venerdì 15 novembre 2024

«L’Affare Morandi», Vittoria Chierici racconta il modus operandi del pittore bolognese

Si definiva incline per «ragioni d’arte e temperamento alla solitudine» e in una condizione di confine autoimposto tra pigmenti, pennelli, libri e oggetti d’uso quotidiano usati come modelli, nel silenzio del suo rifugio-atelier bolognese di via Fondazza 36 o tra le colline del placido borgo di Grizzana, dove c’era la casa di famiglia, non si fece mai tentare dalle sirene del successo e della mondanità.
Riservato e di poche parole, Giorgio Morandi (1890-1964) cercò anche di non esporre alla Biennale. Nei primi anni del Secondo dopoguerra, implorò quasi il critico d’arte Cesare Brandi di evitargli l’impiccio: «A Venezia – scrisse in una lettera del 7 agosto 1947 - la prego vivamente di aiutarmi a non esporre. In questo momento sento vivo il bisogno di un poco di tranquillità per potere pensare alle cose mie. Di mostre di miei quadri in questi anni dopo la Liberazione ce ne sono state un poco ovunque. E io desidero solo un poco di raccoglimento indispensabile al mio lavoro ed ai miei nervi. Quindi sono deciso a non accettare nessuna offerta».

Le cose, come sappiamo, andarono diversamente: l’anno dopo, nel 1948, Giorgio Morandi espose alla Biennale di Venezia, accanto a Carlo Carrà e Giorgio De Chirico, e con le sue undici tele si portò a casa il primo Premio per la pittura e la notorietà anche a livello internazionale. Ma la sua vita non cambiò nemmeno in quell’occasione: l’artista emiliano continuò a recarsi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove insegnava Tecniche dell’incisione, e a dipingere, spostandosi da casa solo per rare trasferte a Firenze, Roma e Venezia.
«Si può viaggiare per il mondo e non vedere nulla. Per raggiungere la comprensione è necessario non vedere molte cose, ma guardare attentamente ciò che vedi», amava dire. E in queste parole è racchiuso il segreto della sua pittura. Per tutta la vita Giorgio Morandi indagò, infatti, con attenzione quasi maniacale il reale e proprio dalla visione minuziosa di ciò che lo circondava - la natura dell’Appennino bolognese, ma soprattutto vasi, brocche, bottiglie, fiori di seta o essiccati, scatole e qualche conchiglia – nacquero paesaggi e nature morte dal «tempo sospeso», per usare un’espressione presente nel titolo di una mostra attualmente in corso a New York, nell’Upper East Side di Manhattan, per iniziativa della Galleria Mattia De Luca, in occasione dei sessant’anni dalla morte dell’artista.

Le tele silenziose, poetiche e pacate di quello che viene spesso, un po’ sbrigativamente, soprannominato «il pittore delle bottiglie», da sempre presente in preziose collezioni pubbliche, ma anche private come quelle del pittore statunitense Robert Rauschenberg o del celebre regista Vittorio De Sica, hanno colpito l’immaginario creativo di molti autori, da Tacita Dean a Herbert List, da Ugo Mulas e Jean-Michel Folon, ma non solo.
Non è un caso che, periodicamente, i Musei civici di Bologna aprano le porte ad artisti che si sono voluti confrontare con il linguaggio morandiano. L’ultima, in ordine di tempo, è Vittoria Chierici, classe 1955, che si è già accostata all’arte di grandi maestri del passato (da Leonardo da Vinci a Raffaello Sanzio, da Paolo Uccello a Umberto Boccioni, da Pablo Picasso a Andy Warhol) e che, in questi giorni, espone a Casa Morandi diciannove opere di piccolo formato ad acrilico, olio e gessetti su tavola realizzate nel suo studio a Eastport, nel Maine, e a New York.

Questi lavori, riuniti sotto il titolo «L’Affare Morandi», sono nati nell’ambito di un percorso alla scoperta del metodo di lavoro adoperato dal pittore bolognese, che si è articolato in una visita ai suoi due nidi creativi, l’atelier di via Fondazza e la residenza estiva di Grizzana, e in un laboratorio con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, che si è tenuto lo scorso giugno al Dipartimento educativo del Mambo, sotto la curatela della professoressa di Storia e metodologia della critica d’arte Maura Pozzati.

Vittoria Chierici non ha proposto ai giovani una riflessione sulle nature morte di Giorgio Morandi dal punto di vista formale, ma ha provato a raccontare loro la maniera di dipingere del pittore, compito non facile, e anche pieno di insidie, visto che lo stesso autore emiliano diceva: «non si conosce la strada per arrivare alla poesia. Si cammina senza sapere dove si va».

Per seguire questo approccio tecnico e concettuale, e raccontare così «l’officina del pittore», l’artista, che ha alle spalle studi al Dams di Bologna e che nel 2021 ha firmato il progetto «The Philosophers’ Clothes» alla galleria Rossi&Rossi di Hong Kong, ha scandagliato con attenzione i due studi morandiani, ha fotografato gli oggetti del pittore, ha parlato con chi l’ha conosciuto, ha chiesto suggerimenti a chi da tempo ne studia il lavoro.

«Ne ha dedotto che ogni oggetto che circondava Giorgio Morandi era lo specchio di una sua ben precisa idea; il cannocchiale ritrovato nello studio di Grizzana è riconducibile, per esempio, al principio di copia dal vero e al rapporto della pittura con la realtà. Anche le consuetudini della sua pratica, come quella di colorare sia l’interno che l’esterno dei vasi, delle bottiglie e dei piccoli oggetti che avrebbe poi dipinto o quella di porre un velario sulla finestra per arginare lo sfolgorio della luce, rivelano per Vittoria Chierici – si legge nella nota stampa - il rapporto dell’artista con lo spazio circostante». 
Da questo studio è nata un’opera corale, realizzata con gli studenti dell’Accademia di Belle arti di Bologna: il dittico di grandi dimensioni l'«Esperienza sensibile #1», composto da una tela dipinta dall’artista con la tecnica dello stencil e da una lavagna contenente pensieri e schizzi, realizzati con gessetti colorati, sul modus operandi morandiano. L’esperienza laboratoriale con i giovani viene raccontata in mostra anche da un filmato di 12 minuti, realizzato dalla film-maker Livia Campanini.

Lo stesso stile compositivo si ritrova nelle diciannove opere realizzate per l’occasione dall’artista. Alla parte pittorica è, infatti, spesso associata un’area occupata da alcuni aforismi morandiani e di altri autori, menzionati nel retro delle tele, che spiegano dei concetti visivi che sono alla base della nostra conoscenza sul grande artista bolognese.
Vittoria Chierici così racconta il suo lavoro: «Ho iniziato nel dividere su alcuni pannelli di masonite e su carta pressata a freddo due aree dove una è fissa perché lavorata con colori vinilici e olio e l’altra è mutevole perché lavorata a lavagna. I miei studi sono dunque dei dittici e contemplano la possibilità di cambiare, cancellando il testo o il disegno fatto alla lavagna. Mentre è immutabile la pittura. La lavagna vuole essere anche una citazione dell’artista tedesco Joseph Beuys, mentre il modello operativo morandiano, la ripetizione dello stesso oggetto, la composizione compatta detta a fascia - ossia cogliere attraverso l’esperienza l’essenza - è un concetto che proviene dalla filosofia di Edmund Husserl. C’è poi un passaggio dei “Dialoghi” con Leucò di Cesare Pavese che ho trovato molto appropriato: “Sappiamo che il più sicuro - e il più rapido - modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto”».

Gli aforismi morandiani - ricorda Maura Pozzati nel testo critico per l’opuscolo informativo della mostra - sono in molti casi tratti da una delle rare interviste rilasciate dal pittore bolognese, quella a Leonida Répaci, che uscì il 20 maggio del 1958 sul quotidiano «Il Tempo». In questo articolo l’artista raccontò la sua poetica «a mo’ di manifesto» con frasi come «Ognuno deve fare quel che può e sa di poter fare. Lasciateci lavorare in pace. L’importante è entrare nella casa della pittura, non restare alla porta di essa» e la bellissima e significativa «L’arte è causa ed effetto di contemplazione. Dio può essere chiuso in un tubetto di colore». Per Giorgio Morandi lo strumento della pittura, il pigmento, è, dunque, ciò che dà voce al mistero dell’essere ed esprime l’anelito dell’uomo all’infinito. La solitudine, il silenzio, la ricerca spasmodica dell’«essenza delle cose» erano tutte facce di una stessa medaglia: la necessità di un uomo di prendere confidenza con l’assoluto.

Didascalie delle immagini
[fig. 1]Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Dio può essere chiuso in un tubetto di colore, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 25 x 19. Bologna – Eastport, Maine; [fig. 2] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi. Lasciateci lavorare in pace, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 20 x 30. Bologna – Eastport, Maine; [fig. 3] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Il Segreto dell’Arte, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola intelata, cm 30 x 40, Bologna – Eastport, Maine; [fig. 4] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Colori di Posizione, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 25 x 25. Bologna – Eastport, Maine; [fig. 5] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Prospettiva a fascia, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 20 x 26. Bologna – Eastport, Maine; [figg. 6 e 7] Allestimento della mostra L’Affare Morandi di Vittoria Chierici 

Informazioni utili
L’Affare Morandi di Vittoria Chierici. A cura di Maura Pozzati. Casa Morandi, via Fondazza, 36 - Bologna. Orari di apertura: fino al 27 ottobre 2024, sabato e domenica ore 15.00 – 19.00, dal 2 novembre 2024 sabato ore 14.00 – 17.00, domenica ore 10.00 – 13.00 e 14.00 – 17.00, dal lunedì al venerdì chiuso. Ingresso gratuito. Informazioni utili: tel. +39.051.6496611 (centralino MAMbo) o www.museibologna.it/morandi. Fino al 6 gennaio 2025

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