lunedì 18 novembre 2024

La storia del vetro di Murano alle Biennali di Venezia

È il 1930 quando la Fratelli Barovier di Murano porta alla XVII Biennale internazionale d’arte di Venezia una serie di vetri eseguiti in uno strano materiale lattiginoso, dalla trama simile al craquelé della ceramica, caratterizzato da una irripetibile superficie translucida ricoperta da una ragnatela di screpolature e linee. Tra di essi spicca una figura di piccione, curiosa nell’elegante postura e nelle dimensioni dei dettagli, con le zampe, gli occhi e il becco in pasta nera. Quella creazione, nata dalla fervida mente di Ercole Barovier (1889-1974), viene riprodotta sulle principali riviste d’arte e diventa così famosa al punto che il suo nome, «Primavera», finisce per diventare anche quello della strana qualità di vetro con cui era stata realizzata l’intera serie portata alla Biennale d’arte di Venezia, per essere esposta nella Galleria del bianco e nero e nella sala delle Arti decorative.

Riprodotta in pochissimi esemplari e quindi ancora più iconica, quella collezione composta da vasi, coppe, candelieri e animali, vezzosamente decorati da finiture d’ispirazione Déco, era frutto di un «errore» di laboratorio, che non si riuscì più a replicare, come spesso avviene quando si ha a che fare con un procedimento dal sapore alchemico come quello che si vive all’interno di una fornace muranese, dove, nel passaggio di dissoluzione e ricomposizione di un pugno di sabbia e silicio, arso dal fuoco e «coreografato» dal soffio e dalla sapienza manuale dell’uomo, si generano forme trasparenti e opache, fragili e resistenti, colorate o bianche.

Quell’uccello immaginario, dalla grazia impettita e dall’eleganza senza tempo, che fu esposto anche alla IV Triennale di Monza, sempre nel 1930, era, dunque, la perfetta metafora della bellezza fragile e imprevista di un materiale straordinario, che trasforma la sapienza dell’artigianato in arte con la a maiuscola. E, giustamente, è stato scelto come immagine guida della mostra «1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia», curata da Marino Barovier, per «Le stanze del vetro», spazio espositivo nato dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung, nello scenografico contesto dell’Isola di San Giorgio Maggiore, un’oasi di mare, natura e silenzio che si affaccia sul bacino di San Marco.

Centotrentacinque opere
provenienti da importanti istituzioni museali e da collezioni private, molte delle quali di grande rarità, ripercorrono una storia che porta i visitatori agli inizi del Novecento, in quella temperie culturale caratterizzata dall’incredibile fede nel progresso e dall’angoscia per un mondo sempre più violento, che vede l’affermarsi del Futurismo, lo scoppio della Grande Guerra, la dittatura fascista e il brusco progetto di modernizzazione del Paese, caratterizzato fin da subito da evidenti squilibri tra il nord e il sud, tra la città e la campagna.

In quel periodo il vetro muranese trova progressivamente spazio all’interno della Biennale d'arte di Venezia, prima attraverso gli artisti che hanno scelto di impiegare questo materiale per le proprie opere, poi grazie all’apertura di una sezione dedicata alle arti decorative, che fino al 1930 avrà sede all’interno del Palazzo dell’Esposizione accanto a pittura e scultura, per poi trovare, dal 1932 al 1972, la propria dimora esclusiva in uno specifico Padiglione ai Giardini.

Dopo un’introduzione storica, frutto di un’accurata ricerca bibliografica e di una approfondita indagine documentaria nell’Archivio storico delle arti contemporanee della Biennale, con sei schermi a creare la Galleria della memoria, uno spazio buio illuminato da immagini del tempo, dove il charleston delle scatenate serate mondane di inizio secolo dialoga con una moda femminile sontuosa e civettuola che sembra uscita da un quadro di Giovanni Boldini, ma non solo, si entra nel vivo del percorso espositivo con le creazioni degli anni Dieci.

Si inizia con i vetri di Hans Stoltenberg Lerche, scultore e ceramista tedesco di origini norvegesi, tra gli esponenti dell’Art Nouveau, protagonista di tre Biennali veneziane, che, tra il 1911 e il 1920, disegna alcuni pezzi innovativi per la Fratelli Toso, nei quali ricorre ripetutamente all’applicazione a caldo di filamenti vitrei o di graniglie policrome, oltre che all’inclusione di macchie o fasce di colore, per ottenere manufatti di grande plasticità e dalle cromie inedite, alcuni dei quali attingono i propri motivi decorativi dal mondo marino, mentre altri si ispirano all’arte orientale.

Alla Biennali d’arte del 1912 e del 1914 prende parte anche il decoratore muranese Vittorio Toso Borella, figlio del celebre Francesco, conosciuto per il suo «Calice del campanile», manufatto eseguito per commemorare la ricostruzione del campanile di San Marco, inaugurato il 25 aprile 1912, i cui elementi decorativi si ispirano al vasto repertorio figurativo tardogotico e rinascimentale. Del maestro muranese vengono presentati in mostra anche i suoi eleganti smalti policromi, alcuni dei quali di chiara impronta secessionista, impreziositi dall’inserimento dell’oro.

È, poi, la volta dei pittori Vittorio Zecchin e Teodoro Wolf Ferrari che, nel 1914, espongono alla Biennale di Venezia i loro lavori a murrine policrome, realizzate nella vetreria «Artisti Barovier», tra cui «Fiori» e «Baute». Nell’allestimento una delle lastrine, quella denominata «del Barbaro», giocata su un elegante contrasto tra blu e gialli brillanti, è messa in dialogo, per marcare la continuità stilistica, con una tela del famoso ciclo «Le mille e una notte» per l’hotel Terminus di Venezia, appartenente alla collezione della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro, nel quale Vittorio Zecchin lega suggestioni persiane a influenze klimtiane, come dimostra la figura maschile, al centro del dipinto, contraddistinta da un copricapo rosso, un mantello blu a elementi circolari, barba e capelli lunghi.

Passando per le creazioni in stile Liberty di Umberto Bellotto, con i suoi interessanti connubi tra ferro e vetro, spesso arricchiti da inserti a murrine, si arriva agli anni Venti. Dopo la pausa imposta dalla Grande Guerra, alla Biennale d’arte di Venezia iniziano a figurare anche vetrerie con la loro produzione, realizzata autonomamente o con la collaborazione di progettisti esterni.

Tra queste si distingue la fornace di Giacomo Cappellin e Paolo Venini, la V.S.M. Cappellin Venini e C, che, nel 1922, realizza soffiati monocromi di elegante modernità ispirati a modelli rinascimentali, tra cui si segnalano i vasi «Veronese» e «Libellula». Questi manufatti sono frutto della collaborazione con quello che Francesco Sapori definisce, sulle pagine di «Emporium» del giugno 1922, l’«apostolo del vetro», un artista già incontrato lungo il percorso espositivo, ovvero il pittore Vittorio Zecchin, che alla Biennale del 1922 presenta, nella sua stanza personale, anche dei manufatti vitrei decorati con smalti e oro; mentre nel 1924 mette in mostra una selezione di piatti.

Il vetro soffiato monocromo caratterizza anche la produzione di ispirazione classicheggiante dell'incisore Guido Balsamo Stella, che partecipa alla manifestazione veneziana dal 1924 al 1930 con i suoi vasi incisi con scene mitologiche o episodi tratti dalla quotidianità.

Si arriva così alla produzione della V.S.M. Venini e C. su disegno dello scultore Napoleone Martinuzzi, al quale si deve, tra l’altro, l’ideazione del vetro «pulegoso», presentato alla Biennale del 1928 e riproposto due anni dopo: una originale materia semi-opaca dall’aspetto spugnoso, caratterizzata dall’inclusione di innumerevoli bollicine («puleghe») che si formano in seguito all’aggiunta di bicarbonato di sodio o di petrolio nella massa vetrosa incandescente.

Prima di arrivare alla fine del percorso espositivo, di cui rimarrà documentazione in un prezioso catalogo pubblicato da Skira, ci sono i già citati «vetri primavera» di Ercole Barovier. Poi c’è un tripudio, gioioso e giocoso, di piante grasse e animaletti in vetro policromo o trasparente, soffiato o modellato a caldo, lucido od opaco, in cristallo o in filigrana. Un modo, questo, per raccontare non solo le Biennali del 1928 e del 1930, ma anche tutte le possibili declinazioni di un materiale che è riuscito a entrare nel pantheon delle grandi arti, affascinando molti autori del Novecento con la sua tradizione millenaria e con il suo processo creativo dal gusto magico, che fa proprio il motto alchemico «solve et coagula», «sciogli e condensa».

Didascalie delle immagini
1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia, installation view, ph. Enrico Fiorese

Informazioni utili 
1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia. Le stanze del vetro - Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Orari: 10-19, chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Catalogo: Skira. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Web: https://www.lestanzedelvetro.org, https://www.cini.it. Fino al 24 novembre 2024

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