Sono oltre duecento in tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia, i «paesi dipinti»: borghi, spesso di piccole dimensioni, trasformati in veri e propri musei a cielo aperto dalla vena creativa e dai colori di artisti, famosi e non, che hanno lasciato il loro segno su pareti esterne e porte di case e di edifici pubblici. Questi «muri d’autore», visitabili gratuitamente ogni giorno dell’anno e a ogni ora del giorno, sono stati dipinti con la tecnica «a fresco» o con la pittura acrilica su parete, sia per decorare sia per ricordare, per raccontare cioè una storia legata a tradizioni, avvenimenti e personaggi noti dei paesi che li conservano.
A inaugurare la stagione del muralismo moderno, tradizione che si fa risalire alle prime incisioni rupestri e che vanta anche un manifesto scritto, negli anni Trenta, da Mario Sironi e firmato da Carlo Carrà, Achille Funi e Massimo Campigli, fu, nel 1956, il borgo di Arcumeggia, piccola frazione del comune di Casalzuigno, immersa nel cuore verdeggiante della Valcuvia. In questo lussureggiante angolo del Varesotto, artisti del calibro di Aligi Sassu, Gianfilippo Usellini, Aldo Carpi, Giuseppe Migneco, Achille Funi e molti altri lasciarono la propria impronta pittorica, creando una pinacoteca en plein air che racconta, passo dopo passo, la vita agreste, la storia di emigrazione e le tradizioni, lavorative e religiose, che interessarono gli abitanti del piccolo paese lombardo. L’itinerario artistico porta così il turista a contatto con opere come «Corridori» di Aligi Sassu e «Composizione agreste» di Ernesto Treccani, due degli oltre trenta affreschi che, nei prossimi mesi primaverili ed estivi, saranno al centro di un delicato intervento conservativo predisposto dalla restauratrice Rossella Bernasconi e realizzato dalla Provincia di Varese, grazie al co-finanziamento della Fondazione Cariplo di Milano.
Restando nel Varesotto, il territorio più ricco in Italia per numero di «paesi dipinti», il nostro viaggio tra i «muri d’autore» può fare tappa a Boarezzo, un borgo da favola in Valganna, con case in sasso e viottoli acciottolati tra boschi di faggi, salici e castagni, che vanta una galleria di murales sugli antichi mestieri del luogo, ideata negli anni Settanta dal pittore Mario Alioli e arricchita da opere come «Ul bagatt» (il calzolaio) di Silvio Monti, lo «Scalpellino» di Luigi Bennati, il «Falegname» di Otto Monestier e «La bottega del ceramista» di Albino Reggiori.
Agli ormai dimenticati lavori del passato, come l’ombrellaio e il «cadregat» (l’impagliatore di sedie), sono dedicati anche i pannelli dipinti di Peveranza di Cairate, centro abitato a pochi chilometri dalla roccaforte di Castelseprio. Mentre il paese di Marchirolo, a una manciata di chilometri dalla Svizzera, accoglie una galleria di affreschi con storie di contrabbandieri e di emigrazione, un insieme di opere nato negli anni Ottanta con lo scopo di rendere omaggio all’operosità di molti abitanti del luogo, da sempre esperti nel campo dell’edilizia, che furono costretti ad andare a lavorare in America e persino nella lontana Cina, dove, secondo la tradizione, furono tra i costruttori della ferrovia del Tonchino. Tema libero, invece, per i muri di Runo di Dumenza, luogo natale del pittore Bernardino Luini, allievo di Leonardo da Vinci, ma anche di Vincenzo Peruggia, imbianchino noto per aver trafugato «La Gioconda» dal museo del Louvre. La pinacoteca senza pareti di questo tranquillo borgo, immerso nel verde della Val Dumentina, dà testimonianza della profonda religiosità degli abitanti del luogo, ma anche della cultura locale, attraverso la raffigurazione, per esempio, di abiti popolari del primo Ottocento, come quelli che compaiono nell’opera «La partenza» di Andrea De Bernardi.
Se a queste gallerie en plein air, che danno forma e colore alla cultura e alla storia locale di piccole comunità orgogliose delle proprie radici, si aggiungono quelle di Induno Olona e del rione San Fermo di Varese il numero dei «paesi dipinti» della provincia di Varese sale a sette. Non è, dunque, un caso che proprio in questo territorio sia nata nel 1994, per iniziativa del professor Raffaele Montagna, l’Assipad - Associazione italiana paesi dipinti, che intende riunire, valorizzare e promuovere i tanti luoghi italiani che posseggono un patrimonio pittorico, più o meno recente, sulle pareti esterne delle proprie abitazioni. Quella dei «muri d’autore» è, infatti, una raffinata risorsa turistica, quasi interamente da scoprire. In giro per il nostro Paese, il visitatore curioso, capace di allontanarsi dai grandi itinerari del turismo massificato e di trasformare il viaggio in un’occasione di scoperta, può, infatti, trovare di tutto: scene sacre, paesaggi marini con barche e pescatori, volti di emigranti in procinto di partire per terre lontane, partigiani in lotta per la libertà, contadini che raccolgono i frutti del proprio lavoro, campi bruciati dal sole, donne seminude che si beano della propria bellezza, ma anche gatti, cani e unicorni, animali della realtà e della fantasia.
L’elenco dei soggetti dipinti in questi borghi è, però, ancora lungo. A Legro, piccola e pittoresca frazione di Orta San Giulio (Novara), è il cinema, per esempio, ad essere stato «messo al muro»: in onore ai tanti registi che hanno scelto questo serafico paesino lacustre come ambientazione dei propri film, sono stati realizzati murales che prendono spunto da lungometraggi quali «Riso amaro», «Una spina nel cuore», «La maestrina», «I racconti del maresciallo» e «Voglia di vincere», sceneggiato televisivo con Gianni Morandi e Milly Carlucci.
Al mondo del cinema strizza l’occhio anche la galleria all’aperto di Conselice, nel Ravennate, dove il pittore Gino Pellegrini ha dipinto sui muri della piazza principale i baffoni di Gino Cervi e il sorriso bonario di Fernandel, gli interpreti televisivi delle storie di Peppone e don Camillo, nate dalla penna di Giovanni Guareschi. Sempre in Emilia Romagna, si trova Coriandoline, quartiere fiabesco alle porte di Correggio (Reggio Emilia), interamente disegnato dai bambini per i bambini, che accoglie i visitatori con un’esplosione di colori e soluzioni abitative curiose come scale-scivolo e lampioni-uccello, alle quali ha dato vita la fervida creatività di Lele Luzzati.
Ai più piccoli piacerà anche Vernante, paesino del Cuneese, i cui muri narrano la storia di Pinocchio attraverso centocinquanta murales, dipinti da Bruno Carlet e Meo Cavallera, o Calvi dell’Umbria, in provincia di Terni, dove si celebra il tema della Natività. A Salza di Pinerolo, nel Torinese, si omaggiano, invece, la musica e i cantautori che hanno suonato tra le vie del borgo. Ecco così sulle pareti del paese affreschi dedicati a canzoni come «L’isola che non c’è» di Edoardo Bennato, «Vecchio frac» di Domenico Modugno e «Vita spericolata» di Vasco Rossi.
Impressi nella memoria dei viaggiatori curiosi rimarranno anche Furore, sulla Costiera Amalfitana, Valloria di Prelà, nell’entroterra di Imperia, il cui museo sono gli usci delle vecchie case, o ancora Vetri sul mare, nel Salernitano, dove disegni e colori sono impressi sulla ceramica che riveste gran parte degli edifici, e Lauro, paese rinascimentale della provincia di Avellino, dipinto esclusivamente da pittori naif, artisti accomunati da un atteggiamento esistenziale ingenuo e primitivo.
In Sardegna meritano, infine, una visita Villamar, nella zona collinare del Cagliaritano, dove, a metà degli anni Settanta, alcuni esuli cileni lasciarono la propria testimonianza di profughi attraverso affreschi particolarmente colorati e ricchi di vitalità, e il borgo di Orgosolo, nella Barbagia, dove i primi murales furono eseguiti per commemorare il trentesimo anniversario della liberazione d’Italia e dove, in seguito, vennero realizzati dipinti di protesta sociale, ispirati alla tradizione dei murales latino-americana.
La storia dei «paesi dipinti» racconta, dunque, un’Italia ancora poco conosciuta, in cui l’arte diventa arredo urbano, colorando di nuova vita strade e piazze di piccoli borghi, spesso arroccati e abbandonati. Ci fa venire in contatto con un Paese ricco di musei speciali, che non chiudono mai, visitabili in qualsiasi ora del giorno e della notte, senza code e senza pagare biglietto d'entrata, avendo magari per tetto la volta stellata.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] L'affresco «Corridori» di Aligi Sassu per il borgo di Arcumeggia, Varese; [figg. 2 e 3] Uno spaccato di Coriandoline, quartiere di Correggio (Reggio Emilia); [fig. 4] Affresco dedicato al film «Riso amaro» nel borgo di Legro, frazione di Orta San Giulio (Novara); [fig. 5] Un affresco dedicato alle storie di Pinocchio nel borgo di Vernante (Cuneo); [figg. 6 e 7] Esempi di porte dipinte nel borgo di Valloria di Prelà (Imperia)
Informazioni utili
Associazione nazionale paesi dipinti: www.paesidipinti.it
I paesi dipinti del Varesotto: www.vareselandoftourism.it/uploaded/file_struttura/informazioni/pubblicazioni/paesi_dipinti.pdf
Coriandoline, il quartiere disegnato dai bambini: www.coriandoline.it
giovedì 20 dicembre 2012
mercoledì 19 dicembre 2012
Medardo Rosso negli scatti di Angelo Garoglio
«Ciò che importa per me, nell'arte, - teorizzava Medardo Rosso (Torino, 1858–Milano, 1928) in un testo del 1902 per «La Nouvelle Revue» - è far dimenticare la materia»: il che, per uno scultore, non può che apparire come un paradosso. Eppure è proprio in questo modo, rivoluzionario e singolare, di plasmare bronzo, gesso e cera, di «rendere con la plastica le influenze di un ambiente e i legami atmosferici che lo avvincono», come ebbe a scrivere Umberto Boccioni nel manifesto «La scultura futurista» del 1912, che sta la grandezza dell'artista di «Madame X» (1896?, Venezia, Ca' Pesaro) e il seme più fecondo della sua lezione. Una lezione raccolta, tra gli altri, da Henri Matisse, Pablo Picasso, Alberto Giacometti e Constantin Brancusi, che videro in Medardo Rosso, l'uomo che amava dire «noi non siamo che scherzi di luce», l'antesignano e il capostipite della scultura moderna per quei suoi lavori privati di contorni definiti, plasmati come un abbozzo evanescente e magmatico, tesi a restituire l'emozione visiva dell'attimo attraverso un gioco sapiente di chiaroscuri.
Guardando queste opere «instabili», frutto di vibrazioni spazio-temporali che ne contraddistinguono la potente ma incerta presenza, Ardengo Soffici parlò, per primo, di «Impressionismo». L'etichetta, frettolosamente attribuita e per questo approssimativa, è entrata nei libri di storia dell'arte e ha accompagnato per lungo tempo la fortuna critica dell'artista, torinese di nascita e milanese di formazione, che, pur avendo vissuto a lungo a Parigi e respirato del clima impressionista, mai dimenticò nel plasmare la sua cultura italiana, umanista, impregnata di quegli ideali di socialismo e di attenzione al vero psicologico e caratteriale che innervarono la tarda Scapigliatura e il Divisionismo. Come Giovanni Segantini e Giuseppe Pelizza Da Volpedo, artisti a lui coevi, Medardo Rosso unì alla semplice trascrizione dell'impressione retinica, dell'emozione suscitata dal dato ottico l'attenzione per soggetti contemporanei, intimistici: emarginati, madri con bambini, gente comune e momenti di quotidianità.
A rileggere l'iter creativo dell’artista è, fino a domenica 13 gennaio, la mostra «Disegni di luce. Angelo Garoglio fotografa Medardo Rosso», allestita per la curatela di Silvio Fuso e Matteo Piccolo a Venezia, presso Ca’ Pesaro.
Nella sala X, accanto alle otto sculture donate dall’artista al museo veneziano nel 1914, in occasione della XI Biennale d’arte, sfilano una trentina di foto a colori e in bianco e nero, selezionate tra oltre centocinquanta scatti. Questi lavori, raccolti anche in un catalogo edito da Skira, indagano e approfondiscono due delle opere più famose di Medardo Rosso: «Ecce puer», della quale l’istituzione lagunare custodisce la prima fusione tratta dal modello in gesso, e «Madame X», lavoro considerato «figlio prediletto» dal suo stesso autore.
Sempre di Medardo Rosso, in concomitanza con la mostra, è possibile ammirare nella sala II della galleria, dove normalmente sono esposte le sue opere, ora in sala 10, «Enfant juif», scultura in cera del 1915, recentemente acquisita da Ca’ Pesaro grazie ad un deposito a lungo termine da una collezione privata.
Angelo Garoglio (1951), fotografo nato a Milano ma ormai torinese di adozione, ha fatto tesoro della ricerca e degli intenti dello scultore che voleva «dimenticare la materia». Medardo Rosso era, infatti, solito fotografare le proprie sculture, la loro installazione e posizione nello spazio, «sigillando» con un’ulteriore fotografia l’intera sequenza e dando così testimonianza di come la fotografia appartenesse di diritto alla sua poetica.
Gli scatti esposti colgono ogni angolatura delle opere, mettendo in evidenza anche particolari, spiragli di luci spesso difficili da vedere a occhio nudo.
Vedendo queste immagini, ma anche le scultore esposte, vengono in mente le parole che Enrico Prampolini scrisse, recensendo la Quadriennale romana dei primi anni '30, all’interno della quale veniva presentata una personale dell'artista: «Medardo Rosso non solo dischiuse un orizzonte nuovo alla scultura, ma spezzò l'incanto della plastica tradizionale e le sue leggi –cioè la forma, il volume, la materia, la statica– per avventurarsi nei regni inesplorati della forma e dello spazio, dell'atmosfera e dell'ambiente».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Medardo Rosso, «Ecce puer», 1906. Foto di Angelo Garoglio; [fig. 2] Medardo Rosso,«Madame X», 1896. oto di Angelo Garoglio
Informazioni utili
«Disegni di luce. Angelo Garoglio fotografa Medardo Rosso» Ca’ Pesaro - Galleria internazionale d’arte moderna, Santa Croce 2076 – Venezia. Orari: 10.00–17.00 (biglietteria 10.00–16.00), chiuso lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti da 15 a 25 anni; accompagnatori di gruppi di ragazzi o studenti; cittadini ultrasessantacinquenni; personale del Ministero per i Beni e le Attività culturali; titolari di Carta Rolling Venice; soci Fai), € 5,50. Informazioni: info@fmcvenezia.it, call center 848082000 (dall’Italia) o +3904142730892 (dall’estero). Sito internet: capesaro.visitmuve.it. Catalogo: Skira editore, Milano. Fino al 13 gennaio 2013.
Guardando queste opere «instabili», frutto di vibrazioni spazio-temporali che ne contraddistinguono la potente ma incerta presenza, Ardengo Soffici parlò, per primo, di «Impressionismo». L'etichetta, frettolosamente attribuita e per questo approssimativa, è entrata nei libri di storia dell'arte e ha accompagnato per lungo tempo la fortuna critica dell'artista, torinese di nascita e milanese di formazione, che, pur avendo vissuto a lungo a Parigi e respirato del clima impressionista, mai dimenticò nel plasmare la sua cultura italiana, umanista, impregnata di quegli ideali di socialismo e di attenzione al vero psicologico e caratteriale che innervarono la tarda Scapigliatura e il Divisionismo. Come Giovanni Segantini e Giuseppe Pelizza Da Volpedo, artisti a lui coevi, Medardo Rosso unì alla semplice trascrizione dell'impressione retinica, dell'emozione suscitata dal dato ottico l'attenzione per soggetti contemporanei, intimistici: emarginati, madri con bambini, gente comune e momenti di quotidianità.
A rileggere l'iter creativo dell’artista è, fino a domenica 13 gennaio, la mostra «Disegni di luce. Angelo Garoglio fotografa Medardo Rosso», allestita per la curatela di Silvio Fuso e Matteo Piccolo a Venezia, presso Ca’ Pesaro.
Nella sala X, accanto alle otto sculture donate dall’artista al museo veneziano nel 1914, in occasione della XI Biennale d’arte, sfilano una trentina di foto a colori e in bianco e nero, selezionate tra oltre centocinquanta scatti. Questi lavori, raccolti anche in un catalogo edito da Skira, indagano e approfondiscono due delle opere più famose di Medardo Rosso: «Ecce puer», della quale l’istituzione lagunare custodisce la prima fusione tratta dal modello in gesso, e «Madame X», lavoro considerato «figlio prediletto» dal suo stesso autore.
Sempre di Medardo Rosso, in concomitanza con la mostra, è possibile ammirare nella sala II della galleria, dove normalmente sono esposte le sue opere, ora in sala 10, «Enfant juif», scultura in cera del 1915, recentemente acquisita da Ca’ Pesaro grazie ad un deposito a lungo termine da una collezione privata.
Angelo Garoglio (1951), fotografo nato a Milano ma ormai torinese di adozione, ha fatto tesoro della ricerca e degli intenti dello scultore che voleva «dimenticare la materia». Medardo Rosso era, infatti, solito fotografare le proprie sculture, la loro installazione e posizione nello spazio, «sigillando» con un’ulteriore fotografia l’intera sequenza e dando così testimonianza di come la fotografia appartenesse di diritto alla sua poetica.
Gli scatti esposti colgono ogni angolatura delle opere, mettendo in evidenza anche particolari, spiragli di luci spesso difficili da vedere a occhio nudo.
Vedendo queste immagini, ma anche le scultore esposte, vengono in mente le parole che Enrico Prampolini scrisse, recensendo la Quadriennale romana dei primi anni '30, all’interno della quale veniva presentata una personale dell'artista: «Medardo Rosso non solo dischiuse un orizzonte nuovo alla scultura, ma spezzò l'incanto della plastica tradizionale e le sue leggi –cioè la forma, il volume, la materia, la statica– per avventurarsi nei regni inesplorati della forma e dello spazio, dell'atmosfera e dell'ambiente».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Medardo Rosso, «Ecce puer», 1906. Foto di Angelo Garoglio; [fig. 2] Medardo Rosso,«Madame X», 1896. oto di Angelo Garoglio
Informazioni utili
«Disegni di luce. Angelo Garoglio fotografa Medardo Rosso» Ca’ Pesaro - Galleria internazionale d’arte moderna, Santa Croce 2076 – Venezia. Orari: 10.00–17.00 (biglietteria 10.00–16.00), chiuso lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti da 15 a 25 anni; accompagnatori di gruppi di ragazzi o studenti; cittadini ultrasessantacinquenni; personale del Ministero per i Beni e le Attività culturali; titolari di Carta Rolling Venice; soci Fai), € 5,50. Informazioni: info@fmcvenezia.it, call center 848082000 (dall’Italia) o +3904142730892 (dall’estero). Sito internet: capesaro.visitmuve.it. Catalogo: Skira editore, Milano. Fino al 13 gennaio 2013.
martedì 18 dicembre 2012
Wietzendorf, un presepe tra i fili spinati
Era l’inverno del 1944. Nel lager di Wietzendorf, cittadina tedesca tra Amburgo e Hannover, erano rinchiusi migliaia di soldati italiani che, all’indomani dell’armistizio di Cassibile, con il quale l’Italia firmava la propria resa alla Forze alleate, avevano deciso di non collaborare con i nazisti e di non aderire alla Repubblica di Salò. La tragedia della guerra, le punizioni corporali, il duro lavoro nell’industria bellica e mineraria, la fame, il freddo e l’ombra della morte sempre presente non avevano privato queste persone della fede, della speranza e del coraggio, della dignità di essere uomini.
Natale era ormai alle porte e grazie alla perizia artistica del sottotenente d’artiglieria Tullio Battaglia, artista-letterato e giovane professore di disegno, Gesù Cristo poteva nascere anche tra le baracche di un campo di concentramento del nord della Germania, illuminando la Notte Santa di chi, con la nostalgia di casa nel cuore, stava vivendo la follia e l’inferno di una triste pagina della nostra storia.
Con un coltellino tascabile (miracolosamente scampato a ogni perquisizione), una robusta forbicina e un cardine di porta usato come martello, alla luce fioca di una candela che ogni prigioniero contribuì a alimentare togliendo una piccola parte all’esigua razione giornaliera di margarina, Tullio Battaglia costruì una quindicina di esili figure di trenta/trentacinque centimetri d’altezza, ricavate dal legno dei giacigli e con un po’ di filo spinato per scheletro, rivestite da parti di indumenti e da piccoli ricordi di famiglia di ogni internato.
Tutti i prigionieri donarono, infatti, qualcosa di proprio, un brandello della loro vita passata, per costruire le statuine. Gesù Bambino è fatto, per esempio, con un fazzoletto di seta del tenente Bianchi di Milano. Il pelo dell’agnello è la fodera del pastrano del capitano Bertoletti di Como, passato per i monti della Grecia e per la disfatta del fronte russo. Un lembo del pigiama del tenente bersagliere Montobbio di Milano disegna il turbante e la fascia di un re magio. La collana dell’altro sapiente giunto da Oriente è il pendaglio del braccialetto del tenente artigliere Mendoza di Vigevano. Un’estremità della tonaca del cappellano, padre Ricci, è il vestito di San Francesco. E, proseguendo, il pelo della pecorella è il tessuto sfilacciato della musetta da cavallo del tenente Mori di Arezzo. Il cestino arriva dalla calza della Befana per i due figli del capitano Gamberoni di Bologna. Le mostrine dei Lupi di Toscana del tenente Vezzosi di Milano fanno da risvolto alle maniche del guerriero longobardo. I pizzi che ornano il manto della Madonna sono i ritagli di un fazzoletto donato dall’amata al suo fidanzato in partenza per la guerra. Ogni pezzo di tela, latta, juta ricorda, dunque, un uomo, un brano di storia d’Italia scritta su un campo di battaglia.
Ci sono in questo presepe, oggi uno dei beni più preziosi, e forse meno conosciuti, del tesoro della Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio in Milano, tutti i personaggi classici della Natività: la Vergine Maria, il Bambin Gesù, Giuseppe, i re magi, la gente umile, qui rappresentata da una povera contadina nel tipico costume lombardo, da uno zampognaro abruzzese, da un pastore calabro e da una tessitrice che confeziona la bandiera italiana. Un po’ in disparte si intravedono anche un militare internato, nella sua divisa lacera, e un soldato tedesco che, illuminato dall’amore per il Bambinello, depone finalmente a terra le armi. Non manca nella sacra rappresentazione di Tullio Battaglia neppure la figura di San Francesco, il «poverello di Assisi» al quale si deve la prima raffigurazione del presepe come oggi lo conosciamo. E’, invece, assente il bue, con il suo grande collare e la sua grossa campana: è stato lasciato a Wietzendorf, a scaldare e a tener compagnia a quei soldati che lo hanno visto nascere e che non sono riusciti a ritornare a casa.
Guardando questo presepe, povero di materiali, ma ricco di significati, vengono in mente le parole di Bertolt Brecht: «Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, noi, gente misera, in una gelida stanzetta, il vento corre fuori, il vento entra. Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo: perché tu ci sei davvero necessario». Il commemorare la nascita di Gesù era realmente indispensabile nel lager di Wietzendorf; c'era bisogno di credere che la fede e la speranza in un domani migliore avrebbero vinto qualsiasi difficoltà.
Didascalie delle immagini
[figg.1, 2, 3 e 4] Particolari del presepe di Wietzendorf. Milano, Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio
Informazioni utili
Presepe di Wietzendorf. Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio, piazza Sant'Ambrogio, 15 - Milano. Orari di visita: dal lunedì al sabato, dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 14.30 alle 18.00; domenica, dalle 15.00 alle 17.00. Informazioni: www.basilicasantambrogio.it.
Con un coltellino tascabile (miracolosamente scampato a ogni perquisizione), una robusta forbicina e un cardine di porta usato come martello, alla luce fioca di una candela che ogni prigioniero contribuì a alimentare togliendo una piccola parte all’esigua razione giornaliera di margarina, Tullio Battaglia costruì una quindicina di esili figure di trenta/trentacinque centimetri d’altezza, ricavate dal legno dei giacigli e con un po’ di filo spinato per scheletro, rivestite da parti di indumenti e da piccoli ricordi di famiglia di ogni internato.
Tutti i prigionieri donarono, infatti, qualcosa di proprio, un brandello della loro vita passata, per costruire le statuine. Gesù Bambino è fatto, per esempio, con un fazzoletto di seta del tenente Bianchi di Milano. Il pelo dell’agnello è la fodera del pastrano del capitano Bertoletti di Como, passato per i monti della Grecia e per la disfatta del fronte russo. Un lembo del pigiama del tenente bersagliere Montobbio di Milano disegna il turbante e la fascia di un re magio. La collana dell’altro sapiente giunto da Oriente è il pendaglio del braccialetto del tenente artigliere Mendoza di Vigevano. Un’estremità della tonaca del cappellano, padre Ricci, è il vestito di San Francesco. E, proseguendo, il pelo della pecorella è il tessuto sfilacciato della musetta da cavallo del tenente Mori di Arezzo. Il cestino arriva dalla calza della Befana per i due figli del capitano Gamberoni di Bologna. Le mostrine dei Lupi di Toscana del tenente Vezzosi di Milano fanno da risvolto alle maniche del guerriero longobardo. I pizzi che ornano il manto della Madonna sono i ritagli di un fazzoletto donato dall’amata al suo fidanzato in partenza per la guerra. Ogni pezzo di tela, latta, juta ricorda, dunque, un uomo, un brano di storia d’Italia scritta su un campo di battaglia.
Ci sono in questo presepe, oggi uno dei beni più preziosi, e forse meno conosciuti, del tesoro della Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio in Milano, tutti i personaggi classici della Natività: la Vergine Maria, il Bambin Gesù, Giuseppe, i re magi, la gente umile, qui rappresentata da una povera contadina nel tipico costume lombardo, da uno zampognaro abruzzese, da un pastore calabro e da una tessitrice che confeziona la bandiera italiana. Un po’ in disparte si intravedono anche un militare internato, nella sua divisa lacera, e un soldato tedesco che, illuminato dall’amore per il Bambinello, depone finalmente a terra le armi. Non manca nella sacra rappresentazione di Tullio Battaglia neppure la figura di San Francesco, il «poverello di Assisi» al quale si deve la prima raffigurazione del presepe come oggi lo conosciamo. E’, invece, assente il bue, con il suo grande collare e la sua grossa campana: è stato lasciato a Wietzendorf, a scaldare e a tener compagnia a quei soldati che lo hanno visto nascere e che non sono riusciti a ritornare a casa.
Guardando questo presepe, povero di materiali, ma ricco di significati, vengono in mente le parole di Bertolt Brecht: «Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, noi, gente misera, in una gelida stanzetta, il vento corre fuori, il vento entra. Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo: perché tu ci sei davvero necessario». Il commemorare la nascita di Gesù era realmente indispensabile nel lager di Wietzendorf; c'era bisogno di credere che la fede e la speranza in un domani migliore avrebbero vinto qualsiasi difficoltà.
Didascalie delle immagini
[figg.1, 2, 3 e 4] Particolari del presepe di Wietzendorf. Milano, Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio
Informazioni utili
Presepe di Wietzendorf. Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio, piazza Sant'Ambrogio, 15 - Milano. Orari di visita: dal lunedì al sabato, dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 14.30 alle 18.00; domenica, dalle 15.00 alle 17.00. Informazioni: www.basilicasantambrogio.it.
lunedì 17 dicembre 2012
Serrapetrona e il tesoro di Giorgio Recchi, «l’uomo che parlava al dinosauro»
Un insospettabile Indiana Jones italiano e un paesino nel cuore delle Marche, una morte improvvisa e la scoperta di un tesoro archeologico e paleontologico inestimabile: gli elementi per un film d’azione da code al botteghino? No, le componenti di una storia vera che ha visto Serrapetrona, piccolo paese del Maceratese, incastonato sui Monti Azzurri, arricchirsi di un’importante collezione di oggetti archeologici e paleontologici.
La vicenda ha inizio la mattina del 19 dicembre 2006. Giorgio Recchi, geologo sessantotto anni, non risponde alla porta di casa. L’uomo vive da solo e i vicini, allarmati dalla sua assenza, che dura ormai da qualche giorno, decidono di chiamare i vigili del fuoco. Una volta penetrati nell’abitazione, i soccorritori rimangono senza fiato: Giorgio Recchi è sul suo letto, privo di vita, attorno a lui uno strabiliante museo privato, con esemplari di antropodi paleozoici, invertebrati primordiali, anfibi e rettili acquatici, rettili volanti e uccelli primitivi, mammiferi antichi, reperti preistorici, vasi etruschi ed ellenici magnificamente dipinti, bronzetti votivi, oggetti d’ornamento piceni, reperti egizi e di epoca romana, monete in bronzo, argento e oro.
Il tesoro, per la maggior parte di provenienza illegale, è davvero inestimabile. Si contano ottocentotrentanove reperti paleontologici, trecentocinque archeologici e milletrecentosettantasette numismatici, ma è all’ultimo piano del villino, in un salone mansardato, che lo spettacolo si fa ancora più sbalorditivo: al centro della stanza troneggia, quasi minaccioso, lo scheletro ricostruito di un dinosauro di circa 75 milioni di anni fa, lungo sui quattro metri.
Da questa scoperta eccezionale è stata avviata l’attività di recupero, studio e valorizzazione della collezione Recchi, un’attività che vede coinvolti il Comune di Serrapetrona, il Nucleo Carabinieri tutela patrimonio culturale di Ancona, la Soprintendenza per i beni archeologici delle Marche e l’università «Sapienza» di Roma.
La fase di analisi e catalogazione è ancora in corso, ma gli esperti hanno già riconosciuto il grande valore scientifico della raccolta, destinata a diventare un importante punto di riferimento per studiosi e appassionati.
Molto si può già dire del tesoro raccolto con perizia e oculatezza negli anni e custodito gelosamente da Recchi, personaggio colto e schivo, che ha abbinato in modo affascinante la vita dell’avventuriero appassionato d’arte e storia, segretamente impegnato in spedizioni in tutto il mondo, alla rassicurante tranquillità della provincia.
Il collezionista ha costruito il suo eden privato secondo una logica precisa: i reperti coprono un periodo che va dalla preistoria all’età romana e, per quanto riguarda l’aspetto paleontologico, materializzano attraverso pezzi rarissimi momenti chiave del processo evolutivo.
Per rendere fruibile al grande pubblico questa straordinaria scoperta è stato avviato un percorso di musealizzazione: nel 2010 si è tenuta una rassegna sui reperti acquatici; attualmente è possibile ammirare, negli spazi del Palazzo Claudi a Serrapetrona, il reperto più imponente di questa collezione: il dinosauro o, più precisamente, un esemplare di Prosaurolophus del cretaceo superiore (75 milioni di anni fa) del Nord America.
Il manufatto è il pezzo più pregevole della mostra «La conquista del cielo», che allinea una settantina di documenti, riferibili a un arco cronologico che va dalla preistoria all’età romana, tutti accumunati dal tema del volo. Due le sezioni nelle quali si suddivide l’esposizione, visitabile fino a domenica 30 giugno 2013. In quella paleontologica, curata da Umberto Nicosia e Ilaria Paparella, sono esposti reperti fossili risalenti a un periodo che va dai 350 ai 30 milioni di anni fa circa. Si tratta di insetti provenienti soprattutto dal Brasile, pterosauri (rettili volanti) originari del Sud America e della Germania, un esemplare cinese dei primi uccelli basali (fondamentali per la discussa teoria sull’evoluzione degli uccelli dai dinosauri) e un piccolo fossile di pipistrello.
La sezione archeologica, curata da Mara Silvestrini e Nicoletta Frapiccini, raccoglie, invece, alcuni splendidi esemplari di vasi e altri manufatti, per la gran parte di produzione magno-greca ed etrusca, magnificamente decorati con esseri alati, creature favolose protagoniste di innumerevoli miti e leggende sorti attorno a quella che nell’antichità era l’utopia del volo. Tra i pezzi più pregiati, si può citare una oinochoe (brocca usata per versare il vino), risalente al IV secolo a.C., e una olpe (particolare tipologia di vaso) a rotelle, datata tra il 630 e il 610 a. C, inquadrabile nella produzione corinzia, elegantemente decorata con animali e sfingi, ovvero esseri alati in parte umani e in parte animali.
Completa la mostra un nucleo di materiali costituito da venticinque monete. Di particolare rilievo quelle raffiguranti Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca. Si tratta di stateri d’argento greci, coniati a Corinto verso la metà del VI secolo a.C. e poi diffusi non solo in Grecia, ma anche in Occidente, nella Magna Grecia e in Sicilia.
Il cabinet des merveilles di Giorgio Recchi, custodito per tutta la vita in gran segreto, diventa così un bene fruibile dal grande pubblico, rendendo il paesino di Serrapetrona, mille anime o poco più, noto non solo per il suo spumante rosso, la Vernaccia, ma anche per una delle collezioni italiane più importanti nei settori della paleontologia, della numismatica e dell’archeologia.
Didascalie delle immagini
[fig.l] Oinochoe (brocca usata per versare il vino), risalente al IV secolo a.C.. Serrapetrona (Macerata), collezione Giorgio Recchi; [figg. 2 e 3] Prosaurolophus del cretaceo superiore (75 milioni di anni fa), proveniente dal Nord America. Serrapetrona (Macerata), collezione Giorgio Recchi
Informazioni utili
«La conquista del cielo». Palazzo Claudi - Serrapetrona (Macerata). Orari: sabato, ore 16.00-20.00; domenica, ore 9.00-12.00 e ore 16.00-20.00; negli altri giorni la mostra è visibile previa prenotazione. Ingresso: € 5,00, riduzioni per gruppi e scuole. Informazioni: Comune di Serrapetrona, tel. 0733.908321. Sito internet: www.comune.serrapetrona.mc.it. Fino a domenica 30 giugno 2013.
La vicenda ha inizio la mattina del 19 dicembre 2006. Giorgio Recchi, geologo sessantotto anni, non risponde alla porta di casa. L’uomo vive da solo e i vicini, allarmati dalla sua assenza, che dura ormai da qualche giorno, decidono di chiamare i vigili del fuoco. Una volta penetrati nell’abitazione, i soccorritori rimangono senza fiato: Giorgio Recchi è sul suo letto, privo di vita, attorno a lui uno strabiliante museo privato, con esemplari di antropodi paleozoici, invertebrati primordiali, anfibi e rettili acquatici, rettili volanti e uccelli primitivi, mammiferi antichi, reperti preistorici, vasi etruschi ed ellenici magnificamente dipinti, bronzetti votivi, oggetti d’ornamento piceni, reperti egizi e di epoca romana, monete in bronzo, argento e oro.
Il tesoro, per la maggior parte di provenienza illegale, è davvero inestimabile. Si contano ottocentotrentanove reperti paleontologici, trecentocinque archeologici e milletrecentosettantasette numismatici, ma è all’ultimo piano del villino, in un salone mansardato, che lo spettacolo si fa ancora più sbalorditivo: al centro della stanza troneggia, quasi minaccioso, lo scheletro ricostruito di un dinosauro di circa 75 milioni di anni fa, lungo sui quattro metri.
Da questa scoperta eccezionale è stata avviata l’attività di recupero, studio e valorizzazione della collezione Recchi, un’attività che vede coinvolti il Comune di Serrapetrona, il Nucleo Carabinieri tutela patrimonio culturale di Ancona, la Soprintendenza per i beni archeologici delle Marche e l’università «Sapienza» di Roma.
La fase di analisi e catalogazione è ancora in corso, ma gli esperti hanno già riconosciuto il grande valore scientifico della raccolta, destinata a diventare un importante punto di riferimento per studiosi e appassionati.
Molto si può già dire del tesoro raccolto con perizia e oculatezza negli anni e custodito gelosamente da Recchi, personaggio colto e schivo, che ha abbinato in modo affascinante la vita dell’avventuriero appassionato d’arte e storia, segretamente impegnato in spedizioni in tutto il mondo, alla rassicurante tranquillità della provincia.
Il collezionista ha costruito il suo eden privato secondo una logica precisa: i reperti coprono un periodo che va dalla preistoria all’età romana e, per quanto riguarda l’aspetto paleontologico, materializzano attraverso pezzi rarissimi momenti chiave del processo evolutivo.
Per rendere fruibile al grande pubblico questa straordinaria scoperta è stato avviato un percorso di musealizzazione: nel 2010 si è tenuta una rassegna sui reperti acquatici; attualmente è possibile ammirare, negli spazi del Palazzo Claudi a Serrapetrona, il reperto più imponente di questa collezione: il dinosauro o, più precisamente, un esemplare di Prosaurolophus del cretaceo superiore (75 milioni di anni fa) del Nord America.
Il manufatto è il pezzo più pregevole della mostra «La conquista del cielo», che allinea una settantina di documenti, riferibili a un arco cronologico che va dalla preistoria all’età romana, tutti accumunati dal tema del volo. Due le sezioni nelle quali si suddivide l’esposizione, visitabile fino a domenica 30 giugno 2013. In quella paleontologica, curata da Umberto Nicosia e Ilaria Paparella, sono esposti reperti fossili risalenti a un periodo che va dai 350 ai 30 milioni di anni fa circa. Si tratta di insetti provenienti soprattutto dal Brasile, pterosauri (rettili volanti) originari del Sud America e della Germania, un esemplare cinese dei primi uccelli basali (fondamentali per la discussa teoria sull’evoluzione degli uccelli dai dinosauri) e un piccolo fossile di pipistrello.
La sezione archeologica, curata da Mara Silvestrini e Nicoletta Frapiccini, raccoglie, invece, alcuni splendidi esemplari di vasi e altri manufatti, per la gran parte di produzione magno-greca ed etrusca, magnificamente decorati con esseri alati, creature favolose protagoniste di innumerevoli miti e leggende sorti attorno a quella che nell’antichità era l’utopia del volo. Tra i pezzi più pregiati, si può citare una oinochoe (brocca usata per versare il vino), risalente al IV secolo a.C., e una olpe (particolare tipologia di vaso) a rotelle, datata tra il 630 e il 610 a. C, inquadrabile nella produzione corinzia, elegantemente decorata con animali e sfingi, ovvero esseri alati in parte umani e in parte animali.
Completa la mostra un nucleo di materiali costituito da venticinque monete. Di particolare rilievo quelle raffiguranti Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca. Si tratta di stateri d’argento greci, coniati a Corinto verso la metà del VI secolo a.C. e poi diffusi non solo in Grecia, ma anche in Occidente, nella Magna Grecia e in Sicilia.
Il cabinet des merveilles di Giorgio Recchi, custodito per tutta la vita in gran segreto, diventa così un bene fruibile dal grande pubblico, rendendo il paesino di Serrapetrona, mille anime o poco più, noto non solo per il suo spumante rosso, la Vernaccia, ma anche per una delle collezioni italiane più importanti nei settori della paleontologia, della numismatica e dell’archeologia.
Didascalie delle immagini
[fig.l] Oinochoe (brocca usata per versare il vino), risalente al IV secolo a.C.. Serrapetrona (Macerata), collezione Giorgio Recchi; [figg. 2 e 3] Prosaurolophus del cretaceo superiore (75 milioni di anni fa), proveniente dal Nord America. Serrapetrona (Macerata), collezione Giorgio Recchi
Informazioni utili
«La conquista del cielo». Palazzo Claudi - Serrapetrona (Macerata). Orari: sabato, ore 16.00-20.00; domenica, ore 9.00-12.00 e ore 16.00-20.00; negli altri giorni la mostra è visibile previa prenotazione. Ingresso: € 5,00, riduzioni per gruppi e scuole. Informazioni: Comune di Serrapetrona, tel. 0733.908321. Sito internet: www.comune.serrapetrona.mc.it. Fino a domenica 30 giugno 2013.
venerdì 14 dicembre 2012
Amore e Psiche, la favola di Apuleio secondo Canova e Gérard
Un fresco profumo di lavanda e menta piperita, frammisto a un delicato aroma di eucalipto e a una legnosa fragranza di patchouli e sandalo, accoglie i visitatori negli spazi cinquecenteschi della sala Alessi di Palazzo Marino, sede di rappresentanza del Comune di Milano. Sono, queste, le essenze scelte dalla Officina Profumo - Farmaceutica di Santa Maria Novella, casa fondata nel 1612 a Firenze, per ricreare le suggestioni olfattive di un giardino notturno di ispirazione neoclassica. E’, infatti, una scenografia fatta di un morbido manto erboso, di filari di siepi sagomate a forma di portici e di labirinti verdi quella costruita dallo Studio Greci Architettura per ambientare la mostra «Amore e psiche a Milano», appuntamento promosso da Eni, in partnership con il Museo del Louvre di Parigi, nel solco di una fortunata tradizione, inaugurata nel 2008, che, di Natale in Natale, ha portato nel capoluogo lombardo opere come la «Conversione di Saulo» del Caravaggio (2008), il «San Giovanni Battista» di Leonardo da Vinci (2009), la «Donna allo specchio» di Tiziano (2010), «L’Adorazione dei pastori» e il «San Giuseppe falegname» di Georges de La Tour (2011).
All’ombra di filari di bosso e sotto un soffitto di verzura e rampicanti, costruito per mezzo di proiezioni perimetrali di Simon Miller, tese a dare la sensazione di una vegetazione che in quasi modo piranesiano divora e avvolge le pareti della sala, va, dunque, in scena uno dei miti più affascinanti della classicità, una delle storie più romantiche di tutti i tempi: la favola di Amore e Psiche, tratta dal capolavoro di Apuleio, «Le metamorfosi» o «L’asino d’oro» del II secolo d.C., e fonte di ispirazione per schiere di artisti, come documentano grandi cicli di affreschi come quelli di Raffaello alla villa Farnesina di Roma o quelli di Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova.
Tutto incomincia con il più classico degli avvii: c’era una volta. Sì, c’era una volta una ragazza bellissima, così bella da suscitare le invidie della dea Afrodite che, vendicativa come sempre, mandò sulla terra suo figlio, il dio Amore (Cupido per i romani, Eros per i greci), ordinandogli di punire la fanciulla, detta Psiche, accendendo in lei un amore insopprimibile per il più brutto degli uomini. Ma, per uno strano gioco del destino, Amore cadde vittima del fascino della ragazza, la fece prigioniera nel suo castello incantato e le disse che si sarebbero sempre amati al buio, di notte, per lasciarsi ogni mattina, ai primi raggi del sole, in modo tale che lei non potesse mai vederlo in volto. Psiche, istigata dalla due sorelle invidiose, trasgredì, però, il divieto e dovette così espiare la colpa di aver guardato negli occhi una divinità, prima di potersi ricongiungere definitivamente al suo amato e, attraverso una serie di prove terribili, conquistare l’immortalità.
A rievocare questa vicenda di seduzione, tradimento e perdono, metafora dell’amore che vince su tutto, sono, negli spazi di Palazzo Marino, due opere simbolo del Neoclassicismo, la scultura «Amore e Psiche stanti» di Antonio Canova e il dipinto «Psyché et l’Amour» di François Gérard, esposte, per la curatela di Valeria Merlini e Daniela Storti, in un percorso espositivo arricchito da apparati didattici e supporti video, oltre che da un catalogo edito da Rubbettino editore e da un percorso digitale con un sito web (www.amoreepsicheamilano.it), un’app dedicata, video e approfondimenti sui principali social network.
L’opera di Antonio Canova, datata 1797, ritrae i due giovani nel loro ultimo abbraccio mortale, richiamando il tema della metamorfosi di Psiche nell’immagine della farfalla, simbolo dell’anima che, dal corpo terreno, vola verso l’eternità. Alla dolcezza e all’eleganza formale del maestro veneto, François Gérard, pittore parigino di scene galanti, risponde, l’anno successivo, con un dipinto dall’erotismo raffinato: Amore è visto di profilo, con il corpo reclinato per accostarsi all’amata fanciulla, ritratto nuda, con un solo velo a ricoprire gambe e bacino, mentre sopra il suo capo, dipinto con eleganza raffaellesca, volteggia una farfalla, riferimento in chiave neoplatonica e successivamente cristiana al tema dell’immortalità dell’anima.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venice, 1822), «Amore e Psiche stanti», c. 1797. Marmo di Carrara, H. 1.45 m. Parigi, Museo del Louvre; [fig. 2] François Gérard, «Psyché et l’Amour», 1798. H. 1.86 m; W. 1.32 m. Parigi, Museo del Louvre
Informazioni utili
Amore e Psiche a Milano. Palazzo Marino, piazza della Scala, 2 - Milano. Orari: tutti i giorni (compresi 25 dicembre 2012 e 1° gennaio 2013), ore 9.30-20.00; giovedì, ore 9.30-22.30; 24 e 31 dicembre,ore 9.30-18.00. Ingresso libero. Catalogo: Rubbettino editore. Informazioni: numero verde 800.14.96.17. Sito internet: www.amoreepsicheamilano.it. Fino a domenica 13 gennaio 2013
All’ombra di filari di bosso e sotto un soffitto di verzura e rampicanti, costruito per mezzo di proiezioni perimetrali di Simon Miller, tese a dare la sensazione di una vegetazione che in quasi modo piranesiano divora e avvolge le pareti della sala, va, dunque, in scena uno dei miti più affascinanti della classicità, una delle storie più romantiche di tutti i tempi: la favola di Amore e Psiche, tratta dal capolavoro di Apuleio, «Le metamorfosi» o «L’asino d’oro» del II secolo d.C., e fonte di ispirazione per schiere di artisti, come documentano grandi cicli di affreschi come quelli di Raffaello alla villa Farnesina di Roma o quelli di Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova.
Tutto incomincia con il più classico degli avvii: c’era una volta. Sì, c’era una volta una ragazza bellissima, così bella da suscitare le invidie della dea Afrodite che, vendicativa come sempre, mandò sulla terra suo figlio, il dio Amore (Cupido per i romani, Eros per i greci), ordinandogli di punire la fanciulla, detta Psiche, accendendo in lei un amore insopprimibile per il più brutto degli uomini. Ma, per uno strano gioco del destino, Amore cadde vittima del fascino della ragazza, la fece prigioniera nel suo castello incantato e le disse che si sarebbero sempre amati al buio, di notte, per lasciarsi ogni mattina, ai primi raggi del sole, in modo tale che lei non potesse mai vederlo in volto. Psiche, istigata dalla due sorelle invidiose, trasgredì, però, il divieto e dovette così espiare la colpa di aver guardato negli occhi una divinità, prima di potersi ricongiungere definitivamente al suo amato e, attraverso una serie di prove terribili, conquistare l’immortalità.
A rievocare questa vicenda di seduzione, tradimento e perdono, metafora dell’amore che vince su tutto, sono, negli spazi di Palazzo Marino, due opere simbolo del Neoclassicismo, la scultura «Amore e Psiche stanti» di Antonio Canova e il dipinto «Psyché et l’Amour» di François Gérard, esposte, per la curatela di Valeria Merlini e Daniela Storti, in un percorso espositivo arricchito da apparati didattici e supporti video, oltre che da un catalogo edito da Rubbettino editore e da un percorso digitale con un sito web (www.amoreepsicheamilano.it), un’app dedicata, video e approfondimenti sui principali social network.
L’opera di Antonio Canova, datata 1797, ritrae i due giovani nel loro ultimo abbraccio mortale, richiamando il tema della metamorfosi di Psiche nell’immagine della farfalla, simbolo dell’anima che, dal corpo terreno, vola verso l’eternità. Alla dolcezza e all’eleganza formale del maestro veneto, François Gérard, pittore parigino di scene galanti, risponde, l’anno successivo, con un dipinto dall’erotismo raffinato: Amore è visto di profilo, con il corpo reclinato per accostarsi all’amata fanciulla, ritratto nuda, con un solo velo a ricoprire gambe e bacino, mentre sopra il suo capo, dipinto con eleganza raffaellesca, volteggia una farfalla, riferimento in chiave neoplatonica e successivamente cristiana al tema dell’immortalità dell’anima.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venice, 1822), «Amore e Psiche stanti», c. 1797. Marmo di Carrara, H. 1.45 m. Parigi, Museo del Louvre; [fig. 2] François Gérard, «Psyché et l’Amour», 1798. H. 1.86 m; W. 1.32 m. Parigi, Museo del Louvre
Informazioni utili
Amore e Psiche a Milano. Palazzo Marino, piazza della Scala, 2 - Milano. Orari: tutti i giorni (compresi 25 dicembre 2012 e 1° gennaio 2013), ore 9.30-20.00; giovedì, ore 9.30-22.30; 24 e 31 dicembre,ore 9.30-18.00. Ingresso libero. Catalogo: Rubbettino editore. Informazioni: numero verde 800.14.96.17. Sito internet: www.amoreepsicheamilano.it. Fino a domenica 13 gennaio 2013
mercoledì 12 dicembre 2012
Brigitte Niedermair e la sua «Ultima cena» al femminile in aiuto delle donne
Dalla rivisitazione pop di Andy Warhol alla rilettura in chiave militare di Adi Nes, passando per gli omaggi irrituali di Damien Hirst, Hermann Nitsch e Alfred Hrdlicka, è lungo l’elenco degli artisti che hanno guardato a Leonardo da Vinci e all’iconografia del suo «Cenacolo».
L’affresco parietale, realizzato tra il 1494 e il 1498 per il refettorio del convento della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, ha suggestionato anche la fantasia di Brigitte Niedermair (Merano, 1971), fotografa e pittrice altoatesina che da sempre lavora sui territori di confine tra impegno civile e rigore estetico. E’, infatti, sua «The Last Supper», l’immagine della discussa campagna pubblicitaria per la collezione primavera-estate 2005 della maison francese Marithé e François Girbaud, raffigurante un’«Ultima cena» tutta al femminile. Lo scatto, che alla sua prima apparizione fece addirittura parlare di blasfemia e del quale fu proibita l’affissione sia in Italia che in Francia per «lesa maestà della morale», ritorna oggi agli onori della cronaca per un’iniziativa di solidarietà. Brigitte Niedermair ha, infatti, deciso di mettere in rete e di commercializzare la propria opera offrendo in beneficenza parte del ricavato per sostenere progetti di sostegno e aiuto alle donne. Duemila gli esemplari autografati, numerati e certificati, disponibili al costo di 1000,00 euro, sul sito www.lastsupper.it.
Il guadagno ottenuto dalla vendita delle stampe andrà in favore della rete internazionale dei Musei delle Donne (www.womeninmuseum.net), un’istituzione nata nel 2008, che realizza, tra le molte iniziative, un servizio educativo per superare le situazioni di discriminazione e violazione dei diritti umani in Paesi come il Sudan, l’Africa centrale e l’Iran, riunendo più di cinquanta enti internazionali e promuovendo quattordici progetti.
«Un'opera d'arte sulle donne che può aiutare le donne»: ecco, dunque, la nuova vita dell’«Ultima cena» di Brigitte Niedermair, una foto molto glamour, insieme poetica e provocatoria, che strizza l’occhio anche alle teorie contenute nel best-seller «Il codice da Vinci» di Dan Brown, secondo le quali Maria Maddalena avrebbe partecipato all’ultimo pasto di Gesù Cristo e la sua figura comparirebbe anche all’interno dell’affresco leonardesco, celata sotto le sembianze femminili di Giovanni. L’artista altoatesina ribalta questo concetto: accanto a un Gesù e ad undici apostoli donne, modelle di conturbante bellezza in abiti griffati, appare un solo uomo, di spalle e semi-nudo, conteso da due ragazze dall'aria agguerrita, che impersonano Giuda e San Pietro. Si tratta, appunto, di Giovanni.
Molti i simboli che compaiono nell’immagine: la colomba, il lavaggio dei piedi, il pane spezzato, un fico aperto, il pesce davanti al Cristo-donna. Non mancano, inoltre, riferimenti alla contemporaneità, con un registratore che simboleggia la ricerca della verità e due quotidiani, uno palestinese e uno israeliano, a ricordare il conflitto che tormenta la Terra Santa.
Pensando al lavoro artistico di Brigitte Niedermair, vengono così alla mente le parole di Erri de Luca: «Il genere maschile è invidioso della potenza femminile di generare. Si è ritagliato per sé il potere, la guerra, la politica, spazi di governo minori di fronte all’immensità di fare nascere. Il femminile riproduce l’opera della creazione. E’ il tempo delle madri».
Informazioni utili
«The Last Supper»,di Brigitte Niedermair. Edizione di 2000 esemplari, autografati, numerati e certificati disponibili al costo di 1000,00 euro cadauno solo on-line, sul sito www.lastsupper.it. Parte del ricavato sarà devoluto in favore della Rete internazionale dei Musei delle Donne (www.womeninmuseum.net).
L’affresco parietale, realizzato tra il 1494 e il 1498 per il refettorio del convento della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, ha suggestionato anche la fantasia di Brigitte Niedermair (Merano, 1971), fotografa e pittrice altoatesina che da sempre lavora sui territori di confine tra impegno civile e rigore estetico. E’, infatti, sua «The Last Supper», l’immagine della discussa campagna pubblicitaria per la collezione primavera-estate 2005 della maison francese Marithé e François Girbaud, raffigurante un’«Ultima cena» tutta al femminile. Lo scatto, che alla sua prima apparizione fece addirittura parlare di blasfemia e del quale fu proibita l’affissione sia in Italia che in Francia per «lesa maestà della morale», ritorna oggi agli onori della cronaca per un’iniziativa di solidarietà. Brigitte Niedermair ha, infatti, deciso di mettere in rete e di commercializzare la propria opera offrendo in beneficenza parte del ricavato per sostenere progetti di sostegno e aiuto alle donne. Duemila gli esemplari autografati, numerati e certificati, disponibili al costo di 1000,00 euro, sul sito www.lastsupper.it.
Il guadagno ottenuto dalla vendita delle stampe andrà in favore della rete internazionale dei Musei delle Donne (www.womeninmuseum.net), un’istituzione nata nel 2008, che realizza, tra le molte iniziative, un servizio educativo per superare le situazioni di discriminazione e violazione dei diritti umani in Paesi come il Sudan, l’Africa centrale e l’Iran, riunendo più di cinquanta enti internazionali e promuovendo quattordici progetti.
«Un'opera d'arte sulle donne che può aiutare le donne»: ecco, dunque, la nuova vita dell’«Ultima cena» di Brigitte Niedermair, una foto molto glamour, insieme poetica e provocatoria, che strizza l’occhio anche alle teorie contenute nel best-seller «Il codice da Vinci» di Dan Brown, secondo le quali Maria Maddalena avrebbe partecipato all’ultimo pasto di Gesù Cristo e la sua figura comparirebbe anche all’interno dell’affresco leonardesco, celata sotto le sembianze femminili di Giovanni. L’artista altoatesina ribalta questo concetto: accanto a un Gesù e ad undici apostoli donne, modelle di conturbante bellezza in abiti griffati, appare un solo uomo, di spalle e semi-nudo, conteso da due ragazze dall'aria agguerrita, che impersonano Giuda e San Pietro. Si tratta, appunto, di Giovanni.
Molti i simboli che compaiono nell’immagine: la colomba, il lavaggio dei piedi, il pane spezzato, un fico aperto, il pesce davanti al Cristo-donna. Non mancano, inoltre, riferimenti alla contemporaneità, con un registratore che simboleggia la ricerca della verità e due quotidiani, uno palestinese e uno israeliano, a ricordare il conflitto che tormenta la Terra Santa.
Pensando al lavoro artistico di Brigitte Niedermair, vengono così alla mente le parole di Erri de Luca: «Il genere maschile è invidioso della potenza femminile di generare. Si è ritagliato per sé il potere, la guerra, la politica, spazi di governo minori di fronte all’immensità di fare nascere. Il femminile riproduce l’opera della creazione. E’ il tempo delle madri».
Informazioni utili
«The Last Supper»,di Brigitte Niedermair. Edizione di 2000 esemplari, autografati, numerati e certificati disponibili al costo di 1000,00 euro cadauno solo on-line, sul sito www.lastsupper.it. Parte del ricavato sarà devoluto in favore della Rete internazionale dei Musei delle Donne (www.womeninmuseum.net).
lunedì 10 dicembre 2012
Natale d’arte a Palazzo Madama, in mostra Pisanello
Il Natale porta a Torino, nelle sale di Palazzo Madama, un grande capolavoro dell’arte italiana del Rinascimento. Dopo la «Madonna col Bambino» (1525) di Michelangelo, prezioso disegno usualmente conservato alla Casa Buonarroti di Firenze ed ammirato durante le passate festività natalizie da migliaia di torinesi, la città regala ai suoi abitanti un confronto ravvicinato con il «Ritratto di Lionello d’Este» di Antonio Pisano, detto Pisanello, artista tardo-gotico celebre per la propria attività di medaglista e per i suoi disegni con studi dal vero di personaggi e animali, nei quali si evidenzia uno spiccato senso di analisi e di curiosità naturalistica.
L’esposizione, resa possibile grazie al generoso contributo dei visitatori che l’anno scorso hanno donato oltre 16mila euro, si lega al percorso sulla storia del ritratto pittorico, allestito nelle sale espositive del museo in occasione della mostra dedicata a Robert Wilson: un excursus dal Medioevo all’Ottocento, tra pale sacre, medaglie rinascimentali, raffigurazioni per monete, dipinti devozionali, celebrativi o allegorici. Si viene così a creare un dialogo ideale tra opere note come il «Ritratto d’uomo» (1476) di Antonello da Messina o «Il gioco degli scacchi» (1530-1532 circa) di Giulio Campi e il celebre dipinto di Pisanello, restaurato nel 2008 presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e usualmente conservato nelle raccolte dell’Accademia Carrara di Bergamo, ora chiusa per lavori di restauro e la cui riapertura è prevista per il 2014.
La tempera su tela (28x 19 centimetri), tra le opere più celebri della pittura rinascimentale italiana, raffigura il marchese Lionello d’Este, signore di Ferrara dal 1441 al 1450. Il busto di profilo, simile ai ritratti delle monete imperiali romane, si delinea con fierezza contro lo sfondo blu scuro del cielo, in uno spazio reso più profondo dalla siepe di rose che gioca in funzione di quinta ravvicinata. La spalla marca il primo piano con un ricco broccato a fili d’oro e bordure di velluto su cui spiccano grandi bottoni perlacei. Il volto, dall’incarnato chiarissimo, è contraddistinto dall’impasto prezioso del colore, accarezzato dalla luce che si dirama in sottilissime ombre a definire i tratti essenziali, quasi incisi, della fisionomia.
L’opera, citata per la prima volta nei testi «Pro insigne certamine» di Angelo Decembrio e il «De Politia letteraria» di Ulisse degli Aleotti, fu realizzata a Ferrara nei primi sei mesi del 1441, in occasione di una sfida artistica voluta, secondo le fonti del tempo, da Niccolo III d’Este, che fece ‘duellare’ Pisanello, in punta di pennello, con un altro artista veneto del momento, Jacopo Bellini. Quest’ultimo, stando alla testimonianza di Ulisse degli Aleotti, ebbe la meglio (il suo ritratto è, però, andato perduto), ma Pisanello non conobbe, per questo, scarsa fortuna a Ferrara. Sue sono, intatti, alcune delle più note medaglie celebrative di Lionello d’Este, mentre il ritratto realizzato per la contesa artistica rimase, per lungo tempo, nelle raccolte estensi. L’opera approdò, poi, alla collezione Costabili di Ferrara e venne, quindi, acquistata da Giovanni Morelli, che la lasciò, per legato testamentario, all’Accademia di Carrara.
Renzo Chiarelli, nel 1961, elogiò la tecnica del ritratto, che – si legge in uno dei suoi testi- «sembra giovarsi dell'esperienza del bronzo, specie in quei capelli singolarmente trattati e disposti in piccoli ciuffi filiformi e ricurvi che ravvivano plasticamente quella curiosa mezza parrucca, in aderenza al modo di trattare la materia nei corrispondenti particolari delle medaglie». Mentre Licisco Magagnato, nel 1958, paragonò l’opera, per il suo «carico d’energia», ai «ritratti più alti di Piero della Francesca e Antonio del Pollaiolo», facendone così uno dei simboli più eleganti dell'Italia delle corti.
Didascalia delle immagini
[fig. 1] Antonio Pisano, detto Pisanello, (Pisa, circa 1394 – Roma? 1455), «Ritratto di Lionello d’Este», circa 1441. Tempera su tavola, cm 29 x 19,5. Bergamo, Accademia Carrara
Informazioni utili
«Ritratto di Lionello d’Este». Palazzo Madama - Museo civico d’arte antica, Corte Medievale - piazza Castello - Torino. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-19.00, chiuso lunedì. Ingresso libero. Informazioni: tel. 011.4433501. Sito Internet: www.palazzomadamatorino.it. Da mercoledì 12 dicembre a domenica 13 gennaio 2012.
L’esposizione, resa possibile grazie al generoso contributo dei visitatori che l’anno scorso hanno donato oltre 16mila euro, si lega al percorso sulla storia del ritratto pittorico, allestito nelle sale espositive del museo in occasione della mostra dedicata a Robert Wilson: un excursus dal Medioevo all’Ottocento, tra pale sacre, medaglie rinascimentali, raffigurazioni per monete, dipinti devozionali, celebrativi o allegorici. Si viene così a creare un dialogo ideale tra opere note come il «Ritratto d’uomo» (1476) di Antonello da Messina o «Il gioco degli scacchi» (1530-1532 circa) di Giulio Campi e il celebre dipinto di Pisanello, restaurato nel 2008 presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e usualmente conservato nelle raccolte dell’Accademia Carrara di Bergamo, ora chiusa per lavori di restauro e la cui riapertura è prevista per il 2014.
La tempera su tela (28x 19 centimetri), tra le opere più celebri della pittura rinascimentale italiana, raffigura il marchese Lionello d’Este, signore di Ferrara dal 1441 al 1450. Il busto di profilo, simile ai ritratti delle monete imperiali romane, si delinea con fierezza contro lo sfondo blu scuro del cielo, in uno spazio reso più profondo dalla siepe di rose che gioca in funzione di quinta ravvicinata. La spalla marca il primo piano con un ricco broccato a fili d’oro e bordure di velluto su cui spiccano grandi bottoni perlacei. Il volto, dall’incarnato chiarissimo, è contraddistinto dall’impasto prezioso del colore, accarezzato dalla luce che si dirama in sottilissime ombre a definire i tratti essenziali, quasi incisi, della fisionomia.
L’opera, citata per la prima volta nei testi «Pro insigne certamine» di Angelo Decembrio e il «De Politia letteraria» di Ulisse degli Aleotti, fu realizzata a Ferrara nei primi sei mesi del 1441, in occasione di una sfida artistica voluta, secondo le fonti del tempo, da Niccolo III d’Este, che fece ‘duellare’ Pisanello, in punta di pennello, con un altro artista veneto del momento, Jacopo Bellini. Quest’ultimo, stando alla testimonianza di Ulisse degli Aleotti, ebbe la meglio (il suo ritratto è, però, andato perduto), ma Pisanello non conobbe, per questo, scarsa fortuna a Ferrara. Sue sono, intatti, alcune delle più note medaglie celebrative di Lionello d’Este, mentre il ritratto realizzato per la contesa artistica rimase, per lungo tempo, nelle raccolte estensi. L’opera approdò, poi, alla collezione Costabili di Ferrara e venne, quindi, acquistata da Giovanni Morelli, che la lasciò, per legato testamentario, all’Accademia di Carrara.
Renzo Chiarelli, nel 1961, elogiò la tecnica del ritratto, che – si legge in uno dei suoi testi- «sembra giovarsi dell'esperienza del bronzo, specie in quei capelli singolarmente trattati e disposti in piccoli ciuffi filiformi e ricurvi che ravvivano plasticamente quella curiosa mezza parrucca, in aderenza al modo di trattare la materia nei corrispondenti particolari delle medaglie». Mentre Licisco Magagnato, nel 1958, paragonò l’opera, per il suo «carico d’energia», ai «ritratti più alti di Piero della Francesca e Antonio del Pollaiolo», facendone così uno dei simboli più eleganti dell'Italia delle corti.
Didascalia delle immagini
[fig. 1] Antonio Pisano, detto Pisanello, (Pisa, circa 1394 – Roma? 1455), «Ritratto di Lionello d’Este», circa 1441. Tempera su tavola, cm 29 x 19,5. Bergamo, Accademia Carrara
Informazioni utili
«Ritratto di Lionello d’Este». Palazzo Madama - Museo civico d’arte antica, Corte Medievale - piazza Castello - Torino. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-19.00, chiuso lunedì. Ingresso libero. Informazioni: tel. 011.4433501. Sito Internet: www.palazzomadamatorino.it. Da mercoledì 12 dicembre a domenica 13 gennaio 2012.
venerdì 7 dicembre 2012
Fondazione De Fornaris, trent’anni d’arte da Torino a New York
«Trent'anni sono una ricorrenza importante, che invita a volgere indietro lo sguardo, per ripercorrere il cammino compiuto». Così Piergiorgio Re, presidente della Fondazione De Fornaris, parla del prestigioso anniversario che l’istituzione culturale nata a Torino nel 1982, per volere testamentario e grazie al lascito del mecenate e collezionista Ettore De Fornaris, si accinge a festeggiare a New York, nell’ambito della Anno della cultura italiana negli Stati Uniti.
Una tavola rotonda al Guggenheim Museum e due mostre, una all'Istituto Italiano di Cultura di New York e l’altra negli spazi di Industria Superstudio (entrambe visitabili fino a domenica 11 gennaio 2013), compongono il cartellone dell’omaggio americano alla vivace realtà culturale piemontese che, per l’occasione, edita anche un volume bilingue, in italiano e in inglese, dal titolo «Trent'anni d’arte – 1982/2012».
Il catalogo, pubblicato da L’Artistica Editrice, ripercorre, attraverso un centinaio di immagini e testi di Danilo Eccher, Marina Paglieri e Riccardo Passoni, tre decenni di attività e di acquisizioni a fianco della Gam- Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, alla quale, nel corso degli anni, sono state donate, anche in occasione di particolari circostanze come i Giochi olimpici torinesi del 2006 o i centocinquanta anni dell’Italia unita, più di mille opere che spaziano dall’Ottocento ai giorni nostri, firmate, tra gli altri, da Francesco Hayez, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Giacomo Balla, Fausto Melotti, Alberto Burri, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e Giuseppe Penone.
Ad aprire l’intensa programmazione newyorkese sarà, nel pomeriggio di lunedì 10 dicembre, la tavola rotonda «Musei e Collezioni in Italia negli ultimi 30 anni», alla quale prenderanno parte Piero Fassino, sindaco di Torino, Piergiorgio Re, presidente della Fondazione De Fornaris, e Riccardo Viale, direttore dell’Istituto italiano di Cultura di New York. Dopo il benvenuto di Vivien Greene, curatrice dell’arte del XIX e XX secolo per l’istituzione americana, ci sarà un dibattito animato da Germano Celant, direttore artistico della Fondazione Prada, Danilo Eccher, direttore della Gam di Torino, e dall’artista Giuseppe Penone.
Il giorno successivo, martedì 11 dicembre, è in agenda l’inaugurazione della mostra «Morandi e Casorati in collezione De Fornaris: dal laboratorio all’opera», in programma all’Istituto italiano di cultura di Park Avenue. Un dialogo inedito, questo, fra due artisti sostanzialmente coetanei, dai percorsi paralleli, entrambi ossessionati dal problema della «forma», ossia della rappresentazione dell’oggetto trasmutata in senso «intellettuale», e caratterizzati dalla scelta di percorsi artistici solitari, autonomi rispetto al fare pittorico dei loro contemporanei.
Al piano terra dell’Istituto italiano di cultura saranno esposti, accanto a due oli, cinque acquerelli e sei disegni di Giorgio Morandi, tutti appartenenti alla fase tarda dell’artista bolognese. Gli oli testimoniano l’arricchimento della gamma cromatica e tonale, schiarita e modulata negli anni Cinquanta, e l’attenzione sempre maggiore al rapporto con lo spazio, grazie a composizioni sempre più concentrate. Mentre gli acquerelli, ai quali il «pittore delle bottiglie» inizia a lavorare solo quando abbandona l’attività incisoria, presentano forme ormai quasi disfatte, definite da macchie colorate che si avvicinano all’astrazione senza mai abbandonare l’oggetto, anche se dissolte nel colore e nella luce, sempre più chiara e dilagante. La stessa luce che, ancora più forte, ritroviamo nei disegni a matita degli ultimi anni, nei quali si ravvisano forme incompiute, contorni oscillanti, molto più vicini ai valori della pittura che a quelli, più saldi, del disegno tradizionale.
Felice Casorati sarà, invece, in mostra, al primo piano dell’Istituto di cultura, con oli su tela e su tavola, di diversa datazione, che spaziano dal ‘29 al ‘44, nei quali è protagonista la figura femminile, sintetizzata nei volumi, concettualizzata. Sarà, inoltre, esposta, una selezione degli schizzi progettuali dell’artista, tratti dagli album di collezione De Fornaris. Si tratta di una serie di fogli scelti per la ricchezza e la qualità del segno grafico, di datazione incerta (ad eccezione di un solo caso), che appartengono a diversi periodi della produzione del pittore e che testimoniano la sua tipica attenzione per la figura e la composizione già nel piccolo formato di studio. Quella di Casorati è, infatti, una forma già compiuta, costruita per volumi, con chiara ispirazione quattrocentesca, e alcuni rimandi alla metafisica, fino a rasentare, anche in questo caso, l’astrazione, nel senso di sintesi geometrica.
Giovedì 13 dicembre ci si sposterà, infine, nei locali di Industria Superstudio, ampi spazi ex industriali, riconvertiti da sede di un’autorimessa a luoghi per eventi culturali, che hanno sede in Meatpacking District, a poca distanza dalla High Line newyorkese. Qui aprirà al pubblico la mostra «Dalla De Fornaris alla GAM – Arte italiana: protagonisti contemporanei», con un ampio omaggio all’Arte povera, movimento nato a Torino e teorizzato nel 1967 da Germano Celant, del quale la Fondazione De Fornaris possiede alcune opere simbolo, come «Torsione» di Giovanni Anselmo (1968) o «Che fare? » di Mario Merz (1968).
Nella piccola, ma ben studiata rassegna saranno presenti anche lavori di Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Giovanni Anselmo e Giuseppe Penone, del quale sarà esposta la serie fotografica «Lavorare sugli alberi – Alpi marittime» (1968) e il wall-painting site-specific «Propagazione» (1995-2012), realizzato direttamente sulla parete di Industria. Non mancherà, infine, un omaggio ad altri due artisti importanti per l'arte torinese dagli anni Sessanta in poi: Giorgio Griffa e Luigi Mainolfi.
Riflettori, dunque, puntati su Torino, sulla sua storia artistica e sulle sue collezioni a New York, in quella che viene unanimemente considerata la capitale dell’arte mondiale.
Didascalie delle immagini
[fig.l] Giorgio Morandi, «Bottiglia (composizione di oggetti)», (1956). Acquerello su carta, 15.9 x 23.8 cm.Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 2] Giorgio Morandi, «Natura morta», (1950). Olio su tela, 35.5 x 42.5 cm. Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 3] Felice Casorati, «Fanciulla con libro», (1944). Olio su tela, 76 x 41.5 cm.Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 4] Michelangelo Pistoletto, «Pericolo di morte», 1973. Serigrafia su acciaio lucidato a specchio, cm 125.2 x 125.2. Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 5] Giorgio Griffa, «Azzurro barbarico (azzurro barbaro)», 1987. Acrilico su tela grezza, cm 286 x 189.5. Torino, Collezione De Fornaris
Informazioni utili
Fondazione De Fornaris, trent'anni d'arte da Torino a New York. Il calendario degli appuntamenti: lunedì 10 dicembre 2012, ore 17.30 c/o Guggenheim Museum, New yotk, New Media Theatre, tavola rotonda «Musei e Collezioni in Italia negli ultimi 30 anni»; martedì 11 dicembre 2012, ore 18.00 c/o Italian Cultural Institute, 686 Park Avenue - New York, inaugurazione della mostra «Morandi e Casorati in Collezione De Fornaris. Dal laboratorio all’opera» (l'esposizione rimarrà aperta dal 12 dicembre 2012 all'11 gennaio 2013, con i seguenti orari: lunedì-venerdì, ore 10.00-16.00); giovedì 13 dicembre 2012 c/o Industria Superstudio, Meatpacking District, 775 Washington Street - Nwe York, inaugurazione della mostra «Dalla De Fornaris alla GAM - Arte italiana»: protagonisti contemporanei (l'esposizione rimarrà aperta all'11 gennaio 2013, con i seguenti orari: lunedì-venerdì, ore 10.00-18.00). Informazioni: Fondazione De Fornaris, via Magenta 31 - Torino, tel. 011.542491, e-mail fdf@fondazionedefornaris.org. Sito internet: www.fondazionedefornaris.org.
Una tavola rotonda al Guggenheim Museum e due mostre, una all'Istituto Italiano di Cultura di New York e l’altra negli spazi di Industria Superstudio (entrambe visitabili fino a domenica 11 gennaio 2013), compongono il cartellone dell’omaggio americano alla vivace realtà culturale piemontese che, per l’occasione, edita anche un volume bilingue, in italiano e in inglese, dal titolo «Trent'anni d’arte – 1982/2012».
Il catalogo, pubblicato da L’Artistica Editrice, ripercorre, attraverso un centinaio di immagini e testi di Danilo Eccher, Marina Paglieri e Riccardo Passoni, tre decenni di attività e di acquisizioni a fianco della Gam- Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, alla quale, nel corso degli anni, sono state donate, anche in occasione di particolari circostanze come i Giochi olimpici torinesi del 2006 o i centocinquanta anni dell’Italia unita, più di mille opere che spaziano dall’Ottocento ai giorni nostri, firmate, tra gli altri, da Francesco Hayez, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Giacomo Balla, Fausto Melotti, Alberto Burri, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e Giuseppe Penone.
Ad aprire l’intensa programmazione newyorkese sarà, nel pomeriggio di lunedì 10 dicembre, la tavola rotonda «Musei e Collezioni in Italia negli ultimi 30 anni», alla quale prenderanno parte Piero Fassino, sindaco di Torino, Piergiorgio Re, presidente della Fondazione De Fornaris, e Riccardo Viale, direttore dell’Istituto italiano di Cultura di New York. Dopo il benvenuto di Vivien Greene, curatrice dell’arte del XIX e XX secolo per l’istituzione americana, ci sarà un dibattito animato da Germano Celant, direttore artistico della Fondazione Prada, Danilo Eccher, direttore della Gam di Torino, e dall’artista Giuseppe Penone.
Il giorno successivo, martedì 11 dicembre, è in agenda l’inaugurazione della mostra «Morandi e Casorati in collezione De Fornaris: dal laboratorio all’opera», in programma all’Istituto italiano di cultura di Park Avenue. Un dialogo inedito, questo, fra due artisti sostanzialmente coetanei, dai percorsi paralleli, entrambi ossessionati dal problema della «forma», ossia della rappresentazione dell’oggetto trasmutata in senso «intellettuale», e caratterizzati dalla scelta di percorsi artistici solitari, autonomi rispetto al fare pittorico dei loro contemporanei.
Al piano terra dell’Istituto italiano di cultura saranno esposti, accanto a due oli, cinque acquerelli e sei disegni di Giorgio Morandi, tutti appartenenti alla fase tarda dell’artista bolognese. Gli oli testimoniano l’arricchimento della gamma cromatica e tonale, schiarita e modulata negli anni Cinquanta, e l’attenzione sempre maggiore al rapporto con lo spazio, grazie a composizioni sempre più concentrate. Mentre gli acquerelli, ai quali il «pittore delle bottiglie» inizia a lavorare solo quando abbandona l’attività incisoria, presentano forme ormai quasi disfatte, definite da macchie colorate che si avvicinano all’astrazione senza mai abbandonare l’oggetto, anche se dissolte nel colore e nella luce, sempre più chiara e dilagante. La stessa luce che, ancora più forte, ritroviamo nei disegni a matita degli ultimi anni, nei quali si ravvisano forme incompiute, contorni oscillanti, molto più vicini ai valori della pittura che a quelli, più saldi, del disegno tradizionale.
Felice Casorati sarà, invece, in mostra, al primo piano dell’Istituto di cultura, con oli su tela e su tavola, di diversa datazione, che spaziano dal ‘29 al ‘44, nei quali è protagonista la figura femminile, sintetizzata nei volumi, concettualizzata. Sarà, inoltre, esposta, una selezione degli schizzi progettuali dell’artista, tratti dagli album di collezione De Fornaris. Si tratta di una serie di fogli scelti per la ricchezza e la qualità del segno grafico, di datazione incerta (ad eccezione di un solo caso), che appartengono a diversi periodi della produzione del pittore e che testimoniano la sua tipica attenzione per la figura e la composizione già nel piccolo formato di studio. Quella di Casorati è, infatti, una forma già compiuta, costruita per volumi, con chiara ispirazione quattrocentesca, e alcuni rimandi alla metafisica, fino a rasentare, anche in questo caso, l’astrazione, nel senso di sintesi geometrica.
Giovedì 13 dicembre ci si sposterà, infine, nei locali di Industria Superstudio, ampi spazi ex industriali, riconvertiti da sede di un’autorimessa a luoghi per eventi culturali, che hanno sede in Meatpacking District, a poca distanza dalla High Line newyorkese. Qui aprirà al pubblico la mostra «Dalla De Fornaris alla GAM – Arte italiana: protagonisti contemporanei», con un ampio omaggio all’Arte povera, movimento nato a Torino e teorizzato nel 1967 da Germano Celant, del quale la Fondazione De Fornaris possiede alcune opere simbolo, come «Torsione» di Giovanni Anselmo (1968) o «Che fare? » di Mario Merz (1968).
Nella piccola, ma ben studiata rassegna saranno presenti anche lavori di Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Giovanni Anselmo e Giuseppe Penone, del quale sarà esposta la serie fotografica «Lavorare sugli alberi – Alpi marittime» (1968) e il wall-painting site-specific «Propagazione» (1995-2012), realizzato direttamente sulla parete di Industria. Non mancherà, infine, un omaggio ad altri due artisti importanti per l'arte torinese dagli anni Sessanta in poi: Giorgio Griffa e Luigi Mainolfi.
Riflettori, dunque, puntati su Torino, sulla sua storia artistica e sulle sue collezioni a New York, in quella che viene unanimemente considerata la capitale dell’arte mondiale.
Didascalie delle immagini
[fig.l] Giorgio Morandi, «Bottiglia (composizione di oggetti)», (1956). Acquerello su carta, 15.9 x 23.8 cm.Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 2] Giorgio Morandi, «Natura morta», (1950). Olio su tela, 35.5 x 42.5 cm. Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 3] Felice Casorati, «Fanciulla con libro», (1944). Olio su tela, 76 x 41.5 cm.Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 4] Michelangelo Pistoletto, «Pericolo di morte», 1973. Serigrafia su acciaio lucidato a specchio, cm 125.2 x 125.2. Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 5] Giorgio Griffa, «Azzurro barbarico (azzurro barbaro)», 1987. Acrilico su tela grezza, cm 286 x 189.5. Torino, Collezione De Fornaris
Informazioni utili
Fondazione De Fornaris, trent'anni d'arte da Torino a New York. Il calendario degli appuntamenti: lunedì 10 dicembre 2012, ore 17.30 c/o Guggenheim Museum, New yotk, New Media Theatre, tavola rotonda «Musei e Collezioni in Italia negli ultimi 30 anni»; martedì 11 dicembre 2012, ore 18.00 c/o Italian Cultural Institute, 686 Park Avenue - New York, inaugurazione della mostra «Morandi e Casorati in Collezione De Fornaris. Dal laboratorio all’opera» (l'esposizione rimarrà aperta dal 12 dicembre 2012 all'11 gennaio 2013, con i seguenti orari: lunedì-venerdì, ore 10.00-16.00); giovedì 13 dicembre 2012 c/o Industria Superstudio, Meatpacking District, 775 Washington Street - Nwe York, inaugurazione della mostra «Dalla De Fornaris alla GAM - Arte italiana»: protagonisti contemporanei (l'esposizione rimarrà aperta all'11 gennaio 2013, con i seguenti orari: lunedì-venerdì, ore 10.00-18.00). Informazioni: Fondazione De Fornaris, via Magenta 31 - Torino, tel. 011.542491, e-mail fdf@fondazionedefornaris.org. Sito internet: www.fondazionedefornaris.org.
mercoledì 5 dicembre 2012
Alighiero & Boetti, uno «Shaman-showman» tra mappe, lettere e virgole
Mappe geopolitiche puntellate da bandiere, arazzi variopinti con lettere dell’alfabeto, tavole celesti costellate da piccoli aeroplani, grandi lavori a biro ritmati da virgole nere, cartoline postali e ricalchi di giornali e riviste: il ricco universo figurativo di Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994), considerato uno dei più affascinanti e «seminali» protagonisti dell'arte del secondo dopoguerra, va in scena a Milano, nelle sale dello Studio Giangaleazzo Visconti, ubicato nello storico Palazzo Cicognani Mozzoni, dove aveva sede l’atelier di Lucio Fontana.
Trentasei opere, realizzate tra il 1967 e il 1994 (dalla prima personale torinese alla prematura scomparsa), ripercorrono l’eccentrica e caleidoscopica parabola creativa del maestro torinese, figura chiave del poverismo e protagonista indiscusso del concettualismo, recentemente celebrato da un’importante retrospettiva che ho toccato tre prestigiose sedi espositive estere: il Reina Sofia di Madrid, la Tate Modern di Londra e il MoMA di New York.
Emergono dai lavori selezionati per la mostra milanese, aperta fino a venerdì 22 marzo 2013, tutti quei temi che rendono ancora attuale la filosofia di Alighiero Boetti: la complessità del rapporto con l'altro e lo straniero, la mescolanza dei linguaggi e delle culture, il superamento dei confini, il ruolo della comunicazione e dell'immagine nella civiltà della riproduzione, la relazione tra locale e globale, tra microcosmo e macrocosmo.
L’artista torinese è stato capace di cogliere la complessità del mondo contemporaneo e di restituircela attraverso una pluralità di tecniche e di materiali che vanno dai disegni ai ricami, dai collage alle matite su carta, dagli acquerelli agli arazzi, icona più riconoscibile della sua versatile creatività. Non meno nota è quella firma ‘storpiata’, «Alighiero & Boetti», scelta come titolo della mostra milanese, che l’artista iniziò ad usare tra la fine del 1972 e il 1973 e che è cifra simbolica della sua ricerca sull’identità e sul suo doppio, del quale è noto il lavoro «Gemelli» del 1968.
«Alighiero -affermava lo stesso Boetti- è la parte più infantile, più estrema, che domina le cose familiari, Alighiero è il modo in cui mi chiamano e mi nominano le persone che conosco, Boetti è più astratto, appunto, perché il cognome rientra nella categoria, mentre il nome è unico il cognome è già una categoria, una classifica. Questa è una cosa che riguarda tutti. Il nome dà certe sensazioni di familiarità, di conoscenza, di intimità. Boetti, per il solo fatto di essere un cognome, è già un’astrazione, è già un concetto».
Acutissimo teorico senza per questo amare le teorie, pensatore zen, cantastorie di piccole verità in forma di enigma, e, soprattutto, titolista nato (rimane leggendario il suo «Mettere al mondo il mondo» del 1973-1979, diventato lo slogan del primo movimento femminista), il maestro torinese ha attraversato l'universo dell'arte e la vita stessa con la forza di un ciclone, come se sapesse di avere poco tempo a disposizione per lasciare la propria impronta, ironica e svincolata dalle convenzioni, nella storia del Novecento.
Qualche anno prima di morire, con il suo «Non parto, non resto» (1984), Alighiero Boetti aveva lasciato il suo testamento personale e aveva colto nel segno. La sua leggerezza creativa, la sua libertà di pensiero, il suo fare compositivo, comprensivo di tutti i fenomeni del vivere e intriso di elementi personali, ha trovato ‘seguaci’ in Stefano Arienti, Rirkrit Tiravanija, Felix Gonzales-Torres, Philippe Parreno e in tanti altri giovani artisti.
Il percorso espositivo allo Studio Gian Galeazzo Visconti prende, cronologicamente, avvio dal tessuto «Mimetico» (1967), per presentare, poi, altre opere storiche come «Postale» (1974), una serie di buste affrancate e timbrate messe le une accanto alle altre, «Aerei» (1989), un acquerello blu su cui sfrecciano vievoli di varie dimensioni, o ancora «Direzioni suggerite» (1974) e «Piano inclinato» (1981/82), lavori realizzati in penna biro, strumento grazie al quale l’artista creava una complessa e fitta texture, ovvero «un sistema di trasposizione delle parole in immagini, con la segreta speranza» di trovare, un giorno, «quella che disegnerà se stessa».
I veri protagonisti dell’esposizione sono, però, gli arazzi, che Alighiero Boetti fece realizzare in Afghanistan, Paese dove visse, periodicamente, dal 1971 fino all'invasione russa e dove aprì anche un piccolo albergo, lo «One Hotel». Accanto alle mappe, planisferi politici in cui ciascun territorio viene ricamato con i colori e i simboli della bandiera di appartenenza, ci sono i celebri ricami su tela con lettere dell’alfabeto, opere ricche di colori e di frasi che l’artista sceglieva personalmente, per poi farle tessere alle donne di Kabul.«Scrivere -era solito affermare- è disegnare. Le mie scritture sono tutte fatte con la sinistra, una mano che non sa scrivere, mostrano quindi anche una punta di sofferenza fisica, ma scrivere è un gran piacere. Ci sono parole che uccidono, parole che fanno un male tremendo, parole come sassi, parole leggerissime, parole reali come in numeri. Ma se vuoi veramente qualcosa mettilo per iscritto».
«Le infinite possibilità di esistere», «Nella tua vita errante o fratello mio fisso abbi sempre l'occhio alla ciambella e non al foro», «Sciogliersi come neve al sole», «Sragionare in lungo e in largo», «L'insensata corsa della vita delle parole e dei pensieri in giro per il mondo» sono alcuni dei titoli che Alighieri Boetti sceglie per questi suoi lavori, dimostrando quella sua doppia vocazione di «Shaman-showman» dell'arte: «sciamano perché sei sempre uno stregone quando lavori con la mano e la testa (…) showman perché ogni tanto ti tocca fare anche questo», come ebbe a dire a Maurizio Fagiolo dell'Arco in un’intervista per le pagine de quotidiano «Il Messaggero» (marzo 1977). Inarrivabile Boetti!
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Alighiero Boetti, «Nella tua vita errante o fratello mio fisso abbi sempre l'occhio alla ciambella e non al foro», 1994, ricamo su tela, 40x40 cm; [fig. 2] Alighiero Boetti, «Mappa», 1979, ricamo su tela, 131x93 cm; [fig. 3] Alighiero Boetti, «Direzioni suggerite», 1974, 2 elementi, 100x140 cm, penna biro blu su carta intelata; [fig. 4] Alighiero Boetti, «Aerei», 1989, acquerello e spray oro su carta fotografica intelata, 68x32,5 cm, 3 elementi
Informazioni utili
«Alighiero & Boetti».Studio Gian Galeazzo Visconti, corso Monforte, 23 - Milano. Orari: lunedì-venerdì, ore 11.00-19.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.795251 o info@studiovisconti.net. Sito web: www.studiovisconti.net. Fino a venerdì 22 marzo 2013.
Trentasei opere, realizzate tra il 1967 e il 1994 (dalla prima personale torinese alla prematura scomparsa), ripercorrono l’eccentrica e caleidoscopica parabola creativa del maestro torinese, figura chiave del poverismo e protagonista indiscusso del concettualismo, recentemente celebrato da un’importante retrospettiva che ho toccato tre prestigiose sedi espositive estere: il Reina Sofia di Madrid, la Tate Modern di Londra e il MoMA di New York.
Emergono dai lavori selezionati per la mostra milanese, aperta fino a venerdì 22 marzo 2013, tutti quei temi che rendono ancora attuale la filosofia di Alighiero Boetti: la complessità del rapporto con l'altro e lo straniero, la mescolanza dei linguaggi e delle culture, il superamento dei confini, il ruolo della comunicazione e dell'immagine nella civiltà della riproduzione, la relazione tra locale e globale, tra microcosmo e macrocosmo.
L’artista torinese è stato capace di cogliere la complessità del mondo contemporaneo e di restituircela attraverso una pluralità di tecniche e di materiali che vanno dai disegni ai ricami, dai collage alle matite su carta, dagli acquerelli agli arazzi, icona più riconoscibile della sua versatile creatività. Non meno nota è quella firma ‘storpiata’, «Alighiero & Boetti», scelta come titolo della mostra milanese, che l’artista iniziò ad usare tra la fine del 1972 e il 1973 e che è cifra simbolica della sua ricerca sull’identità e sul suo doppio, del quale è noto il lavoro «Gemelli» del 1968.
«Alighiero -affermava lo stesso Boetti- è la parte più infantile, più estrema, che domina le cose familiari, Alighiero è il modo in cui mi chiamano e mi nominano le persone che conosco, Boetti è più astratto, appunto, perché il cognome rientra nella categoria, mentre il nome è unico il cognome è già una categoria, una classifica. Questa è una cosa che riguarda tutti. Il nome dà certe sensazioni di familiarità, di conoscenza, di intimità. Boetti, per il solo fatto di essere un cognome, è già un’astrazione, è già un concetto».
Acutissimo teorico senza per questo amare le teorie, pensatore zen, cantastorie di piccole verità in forma di enigma, e, soprattutto, titolista nato (rimane leggendario il suo «Mettere al mondo il mondo» del 1973-1979, diventato lo slogan del primo movimento femminista), il maestro torinese ha attraversato l'universo dell'arte e la vita stessa con la forza di un ciclone, come se sapesse di avere poco tempo a disposizione per lasciare la propria impronta, ironica e svincolata dalle convenzioni, nella storia del Novecento.
Qualche anno prima di morire, con il suo «Non parto, non resto» (1984), Alighiero Boetti aveva lasciato il suo testamento personale e aveva colto nel segno. La sua leggerezza creativa, la sua libertà di pensiero, il suo fare compositivo, comprensivo di tutti i fenomeni del vivere e intriso di elementi personali, ha trovato ‘seguaci’ in Stefano Arienti, Rirkrit Tiravanija, Felix Gonzales-Torres, Philippe Parreno e in tanti altri giovani artisti.
I veri protagonisti dell’esposizione sono, però, gli arazzi, che Alighiero Boetti fece realizzare in Afghanistan, Paese dove visse, periodicamente, dal 1971 fino all'invasione russa e dove aprì anche un piccolo albergo, lo «One Hotel». Accanto alle mappe, planisferi politici in cui ciascun territorio viene ricamato con i colori e i simboli della bandiera di appartenenza, ci sono i celebri ricami su tela con lettere dell’alfabeto, opere ricche di colori e di frasi che l’artista sceglieva personalmente, per poi farle tessere alle donne di Kabul.«Scrivere -era solito affermare- è disegnare. Le mie scritture sono tutte fatte con la sinistra, una mano che non sa scrivere, mostrano quindi anche una punta di sofferenza fisica, ma scrivere è un gran piacere. Ci sono parole che uccidono, parole che fanno un male tremendo, parole come sassi, parole leggerissime, parole reali come in numeri. Ma se vuoi veramente qualcosa mettilo per iscritto».
«Le infinite possibilità di esistere», «Nella tua vita errante o fratello mio fisso abbi sempre l'occhio alla ciambella e non al foro», «Sciogliersi come neve al sole», «Sragionare in lungo e in largo», «L'insensata corsa della vita delle parole e dei pensieri in giro per il mondo» sono alcuni dei titoli che Alighieri Boetti sceglie per questi suoi lavori, dimostrando quella sua doppia vocazione di «Shaman-showman» dell'arte: «sciamano perché sei sempre uno stregone quando lavori con la mano e la testa (…) showman perché ogni tanto ti tocca fare anche questo», come ebbe a dire a Maurizio Fagiolo dell'Arco in un’intervista per le pagine de quotidiano «Il Messaggero» (marzo 1977). Inarrivabile Boetti!
martedì 4 dicembre 2012
«Big Bambù», arte ambientale al Macro di Roma
E’ il 2010 quando gli artisti americani Doug e Mike Starn, classe 1961, conquistano il Metropolitan Museum di New York. La loro installazione «Big Bambú: You Can’t, You Don’t and You Won’t Stop» («Non puoi, non vuoi e non ti fermerai») si classifica come la nona esposizione più visitata nella storia del museo americano e la quarta più vista al mondo in quell’anno.
L’imponente opera, successivamente presentata in versione ridotta alla cinquantaquattresima Biennale d’arte di Venezia, è ora al centro della sesta edizione di «Enel contemporanea», progetto espositivo, a cura di Francesco Bonami, con il quale la storica azienda elettrica italiana festeggia anche i suoi primi cinquant’anni di attività.
Dopo la doppia giostra in movimento dell’artista tedesco Carsten Höller e la «casa di farfalle» degli olandesi Bik Van der Pol, il Macro – Museo d’arte contemporanea di Roma apre, dunque, le porte al genio creativo dei gemelli Starn che, da martedì 11 dicembre, offriranno al pubblico l’occasione di sperimentare l’ebbrezza di una passeggiata sospesi nel vuoto, all’interno di una singolare cattedrale-capanna, accessibile a un massimo di centoventi persone alla volta, costruita, nell’arco di due mesi, con ottomila canne di bambù e con l’aiuto di venticinque esperti arrampicatori italiani e americani.
L’opera, che si sviluppa fino a venticinque metri di altezza, è stata concepita dai due artisti come un organismo vivente in continuo cambiamento nella sua complessità ed energia, grazie all’utilizzo di un materiale solido e flessibile, oltre che altamente simbolico, come il bambù. All’interno dell’architettura-scultura l’imprevedibile incrociarsi dei materiali costruttivi diviene, al tempo stesso, elemento giocoso ed espressione della molteplicità della vita, dell’immaginazione e della creatività umana.
Rendendo la flessibilità e gli intrecci del bambù elementi fisici di costruzione ma anche elementi mentali di riflessione, il visitatore può abbandonarsi nello spazio di quest’opera d’arte in continua trasformazione, concepita come se la costruzione non fosse mai finita. «Big Bambù» appare, dunque, come un grande organismo vivo che si trasforma, si muove, si adatta al tempo, che cresce non in dimensioni ma in sensazioni. In questo modo i fratelli Starn creano una delle poche opere d’arte contemporanea che, pur presentandosi nella sua versione ultimata come una scultura, rimane costantemente organica e viva, capace di accogliere lo spettatore e di inglobarlo come parte integrante del processo.
«Big Bambù» sarà anche un sorprendente luogo d’incontro e di aggregazione, dove fermarsi a chiacchierare, ad ascoltare una presentazione, a leggere un libro o anche, semplicemente, a guardare il panorama di Roma da un punto di vista unico e diverso.
Per l’occasione, nell’ottica di una migliore fruibilità dell’area interna di Macro Testaccio, sono state realizzate anche due isole verdi lungo i corridoi laterali, con una selezione botanica di sempreverdi ed essenze ornamentali legate alla tradizione e alla spontaneità del territorio.
Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Mike and Doug Starn, «Big Bambù», Artwork photographs by Doug and Mike Starn. Copyright: courtesy of the artists and ARS (NY), 2012
Informazioni utili
Doug+Mike Starn. «Big Bambù», MACRO Testaccio, piazza Giustiniani, 4 - Roma. Orari: martedì-domenica, ore 16.00-22.00; chiuso il lunedì. Ingresso libero. Informazioni: tel. 06.671070400. Sito Internet: www.enelcontemporanea.com. Da martedì 11 dicembre 2012.
L’imponente opera, successivamente presentata in versione ridotta alla cinquantaquattresima Biennale d’arte di Venezia, è ora al centro della sesta edizione di «Enel contemporanea», progetto espositivo, a cura di Francesco Bonami, con il quale la storica azienda elettrica italiana festeggia anche i suoi primi cinquant’anni di attività.
Dopo la doppia giostra in movimento dell’artista tedesco Carsten Höller e la «casa di farfalle» degli olandesi Bik Van der Pol, il Macro – Museo d’arte contemporanea di Roma apre, dunque, le porte al genio creativo dei gemelli Starn che, da martedì 11 dicembre, offriranno al pubblico l’occasione di sperimentare l’ebbrezza di una passeggiata sospesi nel vuoto, all’interno di una singolare cattedrale-capanna, accessibile a un massimo di centoventi persone alla volta, costruita, nell’arco di due mesi, con ottomila canne di bambù e con l’aiuto di venticinque esperti arrampicatori italiani e americani.
L’opera, che si sviluppa fino a venticinque metri di altezza, è stata concepita dai due artisti come un organismo vivente in continuo cambiamento nella sua complessità ed energia, grazie all’utilizzo di un materiale solido e flessibile, oltre che altamente simbolico, come il bambù. All’interno dell’architettura-scultura l’imprevedibile incrociarsi dei materiali costruttivi diviene, al tempo stesso, elemento giocoso ed espressione della molteplicità della vita, dell’immaginazione e della creatività umana.
Rendendo la flessibilità e gli intrecci del bambù elementi fisici di costruzione ma anche elementi mentali di riflessione, il visitatore può abbandonarsi nello spazio di quest’opera d’arte in continua trasformazione, concepita come se la costruzione non fosse mai finita. «Big Bambù» appare, dunque, come un grande organismo vivo che si trasforma, si muove, si adatta al tempo, che cresce non in dimensioni ma in sensazioni. In questo modo i fratelli Starn creano una delle poche opere d’arte contemporanea che, pur presentandosi nella sua versione ultimata come una scultura, rimane costantemente organica e viva, capace di accogliere lo spettatore e di inglobarlo come parte integrante del processo.
«Big Bambù» sarà anche un sorprendente luogo d’incontro e di aggregazione, dove fermarsi a chiacchierare, ad ascoltare una presentazione, a leggere un libro o anche, semplicemente, a guardare il panorama di Roma da un punto di vista unico e diverso.
Per l’occasione, nell’ottica di una migliore fruibilità dell’area interna di Macro Testaccio, sono state realizzate anche due isole verdi lungo i corridoi laterali, con una selezione botanica di sempreverdi ed essenze ornamentali legate alla tradizione e alla spontaneità del territorio.
Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Mike and Doug Starn, «Big Bambù», Artwork photographs by Doug and Mike Starn. Copyright: courtesy of the artists and ARS (NY), 2012
Informazioni utili
Doug+Mike Starn. «Big Bambù», MACRO Testaccio, piazza Giustiniani, 4 - Roma. Orari: martedì-domenica, ore 16.00-22.00; chiuso il lunedì. Ingresso libero. Informazioni: tel. 06.671070400. Sito Internet: www.enelcontemporanea.com. Da martedì 11 dicembre 2012.
lunedì 3 dicembre 2012
«Be Hobo», quando la crisi finisce sul cartello
La curiosa e provocatoria idea creativa, che debutterà sulla scena italiana domenica 9 dicembre a Pescara, nasce, dunque, dal timore per il futuro del nostro Paese, ma anche da una buona dose di cinica ironia. Se del domani non c’è certezza, si deve essere, infatti, detta l’artista abruzzese, è meglio prepararsi a una vita on the road, dotati di eleganti cartelli per mendicare, dallo sfondo colorato e dalla grafica accattivante, con slogan anticrisi di sicuro effetto come «Accetto anche coupon, sconti, benzina» o «Fashion victim attualmente in rosso».
Il progetto «Be Hobo», il cui nome deriva da quello dei disoccupati vagabondi americani, che scelgono la vita senza tetto per sete di libertà o perché ridotti alla fame, è stato trattato da Jukuki come un vero prodotto, lavorando sulla brandizzazione di accessori per elemosina e creando una campagna marketing sul Web, con tanto di sito Internet, pagina Facebook e profilo Twitter.
Nell’attesa di arricchirsi di una borsa con tutto il kit per l’apprendista mendicante e di una App per tablet, riservata a tutti quelli che si lamentano di essere caduti in miseria, ma non riescono a rinunciare al mondo 2.0, «Be Hobo» scende in piazza. Domenica 9 novembre, dal tardo pomeriggio a mezzanotte, un gruppo di ragazzi -giovani professionisti, scrittori, ambientalisti, tecnici, artigiani e studenti provenienti da tutta Italia- proporrà una vera e propria installazione vivente, dal titolo «So di non avere un futuro ma almeno a domani vorrei arrivarci», sfilando per le vie di Pescara, nella zona dello spazio «La Designeria» di via D’Annunzio, con cartelli e slogan come «La cultura non si compra. Però le tasse universitarie le pago», «Ho un lavoro, ma non arrivo a fine mese», «Pizza € 1,50, Pasta € 5,00, Niente € 0. Cosa mangio oggi? Scegli tu…Grazie e buon appetito».
Giovani choosy anche nel mendicare, dunque, con il progetto di Jukuki, giovane creativa, autrice di corti d'animazione presentati a manifestazioni come il Vitamine Festival di Bologna e il FlashFestival di Torino, che non si pone l'eterno quesito se si possa cambiare o meno la società attraverso l’arte, ma che invita tutti a guardare con occhio positivo al domani.
D'altronde, Albert Einstein insegna: «chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e disagi, inibisce il proprio talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza».
Didascalie delle immagini
[figg. 1, 2, 3 e 4] Cartello per il progetto «Be Hobo» di Jukuki
Informazioni utili
«Be Hobo Day». LaDesigneria, via Gabriele D’Annunzio, 33 - Pescara. Domenica 9 dicembre 2012, dalle ore 16.00 a mezzanotte. Informazioni: cell. +39.3395205451 o info@behobo.it. Web site: www.behobo.it.
venerdì 30 novembre 2012
I ‘guazzi’ geometrici di Manlio Rho
«La verità del pittore è l’inscindibile connessione e la fusione. Il suo vero realismo non consiste nelle luce, nell'aria, nell'acqua, nelle e pietre, nel cemento, nel rame, nel ferro. La massa vede tutti questi fenomeni particolari nel quadro: vede aria, pietra, acqua. Ma, in realtà, sulla tela non c'è che un solo materiale: il colore», scriveva Kazimir Malevic, teorico del Suprematismo e pioniere della pittura non-figurativa insieme con Wassily Kandinsky e Piet Mondrian.
La sua ricerca sulle potenzialità espressive della tavolozza cromatica, unita all’elaborazione di un linguaggio aniconico sui concetti della geometria e dell’ordine, diede vita alla corrente dell’astrattismo geometrico che, nei primi decenni del Novecento, trovò sodali in tutta Europa, come testimoniano il Neoplasticismo olandese, la Bauhaus tedesca e l’Abstraction-Création francese.
In Italia, i principi dell’arte non-figurativa di matrice geometrica ebbero una prima manifestazione pubblica nel 1934, quando a Milano, negli spazi della galleria «Il Milione», si tenne una mostra di Oreste Bigliardi, Virginio Ghiringhelli e Mauro Reggiani.
Contemporaneamente anche a Como si sviluppò un orizzonte di ricerca astratto-geometrica, probabilmente stimolato dalle architetture razionaliste realizzate nella città lombarda da Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni, autore di opere come il Monumento dei caduti (1931-1933) e la Casa del Fascio (1932-1936), importanti documenti del tempo insieme con la sede dei Canottieri Lario (1930-1931) di Gianni Mantero e la Fontana di Camerlata (1936) di Cesare Cattaneo e Mario Radice.
Questo modo di lavorare diventò subito un concreto punto di riferimento per il cosiddetto «Gruppo Como», indicando agli artisti la via del superamento di una concezione mimetica dell’arte in direzione di un linguaggio essenziale, privo di referenti legati alla realtà e radicato nei puri ritmi della forma, in rottura con il dilagante neonaturalismo e con l’emergente monumentalismo e in direzione chiaramente europea. I principali protagonisti di questa stagione pittorica furono Carlo Badiali, Aldo Galli, Mario Radice e Manlio Rho. Attorno a loro si riunì un gruppo di pittori locali interessato a percorrere la strada della geometria nell’arte, tra i quali Aristide Bianchi, Cordelia Cattaneo, Carla Prina ed Eligio Torno.
Fulcro di questo sodalizio astratto-razionalista, che nel 1942 assurse agli onori della cronaca grazie alla partecipazione alla Biennale di Venezia, fu Manlio Rho, protagonista in questi giorni di una personale alla Galleria Roberta Lietti di Como. La mostra, realizzata in collaborazione con la famiglia dell’artista, allinea una ventina di ‘guazzi’ (o nella forma francese gouache), databili tra il 1954 e il 1957, di varie dimensioni, in gran parte mai esposti. Si tratta di carte, ora dalla struttura compositiva geometrica ora dalla gestualità sorprendentemente dinamica, realizzate utilizzando un tipo di colore a tempera reso più pesante e opaco dall’aggiunta di un pigmento bianco, per esempio biacca o gesso, mescolato con la gomma arabica.
Il cromatismo di queste opere è, per usare le parole di Luciano Caramel, «limitato alle diverse luminosità di un unico valore, in contrasto con il Rho ‘classico’ delle scansioni limpide, fermamente ancorate ad una razionalità lucida».
Il rigore compositivo ha, come in molti dipinti, il pregio di non essere statico, ma vibrante. «Non ci si sente mai chiusi – scrisse, una decina di anni fa, Luigi Cavadini- dentro gli intrecci verticali-orizzontali della pittura di Manlio Rho o dei suoi disegni e certo quando compaiono le linee oblique il dinamismo assume un valore ancora più intrigante». Il rigore lascia così spazio all’immaginazione, ad «un gioco che quando riesce -per usare le parole di Fausto Melotti- è poesia».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Manlio Rho, Composizione, 1955/1957. Pasta amido viola scuro su carta, 50 x 35 cm; [fig. 2]Manlio Rho, Composizione, 1955/1957. Pasta amido bruno su carta, 48,8 x 36 cm; [fig. 3] Manlio Rho,Composizione, 1957, 13. Tecnica mista su carta, 69,5 x 50cm
Informazioni utili
Manlio Rho - 'Guazzi'.Roberta Lietti arte contemporanea, via Diaz, 3 - Como. Orari: martedì-sabato, ore 15.30-19.00, chiuso lunedì e festivi. Ingresso libero. Informazioni: info@robertalietti.com tel. 031.242238 o info@robertalietti.com. Sito web: www.robertalietti.com. Fino al 20 dicembre 2012.
La sua ricerca sulle potenzialità espressive della tavolozza cromatica, unita all’elaborazione di un linguaggio aniconico sui concetti della geometria e dell’ordine, diede vita alla corrente dell’astrattismo geometrico che, nei primi decenni del Novecento, trovò sodali in tutta Europa, come testimoniano il Neoplasticismo olandese, la Bauhaus tedesca e l’Abstraction-Création francese.
In Italia, i principi dell’arte non-figurativa di matrice geometrica ebbero una prima manifestazione pubblica nel 1934, quando a Milano, negli spazi della galleria «Il Milione», si tenne una mostra di Oreste Bigliardi, Virginio Ghiringhelli e Mauro Reggiani.
Contemporaneamente anche a Como si sviluppò un orizzonte di ricerca astratto-geometrica, probabilmente stimolato dalle architetture razionaliste realizzate nella città lombarda da Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni, autore di opere come il Monumento dei caduti (1931-1933) e la Casa del Fascio (1932-1936), importanti documenti del tempo insieme con la sede dei Canottieri Lario (1930-1931) di Gianni Mantero e la Fontana di Camerlata (1936) di Cesare Cattaneo e Mario Radice.
Questo modo di lavorare diventò subito un concreto punto di riferimento per il cosiddetto «Gruppo Como», indicando agli artisti la via del superamento di una concezione mimetica dell’arte in direzione di un linguaggio essenziale, privo di referenti legati alla realtà e radicato nei puri ritmi della forma, in rottura con il dilagante neonaturalismo e con l’emergente monumentalismo e in direzione chiaramente europea. I principali protagonisti di questa stagione pittorica furono Carlo Badiali, Aldo Galli, Mario Radice e Manlio Rho. Attorno a loro si riunì un gruppo di pittori locali interessato a percorrere la strada della geometria nell’arte, tra i quali Aristide Bianchi, Cordelia Cattaneo, Carla Prina ed Eligio Torno.
Fulcro di questo sodalizio astratto-razionalista, che nel 1942 assurse agli onori della cronaca grazie alla partecipazione alla Biennale di Venezia, fu Manlio Rho, protagonista in questi giorni di una personale alla Galleria Roberta Lietti di Como. La mostra, realizzata in collaborazione con la famiglia dell’artista, allinea una ventina di ‘guazzi’ (o nella forma francese gouache), databili tra il 1954 e il 1957, di varie dimensioni, in gran parte mai esposti. Si tratta di carte, ora dalla struttura compositiva geometrica ora dalla gestualità sorprendentemente dinamica, realizzate utilizzando un tipo di colore a tempera reso più pesante e opaco dall’aggiunta di un pigmento bianco, per esempio biacca o gesso, mescolato con la gomma arabica.
Il cromatismo di queste opere è, per usare le parole di Luciano Caramel, «limitato alle diverse luminosità di un unico valore, in contrasto con il Rho ‘classico’ delle scansioni limpide, fermamente ancorate ad una razionalità lucida».
Il rigore compositivo ha, come in molti dipinti, il pregio di non essere statico, ma vibrante. «Non ci si sente mai chiusi – scrisse, una decina di anni fa, Luigi Cavadini- dentro gli intrecci verticali-orizzontali della pittura di Manlio Rho o dei suoi disegni e certo quando compaiono le linee oblique il dinamismo assume un valore ancora più intrigante». Il rigore lascia così spazio all’immaginazione, ad «un gioco che quando riesce -per usare le parole di Fausto Melotti- è poesia».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Manlio Rho, Composizione, 1955/1957. Pasta amido viola scuro su carta, 50 x 35 cm; [fig. 2]Manlio Rho, Composizione, 1955/1957. Pasta amido bruno su carta, 48,8 x 36 cm; [fig. 3] Manlio Rho,Composizione, 1957, 13. Tecnica mista su carta, 69,5 x 50cm
Informazioni utili
Manlio Rho - 'Guazzi'.Roberta Lietti arte contemporanea, via Diaz, 3 - Como. Orari: martedì-sabato, ore 15.30-19.00, chiuso lunedì e festivi. Ingresso libero. Informazioni: info@robertalietti.com tel. 031.242238 o info@robertalietti.com. Sito web: www.robertalietti.com. Fino al 20 dicembre 2012.
mercoledì 28 novembre 2012
Fausto Melotti, l'arte della ceramica e il mito di Kore
«Io non amo molto la ceramica. E' una cosa anfibia e sotto sotto c'è sempre un piccolo imbroglio, perché non puoi sapere esattamente quello che fai. C'è un super-regista che è il fuoco, che ti monta alle spalle e alla fine dirige lui le operazioni. Per quanto tu faccia, alla fine una virgola ce la mette lui e questo a un artista darà sempre fastidio». Così nel 1974 Fausto Melotti (Rovereto, 1901 – Milano, 1986) raccontava in un'intervista ad «Harper's Bazar» il difficile rapporto con l'arte ceramica, un'attività alla quale egli si dedicò febbrilmente per oltre trent'anni, inizialmente ‘costretto’ dalle necessità economiche della famiglia più che da una reale passione.
Nacquero così oltre millecinquecento lavori scultorei e oggetti d'uso comune, che, una decina di anni fa, vennero raccolti in un catalogo ragionato edito da Skira editore, frutto di un lungo e difficile lavoro di ricerca e di schedatura promosso e finanziato dal Museo d'arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e dall'Archivio Melotti di Milano per rendere finalmente accessibile ai più un segmento ancora poco conosciuto e studiato della produzione dello scultore trentino.
Dopo una prima fase artigianale, avviata nel 1943 per far fronte alle spese della ricostruzione del suo studio milanese raso al suolo dai bombardamenti americani, l’artista roveretano unì alla realizzazione di oggetti più commerciali, legati alle committenze, un lavoro di sperimentazione sui materiali e di invenzione di nuove forme.
Nacquero così -accanto a servizi da tè e caffè, piatti, cornici, lampade e campanelli (molti realizzati in collaborazione con Richard Ginori)- sculture dalle sfoglie leggerissime, quasi trasparenti, e dai colori brillanti e sontuosi.
A poco a poco, il Fausto Melotti artigiano se ne andò in pensione per lasciare il posto al Fausto Melotti «acrobata invisibile del ‘900», inventore di poetiche, musicali e aeree forme in ferro, acciaio, ottone e bronzo, nelle quali è concretamente visibile la totale avversione a quella che lo stesso artista definì in «Linee» (1981) come «lo stupido amore della materia».
Di sperimentazione in sperimentazione, la fantasia fanciullesca e la voglia di divertirsi, di prendersi gioco come un bambino bricconcello della realtà, portarono l'artista ad inventare anche quelli che il filosofo Massimo Carboni ha definito «oggetti-soglia», oggetti cioè che negano la loro funzione nel momento stesso in cui la propongono. Ecco così venire alla luce quel mondo onirico e fiabesco fatto di campanelli per la servitù tanto fragili da non essere suonati, di brocche con manici che non si possono impugnare, di tazzine di caffè tanto alte da non permettere al cucchiaino di toccare il fondo e di vasi sottili come ali di farfalla, così delicati da sembrare incapaci di sopportare anche il peso di un singolo fiore.
Tra le opere scultoree melottiane più celebri si annoverano i «Teatrini», che rivelano un gusto poverista ante-litteram, e le «korai», figure femminili lunghe e sottili, dalla semplicità arcaica, sulle quali sono impressi ornamenti vegetaliformi di ascendenza secessionista. Quest’ultime sculture sono al centro della mostra «Fausto Melotti. Dei misteri eleusini. Ceramiche e opere su carta 1948–1980», in programma alla galleria Repetto Projects di Milano, nei nuovi spazi di via Senato, inaugurati lo scorso settembre con una omaggio a Andy Warhol.
L’esposizione, che si avvale della consulenza dell’Archivio Melotti, raccoglie una trentina di opere, non solo Kore (la fanciulla del grano), ma anche ciotole in terracotta, vasi in ceramica, disegni e tecniche miste, selezionati da Carlo e Paolo Repetto.
Appassionato interprete dell'antica mitologia greca, Fausto Melotti coltivò sempre un amore particolare per i misteri eleusini: antichissimi riti religiosi, risalenti al periodo miceneo e sviluppatisi in tutta la grecità a partire dal VII secolo a.c., che erano legati al mito di Persefone-Kore, di sua madre Demetra, e di Ade, il signore del regno dei morti.
L’artista, con l’arte ceramica, ha saputo reinterpretare questa liturgia connessa allo scandirsi delle stagioni sulla terra, modellando la figura di Kore, in varie dimensioni e vari colori: dal bianco al nero, dal grigio all’azzurro, in una semplice e mirabile plasticità ricolma di rito, solennità, sacrificio, grazia.
Accanto a queste sculture sono esposti a Milano vasi stilizzati a colonna, arcaico simbolo di una fascinosa origine micenea, e ciotole di vari colori, «umili contenitori - si legge nella nota stampa- del kykeon (ciceone), il distillato cerimoniale a base di orzo (probabilmente molto vicino alla nostra birra) bevuto dagli iniziati del culto». Emerge dalla opere selezionate per la mostra milanese, come dall'intera produzione melottiana, la sensibilità di un animo votato alla poesia.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Fausto Melotti, «Kore», 1955. Ceramica smaltata.
Informazioni utili
«Fausto Melotti. Dei misteri eleusini. Ceramiche e opere su carta 1948–1980». Galleria Repetto Projects, via Senato, 24 - Milano. Orari: martedì-sabato, ore 11.00-19.00, sabato su appuntamento. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.36590463, info@repettoprojects.com. Sito web: www.repettoprojects.com. Inaugurazione: giovedì 29 novembre, ore 18.00. Fino a sabato 22 dicembre 2012.
Nacquero così oltre millecinquecento lavori scultorei e oggetti d'uso comune, che, una decina di anni fa, vennero raccolti in un catalogo ragionato edito da Skira editore, frutto di un lungo e difficile lavoro di ricerca e di schedatura promosso e finanziato dal Museo d'arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e dall'Archivio Melotti di Milano per rendere finalmente accessibile ai più un segmento ancora poco conosciuto e studiato della produzione dello scultore trentino.
Dopo una prima fase artigianale, avviata nel 1943 per far fronte alle spese della ricostruzione del suo studio milanese raso al suolo dai bombardamenti americani, l’artista roveretano unì alla realizzazione di oggetti più commerciali, legati alle committenze, un lavoro di sperimentazione sui materiali e di invenzione di nuove forme.
Nacquero così -accanto a servizi da tè e caffè, piatti, cornici, lampade e campanelli (molti realizzati in collaborazione con Richard Ginori)- sculture dalle sfoglie leggerissime, quasi trasparenti, e dai colori brillanti e sontuosi.
A poco a poco, il Fausto Melotti artigiano se ne andò in pensione per lasciare il posto al Fausto Melotti «acrobata invisibile del ‘900», inventore di poetiche, musicali e aeree forme in ferro, acciaio, ottone e bronzo, nelle quali è concretamente visibile la totale avversione a quella che lo stesso artista definì in «Linee» (1981) come «lo stupido amore della materia».
Di sperimentazione in sperimentazione, la fantasia fanciullesca e la voglia di divertirsi, di prendersi gioco come un bambino bricconcello della realtà, portarono l'artista ad inventare anche quelli che il filosofo Massimo Carboni ha definito «oggetti-soglia», oggetti cioè che negano la loro funzione nel momento stesso in cui la propongono. Ecco così venire alla luce quel mondo onirico e fiabesco fatto di campanelli per la servitù tanto fragili da non essere suonati, di brocche con manici che non si possono impugnare, di tazzine di caffè tanto alte da non permettere al cucchiaino di toccare il fondo e di vasi sottili come ali di farfalla, così delicati da sembrare incapaci di sopportare anche il peso di un singolo fiore.
Tra le opere scultoree melottiane più celebri si annoverano i «Teatrini», che rivelano un gusto poverista ante-litteram, e le «korai», figure femminili lunghe e sottili, dalla semplicità arcaica, sulle quali sono impressi ornamenti vegetaliformi di ascendenza secessionista. Quest’ultime sculture sono al centro della mostra «Fausto Melotti. Dei misteri eleusini. Ceramiche e opere su carta 1948–1980», in programma alla galleria Repetto Projects di Milano, nei nuovi spazi di via Senato, inaugurati lo scorso settembre con una omaggio a Andy Warhol.
L’esposizione, che si avvale della consulenza dell’Archivio Melotti, raccoglie una trentina di opere, non solo Kore (la fanciulla del grano), ma anche ciotole in terracotta, vasi in ceramica, disegni e tecniche miste, selezionati da Carlo e Paolo Repetto.
Appassionato interprete dell'antica mitologia greca, Fausto Melotti coltivò sempre un amore particolare per i misteri eleusini: antichissimi riti religiosi, risalenti al periodo miceneo e sviluppatisi in tutta la grecità a partire dal VII secolo a.c., che erano legati al mito di Persefone-Kore, di sua madre Demetra, e di Ade, il signore del regno dei morti.
L’artista, con l’arte ceramica, ha saputo reinterpretare questa liturgia connessa allo scandirsi delle stagioni sulla terra, modellando la figura di Kore, in varie dimensioni e vari colori: dal bianco al nero, dal grigio all’azzurro, in una semplice e mirabile plasticità ricolma di rito, solennità, sacrificio, grazia.
Accanto a queste sculture sono esposti a Milano vasi stilizzati a colonna, arcaico simbolo di una fascinosa origine micenea, e ciotole di vari colori, «umili contenitori - si legge nella nota stampa- del kykeon (ciceone), il distillato cerimoniale a base di orzo (probabilmente molto vicino alla nostra birra) bevuto dagli iniziati del culto». Emerge dalla opere selezionate per la mostra milanese, come dall'intera produzione melottiana, la sensibilità di un animo votato alla poesia.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Fausto Melotti, «Kore», 1955. Ceramica smaltata.
Informazioni utili
«Fausto Melotti. Dei misteri eleusini. Ceramiche e opere su carta 1948–1980». Galleria Repetto Projects, via Senato, 24 - Milano. Orari: martedì-sabato, ore 11.00-19.00, sabato su appuntamento. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.36590463, info@repettoprojects.com. Sito web: www.repettoprojects.com. Inaugurazione: giovedì 29 novembre, ore 18.00. Fino a sabato 22 dicembre 2012.