martedì 9 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo: il «caso Moro», la letteratura e «Il dio disarmato» di Pomella

Sul sequestro e sull’assassinio di Aldo Moro (Maglie - Lecce, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), uomo politico tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, è stato scritto un numero consistente di libri, a partire dalle preziose edizioni critiche delle lettere e del Memoriale che lo statista pugliese, fautore del «compromesso storico» con il Pci di Enrico Berlinguer, redasse nei cinquantacinque giorni della sua prigionia (gli ultimi volumi sono stati pubblicati rispettivamente nel 2008 da Einaudi, per la curatela di Miguel Gotor, e nel 2019 da De Luca editore, con il coordinamento di Michele De Sivo).
 
Consultando l’elenco degli oltre duemila libri e saggi dedicati alla figura del presidente della Dc che lo storico Francesco M. Biscione ha recentemente aggiornato per l’Archivio Flamigni, si nota come siano principalmente due i filoni di trattazione dell’«affaire Moro». Da una parte ci sono i testi che accreditano la versione - mai totalmente accertata - dei brigatisti, usando come fonti informative le circa trecento pagine del corposo Memoriale di Valerio Morucci, consegnato nel marzo 1990 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga da suor Teresilla Barillà, e il libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), pubblicato da Anna Laura Braghetti, con la giornalista Paola Tavella, e liberamente ripreso anche da Marco Bellocchio nel film «Buongiorno, notte» (2003). Dall’altro c’è la cosiddetta «saggistica del complotto», che focalizza la propria attenzione su ciò che ancora oggi, dopo cinque processi e varie Commissioni parlamentari d’inchiesta, non torna nelle ricostruzioni ufficiali, a partire dagli errori nelle indagini durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Scolpite nella memoria collettiva sono, per esempio, la farsa del Lago della Duchessa e il giallo di «Gradoli», con la misteriosa seduta spiritica di Romano Prodi. Ma molti sono anche i coni d’ombra dell’inchiesta giudiziaria, in gran parte nutriti dai colpevoli silenzi e dalle falsità dei testimoni diretti o indiretti. Tuttora, per esempio, non si sa chi fossero i due uomini sulla moto Honda presente in via Fani durante l’agguato e chi, il 18 aprile 1978, diffuse il falso comunicato n. 7 sull’avvenuta esecuzione del presidente della Dc.
 
In questa «montagna di carta ingiallita», per usare una suggestiva espressione di Ivan Carozzi sulla rivista «Esquire», ciò che resta dal punto di vista letterario, o meglio ciò che è stato scritto da narratori di professione, è ben poca cosa.
 
Nel settembre 1978, appena quattro mesi dopo il 9 maggio, il giorno del ritrovamento del corpo senza vita dello statista pugliese all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma (quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista), Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) dava alle stampe, per l’editore palermitano Sellerio, «L’affaire Moro», «una – scrisse Marco Belpoliti, nel 2002 - delle più belle pagine della letteratura italiana degli ultimi trent’anni».
 
Il testo, che nelle ultime edizioni è corredato dalla relazione di minoranza che lo scrittore siciliano firmò, da deputato radicale, al termine della prima Commissione parlamentare di inchiesta, è di difficile catalogazione. In bilico tra il pamphlet di invettiva pubblica e lo studio dei documenti allora a disposizione (il Memoriale dello statista democristiano fu ritrovato solo nel 1990 durante dei lavori di ristrutturazione nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano), «L’affaire Moro» offre uno sguardo profondo e deciso sull’Italia degli anni Settanta e sul lato oscuro della politica nostrana. Ma, soprattutto, racconta - attraverso continui rimandi letterari a Pier Paolo Pasolini, Luigi Pirandello e Jorge Louis Borges, ma non solo - la dimensione più antropica che politica di un prigioniero inerme, privato di ogni forma di autorità, tradito dalla classe politica del tempo, considerato «pazzo» dai suoi stessi «amici» e, secondo un copione che sembrava già scritto nelle ore successive al rapimento, condannato a morte.

La letteratura ha incontrato i cinquantacinque giorni che cambiarono la nostra storia - «la più grande frattura emotiva, politica e sociale» dell’Italia repubblicana - anche in romanzi quali «Il tempo materiale» (minimum fax, Roma 2008) di Giorgio Vasta (Palermo, 1970), «Come imparare a essere niente. Moro, Pasolini, Lady D» (Guanda, Parma 2010) di Alessandro Banda (Bolzano, 1963), l’autobiografico «L’estate del ‘78» (Sellerio, Palermo 2018) di Roberto Alajmo (Palermo, 1959), «La seduta spiritica» (minimum fax, Roma 2021) di Antonio Iovane (Roma, 1974) e il fantascientifico «Ufo 78» (Einaudi, Torino 2022) del collettivo bolognese Wu Ming. La storia di ciò che avvenne in Italia tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 viene ripercorsa anche nel libro «55 giorni» (Il Mulino, Bologna 2018) dello scrittore e drammaturgo Stefano Massini (Firenze, 1975), nel quale si ricostruisce il ritratto di un Paese che, mentre sui giornali abbondano editoriali e articoli sulla follia sanguinaria dei brigatisti, guarda «Portobello» in televisione, va al cinema per «Ecce bombo» di Nanni Moretti, canta con Raffaella Carrà «come è bello far l’amore da Trieste in giù». Vive, seppur con sgomento, i suoi riti quotidiani.
 
Ci sono, poi, in questo elenco anche testi tratti da spettacoli teatrali come «Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa» (Rizzoli, Milano 2003) di Marco Baliani (Verbania, 1950), che rilegge la storia degli anni Settanta attraverso gli occhi di un ragazzo del tempo, e il recente «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro» (Feltrinelli, Milano 2022) di Fabrizio Gifuni (Roma, 1966).

In questo filone letterario si innesta «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022) di Andrea Pomella (Roma, 1973), uno dei tentativi più riusciti dal punto di vista narrativo. Lo scrittore romano focalizza la propria attenzione sui tre minuti che trasformano una tranquilla via del quartiere Trionfale di Roma nel palcoscenico di una storia che ancora oggi interroga la nostra coscienza, quelli tra le 9:02 e le 9:05 del 16 marzo 1978. 

Seguendo la lezione di Javier Cercas in «Anatomia di un istante» (Guanda, Parma 2009), Andrea Pomella riavvolge più volte il nastro, dilata il tempo e racconta il sequestro di Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti - da più punti di vista. «Il metodo – si legge nella quarta di copertina – «è quello del realismo traumatico, lo stesso che usava Andy Warhol nelle sue immagini seriali: mettere in scena e replicare per sfiorare la verità. Non la verità storica, ma quella più sfuggente della percezione individuale e collettiva». Ci sono così i tre minuti dei testimoni oculari, quelli degli uomini della scorta, quelli dei brigatisti, quelli di Aldo Moro e dei suoi familiari, quelli di Andrea Pomella, quelli di noi che leggiamo.
 
Sequestro di Aldo Moro. Via Fani, Roma. 16 marzo 1978.
Autore: AP Foto. Immagine di dominio pubblico
Grazie alle testimonianze dei familiari dello statista pugliese, lo scrittore romano prova anche a immaginare le otto ore di vita dello statista pugliese prima del sequestro, consegnandoci il ritratto intimo e privato di un uomo che, smessi i panni del politico, si occupa dell’amata moglie Noretta, del nipotino Luca e dei figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni. Prega e legge. Pensa e ricorda. Fa colazione e si sbarba. Medita sul destino, suo e degli altri, animato da una sorta di inquietudine che ha del profetico. In quelle otto ore Aldo Moro è «Il dio disarmato», non il politico noto per «l’abilità del tessitore e il talento dell’equilibrista», ma l’uomo privato che «depone i fardelli della forza e del potere per godere pienamente della propria disadorna umanità», perché – scrive ancora Andrea Pomella – per lo statista pugliese «la famiglia è da sempre il luogo in cui può lasciar scorrere le proprie angosce, l’indecisione, le sue piccole manie» (p. 118). Fuori da quelle mura domestiche c’è un nuovo Governo a cui votare la fiducia, il primo monocolore democristiano con l’appoggio esterno del Partito comunista. Fuori da quelle mura, sulla strada verso Montecitorio, Aldo Moro conosce la solitudine del potere e un «vento d’acciaio»: centoottanta secondi di «stridio di gomme sull’asfalto», «proiettili che fendono l’aria», violenza, sangue, paura e, infine, un silenzio irreale. «Siamo appena all’inizio – scrive Andrea Pomella (p. 198) – ed è già la fine». 

Bibliografia essenziale
Giovanni Bianconi, «16 marzo 1978», Economica Laterza, Roma 2021
Filippo Bona, «Gli eroi di Via Fani. I cinque agenti della scorta di Aldo Moro», Longanesi, Milano 2018
Agnese Moro, «Un uomo così. Ricordando mio padre», Rizzoli, Milano 2003
Luca Moro, «Mio nonno Aldo Moro», Ponte Sisto, Roma 2016
Maria Fida Moro, «In viaggio con mio papà»,Rizzoli, Milano 1985
Maria Fida Moro, «La casa dei cento natali», prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1982

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