mercoledì 24 maggio 2023

Dalle polaroid delle Br alla «sconcia stiva» di via Caetani: l’iconografia del «Caso Moro»

«Acciambellato in quella sconcia stiva,/ crivellato da quei colpi, / è lui, il capo di cinque governi, / punto fisso o stratega di almeno dieci altri, / la mente fina, il maestro / sottile / di metodica pazienza, esempio / vero di essa/ anche spiritualmente: lui – / come negarlo? – quell’abbiosciato / sacco di già oscura carne/ fuori da ogni possibile rispondenza / col suo passato / e con i suoi disegni, fuori atrocemente –/ o ben dentro l’occhio/ di una qualche silenziosa lungimiranza – quale? / non lascia tempo di avvistarla / la superinseguita gibigianna». Il poeta , nella raccolta «Per il battesimo dei nostri frammenti», pubblicata nel 1985 da Garzanti Libri, scrive una sorta di didascalia alla fotografia più iconica del «caso Moro», quella con il corpo senza vita dell'onorevole democristiano,  con undici proiettili nel cuore, rannicchiato sotto una coperta, all’interno del bagagliaio di una Renault 4, targata Roma N56786, parcheggiata in via Caetani, a Roma, quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista.

Ritrovamento del corpo dell'onorevole Aldo Moro. 9 maggio 1978. Roma, via Caetani.
Foto: Rolando Fava /Ansa.

È il 9 maggio 1978 e quella concitata scena caravaggesca, con una folla di poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco intorno al veicolo, rappresenta l'ultima di una serie di immagini che scandiscono il tempo dei cinquantacinque giorni che intercorrono tra il sequestro e l’omicidio del leader democristiano; poche per il nostro oggi caratterizzato dall’immediatezza comunicativa di siti internet e social network, molte per gli anni Settanta, con due soli canali televisivi, che da qualche mese avevano conosciuto l’uso del colore.

Ritrovamento del corpo dell'onorevole Aldo Moro. 9 maggio 1978. Roma, via Caetani.
Foto di Gianni Giansanti 

L’«affaire Moro» (per usare un’espressione di Leonardo Sciascia) rappresenta, infatti, una svolta nel modo di fare cronaca e di trattare la politica per la carta stampata e per la televisione: con i cinquantacinque giorni di prigionia dello statista pugliese nel «carcere del popolo» compare per la prima volta l’edizione straordinaria. Il Tg1 la lancia alle ore 9:58 del 16 marzo 1978 e dura 86 minuti e 10 secondi. Bruno Vespa è in studio; ha la faccia sgomenta di chi vede diventare realtà l’inimmaginabile. Paolo Frajese è in via Fani e il suo racconto affannato, ripreso dall’operatore Andrea Ruggeri, rimane nell’immaginario collettivo. Il giornalista si muove tra le macchine tamponate e crivellate di colpi. Ci fa respirare la palpabile costernazione di chi è accorso sul posto. Osserva i particolari della scena: un elicottero in cielo, un tappeto di bossoli sulla strada, una borsa in pelle nera vicino al marciapiede, un cappello da pilota o da metronotte a terra, il caricatore di un mitra, una pistola automatica e un rivolo di sangue. L’inviato del Tg1 porta la nostra attenzione anche sui lenzuoli che coprono i corpi senza vita di quattro dei cinque uomini della scorta del politico democristiano (Francesco Zizzi è l’unico a non morire all’istante, arriva ferito all’ospedale e spira in tarda mattinata). Tre agenti - Oreste Leonardi, Domenico Ricci e Giulio Rivera – sono ancora sulle vetture; uno, il poliziotto Raffaele Iozzino, che aveva cercato di rispondere al «fuoco nemico», è a terra, dietro all’Alfetta bianca che seguiva la Fiat 130 berlina blu su cui viaggiava lo statista pugliese. Sembra un Cristo di Diego Velázquez, crocifisso sull’asfalto.


Quelle trasmesse dalla Rai e, nelle ore successive, pubblicate dai giornali (su Formiche.it si trova la galleria realizzata da Umberto Pizzi, uno dei primi fotografi ad arrivare in via Fani, quando i corpi delle vittime non sono ancora stati coperti dai teli) «sono «immagini in absentia», scrive Ilaria Maria Priscilla Barzaghi nel saggio «Un lungo viaggio fino alla sconcia stiva: iconografia di Aldo Moro tra comunicazione politica e pietas», pubblicato nel 2014 all’interno del volume «Una vita, un Paese» di Rubbettino editore.

L'agguato di via Fani: il cadavere dell'agente Raffaele Iozzino, l'unico che riuscì a rispondere al fuoco delle Brigate Rosse.
Roma, 16 marzo 1978. Foto: AP Photo. Immagine di dominio pubblico

Quelli del 16 marzo 1978 sono, dunque, scatti intrisi della «presenza non visibile» del politico democristiano, presidente della Repubblica in pectore. Sono fotografie che parlano di uomo fatto prigioniero e che fanno riflettere sul suo destino ancora ignoto alla famiglia, ai politici della Dc e degli altri partiti, alle forze dell’ordine, alla stampa, a chi è seduto davanti al piccolo schermo, ai lavoratori che abbandonano le fabbriche e scendono in piazza, ai negozianti che chiudono le attività, alle mamme che, in tutta Italia, vanno a prendere i bambini a scuola prima del suono dell’ultima campanella.

L'agguato di via Fani: il cadavere dell'agente Raffaele Iozzino, l'unico che riuscì a rispondere al fuoco delle Brigate Rosse.
Roma, 16 marzo 1978. Foto: AP Photo. Immagine di dominio pubblico

Il Tg 1 è il primo a entrare nelle case degli italiani con la crudezza di fotogrammi che diventano Storia sotto gli occhi dello spettatore, ma non è il primo a dare la notizia del rapimento del politico di Maglie. I primi – ricorda Ivo Mej nel libro «Moro rapito! Personaggi, testimonianze, fatti» (Barbera editore, Siena 2008), da poco ristampato in un’edizione arricchita e aggiornata da Historica e Giubilei Regnani con il titolo «Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione» (marzo 2023) – sono i giornalisti del Gr2, allora diretto da Gustavo Selva, alle 9:15 (la notizia viene data loro da un collega del «Gazzettino di Roma», che vive in via Mario Fani). Mentre il primo lancio d’agenzia, un’Agi, è delle 9:28. Segue, alle 10:10, l’Ansa, che decide di interrompere lo sciopero proclamato per ventiquattro ore e di riprendere le trasmissioni con un breve comunicato-annuncio delle Br: «Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato, firmato Brigate Rosse».

Gli uomini della scorta di Aldo Moro, uccisi in via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978.
Immagine di dominio pubblico

Nella stessa giornata escono, in edizione straordinaria, anche alcuni quotidiani nazionali: «La Stampa», «Il messaggero», «La Repubblica» e «L’Unità». Poi, per cinquantacinque giorni (e anche nei mesi e negli anni a venire), vengono versati fiumi di inchiostro tanto da far parlare di un’«infodemia del caso Moro», nella quale si respirava e tuttora si respira – racconta sempre Ivo Mej - «un mix di ansia per il futuro, di angoscia, di pervasività del timore».

Inizia così, proprio il 16 marzo 1978, quella «spettacolarizzazione della notizia», che avrebbe raggiunto il suo apice il 12 giugno 1981 con la sfortunata diretta televisiva da Fiumicino, dove il piccolo Alfredo Rampi era caduto in un pozzo, e che non ci avrebbe mai più abbondonato.

Se le parole del «caso Moro» sono tante (forse troppe), le immagini significative, quelle che meglio simboleggiano una delle pagine più drammatiche della storia della Repubblica italiana, si possono, invece, contare sulle dita di due mani.
 
Aldo Moro, prigioniero della Brigate rosse. Foto diffusa il 19 marzo 1978 

Tra queste ci sono le due polaroid in bianco e nero scattate dalle Br al politico democristiano ed entrate nel circuito informativo internazionale il giorno successivo alla diffusione da parte del gruppo eversivo di sinistra alle redazioni dei giornali: il 19 marzo, tre giorni dopo il sequestro, e il 21 aprile, dopo il falso comunicato n. 7 del 18 aprile, quello che annunciava «l'avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante suicidio», e nel quale si comunicava che il corpo giaceva «nei fondali limacciosi» del lago della Duchessa, vicino a Cartore (in provincia di Rieti), in una zona sul confine tra Abruzzo e Lazio.

Nella prima fotografia il politico democristiano viene ritratto a mezzobusto, davanti a un drappo con la stella cerchiata a cinque punte e la scritta «Brigate rosse». La testa è reclinata. Il colletto della camicia, sgualcita, è sbottonato e lascia intravvedere una maglietta. Il volto appare stanco e rassegnato, ma non angosciato. L’espressione è, in realtà, indecifrabile. Sembra addirittura di poter cogliere una sfumatura di scherno sul viso di Aldo Moro. Non sfugge, infatti, all’occhio attento «il mezzo sorriso che, asimmetrico, pare piegargli gli angoli della bocca - scrive Michele Smargiassi sul blog «Fotocrazia» di Repubblica.it - in un’espressione di dignitosa resistenza umana e perfino di superiore compatimento, quell’espressione così intensa e diversa dal tumefatto terrorizzato stupore dei suoi predecessori iconografici (Sossi, Amerio, il tedesco Schleyer)».

Vignetta di Vincino per «Il Male»

Coglie acutamente il valore della fotografia - scrive Ilaria Maria Priscilla Barzaghi - il disegnatore satirico Vincino, con una sua vignetta per «Il Male», all’epoca recepita più che altro come aspramente irriverente e censurata. È un semplice foto montaggio in cui alla Polaroid viene apposto un fumetto che fa dire a Moro: «Scusate, abitualmente vesto Marzotto». Terribile parodia che afferra pienamente il meccanismo semantico e comunicativo messo in atto dalle Br: la destituzione del politico Aldo Moro».

Aldo Moro, prigioniero della Brigate rosse. Foto diffusa il 21 aprile 1978 

Nella seconda immagine lo statista pugliese è ancora in camicia e ha tra le mani una copia del quotidiano «La Repubblica» del 19 aprile 1978, su cui campeggia la scritta, a caratteri cubitali, «Moro assassinato?». L’espressione è malinconica, stanca, pacatamente dimessa.

Entrambe le fotografie servono ai brigatisti per dimostrare che l’ostaggio è vivo e si ispirano, volutamente, alla fotografia di identificazione giudiziaria, poliziesca: i brigatisti – scrive, a tal proposito, Marco Belpoliti nel libro «Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate rosse» (Guanda, Parma 2018) - «vogliono riprodurre, con un metodo del tutto simile a quello agito su di loro da poliziotti e magistrati, la realtà stessa. Si tratta di una forma di ‘realismo traumatico’, in cui la messa in scena del sequestro, il rito della foto segnaletica, più ancora del comunicato o della propaganda scritta, diventa un elemento iperrealistico».

La fotografia di Aldo Moro scattata dalla Br su un giornale. 
Foto: Cordon Press

Le Br fotografano, dunque, Aldo Moro come «un re deposto», che sta giocando la sua ultima partita per restare vivo, e finiscono così per evidenziarne «l’assoluta umanità, che è poi – scrive ancora Marco Belpoliti – la sua mortalità». Lo statista pugliese appare come «un uomo comune», spogliato della sacralità del potere, di quelle insegne che per i brigatisti lo facevano essere – si legge nel primo comunicato – il «gerarca», il «teorico» e lo «stratega indiscusso» del «regime democristiano». Il politico pugliese mostra il suo essere vulnerabile e appare così molto diverso da come l’opinione pubblica era solita vederlo, fino a pochi giorni prima, sui giornali e nei Tg. «Ancora oggi per ricordare il «senso delle istituzioni» che possedeva Aldo Moro – ricorda, a tal proposito, Andrea Pomella su «DoppioZero» - si è soliti ricorrere all’immagine dell’uomo politico che si faceva fotografare in abito, camicia e cravatta tra i bagnanti in costume». Lo statista pugliese è di fatto «l’ultimo esponente di una classe politica, quella del primo secondo Dopoguerra, «senza corpo» e «senza affetti», che fa del decoro, della sobrietà, della riservatezza sul suo privato una cifra stilistica. Non a caso lo scrittore romano, in libreria con il romanzo «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022), ricorda che «si diceva che i democristiani sembrassero perennemente vedovi e senza prole, tanto relegavano la famiglia nel riserbo».

Muro con manifesto del Partito comunista appeso all'indomani del sequestro Moro. 
Foto di dominio pubblico

Dopo queste due polaroid, che secondo Marco Belpoliti si rifanno al linguaggio della pubblicità e che richiamano alla mente lo stile narrativo di Andy Warhol e delle sue icone pop, c’è poco altro dal punto di vista iconografico. Rimangono nella storia le immagini delle perquisizioni per le strade (solo il 16 marzo 1978 furono allestiti 72.460 posti di blocco, di cui 6.296 nella cinta urbana di Roma) e quelle delle aste dei sommozzatori che scandagliano il fondo del lago della Duchessa per cercare il corpo dello statista.

È una scena, questa, che ha dell’incredibile: i sommozzatori vengono spediti a esaminare uno specchio d’acqua montano, a 1800 metri d’altezza, ghiacciato da mesi e raggiungibile unicamente a piedi, dopo tre ore di cammino in mezzo alla neve alta. Il tutto è reso possibile dall’imperizia degli esperti scelti dal Viminale, guidato da Francesco Cossiga, che considerano autentico e attendibile un falso comunicato, fotocopiato e non ciclostilato, pieno di errori d’ortografia di origine romanesca («soppruso», «inpantanato», «trà») e privo dei consueti riferimenti politico -ideologici dei brigatisti, battuto utilizzando una macchina da scrivere diversa da quella dei precedenti testi e con l’intestazione «Brigate rosse» scritta a mano. Si scoprirà più tardi che il falso comunicato n. 7 è stato realizzato da un falsario d’arte specializzato in copie di quadri di Giorgio De Chirico e Gino Severini, ma anche di pale d’altare rinascimentali, con comprovati contatti sia con i Servizi segreti che con la malavita: Antonio Chichiarelli.

I quattro brigatisti che, travestiti da avieri, spararono sulla scorta di Aldo Moro.
Foto di pubblico dominio

Mentre i telegiornali fanno entrare nelle case degli italiani «le immagini di alcuni sommozzatori scafandrati, costretti a infilarsi in un buco da loro stessi provocato facendo saltare una mina, tanto era spessa la lastra di ghiaccio che ricopriva il lago» - scrive il 27 aprile 2018, su «Il fatto quotidiano», lo storico Miguel Gotor, autore di due testi fondamentali nella bibliografia del «caso Moro» come l’edizione critica delle «Lettere dalla prigionia» (Torino, Einaudi 2008) e «Il Memoriale della Repubblica» (Einaudi, Torino 2011) - viene scoperto, in modo rocambolesco (grazie a una perdita d’acqua, probabilmente indotta), il covo romano di via Gradoli n. 96, quello dove vivevano Mario Moretti e Barbara Balzerani. È il secondo fallimento dello Stato nel giro di poche ore e i due eventi accadono in un giorno evocativo per la storia della Dc, il 18 aprile 1978, trentennale della vittoria alle elezioni politiche del 1948 contro il Pci.

Covo di via Gradoli a Roma. Foto di dominio pubblico

La parola «Gradoli» aveva, infatti, già fatto la sua comparsa nelle stanze del potere, tra le pareti della sede della Dc e quelle del Viminale. Era stata pronunciata da Umberto Cavina, addetto stampa del segretario della Dc Benigno Zaccagnini, al quale un giovane Romano Prodi, professore di Economia politica e industriale all’Università di Bologna, destinato a diventare sette mesi dopo ministro dell’Industria, aveva parlato di una seduta spiritica, tenutasi il 2 aprile 1978 in un casolare di Zappolino, una frazione di Valsamoggia a trenta chilometri dal capoluogo emiliano. Stando al racconto - che ha dell’improbabile e del romanzesco, ma che viene preso per vero nel clima di disperazione che sta vivendo il Paese – in una tranquilla domenica uggiosa, un gruppo di amici (tutti professori universitari, economisti dal riconosciuto credito nazionale, come Alberto Clò, Fabio Gobbo e Mario Baldassarri, destinati a ricoprire in futuro importanti incarichi pubblici) decide, per ingannare il tempo e contro ogni precetto cattolico, di evocare gli spiriti di due padri della Democrazia cristiana, Giorgio La Pira e don Luigi Sturzo, con «il gioco del piattino». Dall’Aldilà – secondo quanto sostiene Romano Prodi – rispondono «G-r-a-d-o-l-i-»; muovendosi, il posacenere fornisce anche i nomi delle località geografiche di Bolsena e Viterbo, come riporta una dichiarazione collettiva, datata «Bologna, 3 febbraio 1981» e rilasciata alla Commissione Moro 1 dai dodici partecipanti alla seduta spiritica. La polizia viene informata della pista medianica (definita dal ministro degli Interni Francesco Cossiga «un’ingenua baggianata») e, senza batter ciglio e aprire lo stradario di Roma, parte alla volta di Gradoli, un pacifico paesino del Viterbese, nell’Alto Lazio, abitato da poco più di mille persone. È il 6 aprile 1978; secondo la narrazione dominante - per altro riportata anche nel film «Il caso Moro» di Antonio Ferrara, uscito nelle sale nel 1986 - le forze dell’ordine mettono «a ferro e fuoco» la cittadina con una vera e propria «irruzione militare». In realtà le immagini di uomini in tuta mimetica che entrano con il mitra spianato nelle case coloniche, rievocate in qualche Commissione parlamentare d’inchiesta, sono una finzione cinematografica e i testimoni oculari non ricordano questo blitz, tutto al più due volanti nel centro storico e un elicottero in cielo. Dodici giorni dopo, il 18 aprile 1978, viene scoperto il covo di via Gradoli, al civico 69, dove le forze dell’ordine erano già state un mese prima, il 18 marzo, in seguito alla segnalazione di rumori sospetti in diverse ore del giorno e della notte. La polizia aveva bussato alla porta e, non ricevendo risposta, se ne era andata senza ulteriori approfondimenti. All’interno dell’appartamento si trovano, in bella mostra, divise dell’Alitalia e della polizia di Stato (le stesse usate il 16 marzo 1978), quindici pistole, un mitra, un fucile, munizioni, esplosivi, catene, opuscoli e volantini: un vero arsenale militare. 

Falso comunicato n. 7 

Aldo Moro viene informato di quanto sta avvenendo all’esterno, delle ricerche al lago della Duchessa e della scoperta della base brigatista, ma non della seduta spiritica che diventa di dominio pubblico solo grazie a un articolo de «Il Corriere della Sera», datato 17 ottobre 1978. Con toni sarcastici, in una pagina del suo Memoriale, il politico democristiano definisce questi accadimenti «la macabra grande edizione della mia esecuzione [che] può rientrare in una logica, della quale non è necessario dare ulteriori indicazioni».

Ricerche del corpo di Aldo Moro nel lago della Duchessa. Foto di domino pubblico

Due settimane dopo, il 9 maggio 1978, Aldo Moro viene assassinato; a nulla servono i tentativi di Amnesty International, della Caritas e di papa Paolo VI per salvare un «uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico» di fronte alla prova di forza delle Brigate rosse e all’irremovibilità del cosiddetto «partito della fermezza» e della non trattativa, trasversale nel Parlamento italiano (fatta eccezione per il Psi di Bettino Craxi e qualche voce isolata).

Cover del quotidiano La Repubblica del 20 aprile 1978

L’orologio segna le 12:13 quando Valerio Morucci telefona a casa del professor Franco Tritto, giovane avvocato e assistente alla Sapienza di Roma, per annunciargli la morte del suo maestro: «Brigate Rosse. Ha capito? Non posso stare molto al telefono. Adempiamo alle ultime volontà del presidente, comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro. Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene? Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N5».

Intorno alle 13:30, in una via Caetani irrealmente silenziosa e colma di forze dell’ordine e politici, viene aperto il bagagliaio della Renault 4 e viene ritrovato il corpo senza vita dello statista pugliese, l’uomo che, nel 1975, Pier Paolo Pasolini aveva definito, su «Il Corriere della Sera», il «meno implicato di tutti nelle cose orribili», che, da piazza Fontana a piazza della Loggia, hanno segnato i primi anni Settanta, il «più responsabile di tutti» perché ha conservato il potere.

La conferma della notizia è di un’ora dopo; alle 14:13 l’Ansa, la più grande agenzia di stampa italiana, trasmette: «è confermato che Aldo Moro è stato trovato morto in una Renault rossa in via Caetani».

Ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma. Foto:Mario Giansanti

Rolando Fava, uno dei fotografi storici dell’Ansa, e il giovane fotoreporter Mario Giansanti sono in via Caetani. Si nascondono all’interno di un palazzo, in un appartamento del primo piano con due grandi finestre che si affacciano proprio sulla Renault rossa, e documentano quello che accade sotto i loro occhi. Quegli scatti – in bianco e nero per Rolando Fava, a colori per Mario Giansanti – raccontano così al mondo intero il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro. Il politico democristiano è avvolto in una coperta color cammello, con il bordo di raso; indossa lo stesso abito blu che aveva il giorno del sequestro, con la camicia bianca a righe e la cravatta ben annodata. La barba è incolta e disordinata, il volto reclinato appare abbandonato sulla spalla sinistra. L’incarnato è terreo, la mano destra sembra di cera.

Francesca Garolla, nel suo recente spettacolo teatrale «Se ci fosse luce» (Bologna, dal 28 marzo al 2 aprile 2023; Lugano, 22 e 23 aprile 2023), una riflessione su quanto le ferite del passato lascino traccia nel nostro presente, ha paragonato questo scatto con «La crocifissione di San Pietro» di Michelangelo (Città del Vaticano),  una scena affollata, ma silenziosa, di grande impatto emotivo, nella quale il primo papa della storia, capovolto sulla croce, come egli stesso chiese di essere messo per sottolineare la sua inferiorità nei confronti di Cristo, solleva la testa per testimoniare fino alla fine la sua fede in Dio e offrirsi consapevolmente al martirio.  

Questa sorta di «deposizione laica», «che dovrebbe essere un’immagine privata per eccellenza», una visione accessibile solo ai familiari, «ha una diffusione amplissima, diventa pubblica al massimo grado e assume su di sé la funzione di unire nella pietà», sottolinea con precisione Ilaria Maria Priscilla Barzaghi.

Funerali privati di Aldo Moro. Foto: Umberto Pizzi

Da qui in poi, la famiglia Moro si riappropria del proprio congiunto, che, dal sequestro di via Fani all’epilogo di via Caetani, era diventato – scrive Marco Baliani - un «corpo di Stato». La moglie Eleonora Chiavarelli rifiuta i funerali pubblici e i discorsi di saluto. In uno stringato comunicato, rilasciato alle 17:30 del 9 maggio 1978, scrive: «La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia».

Con i suoi quattro figli, la donna porta il corpo del marito a Torrita Tiberina, un borgo alle porte di Roma, dove viene celebrata nella chiesa di San Tommaso, in gran segreto, una funzione privata, con la bara portata a spalla al cimitero dai familiari sotto la pioggia battente.



I funerali di Stato ci saranno ugualmente, senza le spoglie del politico democristiano e senza la sua famiglia. Verranno celebrati il 13 maggio 1978 in San Giovanni in Laterano dal cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, alla presenza di papa Paolo VI, dei principali rappresentanti della classe politica e delle massime cariche dello Stato. Aldo Moro non avrebbe voluto quella pomposa commemorazione funebre; «per una evidente incompatibilità, - aveva, infatti, scritto in una lettera del 24 aprile 1978 indirizzata al segretario della Dc Benigno Zaccagnini - chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore».

In molti hanno visto in quella commemorazione paludata – scrive Miguel Gotor sulla Treccani -, con i politici «come tanti manichini insaccati nei loro vestiti neri», in piedi dietro ai banchi della chiesa, la celebrazione del funerale della prima Repubblica. Quegli uomini si erano trovati davanti al sofocleo «dilemma di Antigone»: polis o pietas? E avevano deciso di difendere a ogni costo le ragioni dello Stato (e della diplomazia) al posto di salvare la vita di un uomo. Un uomo che non li riteneva nemmeno degni di stare intorno al suo feretro.

Funerali pubblici d Aldo Moro. Archivio Ansa. Foto di dominio pubblico

Guardando le immagini di quella funzione scattate da Rodrigo Pais, il cui archivio è oggi conservato dalla Biblioteca universitaria di Bologna, sembra di trovarsi davanti a una pièce teatrale, con i politici che si inchinano davanti al vuoto e che celebrano la fine di un’epoca. La fine di un modo di intendere la «Cosa pubblica».

Non a caso il critico Cesare Garboli, sul quotidiano «l’Unità» del 7 giugno 1980, parlò di «uno spettacolo che aveva qualcosa di medievale, come se si potesse assistere in Tv allo schiaffo di Anagni o alle umiliazioni di Clemente VII», con «un papa vinto, un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse battute della propria sconfitta».

Ma il sipario sul «caso Moro» non si chiude con il funerale di Stato. Quarantacinque anni dopo la morte dello statista pugliese, sulla narrazione dei fatti intercorsi nei cinquantacinque tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 rimangono ancora alcuni interrogativi senza risposta, anche se la verità è ormai relativamente disegnata e i coni d’ombra lasciati dai tanti processi e dalle molte commissioni parlamentari d’inchiesta, in difficoltà nel dipanare una matassa resa ingarbugliata da deposizioni contraddittorie e da testimoni reticenti, sono destinati, con ogni probabilità, a non essere mai illuminati. La vicenda di Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse è, dunque, - parafrasando Fabrizio Gifuni nel libretto «Con il vostro irridente silenzio» - «una storia passata mai completamente passata». Una storia che, al di là di illazioni e di teorie complottistiche tirate per i capelli, continua a interrogare le nostre coscienze: quanto vale una vita umana di fronte alla ragione di Stato?


Vedi anche
-Il caso Moro e la letteratura

Bibliografia e sitografia essenziale
Corrado Guerzoni, «Aldo Moro», Sellerio, Palermo 2008
Miguel Gotor, «Lettere dalla prigionia», Einaudi, Torino 2008 
Miguel Gotor, «Memoriale della Repubblica», Einaudi, Torino 2011 
Marco Belpoliti, «Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate rosse, Guanda, Parma 2012 
Marco Belpoliti, «La foto di Moro», Nottetempo, Roma 2008 
Sergio Bianchi e Raffaella Perna (a cura di), «Le polaroid di Moro», Derive/approdi, Roma 2012
Ivo Mej, «Moro rapito! Personaggi, testimonianze, fatti», Barbera, Siena 2008 
Ivo Mej, «Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione», Historica Edizioni, Cesena 2023
Ilenia Imperi, «Il caso Moro: cronaca di un evento mediale», Franco Angeli, Milano 2022
Ilaria Maria Priscilla Barzaghi, «Un lungo viaggio fino alla 'sconcia stiva'. Iconografia di Aldo Moro tra comunicazione politica e pietas» in Renato Moro e Daniele Mezzana (a cura di), «Una vita, un Paese», Rubbettino editore, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2014 (anche su https://www.academia.edu/36179431/Un_lungo_viaggio_fino_alla_sconcia_stiva_Iconografia_di_Aldo_Moro_tra_comunicazione_politica_e_pietas)
Michele Smargiassi, La sindone di Moro, simulacro di una sconfitta in Repubblica.it, 3 dicembre 2012, https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2012/12/03/la-sindone-di-moro-simulacro-di-una-sconfitta/
«45 anni dal rapimento di Aldo Moro. Le foto di Pizzi da via Fani», Formiche.it, Roma 16 marzo 2023, https://formiche.net/gallerie/aldo-moro-rapimento-foto-pizzi/
Andrea Pomella, «Aldo Moro e il corpo del reato» in «Doppio Zero», 30 novembre 2022, https://www.doppiozero.com/aldo-moro-il-corpo-del-reato
Francesco Landolfi, «Un oscuro protagonista dell’affaire Moro: Antonio Chichiarelli e il falso comunicato n. 7» in «Diacronie. Studi di storia contemporanea», n. 29, 1/2017, on line il 29 marzo 2017, http://www.studistorici.com/2017/03/29/landolfi_numero_29/  
Nicola Biondo, Massimo Veneziani, «Il falsario di stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo», prefazione di Giancarlo De Cataldo, Cooper, Roma 2008
Miguel Gotor,  «Lago della Duchessa: un falso di Stato per trattare sul serio» in  «Il Fatto quotidiano», 27 aprile 2018, pp. 16-17 (anche su https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/04/27/lago-della-duchessa-un-falso-di-stato-per-trattare-sul-serio/4319361/)
Miguel Gotor, «Il giallo dei due “Gradoli” e la seduta spiritica per salvare la talpa br» in «Il Fatto quotidiano», 6 aprile 2018, pp. 14-15 (anche su https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/04/06/il-giallo-dei-due-gradoli-e-la-seduta-spiritica-per-salvare-la-talpa-br/4274718/)
Miguel Gotor, 9 maggio 1978: lo schiaffo a Paolo VI. Storia e fallimento della mediazione vaticana per la liberazione di Aldo Moro in Treccani.it, 2011, https://www.treccani.it/enciclopedia/9-maggio-1978-lo-schiaffo-a-paolo-vi-storia-e-fallimento-della-mediazione-vaticana-per-la-liberazione-di-aldo-moro_%28Cristiani-d%27Italia%29/
Cesare Garboli, «Un racconto fantastico che incomincia in via Fani» in «L'Unità», 7 agosto 1980, p. 3 (anche su https://archivio.unita.news/assets/main/1980/06/07/page_003.pdf
Leonardo Sciascia, «L’affaire Moro», Sellerio, Palermo 1978
Andrea Pomella, «Il dio disarmato», Einaudi, Torino 2022 
Antonio Iovane, «La seduta spiritica», minimum fax, Roma 2021
Fabrizio Gifuni, «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro», Milano, Feltrinelli, Milano 2022
Marco Baliani, «Corpo di stato. Il delitto Moro», Rizzoli, Milano 2003

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