovanissima, si esercitò a mettere sulla tela gli stati d’animo dei soggetti raffigurati, meritandosi l’appellativo di «pittrice d’anime», come ben documenta il dipinto «Partita a scacchi» (1555). Questa tela conquistò anche Il contemporaneo
Giorgio Vasari, che di tutti i lavori dell’artista ebbe a dire: «…tanto ben fatti che pare che spirino e siano vivissimi».
Raffinati sono anche gli autoritratti, da quello alla spinetta a quello al cavalletto, che potrebbero essere paragonati a fotografie moderne, a
selfie; Sofonisba Anguissola, dunque, - suggerisce il documentario di Hilka Sinning – «non avrebbe davvero nulla da invidiare alle moderne
influencer con migliaia di
follower».
Il fim su Arte.Tv ricorda ancora che le «meraviglie» dell’artista (la definizione è sempre di Giorgio Vasari) trovarono un altro importante estimatore in
Antoon Van Dyck, che nel suo viaggio in Sicilia, dove la pittrice si era trasferita negli ultimi anni della sua vita, ritrasse Sofonisba Anguissola anziana, a 96 anni, in quella che è la sua ultima effige conosciuta, oggi al British Museum di Londra.
Il pittore fiammingo, allora poco più che ventenne, rimase piacevolmente impressionato dalla cultura, dalla perizia tecnica, dalla forza di carattere e dal «cervello prontissimo» dell’artista: «ho ricevuto -disse- maggiori lumi da una donna cieca che dallo studiare le opere dei più insigni maestri».
Quell’impareggiabile «pittrice di natura e miracolosa», come la definì lo stesso Van Dyck, consegnava così il testimone al collega più giovane; l’anno dopo, nel 1625, il sipario calava per sempre sulla sua vita avventurosa.
LAVINIA FONTANA, «LA PONTIFICIA PITTRICE» CHE RITRASSE I NOBILI BOLOGNESI
Il documentario di Hilka Sinning prosegue raccontando la storia della bolognese
Lavinia Fontana (Bologna, 24 agosto 1552 – Roma, 11 agosto 1614) , soprannominata «la pontificia pittrice» e ricordata nella storia dell’arte per il suo ritratto di
papa Gregorio XIII e per la realizzazione di enormi pale d’altare dipinte per l’aristocrazia e il clero di tutta Italia, come la «Madonna Assunta di Ponte Santo» per la città di Imola o la «Natività della Vergine» per la chiesa della Santissima Trinità a Bologna.
Il padre, il pittore
Prospero Fontana, fu il primo a valorizzare il talento della giovane artista. Successivamente a farle da agente fu il marito, il pittore
Giovan Paolo Zappi. La loro, come racconta la studiosa
Vera Fortunati, fu un’unione non convenzionale per l’epoca: lei dipingeva e lui vendeva; lei era la
star, lui aveva ruolo più domestico, ma utilissimo alla dinamica della coppia, che ebbe addirittura undici figli.
Lavinia Fontana era amata dall’aristocrazia - bolognese prima, romana poi - per la sua capacità di raccontare il «fascino mondano» del tempo. La sua conoscenza di velluti, broccati, sete e pizzi ricamati -restituiti sulla tela con con un’impareggiabile precisione ottica – la rendevano l’artista prediletta tra le nobildonne.
Ritrasse
Costanza Sforza Boncompagni (parente di papa Gregorio XIII),
Ginevra Aldrovandi Hercolani,
Costanza Alidosi, la
famiglia Gozzadini e anche la piccola
Antonietta Gonzales, la bambina dal corpo interamente ricoperto di peli, nel cui quadro si respira tutta l’empatia materna dell’artista.
Lavinia Fontana fu anche la prima donna nella storia a dipingere dei nudi, soggetti che si credeva potessero sconvolgere la mente femminile, realizzando opere per le camere da letto dei suoi committenti. Si pensi alla bella tela «Minerva nell’atto di vestirsi» (1613), commissionata da
Scipione Borghese, con una donna ripresa in un momento intimo, quotidiano, o a «Marte e Venere» (1595) della Casa d’Alba, dove il guerriero tocca il fondoschiena della fanciulla, che si volta verso il pubblico quasi complice del gesto irriverente.
ARTEMISIA GENTILESCHI, LA PRIMA ARTISTA CON UNA SUA BOTTEGA
Quando, nel 1614, Lavinia Fontana si trasferì a Roma, all’età di cinquantadue anni, nella «Città eterna» -ricorda il documentario- stava già realizzando i suoi primi schizzi a matita un'altra artista dal fascino indiscusso:
Artemisia Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, circa 1656).
Anche il talento pittorico della giovane, che con il suo stile drammatico e altamente espressivo avrebbe incantato negli anni a venire i più importanti committenti seicenteschi, fu valorizzato dal padre, il pittore pisano
Orazio Gentileschi, amico di
Caravaggio.
Della storia dell’artista, cresciuta in un ambiente prettamente maschile quale era la Roma del tempo, sappiamo principalmente una cosa, che fu vittima di uno stupro e che ebbe la forza di portare in tribunale l’uomo che abusò di lei: il pittore
Agostino Tassi, amico del padre, dal quale era stata mandata a studiare prospettiva.
Il processo fu umiliante, dolorosissimo e segnò per sempre la vita della giovane donna, che usò la pittura come sfogo, popolando le sue tele di potenti nudi femminili, martiri e vendicatrici bibliche che si oppongono a uomini violenti e mossi da ignobile libidine, i cui sentimenti sono accentuati da un drammatico realismo di impianto caravaggesco.
Emblematica, in tal senso, è la tela «Giuditta che decapita Oloferne», realizzata nei giorni del processo, che «si può assolutamente interpretare -racconta Roberto Contini, curatore alla Gemäldegalerie di Berlino – come «uno spietato e feroce atto di annientamento del terribile nemico».
In quell'«inesorabile aristocrazia della crudeltà», caratterizzata da un trionfo di muscoli e forza, con il sangue a bagnare le stoffe e i velluti preziosi, c'è anche il ritratto dell'artista: Artemisia è Giuditta, arrabbiata, ma lucidamente fredda nel dare forma alle sue drastiche fantasie omicide.
Il talento mise presto la pittrice romana in competizione con gli uomini del suo tempo. La fece diventare il simbolo della lotta contro l’autorità. L'artista non si fece, però, mai condizionare dal parere degli altri. Aveva già perso molto sposando un uomo che non amava, il pittore
Pierantonio Stiattesi, e lasciando Roma per non sentire il chiacchiericcio della gente. Ora era una donna libera, autonoma, forse anche spregiudicata. Non mise, infatti, mai alcuna censura sul suo corpo, protagonista di molte tele come, per esempio, l’«Allegoria con i pennelli» o la «Maria Maddalena in estasi», senza dimenticare i tanti autoritratti.
La svolta vera arrivò a Napoli, dove Artemisia Gentileschi aprì una sua bottega, ben consapevole dell’unicità del suo ruolo, tanto da scrivere a un suo committente, il collezionista siciliano don Antonio Ruffo: «Il nome di donna fa sorgere dubbi finché non si vede l'opera finita. Farò vedere a vossignoria cosa sono in grado di fare. Troverete l’animo di un cesare nella mia anima. Non vi disturberò con chiacchiere femminili. Le mie opere parleranno da sole».
Con questo documentario, Hilka Sinning confeziona, dunque, un ritratto moderno di tre pittrici, capaci di venire ammirate e apprezzate in un mondo, quello a cavallo tra Cinquecento e Seicento, in cui le donne venivano per lo più relegate alla vita domestica. Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi regalarono al mondo dell’arte lo sguardo, il tocco e la conoscenza femminile. Lo arricchirono di nuovi colori e nuove visioni. Oggi, dopo secoli di oblio, vengono finalmente riscoperte.
Informazioni utili
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Sofonisba Anguissola, «Autoritratto con allegoria della pittura», 1638-1639. Olio su tela, 98,6×75,2 cm. Kensington Palace, Londra; [fig. 2] Sofonisba Anguissola, «Fanciullo morso da un granchio», 1554 c. Carboncino e matita su carta, 33,3×38,5 cm. Gabinetto di disegni e stampe del Museo di Capodimonte, Napoli; [fig. 3] Sofonisba Anguissola, «Partita a scacchi, 1555. Olio su tela, 72×97 cm. Narodowe Muzeum, Poznań; [fig. 4] Antoon Van Dyck, «Ritratto di Sofonisba Anguissola», 1624. Londra, British Museum; [fig. 5] Lavinia Fontana, «Ritratto di Antonietta Gonzales», 1595 circa. Musée du Chateau de Blois [fig. 6] Artemisia Gentileschi, «Giuditta che decapita Oloferne», 1612-1613. Olio su tela, 158,8×125,5 cm. Museo nazionale di Capodimonte, Napoli; [figg. 7 e 8] Due frame del film «La rinascita delle pittrici dimenticate», per la regia di Hilka Sinning
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