venerdì 31 luglio 2020

A Conegliano «Il racconto della montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento»

È il 1864 quando due viaggiatori britannici, Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill, danno alle stampe il libro «The Dolomite Mountains». Il primo è un artista, abile con il disegno e l’acquarello; l’altro è uno scienziato, naturalista e botanico, con il block notes e il raccoglitore di erbe sempre sotto il braccio. Tra il 1861 e il 1863, con le mogli al seguito, che li aiutano a relazionarsi con le introverse popolazioni locali, avendo così «accesso a molte case e cuori contadini», i due turisti esplorano il territorio, allora piuttosto sconosciuto, delle montagne che incorniciano il nord-est italiano, andando alla scoperta di una valle dietro l’altra, dal Tirolo alle Alpi venete.
Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill, con le loro amate consorti S. e A., rimangono incantati da quei luoghi con le rupi «come absidi di enormi cattedrali» e i crinali simili a «muri di abbazie in rovina». Con l’intento di «colmare un vuoto nella letteratura alpina», raccontano quel territorio in un libro pubblicato per i tipi di Longman.
Al momento di dare alle stampe il volume hanno anche l’idea di dare un nuovo nome a quell’arco alpino e per farlo si ispirano alle rocce dolomie, ovvero alla scoperta del geologo Déodat de Dolomieu, che per primo aveva scritto, all’epoca della Rivoluzione francese, sulla particolarità che avevano le guglie delle montagne nel nord-est italiano, le cui pietre calcaree, trattate con acido cloridrico, non davano luogo a effervescenza.
È l’inizio della fama per le Dolomiti, che diventano, lentamente, di moda oltre Manica come meta del Grand Tour, il «viaggio per imparare a vivere» che l’élite nord europea, soprattutto britannica, compie tra il XVIII e il XIX secolo. Quella fama è destinata ad aumentare, nei decenni successivi, con l'apertura di ardite strade carrozzabili, di nuovi alberghi e con il soggiorno dell'imperatrice Sissi al Grand Hotel Karezza nell'agosto del 1897.
Il libro di Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill è stato scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «Il racconto della montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento», per la curatela di Giandomenico Romanelli e Franca Lugato, allestita negli spazi di Palazzo Sarcinelli a Conegliano Veneto, città di grande fascino al centro delle colline del prosecco e sentinella delle Dolomiti.
Accanto a questo volume viene presentato anche un altro testo importante per la storia di quest’angolo d’Italia, patrimonio mondiale dell’umanità di Unesco. Si tratta del «Bel Paese», pubblicato nel 1876 dall’abate rosminiano Antonio Stoppani, docente di geologia a Pavia e a Milano. Il volume, destinato a costituire la magna carta della geografia dello Stivale, adotta l’espediente della conversazione borghese in salotto, davanti al camino, con i nipotini, per raccontare la bellezza del nostro Paese; e il racconto parte proprio dal territorio dolomitico compreso tra Belluno e Agordo.
Da questi due volumi si dipana un’importante riflessione sul paesaggio montano tra Ottocento e Novecento, che allinea libri, stampe, carte geografiche e opere di celebri autori italiani e stranieri che hanno frequentato le Dolomiti, da Ciardi a Compton, da Sartorelli a Pellis, da Wolf Ferrari a Chitarin.
Se Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill fanno diventare le Dolomiti una meta turistica, al veneziano Guglielmo Ciardi si deve, invece, l’invenzione della cosiddetta «pittura di montagna», fatta en plein air, nella natura e con l’inebriante luce alpina come compagna. L'artista porta il cavalletto e la tavolozza di colori dal Grappa all’Altipiano di Asiago, dalle Dolomiti alle Alpi Carniche. Le vette rocciose dai colori rosati, i piani innevati, il ghiacciaio della Marmolada, gli alpeggi in quota entrano così nel suo bagaglio figurativo, ma anche in quello dei figli Emma e Beppe e dell’allievo Giovanni Salviati.
Dal realismo si passa alla stagione simbolista con pittori come Francesco Sartorelli (1856- 1939), Traiano Chitarin(1864-1935), Teodoro Wolf Ferrari, (1878-1945), Carlo Costantino Tagliabue (1880-1960), Millo Bortoluzzi (1905-1995), Marco Davanzo (1872-1955), Giovanni Napoleone Pellis (1888-1962). Nelle loro opere le atmosfere si caricano di suggestioni cromatiche rosate, crepuscolari, indefinite. Le forme si sfaldano nei riflessi dell’alba o del tramonto così da far rivivere l’intera tradizione di miti e favole legate alla montagna, ora considerata sede degli dei ora trono di Giove e cuscino per i suoi piedi.
Un discorso a parte merita il triestino Ugo Flumiani (1876-1938), che vanta al suo attivo una splendida e poco conosciuta produzione di paesaggi montani dalla ricca e pastosa pennellata e dall’originale taglio compositivo come si può ben apprezzare nella piccola e preziosa tela «Da Tarvisio. I nuovi confini della patria». L'artista friulano ci ha lasciato anche una serie di opere dedicate all’interpretazione delle «viscere» della montagna con alcune inedite visioni del Carso, o meglio delle Grotte di San Canziano, di cui coglie fiumi sotterranei, stalattiti, profonde acque increspate.
Un effetto di silenziosa sospensione trapela, invece, dalle tele del bosnìaco-erzegòvino Gabril Jurkić (1886-1974), che attribuisce nuovi valori simbolici e mistici al paesaggio alpino oltre il confine italiano. «Dalla neve, dal luccicare delle distese bianche e dal contrasto con l’azzurro del cielo e i colori vivacissimi delle vesti della gente di montagna, -raccontano i curatori- l'artista ha tratto l’essenziale per una pittura modernista e sintetista».
Una selezione di manifesti dei primi decenni del Novecento provenienti dalla collezione Salce di Treviso arricchisce il racconto con la pubblicità degli sport invernali, in particolare grazie ai lavori dell’austro-italiano Franz Lenhart incentrati sulle Dolomiti e Cortina. «Perfetti nel taglio modernista, nella tipizzazione dei personaggi, nella essenzialità decorativa dei paesaggi, nell’anti naturalismo e nella vivacissima gamma cromatica, -raccontano i curatori della mostra- questi manifesti ci raccontano una montagna giovane, felice e dinamica con uno stile che richiama la grande tradizione cartellonistica italiana e francese del primo Novecento e un accenno al sintetismo elegante tipico delle riviste americane».
La mostra offre anche degli interessanti focus su alcune figure, dalla storia affascinante, legate alla montagna. Si parla, per esempio, di resistenza e di coraggio con la vicenda della trevigiana Irene Pigatti (1859-1937), pioniera dell’alpinismo dolomitico e «collezionista» di cime, a partire dall’ascensione al monte Cristallo, sulle Dolomiti ampezzane, nel 1886 e del Cimon del Froppa, la maggiore montagna del gruppo delle Marmarole nelle Dolomiti Cadorine, nel 1888.
Altra figura interessante è quella del triestino Napoleone Cozzi, uno dei primi interpreti dell'alpinismo senza guida nelle Dolomiti e precursore dell'arrampicata sportiva con il gruppo «Squadra volante». In mostra sono esposti tre suoi taccuini, conservati nell’Archivio della Società alpina delle Giulie di Trieste e noti quasi esclusivamente agli addetti ai lavori, che raccontano, attraverso una serie di acquerelli e didascalie ironiche e spassose, le sue imprese sulle Prealpi Giulie nel 1898 e sulle Prealpi Clautane, le attuale Dolomiti friulane, nel 1902.
Nell’ultimo album c’è una dedica al trevigiano Giuseppe Mazzotti (1907-1981), direttore dell'Ente provinciale per il turismo e autore di numerosi lavori per la promozione del territorio, altra figura interessante che la mostra di Conegliano permette di conoscere.
Nel suo fortunato «La montagna presa in giro», il critico d’arte e saggista preannuncia il timore di un turismo sfrenato e non di qualità, osservando i nuovi costumi e le recenti liturgie attorno alla montagna e denunciando con ironia le «smanie» di villeggiatura che «inquinano» la bellezza: dalle attrezzature sportive ai segnali colorati per indicare i sentieri, dagli elegantoni alle femmes fatales, dai beoni alle automobili. Quella sezione del libro si intitola «Ferragosto ed altri guai» e lì c'è tutto il guizzo profetico di chi conosce gli uomini, con i loro vizi e virtù, ma soprattutto ha un rapporto privilegiato con la montagna perché l’ha studiata, percorsa, scalata, corteggiata, blandita, difesa. Amata, senza se e senza ma.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Sandro Bidasio Degli Imberti, detto Sabi, Dolomiti provincia di Belluno, 1950 ca, riproduzione fotomeccanica, 35 x 25 cm, inv. 07805 162D Treviso, Museo nazionale Collezione Salce, Polo Museale del Veneto, su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo; [fig. 2] Franz Lenhart, Cortina, 1947 ca, riproduzione fotomeccanica, 102,1 x 70 cm, inv. 10942 Treviso, Museo nazionale Collezione Salce, Polo Museale del Veneto, su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo; [fig. 3] Giovanni Salviati, Cime di Lavaredo Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 4] Carlo Costantino Tagliabue, Cortina Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 5] Giovanni Napoleone Pellis, Il viatico in montagna, 1921-22 olio su tela, 178 x 336 cm Udine, Casa Cavazzini – Museo di Arte Moderna e Contemporanea 

Informazioni utili 
«Il racconto della montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento». Palazzo Sarcinelli, via XX settembre 132 – Conegliano Veneto. Orari: dal giovedì alla domenica, dalle 11 alle 19. Ingresso: intero € 11, ridotto € 8,50 (per studenti, adulti over 65 anni, convenzioni, residenti nel Comune di Conegliano nei giorni feriali), biglietto speciale € 7,00 per tutti i membri CAI e speciali convenzioni; gratuità e altri biglietti sono consultabili sul sito della mostra. Informazioni e prenotazioni: call center, 0438.1932123. Fino all’8 dicembre 2020.

giovedì 30 luglio 2020

Raffaello500, due musei virtuali per conoscere il «Divin pittore»

È difficile immaginare lo stupore, la commozione e la tristezza dei romani la sera di venerdì 6 aprile 1520, nei giorni del triduo pasquale, quando nella Città eterna si diffuse la notizia della prematura morte di Raffaello Sanzio.
Le cronache del tempo raccontano addirittura che mentre il pittore spirava nella sua casa capitolina, dopo quindici giorni di «febbre continua e acuta», un terremoto scosse i palazzi vaticani e il cielo si riempì di nuvole scure, come se fosse scomparsa una divinità.
Il racconto, che ha del leggendario, è un leit motiv nella narrazione di tanti intellettuali coevi all’artista, da Marcantonio Michiel a Giovan Paolo Lomazzo, che consideravano Raffaello tanto «divino» da paragonarlo a una reincarnazione di Cristo: come il Signore, il pittore era morto di Venerdì santo e come lui era di una bellezza gentile, con la barba e i capelli lunghi e lisci, scriminati al centro.
A contribuire alla costruzione del mito fu anche l’epitaffio funebre, che orna la tomba al Pantheon, posta sotto l’edicola della Madonna del sasso di Lorenzetto, il cui testo fu per lungo tempo attribuito a Pietro Bembo e ora sembra essere opera di Tebaldeo: «Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci rerum magna parens et moriente mori», ovvero «Qui giace quel Raffaello, da cui, vivo, Madre Natura temette di essere vinta e quando morì, [temette] di morire [con lui]».
Al coro delle lodi si unì, infine, Giorgio Vasari che, nel suo libro «Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri» (1568), offrì un ritratto indimenticabile dell’artista: «Raffaello […] fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole alcuna volta vedersi in coloro che più degl’altri hanno a una certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d’una graziata affabilità, che sempre suol mostrarsi dolce e piacevole con ogni sorte di persone et in qualunche maniera di cose».
Non è difficile capire il motivo di tanta stima. Alla morte prematura, a soli trentasette anni, l’artista era al culmine della sua fama e della sua fortuna. Era conteso da papi e da principi. Vantava l’amicizia di poeti e letterati. Era amato da donne bellissime e lui ne amava una più di tutte, Margherita Luti, la Fornarina, che ritrasse in un dipinto, esempio magistrale della fusione tra dolcezza e sensualità. Stava per realizzare una delle massime aspirazioni intellettuali del suo tempo, quel Rinascimento che guardava all’antichità come un’epoca di perfezione. Con papa Leone X, come documenta una lettera del 1519 conservata all’Archivio di Stato di Mantova (e attualmente in mostra alla Scuderie del Quirinale), Raffaello stava, infatti, lavorando a un grande progetto di ricostruzione grafica della Roma antica, purtroppo rimasto incompiuto.
Ma l’artista era anche il pittore «divino», il «principe delle arti», che dipingeva ritratti delicati e pieni di grazia, dalla composizione armonica ed equilibrata, dove il ritmo e la misura traevano ispirazione dalla classicità. Con la sua arte aveva messo in scena un mondo che sembrava non esistere se non in una dimensione platonica, metafisica. Le sue donne, ma anche e soprattutto le sue Madonne, erano, infatti, -per usare un’espressione del pittore tedesco Anton Raphael Mengs nel Settecento- «bellezze della ragione e non degli occhi», tanto erano perfette, così idealizzate da non apparire umane o da sembrare impossibile che avessero un modello reale di riferimento. Si pensi allo «Sposalizio della Vergine» (1504), alla «Madonna del cardellino» (1505-1506), alla «Belle Jardinière» (1507), alla «Madonna del diadema blu» (1511), alla «Sacra famiglia sotto la quercia» (1518) o alla «Madonna della seggiola» (1513-1514), solo per fare qualche esempio.
Gli uomini ritratti -papi, cardinali, nobili del tempo-, invece, erano più simili a loro stessi sulla tela che non nella realtà e questo era frutto di una raffinata capacità introspettiva dell’artista, in grado di cogliere i sentimenti, l’anima di chi aveva di fronte. Ne è prova, tra i tanti, il ritratto di papa Giulio II, databile al 1511, del quale colpisce la melanconica pensosità.
Cinquecento anni dopo il mito di Raffaello rivive alle Scuderie del Quirinale, dove fino al 30 agosto sono state riunite centoventi delle sue opere, tra cui quadri simbolo come la «Fornarina» (1520 circa), la «Velata» (1516 circa), la «Madonna del Granduca» (1504 circa), il «Ritratto di Leone X» (1518), il «Ritratto di Baldassare Castiglione» (1514-1515), l’«Estasi di Santa Cecilia» (1514 circa) della Pinacoteca di Bologna e la «Madonna della Rosa» (1518 circa) del Prado.
Ma, in questi mesi di distanziamento sociale e di contingentamento degli ingressi nei musei, l’artista viene celebrato anche on-line non solo dal museo romano con il progetto «Raffaello - Oltre la mostra», ma anche da Musement, piattaforma digitale per la prenotazione di attività turistiche e di biglietti per attrazioni ed eventi, che ha voluto festeggiare l’anniversario raffaellesco con la creazione di un museo virtuale.
Comodamente seduti davanti al proprio laptop, tablet o smartphone si potrà viaggiare tra undici Paesi e trenta città alla scoperta di un centinaio di opere di Raffaello, tra capolavori e gemme poco conosciute al grande pubblico, compresi gli affreschi, dalla «Madonna di casa Santi» alla «Scuola di Atene», nella Stanza della Segnatura in Vaticano.
Per partire non serve allacciare la cintura di sicurezza o acquistare un biglietto aereo, basta, infatti, un semplice clic per ritrovarsi ai Musei vaticani di Roma, al Louvre di Parigi, alla Galleria degli Uffizi di Firenze, al Prado di Madrid o al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo.
Il museo virtuale permette di ingrandire le opere, ma anche di scoprirne le dimensioni o il periodo di realizzazione, così da confrontarle con lavori coevi.
Anche sulla piattaforma BricksLab, che ospita contenuti editoriali per la didattica, è presente un progetto virtuale dedicato al «Divin pittore»: Raffaello VR, che focalizza l’attenzione su ventidue opere dell’artista e ne racconta la vita offrendo informazioni, guide e approfondimenti utili.
I contenuti creati da Skylab Studios e che si possono trovare all’interno del museo virtuale sono di vario tipo, pensati sia per gli adulti ma anche per i più piccoli: attraverso la tecnica del morphing, i protagonisti dei quadri diventano cartoni animati che raccontano la loro storia. Non solo interattività, quindi, ma anche inclusività: all’interno di Raffaello VR è prevista, infatti, anche una sezione dedicata ai non udenti con delle videoguide LIS. Ciascun contenuto del museo, grazie all’integrazione con BricksLab, può essere utilizzato per costruire la propria didattica e realizzare lezioni e percorsi.
Un’occasione, dunque, interessante quella offerta da Musement e da BricksLab per approfondire la propria conoscenza del pittore urbinate, della cui arte Giorgio Vasari scriveva: «pare che spiri veramente un fiato di divinità nella bellezza delle figure e nella nobiltà di quella pittura, la quale fa maravigliare chi intensissimamente la considera come possa un ingegno umano, con l’imperfezione di semplici colori, ridurre con l’eccellenzia del disegno le cose di pittura a parere vive».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Raffaello Sanzio, La scuola di Atene, 1509-1511 circa. Affresco, cm 500 x 770. Città del Vaticano, Musei vaticani; [fig. 2] Raffaello Sanzio, Madonna di Casa Santi, 1498. Affresco, 97x 67 cm. Urbino, casa natale di Raffaello; [fig. 3] Raffaello, Ritratto di Alessandro Farnese, 1511. Olio su tela, 132 x 86 cm. Napoli, Museo nazionale di Capodimonte; [fig. 4] Raffaello, Angelo (frammento della Pala Baronci), 1500-1501. Olio su tavola trasportata su tela, 55 x 77 cm. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo; [fig. 5] Raffaello, Profeta Isaia, 1511-1512. Affresco, 250 x 155 cm. Roma, Sant'Agostino

Informazioni utili
www.musement.com/it/museo-virtuale-raffaello
www.scuderiequirinale.it/pagine/raffaello-oltre-la-mostra

mercoledì 29 luglio 2020

Georges de la Tour, il «Caravaggio francese» che dipingeva la luce e la realtà

La luce esile e tremolante di una candela illumina lo sguardo e i lineamenti di una donna persa nei suoi pensieri. È seduta a uno scrittoio, forse un mobile da toeletta, visto che sul fondo si intravede una spazzola appoggiata all’interno di un contenitore. I capelli lunghi, lisci e scuri sono sciolti disordinatamente sulle spalle e i vestiti appaiono sgualciti, quasi a suggerire l’intimità della scena. Sembra che la giovane stia tracciando un bilancio di ciò che è stato. Stia riflettendo su un passato di cui si pente. La sua mano sinistra è poggiata su un teschio posto sopra un grande libro, forse la Bibbia. I suoi occhi guardano verso uno specchio, che riflette l’immagine del cranio, simbolo del tempo che passa inesorabilmente. Quel lume che lentamente si consuma, lasciando la stanza in penombra, sottolinea anch’esso la fragilità e la natura effimera della nostra vita terrena.
È questa immagine, di potente e suggestiva intensità emotiva, ad aprire il percorso espositivo della mostra «Georges de La Tour: l’Europa della luce», allestita fino al prossimo 27 settembre a Milano, negli spazi di Palazzo Reale, per la curatela di Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, e con un comitato scientifico composto da Pierre Rosenberg (già direttore del Louvre), Gail Feigenbaum (direttrice del Getty Research Institute) e Annick Lemoine (direttrice del Musée Cognacq‐Jay). L’opera in questione è la «Maddalena penitente» (1635-1640) della National Gallery of Art di Washington, il cui soggetto raffigurato è una costante non solo nella pittura della prima metà dei Seicento, ma anche nella produzione di Georges de la Tour (Vic-sur-Seille, 1593 ‒ Lunéville, 1652), tanto è vero che della Maddalena esistono almeno altre tre versioni sue, conservate rispettivamente al Louvre di Parigi, al Metropolitan Museum of Art di New York e al Los Angeles County Museum of Art.
Il dubbio è d’obbligo. L’artista originario della Lorena, che per il suo studio sulla luce è stato ribattezzato dalla critica con il titolo di «Caravaggio francese», è, infatti, stato riscoperto solo nel secolo scorso, nel 1915, dallo storico dell’arte tedesco Hermann Voss, che grazie ad alcuni documenti scoperti nell’Ottocento attribuì a un certo Georges Dumesnil de La Tour il dipinto «Il neonato» del Musée des Beaux-Arts di Rennes.
Stimato dai suoi contemporanei, tanto da essere chiamato tra il 1639 e il 1641 alla corte parigina come pittore di Luigi XIII, il re francese che conservava nella sua stanza privata, spogliata di ogni altro quadro, un «San Sebastiano curato da Irene» dell’artista, Georges de la Tour viene presto dimenticato. Le sue tracce, in quella terra di frontiera caratterizzata da guerre e carestie, si perdono già nel XVIII secolo. Alcuni suoi dipinti finiscono nel catalogo di altri pittori, da Velázquez ai fratelli Le Nain, ad anonimi olandesi o fiamminghi.
Le notizie che abbiamo oggi sono ancora poche, lacunose. Sulla sua biografia esistono scarsi documenti. Si sa solo che ebbe undici figli e un gran numero di cani, che comprò e vendette varie proprietà e che aveva un carattere piuttosto burrascoso, arrogante e avido. Mediocri sono anche le notizie sui suoi committenti e sui pagamenti dei suoi lavori. Nulla si sa sulla sua formazione. Qualcuno parla di un tour di iniziazione in Olanda; qualche altro di un viaggio di istruzione in Italia, dove sarebbe venuto in contatto con la lezione caravaggesca. Ma sono solo ipotesi. All’inizio del Novecento, poi, si conoscono solo tre sue opere datate: «Il denaro versato» di Leopoli (1625-1627?) e «La negazione di Pietro» di Nates (1650), entrambi in mostra a Milano, e il «San Pietro e il gallo» di Cleveland (1645). Tutto rimane sfuggente e misterioso. Ma oggi -dopo decenni di ricerche per scovare quadri, disegni preparatori e documenti in tutto il mondo- il catalogo di Georges de la Tour conta quaranta opere e ha ben ragione lo storico Jacques Thuillier a dire che la vicenda dell’artista «rappresenta il trionfo della storia dell’arte, perché non esisterebbe senza la storia dell’arte».
Di questi lavori quindici (più uno attribuito) sono in mostra a Milano, nella prima esposizione che l’Italia dedica al pittore: un evento destinato a rimanere nei libri di storia visto che nel nostro Paese, come lamentava Roberto Longhi nel 1935, «non abbiamo nulla di suo», e che i musei difficilmente fanno uscire dalle proprie sale questi capolavori.
Per agevolare una nuova riflessione sulla pittura dal naturale e sulle sperimentazioni luministiche, i capolavori del maestro sono affiancati da una ventina di splendide opere di artisti coevi come Paulus Bor, Jan Lievens, Throphime Bigot, Frans Hals, Jan van Bijlert, Gerrit Van Honthorst, (conosciuto in Italia come Gherardo delle Notti), Adam de Coster e Carlo Saraceni.
«La pittura di Georges de la Tour -raccontano gli organizzatori- è caratterizzata da un profondo contrasto tra i temi «diurni», crudamente realistici, che mostrano un’esistenza senza filtri, con volti segnati dalla povertà e dall’inesorabile trascorrere del tempo, e i temi «notturni» con splendide figure illuminate dalla luce di una candela: modelli assorti, silenziosi, commoventi». È il caso della magnifica «Educazione della Vergine» (New York, Frick Collection, 1650 circa), dove una Maria bambina dal viso di porcellana si avvicina alla madre, con il suo lume in mano, per leggere le preghiere della sera, ma anche del raffinato «Giovane che soffia un tizzone» (Digione, Musée des Beaux‐Arts, 1640 circa), in cui emerge dall’oscurità una figura che gonfia le gote per soffiare, parzialmente illuminata da un bagliore rossastro. Una luce fioca illumina anche il quadro «Giobbe deriso dalla moglie» (Epinal, Musée départemental d’Art ancien e contemporain, 1650 circa), dove una donna maestosa ed elegante si rivolge con un gesto interrogativo al marito, nudo e con gli occhi lucidi di pianto, chiedendogli perché abbia ancora fede in Dio, con tutti i mali che sta patendo. Di argomento religioso è anche «La negazione di Pietro» (Nantes, Musée des Beaux‐Arts,1650), in cui Georges de la Tour fonde il racconto del tradimento dell'apostolo con la scena profana di una partita a dadi tra le guardie.
Da osservare con attenzione lungo il percorso espositivo sono anche «La rissa tra musici mendicanti» (J. Paul Getty Museum, 1625‐1630 circa), con il suo crudo e drammatico realismo, e «Suonatore di Ghironda col cane» (Musée du Mont‐de‐Piété di Bergues, 1622‐ 1625), il dipinto più grande a noi pervenuto di Georges de la Tour, con la sua violenta carica innovativa nella resa dei soggetti popolari, irrintracciabile nella pittura francese del tempo.
A chiudere il percorso espositivo è un altro quadro che ci parla, come la Maddalena dell’incipit, di luce e di solitudine: il «San Giovanni Battista nel deserto» di Vic‐sur-Seille, il paese natale di de la Tour, con il volto chino a guardare l’agnello che sta ai suoi piedi, con la testa colma di dubbi e di domande alle quali non sa dare risposta. È un quadro denso di silenzio in cui la luce assume connotazioni sacre. È fiaccola che accompagna i nostri passi, è chiarore che ci rassicura anche quando pensiamo che tutto sia perso.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Georges de La Tour, Maddalena penitente, 1635 - 1640. Olio su tela, 113 x 92,7 cm. National; [fig. 2] Georges de La Tour (studio), Educazione della Vergine, 1650 ca. Olio su tela, 83,8 x 100,3 cm. The Frick Collection, New York, Stati Uniti; [fig. 3] Georges de La Tour, Giovane che soffia su un tizzone, 1640 ca. Olio su tela, 61 × 51 cm. Musée des Beaux-Arts Digione, Francia; [fig. 4] Georges de La Tour, Giobbe deriso dalla moglie, 1650 ca.Olio su tela, 145 x 97 cm. Musée départemental d'Art ancien et contemporain
Epinal, Francia; [fig. 5] Georges de La Tour

San Giovanni Battista nel deserto, 1649 ca. Olio su tela, 81 × 101 cm. Musée départemental Vic-sur-Seille, Francia; [fig. 6]  Georges de La Tour, La negazione di Pietro, 1650. Olio su tela, 120 x 161 cm. Musée d'arts de Nantes, Francia

Informazioni utili
Georges de La Tour: l’Europa della luce.Palazzo Reale, piazza Duomo, 12 - Milano. Orari: dal giovedì alla domenica, dalle 11.00 alle 19.30 con apertura serale il giovedì sino alle 22.30 (ultimo ingresso un’ora prima). Ingresso: intero € 14,00, ridotto da € 12,00 a € 6,00. Informazioni: palazzorealemilano.it | latourmilano.it (sito ufficiale della mostra). Note: la prenotazione è obbligatoria - anche per le categorie gratuite -   presso Vivaticket tel. 02 92897755 o sul sito https://mondomostreskira.vivaticket.it/ È possibile prenotarsi anche poco prima della visita, purché sia rispettata la capienza consentita in ciascuna fascia oraria. Al momento non è possibile prenotare visite per gruppi o scolaresche | Per chi è già in possesso di prenotazione va richiesto il voucher al sito https://shop.vivaticket.com/ita/voucher. | L’audioguida è inclusa nel biglietto in forma di app da scaricare negli store Apple e Google inserendo il titolo della mostra. Modalità di accesso: la prenotazione è obbligatoria ed è necessario il preacquisto (la biglietteria in sede è chiusa) | Presentarsi a Palazzo Reale all’orario prenotato, sono consentiti non più di 5 minuti d’anticipo | È necessario indossare la mascherina e sanificare le mani con le soluzioni igienizzanti presenti, per accedere ad ogni area del Palazzo. | All'ingresso verrà rilevata la temperatura corporea. Se il valore è pari o superiore a 37,5 gradi non sarà consentito l’accesso. Fino al 27 settembre 2020

martedì 28 luglio 2020

«La riscoperta di un capolavoro»: ricostruito a Bologna il Polittico Griffoni

È il 1725 quando l’ambizioso monsignor Pompeo Aldrovandi (1668-1742), cardinale di Bologna dal 1734, acquisisce una cappella nella Basilica di San Petronio, la sesta a sinistra, quella che era stata della famiglia Griffoni e poi del casato dei Cospi. La smania di grandezza del prelato è così sconfinata che l’intera struttura viene ridisegnata; il progetto viene affidato agli architetti Alfonso Torreggiani e Francesco Maria Angelini (1680-1731), che trovano obsoleta la maestosa pala d’altare contenuta all’interno della cappella, realizzata tra il 1470 e il 1472 dai ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti.
Il polittico viene così smembrato; le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» vengono destinate alla residenza di campagna della famiglia Aldrovandi a Mirabello, nei pressi di Ferrara, e nel corso dell’Ottocento entrano nel giro del mercato antiquario e del collezionismo. Mentre la cornice, opera di Agostino de' Marchi da Cremona, viene distrutta.
Oggi quei dipinti sono collocati in nove musei, la metà dei quali fuori dai confini nazionali: la National Gallery di Londra, la Pinacoteca di Brera a Milano, il Louvre di Parigi, la National Gallery of Art di Washington, la collezione Cagnola di Gazzada (a Varese), i Musei vaticani, la Pinacoteca nazionale di Ferrara, il Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam e la collezione Vittorio Cini di Venezia.
La pala di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, dedicata a san Vincenzo Ferrer, è così diventata, nel corso dei secoli, un vero puzzle da ricomporre. Il primo ad averci provato è stato, nel 1888, lo storico dell’arte lombardo Gustavo Frizzoni; gli ha fatto seguito, nel 1934, Roberto Longhi, nel suo saggio critico «Officina ferrarese».
Il ritrovamento, negli anni Ottanta, di uno schizzo del polittico allegato a una corrispondenza del pittore Stefano Orlandi con monsignor Pompeo Aldrovandi, ha fornito la prova documentaria dell’esattezza quasi totale dell’ipotesi dello studioso piemontese.
A cinquecento anni dalla sua realizzazione e a trecento dalla sua dispersione, i vari frammenti del polittico sono tornati a Bologna, città di cui oggi possiamo riscoprire la giusta centralità nel panorama del Rinascimento italiano, e sono stati ricomposti nelle sale di Palazzo Fava, museo della rete Genus Bononiae, con il contributo di Carisbo – Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, nell’ambito della mostra-evento «La riscoperta di un capolavoro».
L’appuntamento è di quelli da non perdere per ammirare l'espressività potente e raffinata di Francesco del Cossa e del suo aiutante Ercole de’ Roberti, che con il loro stile così innovativo per il tempo, di grande realismo, ci restituiscono un gruppo di santi eleganti e solenni, da San Pietro a Santa Lucia, da San Giovanni Battista a Santa Caterina d’Alessandria, da Sant’Antonio a Santa Apollonia. «Con il Polittico – spiega, infatti, Mauro Natale, curatore della mostra- si inventa un nuovo canone di resa dello spazio e dei volumi. La strada verso la modernità indicata dai due ferraresi può considerarsi alternativa a quella di Piero della Francesca e Andrea Mantegna».
Il percorso espositivo, dal taglio volutamente filologico, è frutto di due anni di lavoro e si articola in due sezioni: al piano nobile di Palazzo Fava sono visibili, per la curatela di Mauro Natale e Cecilia Cavalca, le sedici tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori, oltre alla ricostruzione del Polittico Griffoni, una perfetta riproduzione dell’originale realizzata da Factum Foundation di Adam Lowe, che ci fa vedere la pala d’altare così come dovette apparire ai bolognesi di fine Quattrocento.
Al secondo piano è, invece, visibile la mostra «La materialità dell’aura: nuove tecnologie per la tutela», che mostra attraverso video, immagini e dimostrazioni con gli strumenti di scannerizzazione 3D l’operato di Factum e l’importanza che assumono le tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico Griffoni.
Lungo il percorso espositivo si possono osservare da vicino anche alcuni «capolavori perduti» e ricostruiti a partire da un lungo lavoro di investigazione, come le «Ninfee» di Monet, quadro danneggiato nel 1958 da un grave incendio, o i «Sei girasoli in un vaso» di Van Gogh, dipinto distrutto nel bombardamento americano di Ashiya nel 1945. La mostra presenta, inoltre, alcuni progetti realizzati per la città di Bologna, come la documentazione 3D dei portali della facciata di San Petronio e quella della Mappa conservata in Vaticano, la cui riproduzione è oggi visibile a Palazzo Pepoli. Factum ha, inoltre, eseguito anche la scansione del celebre «Compianto sul Cristo Morto» di Niccolò dell’Arca, nella chiesa di Santa Maria della Vita, uno dei più celebrati capolavori del Rinascimento bolognese e italiano.
La mostra «La riscoperta di un capolavoro» è diventata anche un documentario della 3D Produzioni, realizzato in esclusiva per Sky Arte. Girato nelle settimane precedenti il lockdown e visibile dal 1° giugno on-demand su Sky, il film è il racconto per immagini di un’opera dispersa per il mondo, delle persone e vicende che ne hanno segnato il destino, e del suo ritorno a casa, poco lontano dal luogo, la Basilica di San Petronio, per cui era stata realizzata. Una storia di grande fascino, questa, che ci riporta all’epoca dei Bentivoglio quando Bologna gareggiava con la Firenze dei Medici e la Ferrara degli Este per importanza e splendore.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1]Ipotesi di ricostruzione del Polittico Griffoni; [fig. 2] Polittico Griffoni. Angelo Annunciante. Collezione Cagnola, Gazzada; [fig. 3] Polittico Griffoni. Vergine Annunciata. Collezione Cagnola, Gazzada; [fig. 4] Polittico Griffoni. Santa Lucia. National Gallery of Art, Washington

Informazioni utili

«La riscoperta di un capolavoro», con le due sezioni «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna» e «La materialità dell’aura: nuove tecnologie per la tutela». Palazzo Fava, via Manzoni, 2 – Bologna. Orari: da lunedì a domenica, ore 9.00 – 22.00 (con accesso in mostra fino a un’ora prima della chiusura). Ingresso: intero € 15,00 euro e varie forme di ridotto da € 10,00 a € 12,00. Norme anti-Covid19: per l’accesso alla mostra è obbligatorio effettuare la prenotazione on-line dal sito di Genus Bononiae (consente di scegliere direttamente il giorno e l’orario di visita) prenotando telefonicamente allo 051 19936343 (dal lunedì al venerdì dalle ore 11 alle ore 16) o via mail scrivendo a esposizioni@genusbononiae.it, pagando poi alla cassa al momento del ritiro del biglietto. La permanenza all’interno del Palazzo non potrà superare 1 ora. Potranno accedere in mostra 35 persone ogni 30 minuti, per rispettare i distanziamenti tra le persone, facendo sì che ogni singolo visitatore abbia a disposizione 4mq. Sito internet: https://genusbononiae.it.Fino al 10 gennaio 2021. La mostra è prorogata fino al 15 febbraio 2022.   

lunedì 27 luglio 2020

Al Museo delle dogane svizzero i laghi prealpini nei manifesti della Belle Époque

Creativa, sfrenata, libera, gioiosa e stimolante: sono questi gli aggettivi che più spesso si associano alla Belle Époque, periodo storico compreso tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e l’inizio della Prima guerra mondiale, che ha la sua capitale riconosciuta in Parigi.
Sono questi gli anni in cui vengono inventate l’illuminazione elettrica, il telefono, la radio, il processo chimico della pastorizzazione, il vaccino per la tubercolosi e i raggi X.
Gli Stati fanno a gara tra di loro nell’organizzare sontuose Esposizioni internazionali per mostrare le nuove meraviglie dell’evoluzione tecnologica; per queste occasioni vengono costruiti la Torre Eiffel a Parigi, il Crystal Palace a Londra, la Fiera a Milano.
Un vento di progresso spira anche nel mondo dell’arte. In tutta Europa è il trionfo dell’Art Nouveau (il Liberty italiano) con la sua eleganza e il suo stile floreale.
Compaiono anche nuove forme di intrattenimento come il cinema, il cabaret e gli spettacoli di illusionismo. Le persone, poi, si ritrovano nei cafè-concerto e nel più famoso di tutti, il Moulin Rouge, si balla una danza nuova, lo sfrenato e coinvolgente can-can, che Toulouse Lautrec consegna all’eternità in una serie di iconici dipinti e disegni.
Sulle strade cominciano a circolare le automobili. Nei cieli sfrecciano le mongolfiere e i primi aerei a motore. Sui binari ferroviari si vede sfrerragliare il mitico Oriente Express, che collega Parigi a Costantinopoli (l’attuale Instanbul). I mari sono solcati da transatlantici sempre più grandi e lussuosi.
Indiscusse protagoniste di questa stagione dal fascino unico sono le donne. Ammiccanti e maliziose, eteree e aristocratiche, sensuali o raffinate, fatali o perse nei propri pensieri, si fanno immortalare seminude o avvolte in abiti fruscianti, con ventagli piumati e grandi cappelli, da pittori del tempo come Giovanni Boldini e Giuseppe De Nittis, Edgar Degas e Auguste Renoir.
Il tutto concorre a creare il mito di una stagione destinata a scomparire sotto le bombe della Prima guerra mondiale, ma capace di affascinarci ancora oggi -forse soprattutto oggi- con la sua bellezza, la sua energia creativa, la sua gioia di vivere, la sua incondizionata fiducia nel futuro.
A questo momento storico «senza sangue, senza vincitori né vinti» guarda la mostra estiva del Museo delle dogane svizzero, allestito all’interno di una vecchia caserma a Cantine di Gandria, sulle rive del Ceresio, a pochi metri dal confine italiano, ma raggiungibile unicamente in battello da Lugano.
La rassegna, curata da Lorenzo Sganzini, presenta una collezione di manifesti provenienti dal Gabinetto delle stampe della Biblioteca nazionale elvetica. Si tratta di cartelloni pubblicitari, una ventina in tutto, dedicati ai laghi prealpini e al fascino turistico che essi ebbero, tra la fine dell' Ottocento e l’inizio  del Novecento, ovvero negli anni in cui si sviluppò, tra la parte più agiata della popolazione, il costume di andare in vacanza per rilassarsi.
Nacquero proprio allora le prime mete turistiche in senso moderno, spesso termali o balneari, come la Costa Azzurra, il Lido di Venezia, Sanremo, Portofino, Recoaro Terme.
Ma anche gli specchi lacustri attirarono i nuovi turisti e così il Lago Maggiore, il Lago di Como e la città di Lugano, con la sua funicolare e i suoi hotel, fecero a gara per apparire sui manifesti pubblicitari dell’epoca.
La cartellonistica, in grande formato e a colori, aveva appena fatto la sua comparsa a Parigi con Jules Cheret ed Henri de Toulouse Lautrec, per poi diffondersi in tutta Europa.
Grandi, colorati, sfavillanti, i poster erano vere e proprie opere d’arte, nate con l’intento di pubblicizzare i primi brand o gli status symbol di un nascente stile di vita, e la vacanza era uno di questi, con immagini da sogno dalla linea sinuosa e dal colore piatto e uniforme.
Molti dei manifesti in mostra, di autori anonimi, sono stati realizzati dalle Officine d'arti grafiche Chiattone di Milano per pubblicizzare gli orari di navigazione dei battelli sul Lago Maggiore. Bambini dai volti sorridenti, che mostrano sul viso la salubrità dell’aria e dell’acqua di lago, donne mollemente adagiate su una chaise-longue, che sognano un’avventura galante con un ospite dell’albergo, dame eleganti e cosmopolite, intente a scrutare il paesaggio con un binocolo, a leggere un libro o a raccogliere dei fiori, paesaggi e mezzi di trasporto sono i soggetti ritratti più di frequente in questi lavori.
A completare l’allestimento, visibile fino al prossimo 18 ottobre, sono alcuni arredi e strumenti di battelli d’epoca, messi a disposizione dalla Società di navigazione del Lago di Lugano: vestigie di un’epoca in cui si viaggiava tra le città del lago su veri e propri palace naviganti, con i loro salotti riccamente arredati e ornati di eleganti figure a prua e a poppa. Quello che ci appare davanti agli occhi è così un mondo perduto, frivolo e appariscente, in cui il superfluo era necessario come un respiro, la gioia di vivere era uno stile di vita. (Annamaria Sigalotti)

Informazioni utili
Belle Époque .Museo delle dogane svizzero - Lugano (Cantine di Gandria). Orari: dalle 12:00 alle 16:00. Ingresso: adulti (>16 anni) CHF 5.00, ragazzi (6-15 anni) CHF 2.50, bambin: gratuito. Informazioni:+41(0)79.5129907, museodogane@lugano.ch. Sito internet: www.museodogane.ch. Note: Il Museo è raggiungibile unicamente in battello (fermate: «Museo doganale» o «Cantine di Gandria» (a 5 minuti a piedi dal Museo) | Misure anti-Covid-19: Il numero di visitatori ammessi contemporaneamente all’interno del Museo è limitato. Per facilitare la gestione degli accessi, i visitatori sono pregati di procurarsi i biglietti d’entrata al Museo prima di salire sul battello, alle casse degli imbarcaderi di Lugano-Centrale e Paradiso della Società Navigazione Lago di Lugano. I visitatori che si presentano al Museo senza biglietto, potrebbero dover pazientare prima di entrare. Fino al 31 ottobre 2020

venerdì 24 luglio 2020

Da Urbino a Loreto, le Marche celebrano Raffaello

È l’anno di Raffaello Sanzio, pittore del quale quest’anno si celebra il cinquecentenario della morte, e tante sono le iniziative in programma in tutta Italia, dalle Scuderie del Quirinale al Museo diocesano di Salerno, per ricordare l’anniversario. Cuore pulsante di questo omaggio è la regione natale dell’artista, le Marche, che la guida Lonely Planet Best in Travel 2020 ha inserito tra le dieci migliori destinazioni al mondo. Il viaggio non può che partire dalla città che ha visto nascere Raffaello, Urbino, recentemente classificata dal «New York Times» tra le migliori mete turistiche dell’anno.
Ancora oggi in questo borgo, inserito nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità da Unesco, è possibile visitare la casa dell’artista, il luogo dove Raffaello «ha imparato - scriveva Carlo Bo, nel 1984- la divina proporzione degli ingegni», ma soprattutto ha appreso «il valore della filosofia, della dignità da dare al suo lavoro di pittore».
Al primo piano della dimora si apre un'ampia sala con soffitto a cassettoni dove è conservata l'«Annunciazione», tela del padre Giovanni Santi, umanista, poeta e pittore alla corte di Federico da Montefeltro. Sono, poi, esposte copie ottocentesche di due opere realizzate da Raffaello: la «Madonna della Seggiola» e la «Visione di Ezechiele». Mentre in una piccola stanza attigua, ritenuta la stanza natale del pittore, è collocato l'affresco della «Madonna col Bambino», attribuito dalla critica ora a Giovanni Santi, ora a Raffaello giovane. Di particolare interesse lungo il percorso espositivo sono, poi, un disegno attribuito a Bramante (1444 - 1514) e la raccolta di ceramiche rinascimentali della collezione Volponi, qui in deposito temporaneo.
Al piano superiore, sede dell’Accademia Raffaello, sono, invece, conservati alcuni oggetti strettamente connessi al maestro urbinate -copie di suoi dipinti, bozzetti per il suo monumento, omaggi di altri artisti- e una ricca documentazione della storia delle città in campo artistico, civile e religioso e del mito che in varie epoche ha accompagnato la figura del «Divin pittore».
A pochi passi da lì, si arriva a Palazzo Ducale, dimora principesca tra le più belle d’Europa, voluta da Federico da Montefeltro. In questi spazi oggi è ospitata la Galleria nazionale delle Marche, che conserva nelle sue collezioni uno dei dipinti più enigmatici di Raffaello, il «Ritratto di gentildonna detta la Muta», per le labbra perfettamente sigillate. Probabilmente l’artista ha dipinto lo stesso soggetto in due fasi diverse: una prima stesura risale al periodo giovanile, quando la donna viene rappresentata con forme più morbide, i capelli mossi e una scollatura più ampia, mentre la figura ora visibile mostra tratti di austerità nel volto, i capelli raccolti, una posizione leggermente diversa delle spalle e non ha la scollatura, segno della morte del marito che avvenne nel 1501.
Il museo ospita, fino al 27 settembre, anche la mostra «Raphael Ware. I colori del Rinascimento», a cura di Timothy Wilson e Claudio Paolinelli, che presenta oltre centoquaranta raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla più grande collezione privata al mondo di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana a cui viene associato il nome del grande pittore urbinate, in inglese Raphael Ware appunto.
Sempre a Urbino, nelle sale di Palazzo Ducale, si terrà, dal 19 luglio al 1° novembre, la mostra «Baldassarre Castiglione e Raffaello. Volti e momenti di corte», a cura di Vittorio Sgarbi ed Elisabetta Losetti.
L’esposizione racconta in modo del tutto originale la vicenda di Baldassarre Castiglione, un intellettuale finissimo e un attento politico, vicino a grandi artisti, a Raffaello prima di tutti, ma anche a scrittori, intellettuali, regnanti e papi, che ci ha lasciato un’opera famosa come il «Cortegiano».
Attingendo alla fonte imprescindibile delle sue lettere e facendo uso di strumenti multimediali, la rassegna di Urbino vuole ricostruire l’intera vicenda di Baldassare Castiglione ponendola, correttamente, nel contesto del suo tempo, accanto a figure altrettanto complesse e affascinanti come quelle di Guidobaldo da Montefeltro, Leone X, Isabella d’Este, Pietro Bembo, Luca Pacioli, l’Imperatore Carlo V, i Medici, gli Sforza, i Gonzaga e artisti -Raffaello innanzitutto, ma anche Leonardo, Tiziano, Giulio Romano.
Sempre dal 18 luglio sarà visibile il progetto «Raffaello Bambino», rivolto soprattutto ai più piccoli, che propone immagini, testi e indicazioni in un circuito di scoperta tra le vie della città di Urbino.
Nella cittadina marchigiana, negli spazi del Collegio Raffaello, sarà, inoltre, visibile, dal 25 luglio al 1° novembre, «Una mostra impossibile», progetto ideato e curato da Renato Parascandolo, con la direzione scientifica di Ferdinando Bologna, recentemente scomparso, che presenta quarantacinque dipinti di Raffello - compreso l’affresco «La Scuola di Atene» - riprodotti in scala 1:1 e riuniti insieme, permettendo così di ammirare in un unico allestimento opere disseminate in diciassette Paesi diversi: un’impresa, questa, che non riuscì nemmeno allo stesso artista.
Il viaggio alla scoperta di Raffaello può, dunque, spostarsi a Loreto, dove, fino al 30 agosto, nei rinnovati spazi espositivi del Bastione Sangallo, viene presentato per la prima volta in assoluto l’arazzo da cartone di Raffaello raffigurante Ananias e Saphira, appartenente alla collezione Bilotti Ruggi d’Aragona.
Sempre a Loreto, il Museo pontificio della Santa Casa presenterà, in autunno, «La Madonna del velo o Madonna di Loreto di Raffaello. Storia avventurosa e successo di un’opera», curata da Fabrizio Biferali e Vito Punzi, con la consulenza dei Musei vaticani, che darà conto della storia di un celebre soggetto caro all’urbinate, la cosiddetta Madonna di Loreto appunto, una cui pregevole replica della bottega dello stesso maestro - di cui ora di sono perse le tracce - fu donata all’inizio del XVIII secolo al santuario lauretano.
Mentre a Jesi, ai Musei civici di Palazzo Pianetti, sempre in autunno andrà in scena la mostra «Raffaello e Angelo Colocci. Bellezza e scienza nella costruzione del mito della Roma antica», a cura di Giorgio Mangani, Francesco P. Di Teodoro, Ingrid Rowland, Vincenzo Farinella, Fabrizio Biferali e Paolo Clini. L’esposizione vuole esplorare le connessioni tra Raffaello e l’umanista jesino Angelo Colocci, punto di riferimento a Roma per artisti, antiquari e poeti, attraverso documenti originali e l’uso di tecnologie digitali innovative che permetteranno ricostruzioni dei capolavori raffaelleschi.
Un omaggio a Raffaello viene, infine, presentato a Pesaro, alla Fondazione Pescheria centro arti visive, con la mostra «Disgregazione e unità. Solcando la misura rinascimentale di Urbino», personale dell’artista marchigiano Oscar Piattella (Pesaro 1932).
La mostra, a cura di Alberto Mazzacchera, ha come fulcro il corpus di opere dell'ultimissima quanto densa produzione del pittore pesarese che, nell’atelier sotto le imponenti pareti rocciose del Catria, per una vita intera ha indagato declinazioni e rifrazioni della luce. Oscar Piattela ha nutrito e nutre la sua ricerca di matrice informale, solcando la misura del Rinascimento matematico del Ducato di Urbino e, nel rileggere in chiave attualissima le magistrali fughe prospettiche presenti in tanta pittura, propone una sua personale e avvincente inquadratura, una prospettiva altra, gravata del compito di introdurre lo sguardo verso l‘infinito.
Da qui l’omaggio a Raffaello e alla sua città natale, che si articola in cinquantacinque dipinti su tavola. Nel Loggiato sono esposti due nuclei di lavori storici: dieci opere materiche (a partire dal 1957) e diciotto opere semi-materiche (anni 2000-2011); nella chiesa del Suffragio ci sono ventisei dipinti e un grande polittico (anni 2014 -2020), chiaro riferimento alla Pala di Giovanni Bellini conservata ai Musei civici di Pesaro.
Le Marche offrono, dunque, tante occasioni per avvicinarsi a Raffaello, artista di cui Antonio Luigi Lanzi, nella sua Storia pittorica dell’Italia, elencava questi indiscussi pregi: «un gusto naturale per la scelta del bello, una facoltà intellettuale di estrarre da molte particolari bellezze per comporne una perfetta, un sentimento vivacissimo, e quasi un estro per concepire gli aspetti formali dell’attività momentanea di una passione, una facilità di pennello ubbidientissima a’ concetti della immaginativa».

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Raffaello (attribuito), Madonna di Casa Santi, Raffaello Sanzio, 1498 circa. Urbino, Casa Santi: [fig. 2] Raffaello, Ritratto di gentildonna (La Muta). Olio su tavola, 65,2 x 48 cm. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche; [fig. 3] Tiziano, Ritratto di Giulio Romano, Museo civico di Palazzo Te, Mantova. Esposto alla mostra Baldassarre Castiglione e Raffaello. Volti e momenti di Corte; [fig. 4] La Scuola di Atene nel percorso epositivo di Raffaello Una mostra impossibile; [fig. 5] Arazzo da cartone di Raffaello raffigurante Ananias e Saphira; Oscar Piattella_l'universo il cuore il rosso 2016. Foto Sanio Panfili

giovedì 23 luglio 2020

Cracking Art, la plastica diventa arte a San Benedetto del Tronto

Nel 1996 sospesero in aria, davanti al Palazzo Reale di Milano, mille delfini. Nel 2001, con «Sos World», portarono a Venezia, in occasione della quarantanovesima Biennale d’arte, cinquecento tartarughe dorate giganti. Nel 2005, a Biella, promossero la mostra «Il filo di lana» con un esercito di pinguini blu con una vivace sciarpa rossa al collo. Iniziava così l’avventura artistica, ormai più che ventennale, dei Cracking Art, gruppo biellese attivo dal maggio 1993, il cui nome richiama l’operazione con cui il petrolio grezzo, attraverso il processo del cracking catalitico, si trasforma in virgin nafta per dare forma a un’infinità di prodotti, tra cui la plastica.
Da allora la fauna surreale ideata da questi artisti, che colpisce l’attenzione per il suo gioioso stile in bilico tra post-fauvismo e post-pop, è stata portata in giro per tutto il mondo: da Bangkok a Mosca, da New York a Bruxelles, da Ascona a Roma, da Firenze a Milano.
Le installazioni di animali giganti in plastica rigenerabile, fluorescente e colorata hanno così raccontato ai quattro angoli del pianeta, in luoghi accessibili a tutti come piazze e palazzi delle città, il forte messaggio ecologista del gruppo, ben delineato anche nel «Manifesto del terzo millennio», siglato nel gennaio 2001.
Per i Cracking Art la plastica non è un materiale cattivo ma ambiguo, se da un lato è tra i più inquinanti e meno distruttibili presenti in natura, dall’altro è suscettibile di prestarsi anche a un uso buono, diventando persino veicolo per un invito a rispettare l’ambiente, la nostra casa comune.
Nel 2012 la filosofia del gruppo ha avuto un ulteriore sviluppo con il progetto «L’arte che rigenera l’arte». Le opere utilizzate per le installazioni vengono recuperate, tritate e riciclate per produrne altre. Si dà così il via a un vero e proprio ciclo della vita per affermare che anche in arte come in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Quest'estate i Cracking Art saranno a San Benedetto del Trento con un progetto di arte pubblica, curato da Stefano Papetti, Elisa Mori e Giorgia Berardinelli, che vuole -spiegano gli ideatori- «innescare, attraverso il linguaggio dell’arte, dinamiche e sentimenti come quelli di relazione con l’altro, di fiducia e tutela della collettività».
Per quattro mesi la città marchigiana sarà invasa, pacificamente e silenziosamente, da una trentina di animali colorati, di varie tipologie e dimensioni: suricati, elefanti, cani e gatti, conigli e non ultima la celebre chiocciola.
«Le creazioni dei Cracking Art, al pari degli animali selvatici nel periodo del lockdown, -raccontano i curatori- sembrano riappropriarsi delle aree verdi e non del tessuto urbano ripristinando quel profondo legame tra l’uomo e la fauna».
L’esposizione mapperà simbolicamente la città, diventando anche uno strumento di promozione turistica del territorio. Nel suggestivo Vecchio Incasato, con il suo affascinante torrione, troverà la sua naturale collocazione un elefante gigante. A piazza Matteotti fino al termine del lungomare di Porto d’Ascoli albergheranno due grandi chiocciole, animali attualissimi perché la loro casa è associabile alla comunicazione: è simbolo della posta elettronica, ma ricorda anche l’organo dell’udito. La balconata della Palazzina Azzurra sarà, invece, abbellita da una sequenza di gatti, animali sornioni e indipendenti ma amanti del focolaio domestico, che sono una delle ultime “scoperte” del gruppo e sono nati da un incontro con un noto brand produttore di pet food. Infine due grandi conigli saranno installati nel giardino «Nuttate de Lune».
«Gli animali dei Cracking Art -raccontano ancora i curatori- saranno presenze vivaci e rassicuranti nell’estate sanbenedettese, creando un’atmosfera da fiaba e valorizzando le evidenze architettoniche che andranno ad abitare, coinvolgendo lo spettatore», sia adulto che bambino. Empatia è, infatti, la parola chiave di queste installazioni che -come raccontava, anni fa, Philippe Daverio- portano «la fantasia al potere».

Informazioni utili 
Craking art en plein air. San Benedetto del Tronto, sedi varie. Per informazioni:
Comune di San Benedetto del Tronto - Ufficio Cultura, tel. 0735.794229. Sito internet: www.verticaledarte.it. Fino al 2 novembre 2020

mercoledì 22 luglio 2020

«Women», cent’anni di storia al femminile attraverso gli scatti del National Geographic

«Le Marie intorno sembrano infuriate dal dolore - Dolore furiale. Una verso il capo - a sinistra - tende la mano aperta come per non vedere il volto del cadavere e il grido e il pianto e il singulto contraggono il suo viso, corrugano la sua fronte, il suo mento, la sua gola. L’altra con le mani tessute insieme, con i cubiti in fuori, ammantata piange disperatamente. L’altra tiene le mani su le cosce col ventre in dentro e ulula». È il 19 settembre del 1906 quando Gabriele D’Annunzio scrive, quasi di getto, questo pensiero sui suoi «Taccuini».
Quella sera lo scrittore è andato con il padre a Santa Maria della Vita ad assistere un concerto di musica sacra e nell’ombra della chiesa, debolmente illuminata, si è ritrovato a tu per tu con il «Compianto sul Cristo morto» di Niccolò dell’Arca (Bari?, 1435 circa – Bologna, 1494), gruppo scultoreo in terracotta, originariamente policromo, della seconda metà del XV secolo, dal virtuosismo formale unico, che ci parla di una sofferenza non divina, ma drammaticamente umana, quella del Venerdì santo prima della certezza della Resurrezione.
Qualche anno più tardi, nel 1914, nel libro «Le faville del miglio», Gabriele D’Annunzio ricorderà con queste parole l’incontro con le sette figure a grandezza naturale plasmate dall’artista di origini pugliesi, che ha lasciato a Bologna anche l’Arca di San Domenico e la «Madonna di piazza con Bambino» a Palazzo Accursio: «Intravidi nell’ombra non so che agitazione impetuosa di dolore. Piuttosto che intravedere, mi sembrò esser percosso da un vento di dolore, da un nembo di sciagura, da uno schianto di passione selvaggia».
Non sono solo la concitazione e «l’urlo di pietra» delle «Marie sterminatamente piangenti», per usare un’espressione dello scrittore seicentesco Carlo Cesare Malvasia, a farci percepire il «vento di dolore» che permea la scena, ma è anche lo strazio trattenuto di San Giovanni, che piange in modo sommesso, con una mano nell’atto di reggere il volto, davanti al corpo senza vita del Cristo, smunto e segnato dalla sofferenza. L’altro uomo presente nella scena, identificato ora con il committente dell’opera ora con Nicodemo, l’ebreo che tolse Gesù dalla croce insieme a Giuseppe di Atimatea, volge, invece, lo sguardo serio, impenetrabile, in un’altra direzione, verso l’osservatore. Sembra quasi interrogarci sul senso di tanta sofferenza.
In questa scena si finisce così per ritrovare tutta la teatralità e la spinta catechetica di una Sacra rappresentazione medievale, nata per avvicinare con semplicità e in modo emotivo il popolo ai misteri della fede.
Un materiale umile e fragile come la terracotta, plasmato per dare voce alle emozioni, è impiegato anche nell’altra scultura che attrae i turisti a Santa Maria della Vita, sotto la cupola barocca disegnata dal Bibiena: il monumentale «Transito della Vergine» di Alfonso Lombardi, nell’adiacente Oratorio dei Battuti. Si tratta di quindici statue in terracotta, di dimensioni leggermente superiori al vero, disposte a raffigurare un soggetto poco rappresentato nell’arte occidentale, descritto nei Vangeli Apocrifi e nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine: la profanazione della tomba della Madonna da parte di un sacerdote ebreo, prontamente bloccato dall’apparizione di un angelo armato di una spada.
Non ci poteva, dunque, essere location più indicata di questa piccola chiesa che parla di dolore e bellezza, di donne e arte, ubicata a pochi passi da San Petronio, per la mostra fotografica «Women. Un mondo in cambiamento», curata da Marco Catteneo per il National Geographic e realizzata in collaborazione con Genus Bononiae - Musei nella città e Fondazione Carisbo.
Piu di settanta immagini tratte dagli archivi della rivista internazionale raccontano un secolo di storia delle donne in tutti i continenti e a tutte le latitudini, a partire dalla concessione del diritto di voto negli Stati Uniti, di cui ricorre quest’anno il centenario.
«Beauty/Bellezza», «Joy/Gioia», «Love/Amore», «Wisdom/Saggezza», «Strength/Forza», «Hope/Speranza» sono le sei sezioni nelle quali si articola il percorso espositivo: un bel ritratto corale sulla condizione femminile, sui problemi e le sfide di ieri e di oggi che le donne si sono trovate ad affrontare, dando il loro contributo allo sviluppo sociale, politico ed economico dei vari Paesi del mondo.
Ecco così -raccontano a Santa Maria della Vita- che «le immagini festose delle ballerine di samba che si riversano nelle strade durante il carnevale di Salvador da Bahia si alternano a quelle delle raccoglitrici di foglie di the in Sri Lanka. E ancora il ritratto di donna afghana in burqa integrale rosso che trasporta sulla testa una gabbia di cardellini, potente metafora di oppressione, si contrappone all’immagine di libertà e bellezza di una ragazza in pausa sigaretta a Lagos, in Nigeria».
A chiudere il percorso espositivo -accessibile a sessanta persone per volta, in modo da garantire il giusto distanziamento fisico e permettere una visita in totale sicurezza- è la sezione «Portraits/Ritratti», scatti intimi e biografici di un gruppo iconico di attiviste, politiche, scienziate e celebrità intervistate dal «National Geographic» per un numero speciale del novembre 2019, ai tempi di Susan Goldberg, prima donna alla direzione della prestigiosa rivista internazionale.
Nancy Pelosi, Oprah Winfrey, il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern e l’italiana Liliana Segre sono alcune delle donne che salutano metaforicamente il visitatore prima di uscire da Santa Maria della Vita, o meglio dal suo Oratorio, portandosi dietro un pensiero che aveva reso bene a parole Oriana Fallaci: «essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida, che non finisce mai».

Didascalie delle immagini
[Figg. 1-4] Allestimento della mostra «Women. Un mondo in cambiamento» a Santa Maria della Vita, Bologna. Foto: Paolo Righi; [fig. 5] La senatrice a vita Liliana Segre, fotografata da Nicola Marfisi a Milano, il 10 ottobre 2019. (Nicola Marfisi/AGF, 2019) 

Informazioni utili 
«Women. Un mondo in cambiamento».Chiesa Santa Maria della Vita, via Clavature, 8-10 - Bologna. Orari: lunedì-domenica ore 10.00 – 19.00 Ingresso: intero 10,00 euro, ridotto 8,00 euro. Informazioni mostra: tel. 051.19936343 - mail: esposizioni@genusbononiae.it Sito web: www.genusbononiae.it. Fino alo 13 settembre 2020

martedì 21 luglio 2020

«Noi. Non erano solo canzonette», venticinque anni di storia italiana in cento brani

Si potrebbe raccontare la storia del nostro Paese attraverso i tormentoni musicali che, dagli anni Sessanta a oggi, hanno accompagnato le nostre estati. La colonna sonora del 1967, l’anno che precedette le rivoluzioni sessantottine, fu, per esempio, l’effervescente «Stasera mi butto» di Rocky Roberts. Negli anni Ottanta, quelli dei capelli cotonati, delle giacche con le spalline e della spensieratezza esibita, Claudio Cecchetto fece, invece, ballare tutti con il «Gioca Jouer» (1981). Infine, nel 2006, l’anno dei mondiali in Germania, Checco Zalone conquistò l’Italia con «Siamo una squadra fortissimi». Si può, quindi, dire che la musica non solo fa parte della nostra vita, ma racconta anche la nostra storia, permette di esplorare e interpretare le grandi trasformazioni politiche e sociali in atto. Questo ragionamento fa da filo rosso anche alla mostra «Noi. Non erano solo canzonette», a cura di Gianpaolo Brusini, Giovanni De Luna e Lucio Salvini, prodotta da Bibibus Events e realizzata con la consulenza di Fabri Fibra, Marco Tullio Giordana, Vittorio Nocenzi, Giorgio Olmoti e Omar Pedrini. L’allestimento porta, invece, la firma della designer Francesca Seminatore; mentre le installazioni audio-video sono di Daniele Perrone.
Dopo essere stata esposta a Torino e a Bologna, la rassegna, patrocinata dal Mibact e dalla Siae, è arrivata a Pesaro, Città creativa Unesco della musica per essere esposta a Palazzo Mosca – Musei civici, luogo dell’identità culturale del capoluogo marchigiano, e al museo dedicato a Gioachino Rossini, la prima pop star ante litteram della musica.
Racchiusa fra due abbracci, quello di Domenico Modugno sul palco di Sanremo 1958 e quello di Paolo Rossi nella notte di Madrid che nel 1982 laureò l’Italia campione del mondo, la mostra procede cronologicamente raccontando venticinque anni della nostra storia e toccando ogni aspetto della vita sociale, del costume, della cronaca, del lavoro e dei cambiamenti nelle convinzioni etiche e morali di quegli anni.
Cento opere musicali italiane, selezionate nel repertorio di quel periodo, fanno da contrappunto al racconto, il cui repertorio iconografico proviene in parte dagli inestimabili archivi Publifoto IntesaSanpaolo e in parte dall’archivio storico de «Il Resto del Carlino». Le immagini esposte, destinate ai quotidiani, ai rotocalchi e ai settimanali illustrati dell’epoca, restituiscono lo sguardo del fotoreporter di cronaca e la sua grande abilità di rappresentare in modo acuto, profondo e preciso le molteplici realtà italiane. I video arrivano, invece, dagli archivi delle Teche Rai, oltre che dall’Archivio nazionale del cinema d’impresa di Ivrea, un centro di conservazione, valorizzazione e diffusione del patrimonio audiovisivo prodotto dalle imprese italiane.
Il percorso espositivo, di cui rimarrà documentazione in un catalogo Eli– La Spiga, è suddiviso in quattordici aree tematiche in grado di coinvolgere tanto chi quegli anni li ha vissuti in prima persona, quanto le generazioni più giovani, in un comune percorso di immersione nella memoria collettiva italiana: dalla grande immigrazione verso le città del Nord della fine degli anni Cinquanta, sino al disimpegno che ha configurato gli anni Ottanta.
«Si parte -raccontano gli organizzatori- da Palazzo Mosca – Musei civici con le sezioni: «Volare» (penso che un sogno così non ritorni mai più), «Il treno del sole» (come è bella la città come è viva la città), «Il boom» (il mutare del profilo delle città e delle campagne), «Carosello» (l’avvento del consumismo), «Abbronzatissimi» (la conquista del tempo libero e delle vacanze di massa), «L’esercito del surf» (i giovani quale nuovo soggetto sociale) e «Pensiero Stupendo» con il lungo cammino dell’emancipazione femminile. Il percorso prosegue al Museo nazionale Rossini con le sezioni: «C’era un ragazzo che come me» (le rivendicazioni sociali e i movimenti studenteschi), «Contessa» (lotte operaie), «La locomotiva» (il terrorismo), «Musica ribelle» (le radio libere), «La febbre del sabato sera» (le discoteche), «Splendido Splendente» (il riflusso che darà inizio agli edonistici anni ’80) e, infine, «il Mundial» (la notte che ci cambiò per sempre)».
La fruizione musicale in mostra è a più livelli: dall’audio diffuso nelle varie sale, alle opere ascoltabili singolarmente grazie alle più recenti tecnologie, agli speaker direzionali per i filmati d’epoca. I cento brani scelti, utilizzando un criterio di massima inclusività, da Peppino di Capri a Francesco Guccini, da Patty Pravo a Fabrizio De André, sono in grado di trasmettere, anche a chi non c’era, il senso profondo di quella musica e di quegli anni.
Una canzone, non meno di un libro o di un dipinto, sa, infatti, riflettere il momento storico in cui è stata immaginata, scritta e cantata. Non esistono canzonette, dunque, ma solo canzoni, e sono state trattate per quello che sono: contributi culturali di importanza critica per il passato, il presente e il futuro della nostra società. Nei grandi avvenimenti come in quelli di minor rilievo, la musica narra, descrive, talvolta preconizza e, infine, fissa nella memoria.

Informazioni utili
«Noi. Non erano solo canzonette». Palazzo Mosca – Musei Civici, piazzetta Mosca, 29 / Museo Nazionale Rossini, ia G. Passeri 72 - Pesaro. Orari: Palazzo Mosca - Luglio – settembre > da martedì a giovedì ore 10-13 / 16.30-19.30; da venerdì a domenica e festivi ore 10-13 / 16.30-19.30; Ottobre > da martedì a giovedì ore 10-13,  da venerdì a domenica e festivi ore 10-13 / 15.30-18.30 | Museo Nazionale Rossini, da martedì a domenica e festivi ore 10-13 / 15-18. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, ingresso libero minori di 19 anni, soci ICOM, disabili e persona che li accompagna. Informazioni: 0721.387541 biglietteria Musei Civici | 0721.1922156 biglietteria Museo Nazionale Rossini | pesaro@sistemamuseo.it. Sito internet: www.pesaromusei.it | www.mostranoi.it. Fino all'10 gennaio 2021.