ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 30 luglio 2013

«Ritorno a Venezia», Édouard Manet e il Rinascimento italiano

«Non mi dispiacerebbe poter leggere finalmente, mentre sono ancora vivo, l’articolo strabiliante che mi dedicherete non appena sarò morto». Aveva da poco terminato la realizzazione dell’olio «Un bar aux Folies Bergère» (1881-1882), quando Édouard Manet (Parigi, 1832-1883) scrisse, ironicamente, al critico Albert Wolff queste poche righe, sorta di emblema della propria parabola pittorica in perenne lotta contro gli accademismi dei Salon e la morale borghese. Tele come «Le dèjuner sur l’herbe» (1863) e «Olympia» (1863), considerate oggi capolavori assoluti dell’arte mondiale, vennero, infatti, derise dalla stampa del tempo, impressionata negativamente dall’audacia della resa coloristica, giocata su contrasti netti e pennellate rapide, e dalla contemporaneità dei soggetti ritratti, una giovane donna nuda intenta a conversare con due uomini in abiti ottocenteschi e una prostituta d’alto bordo sensualmente adagiata su un sofà.
Entrambe le opere citavano in modo non servile, ma sorprendentemente innovativo capolavori del passato: «Le dèjuner sur l’herbe» rivisitava il «Concerto campestre» (1510 circa) di Tiziano (allora attribuito al Giorgione) e un’incisione (1517-1520 circa) di Marcantonio Raimondi tratta dal perduto «Giudizio di Paride» del Raffaello; «Olympia» guardava, invece, alla «Venere di Urbino» (1538) del Tiziano. Lo studio dei maestri del Rinascimento italiano, insieme con quello del Seicento spagnolo, ebbe, infatti, un ruolo determinante nel plasmare l’impianto linguistico di Édouard Manet, «pittore della vita moderna» la cui opera, snodo tra il forte realismo di Gustave Courbet e l’Impressionismo dalle luci vibranti di Claude Monet, fu fondamentale per il rivoluzionario cambio di rotta dell’arte francese di fine Ottocento.
A mettere in luce la portata di questo legame ideale con il nostro Paese, e in particolare con la pittura veneta del Cinquecento, sono le ottanta opere (tra dipinti, disegni e documenti) esposte al Palazzo Ducale di Venezia, per la curatela di Stéphane Guégan e sotto la direzione scientifica di Guy Cogeval e Gabriella Belli, nella mostra «Édouard Manet. Ritorno a Venezia», promossa dalla Fondazione musei civici veneziani e dal Musèe d’Orsay di Parigi, istituzione che conserva il maggior numero di dipinti del pittore francese.
Il percorso espositivo, il cui allestimento è stato curato da Daniela Ferretti nell’Appartamento del Doge, si articola in nove sezioni e, attraverso nature morte, visioni marine, rappresentazioni della passione di Cristo e ritratti dell’alta società, racconta quanto l’arte di Manet debba non solo agli spagnoli Francisco Goya e Diego Velazquez, come spesso ha sottolineato la critica, ma anche a maestri italiani quali Tiziano, Tintoretto, Carpaccio, Lorenzo Lotto, Andrea del Sarto, Raffaello e Antonello da Messina.
La conoscenza della pittura italica, soprattutto di quella del Rinascimento veneto e toscano, da parte dell’artista francese trova fondamento in tre lunghi soggiorni di studio a Venezia, a Firenze e, forse, a Roma, negli anni 1853, 1857 e 1874, e, prima ancora, nel tirocinio giovanile al Louvre, le cui sale il pittore visitò spesso da bambino in compagnia dello zio materno e, dal 1850, frequentò come copista, secondo i dettami del maestro Thomas Couture.
L’artista parigino, come tutti i geni che hanno cambiato la Storia, non si limitò, però, a copiare i modelli antichi; se ne appropriò a tal punto da reinventarli, giocando liberamente con forme e contenuti, ribaltandone completamente il significato. Lo dimostra chiaramente l’accostamento tra la «Venere di Urbino» del Tiziano e l’«Olympia» di Édouard Manet (opera che non ha mai lasciato la Francia), per la prima -e forse unica- volta a confronto nelle sale di Palazzo Ducale grazie ai prestiti degli Uffizi di Firenze e del Musèe d’Orsay di Parigi.
La tela tizianesca, realizzata nel 1538 per Guidobaldo II della Rovere come dono nuziale da dare alla giovane moglie Giulia Varano, è un capolavoro di erotismo languido: la donna raffigurata, con la testa leggermente inclinata a guardare il visitatore e la mano delicatamente posata sul pube, mostra le proprie morbide nudità consapevole della bellezza che la anima. Édouard Manet studiò questo capolavoro durante il suo secondo viaggio italiano e, nel maggio del 1865, presentò al Salon «Olympia», provocando l’indignazione della stampa e dei colleghi. Jules Claretie scrisse che nel quadro era raffigurata «un’odalisca con il ventre giallo». Amedee Cantaloube vi vide «una specie di femmina di gorilla». Gustave Courbet arrivò a dire che la donna raffigurata era «una regina di picche appena uscita dal bagno». Non maggiormente clemente fu il pubblico, che più volte minacciò l'integrità dell'opera con ombrelli e bastoni, tanto da far spostare la tela –secondo quanto si legge in una copia del quotidiano «Le Figaro» del tempo- «a un'altezza a cui non fu mai appesa nemmeno l'ultima delle croste».
A dare scandalo era il soggetto raffigurato: Olympia non era una cortigiana del passato, era una femme de plaisir contemporanea (sia pur interpretata dalla modella Victorine Meurent), non molto attraente, con un collare al collo e babbucce ai piedi, simile a tante «parigine perdute» raffigurate nelle foto pornografiche che andavano a ruba nel secondo Impero. Nessuno vi scorse echi del passato, se non, nel 1897, Léonce Bénédite, direttore del Musée du Luxembourg e conservatore del Musée Rodin.
Medesima sorte ebbe l’altra opera presentata da Édouard Manet al Salon del 1865 ed esposta nella rassegna veneziana: «Jesus insulté par des soldats» (1864), un olio su tela bollato dalla critica come «volgarità inconcepibile» per l’evidente umanità di Gesù, le cui fonti di ispirazione vanno ricercate, secondo l’originale taglio critico dato da Stéphane Guégan, nel «Cristo deriso» (1542-‘44 circa) di Tiziano, conservato al Louvre. Mentre l’acquerello del celebre «Le Christ aux anges» (1864 circa), presentato (con l’usuale scia di polemiche) al Salon del 1864 e oggi conservato al Metropolitan di New York, viene abbinato nel percorso espositivo al «Cristo morto sostenuto da tre angeli» (1475) di Antonello da Messina, proveniente dal vicino museo Correr di Venezia, e da una copia del «Cristo dei dolori» di Andrea del Sarto, disegnata dallo stesso Manet nel 1857 presso la Basilica della Santissima Annunziata di Firenze ed esposta a Palazzo Ducale per la prima volta in assoluto.
Molti ancora sono gli artisti con i quali il maestro parigino si confronta nelle sale di Palazzo Ducale: il quadro «Le Balcon» (1868-1869) dialoga con le «Due dame veneziane» (1495 circa) di Carpaccio, il «Portrait d’Émile Zola» (1868) con il «Ritratto di giovane gentiluomo» di Lorenzo Lotto, il «Bal masqué à l'Opéra» (1873-1874) con «Il Ridotto di Palazzo Dandolo a San Moisé» (1740-1750 circa) di Francesco Guardi, del quale pare echeggiare i temi degli amori mascherati e del gioco ambiguo dell’identità.
Scorre, inoltre, sotto gli occhi dei visitatori un nucleo di opere davvero straordinarie, generosamente prestate dal Musée d’Orsay, tra le quali «Angelina» (1865), «La Lecture» (1865/1866-1873), «Le Fifre» (1866), «Sur la plage» (1873), «Portrait de Stéphane Mallarmé» (1876) e «Lola de Valence» (1862-1863, modificata dopo il 1867), quest’ultima superbamente restaurata per l’occasione. Deliziosa è anche la sezione dedicata alle nature morte, nella preziosa Sala degli stucchi, dove sono esposti piccoli quadri destinati per essere donati ad amici e conoscenti, come «Il limone» (1880-1881), «Stelo di peonie e forbici» (1864) e «L’asparago» (1880), appartenuto alla collezione del banchiere Charles Ephrussi. Un’opera, quest’ultima, della quale si parla anche nel bel libro «Un’eredita di avorio ed ambra» (Bollati e Boringhieri, 2011) di Edmund De Waal e che ha una storia curiosa, raccontata per la prima volta da Marcel Proust: «Charles comprò un quadro che ritraeva un fascio di asparagi da Manet, una delle sue straordinarie nature morte [...] Era un fascio di venti asparagi legati da un laccio. Manet voleva 800 franchi, Charles gliene inviò 1000. Una settimana dopo Charles ricevette una piccola tela firmata con una semplice M. Era un gambo di asparago posato su un tavolo ed era accompagnato da un biglietto: ‘Sembra che questo sia rimasto fuori dal fascio’».
L’opera emana una libertà espressiva e compositiva straordinaria, la stessa che si respira nella piccola tela «Le Grand Canal à Venise» (1874), uno scorcio del Canal Grande impresso a futura memoria nel fulgore della luce settembrina e giocato su toni di blu cobalto. Una delle poche vedute italiane del pittore parigino, di cui Edgar Degas recitò, durante la cerimonia funebre, il mea culpa di un’intera generazione: «Era più grande di quanto pensassimo».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Édouard Manet, «Le Grand Canal à Venise». («Canal Grande a Venezi».a), 1874. Olio su tela, 57x48 cm. Collezione privata; [fig. 2] Édouard Manet, «Olympia»., 1863. Olio su tela, 130x190 cm. Parigi, Musée d’Orsay. Donata allo Stato nel 1890 grazie a una sottoscrizione voluta da Claude Monet. © Musée d'Orsay, Dist. RMN-Grand Palais / Patrice Schmidt; [fig. 3] Tiziano, «Venere di Urbino»., 1538. Olio su tela, 119x165 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali); [fig. 4] Édouard Manet, «Le balcon». («Il balcone».), 1868-1869. Olio su tela, 170x124,5 cm. Parigi, Musée d’Orsay. Lascito Gustave Caillebotte, 1894. © RMN (Musée d'Orsay) / Hervé Lewandowski; [fig. 5] Vittore Carpaccio, «Due dame Veneziane»., 1495 circa. Olio e tempera su tavola, 94x63 cm. Venezia, Museo Correr; [fig. 6] Édouard Manet, «Le Christ aux anges». («Cristo morto con gli angeli».), 1864 circa. Mina di piombo, acquerello, gouache, penna a inchiostro di china 32,4x27 cm. Parigi, Musée d’Orsay. Dono Mme Zola allo Stato con riserva di usufrutto, 1918. © RMN-Grand Palais (musée d'Orsay) / Thierry Le Mage

Informazioni utili
«Édouard Manet. Ritorno a Venezia». Palazzo Ducale, San Marco, 1 - Venezia. Orari: domenica-giovedì, ore 9.00-19.00; venerdì e sabato, ore 9.00-20.00 (la biglietteria chiude un'ora prima). Ingresso: intero € 13,00, ridotto € 11,00, ridotto speciale € 7,00. Catalogo: Skira, Milano. Infoline: tel. 041.8520154 (dall’Italia e dall’estero) o info@fmcvenezia.it. Sito web: www.mostramanet.it. Fino a domenica 1° settembre 2013. 

domenica 28 luglio 2013

Robert Motherwell, esordi in forma di papiers collés

E’ il 1943 quando Peggy Guggenheim, dietro consiglio di Marcel Duchamp, decide di organizzare nella sua galleria-museo di New York, la leggendaria «Art of This Century», una mostra di collage, tecnica artistica allora poco diffusa negli Stati Uniti, fatta eccezione per gli esperimenti di Arthur Dove e Joseph Stella, ma molto amata da artisti europei contemporanei come Jean (Hans) Arp, Georges Braque, Juan Gris e molti altri. Il 16 aprile di quell’anno, nello spazio espositivo progettato da Frederick Kiesler all’interno di una vecchia sartoria e definito dalla sua stessa ideatrice un «laboratorio di ricerche per nuove idee», apre la «Exhibition of collage», dove, accanto a personalità del calibro di Henry Matisse, Pablo Picasso e Kurt Schwitters, sono invitati ad esporre, per circa un mese, anche tre artisti agli esordi della propria carriera, tutti operanti sotto l’ala protettrice di Peggy Guggenheim: William Baziotes, Robert Motherwell e Jackson Pollock.
La rassegna newyorkese non incontra il favore della critica, anche se le vendite sono buone. Qualche giornalista parla addirittura di «colla applicata con gusto e spazzatura». Ma c’è uno dei tre giovani che, anche grazie ai consigli e all’incoraggiamento del surrealista cileno Robert Matta, sembra aver trovato la propria «identità» visiva e che definisce i papiers collés «la nostra maggior scoperta». È Robert Motherwell (Aberdeen, Washington, 24 gennaio 1915 – Cape Cod, Massachusetts, 16 luglio 1991), artista, oggi conosciuto come uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo astratto americano, che, dai primi anni Quaranta, adotta il collage come parte integrante della propria prassi creativa, realizzandone quasi novecento nell’arco dei suoi cinquant’anni di attività.
Ai primi lavori su carta del maestro espressionista, che nel proprio bagaglio culturale vanta studi di filosofia, letteratura e architettura alle università di Stanford e Harvard, oltre a un viaggio formativo a Parigi nel biennio 1939-1940, è dedicata la mostra estiva della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, attesa in autunno a New York per la sua seconda tappa espositiva (27 settembre 2013-5 gennaio 2014).
Quarantaquattro opere, selezionate da Susan Davidson, scorrono lungo le pareti dell’ala di Palazzo Venier dei Leoni dedicata alle rassegne temporanee, ricostruendo, in maniera cronologica, l’interesse di Robert Motherwell per papiers collés durante i suoi esordi artistici, nel decennio 1941-1951, epoca che vede anche, nell’autunno del 1944, la prima personale dell’artista alla «Art of This Century» di Peggy Guggenheim, con un’introduzione all’opuscolo pubblicato per l’occasione di James Johnson Sweeney.
Tagliare, strappare e incollare la carta o il cartone sono azioni che si combinano nella cifra stilistica dell’espressionista americano, contraltare di Andy Warhol e dei grandi nomi della Pop art, con una serie di sperimentazioni che spaziano dal mischiare al collage tecniche differenti, quali la pittura a pastello, il guazzo ad acquerello o il disegno a inchiostro, sino all’inserimento di elementi presi in prestito dal mondo reale, come mappe militari o slogan con intenti sociali e politici.
La tavolozza risente del viaggio in Messico, fatto nell’estate del 1941 con Robert Matta. «Mi piacciono –dichiara, al ritorno, l’artista- i mercati indigeni e i colori dell’arte popolare messicana: il magenta, il giallo limone acceso, il giallo-verde, l’indaco, il vermiglio e il porpora, tanto porpora». Queste tinte accese e sgargianti animano lavori come «Pancho Villa, viva e morto» (1943), «Figura con macchie» (1943), «Il sole» (1944), «Panorama da un’alta torre» (1944-1945), «Figura astratta» (1945), «Blu con inchiostro di china (Omaggio a John Cage)» (1946) e «Il poeta» (1947). Ma il primo decennio di attività di Robert Motherwell è segnato anche dall’entrata in guerra degli Stati Uniti, a seguito dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Il lavoro su carta diventa così anche strumento per raccontare la violenza, la paura e il tumulto emotivo di quegli anni. Sbarre di prigione e figure umane stilizzate, ferite o morte, fanno, per esempio, la loro comparsa su opere quali «Jeaune Fille» (1944) e «Tre personaggi uccisi» (6 giugno 1944). Ma anche i titoli di alcune raffigurazioni, come «Un muro in Italia» (1946) o «Viva» (1946), sono evocativi di una guerra che si combatte oltreoceano, ma che è ben viva nell’immaginario collettivo americano per le foto dei soldati morti e per le mappe dell’Europa in fiamme che, ogni giorno, finiscono sulle pagine del «New York Times». Robert Motherwell è, inoltre, un attento studioso dell’arte del suo tempo. Guarda, per esempio, a Pablo Picasso e Joan Mirò per «La grande stanza di Kafka» (1944), mentre si ispira a Henri Matisse per «Gioia di vivere» (tre lavori datati 1943, 1948 e 1951). Ma non mancano echi del linguaggio espressivo di Piet Mondrian, Paul Cézanne e Jean Arp in queste carte cariche di ghirigori, elementi geometrici, scritte murali e macchie che, anno dopo anno, aumentano di dimensioni e si fanno sempre meno figurative e più liriche, emotivamente coinvolgenti.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Robert Motherwell, «Jeune Fille», 1944. Olio, inchiostro, guazzo, carta Kraft, carta colorata e tessuto incollati su cartone telato. Collezione privata. © Dedalus Foundation, Inc/Licensed by VAGA, New York; [fig. 2]Robert Motherwell, «Panorama da un’alta torre», 1944–45. Tempera, olio, inchiostro, pastello, impiallacciatura, carta da disegno, carta giapponese e carta geografica incollate su cartone.Collezione privata. © Dedalus Foundation, Inc/Licensed by VAGA, New York; [fig. 3] Robert Motherwell, «Viva», 1946. Olio, guazzo, sabbia e carta incollata su pannello. Collezione privata, Monaco. © Dedalus Foundation, Inc/Licensed by VAGA, New York; [fig. 4] Robert Motherwell,«Figura con macchie», 1943. Olio, inchiostro, pastello, carta e carta giapponese incollata su cartone. David and Audrey Mirvish, Toronto. © Dedalus Foundation, Inc/Licensed by VAGA, New York

Informazioni utili
«Robert Motherwell: i primi collage». Collezione Peggy Guggenheim, Dorsoduro, 701-704 - Venezia. Orari: 10.00–18.00, chiuso il martedì.Ingresso: intero € 14,00; seniors over 65 € 11,00; studenti € 8,00 (entro i 26 anni); bambini (0-10 anni) e soci ingresso gratuito.Catalogo: Guggenheim Publications, New York-Venezia. Note: tutti i giorni, alle ore 15.30, il museo organizza visite guidate gratuite alla mostra; non è necessaria la prenotazione. Informazioni: tel. 041.2405440/419 o info@guggenheim-venice.it. sito web: www.guggenheim-venice.it. Fino a domenica 8 dicembre 2013.

venerdì 26 luglio 2013

Modigliani e l’École de Paris: la Montparnasse bohémienne rivive a Milano e a Martigny

«Seguimi Jeanne, segui nella morte, così in paradiso avrò la mia modella preferita e potrò gustare con lei le gioie dell'eternità»: così, poco prima di spirare in un letto dell'Hôpital de la Charité di Parigi, per una grave forma di tubercolosi polmonare, Amedeo Modigliani (Livorno, 12 luglio 1884 – Parigi, 24 gennaio 1920) si rivolse alla compagna Jeanne Hébuterne. La sera successiva alla sua morte, il 25 gennaio 1920, la giovane donna, in procinto di partorire il loro secondo figlio, ripensò a quelle parole e si tolse la vita, gettandosi da una finestra della casa paterna, al quinto piano di un palazzo di rue Amyot. Finiva così, in tragedia, la vicenda di Modì, il «maudit», il «pittore maledetto del XX secolo», ammirato dai suoi contemporanei più per la propria aura bohémienne che per i ritratti femminili dai volti stilizzati, dai lunghi colli affusolati e dagli sguardi acquosi, assetati d’amore che sono la cifra stilistica più evidente della sua arte. Il pubblico era affascinato dall'esistenza avventurosa del livornese, trascorsa in un'altalena fra eros e droga, povertà e fervore creativo, passione e dolore. Mentre la maggior parte dei giornalisti e il mondo accademico snobbava la sua produzione, considerandola troppo «facile», priva di una reale dimensione innovatrice nella storia dell'arte del Novecento.
Come spesso accade ai grandi del passato, la fortuna critica di Amedeo Modigliani fu postuma: la retrospettiva alla Biennale di Venezia del 1930 ne decretò il definitivo riconoscimento tra i grandi protagonisti delle Avanguardie e dei primi decenni del XX secolo, accanto a Pablo Picasso, Henri Matisse e Georges Braque.
Da allora l’artista livornese è una vera e propria stella delle aste. Ai primi di luglio, un suo ritratto femminile è, per esempio, stato battuto da Matsar a 6,7 milioni di euro, risultando l'opera più costosa mai venduta in Israele fino ad oggi. Il record assoluto per un dipinto di Modigliani lo detiene, però, il quadro «Nu assis sur un divan» (conosciuto dagli esperti come «La belle romaine»), acquisito nel 2010 per una cifra di 61 milioni e 500 mila dollari.
Non meno fortuna hanno le iniziative espositive dedicate al pittore toscano. La classifica settimanale dell’agenzia Ansa sulle mostre più visitate in Italia posiziona, infatti, da settimane sui primi gradini del podio la rassegna «Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti», curata da Marc Restellini, direttore della Pinacothèque de Paris, presso il Palazzo Reale di Milano.
Centoventi opere, mai esposte al pubblico negli ultimi settant’anni, ricostruiscono non solo il cammino artistico del pittore livornese negli ultimi anni di vita, ma anche la storia, poco conosciuta, della collezione di Jonas Netter (1867-1946), ebreo alsaziano, trapiantato a Parigi, che di mestiere era rappresentante commerciale per varie ditte e che aveva una passione per l’arte, soprattutto per quella degli impressionisti. Claude Manet e Edgar Degas non rientravano, però, nelle sue possibilità economiche. Nel 1915, l’incontro con il mercante e poeta polacco Léopold Zborowski segnò una svolta: il collezionista francese venne a contatto con gli artisti del quartiere di Montparnasse, un gruppo eterogeneo di giovani stranieri, in prevalenza ebrei, accomunati dalla ricerca di un nuovo linguaggio figurativo e dalla necessità di esprimere sulla tela i tormenti della propria anima, i sogni di un’esistenza quasi sempre difficile e dissoluta, spesa tra droghe, assenzio, donne, pennelli e tubetti di colore. Jonas Netter divenne, insieme con Léopold Zborowski, talent-scout di alcuni di questi pittori, pagando loro stipendi, affitti, forniture di materiali e altre varie spese. Il primo a legarsi contrattualmente con il collezionista fu Amedeo Modigliani per quindici franchi al giorno (più un rimborso) in cambio dell’intera produzione. Seguirono due amici, squattrinati, dell’artista: Chaïme Soutine (Smiloviči, 1894- Parigi, 1943), pittore lituano che visse da clochard gran parte della sua esistenza e del quale Marc Chagall diceva impietoso «fa veramente schifo», e Maurice Utrillo (Parigi, 1883 - Dax, 1955), alcolizzato cronico del quale si vociferava che la nonna contadina lo svezzasse con biberon pieni di vino.
La morte di Modì e quella di Léopold Zborowski (avvenuta nel 1929) non spensero il fervore collezionistico di Jonas Netter. Alla quarantina di opere del suo pupillo e a quelle dei due amici del pittore toscano, il collezionista francese aggiunse, negli anni, lavori di Suzanne Valadon (Bessines,1865-Parigi, 1938), ex modella dai facili costumi contesa da Pierre-Auguste Renoir e Pierre Puvis de Chavannes, di Moïse Kisling (Cracovia, 1891-Sanay-sur-Mer, 1953), di André Derain (Chatou, 1880-Garches, 1954) e di molti altri, pur incontrando la diffidenza del suo entourage che gli rimproverava di acquistare «simili orrori», vere e proprie «porcherie».
La raccolta di Jonas Netter, che rivive ora nelle sale di Palazzo Reale, tratteggia, dunque, il ritratto di una generazione d’artisti passata alla storia come l’École de Paris (definizione, questa, coniata, nel 1925, da André Warnod, giornalista del quotidiano «Le Figaro»).
Sala dopo sala, accompagnati dalla voce di Corrado Augias in audio-guida (disponibile all’ingresso e compresa nel costo del biglietto), i visitatori potranno ammirare i luminosi paesaggi metropolitani del «periodo bianco» di Maurice Utrillo, i sontuosi nudi femminili di Suzanne Valadon, la violenza cromatica e il crudo realismo di opere come «La folle» (1919) o «Le bouef» (1924) di Chaïme Soutine, l’unico ritratto conosciuto del collezionista Jonas Netter a firma di Moïse Kisling e André Derain con la sua «Grandes baigneuses» (1908) di ispirazione cezanniana. Non mancano nel percorso espositivo opere di molti altri pittori minori come Léon Solà, Henry Hayden, Eugene Ebiche, Gabriel Fournier ed Henry Epstein. Ma il vero protagonista della rassegna, aperta fino a domenica 8 settembre, è Amedeo Modigliani: del maestro toscano sono esposti i ritratti, ariosi ed essenziali, dell’amico Soutine, del mercante Zborowski, del corniciaio Lepoutre, della poetessa inglese Beatrice Hastings, ma anche capolavori poco noti come «Elvire au col blanc» (1917) o «Jeanne Hébuterne au henné» (1918), una tela che consegna a futura memoria il volto dell’ultima amante dell’artista, quella giovane donna che, appena diciannovenne, decise di gettarsi nel vuoto, annientata dal dolore, «devota compagna -come recita il suo epitaffio- fino all'estremo sacrificio».
All’esperienza dell’École de Paris guarda anche la nuova mostra della Fondation Pierre Giannada, in Svizzera, nata dalla collaborazione con il Centre Pompidou e con la sua direttrice, la curatrice Catherine Grenier. Un’ottantina di opere, delle quali quindici di Modì, ricostruiscono quel clima di vivacità culturale che fece della capitale francese un faro, una calamità per tanti artisti di talento. Non manca lungo il percorso espositivo, che presenta anche tele di Marc Chagall ed Henri Matisse, un omaggio al movimento cubista con lavori come «Le guitariste» (1910) di Pablo Picasso, la «Nature morte au livre» (1913) di Juan Gris, «Le mécanicien» (1918) e «Le pôt à tisane» (1919) di Fernand Léger. L’esposizione, visitabile fino a domenica 24 novembre, ricostruisce, poi, il rapporto d’amicizia tra il pittore toscano e Costantin Brancusi, del quale sono esposte le sculture «Princesse X» (1915-1916) e «Mle Pogany III» (1933) e al cui vocabolario figurativo guardò Amedeo Modigliani per la sua «Téte de femme» (1912), un volto di donna dal naso esageratamente allungato e dalla bocca inesistente, in ieratica contemplazione. Ma il meglio è ancora una volta espresso dai ritratti e dai nudi dell’artista toscano, da tele come «Maternitè» (1919), «Jeanne Hebuterne au chapeau» (1919) e «Nu couche le bras replie sous la tete» (1919), che, attraverso forme semplificate e una tavolozza ridotta a pochi colori, omaggiano l’arte del passato e scandagliano l’animo umano. Vengono in mente così le parole di Margherita Sarfatti che descrisse Modì come un «Botticelli moderno, tutto bruciato dal fuoco dello spirito, che rende esili, quasi immateriali le sue creature, per lasciarne meglio trasparire lo spirito meditativo e gentilmente malinconico».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Amedeo Modigliani, «Ritratto di Jeanne Hébuterne (Jeanne Hébuterne au henné)», 1918. Olio su tela, cm 100 x 65. Firmato in alto a destra. © Pinacothèque de Paris; [fig. 2] Amedeo Modigliani, «Elvire con colletto bianco (Elvire con collettino)», 1917 o 1918. Olio su tela, Firmato in alto a destra, cm 92 x 65. © Pinacothèque de Paris /Fabrice Gousset; [fig. 3] Amedeo Modigliani, «Ritratto di Soutine», 1916. Olio su tela, cm 100 x 65. Firmato in basso a destra. © Pinacothèque de Paris /Fabrice Gousset; [fig. 4] Amedeo Modigliani, «Ritratto di Zborowski», 1916. Olio su tela, cm 46 x 27. Firmato in alto a destra. © Pinacothèque de Paris /Fabrice Gousset; [fig. 5] [Fig. 1] Amedeo Modigliani, «Testa di donna», 1912. Scultura

Informazioni utili 
«Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti». Palazzo Reale, piazza del Duomo, 12 - Milano. Orari: lunedì, ore 14-30-19.30, martedì-domenica, ore 9.30-19.30; giovedì e sabato, ore 9.30-22.30 (il servizio di biglietteria chiude un'ora prima). Ingresso: intero € 11,00, ridotto da € 9,50 a € 4,50 (per dettagli sulle riduzioni e le gratuità: www.mostramodigliani.it/?page_id=18). Catalogo: Il Sole 24 Ore Cultura, Milano. Informazioni: tel. 02.88465230/88445181. Sito internet: www.mostramodigliani.it. Fino a domenica 8 settembre 2013. 


«Modigliani e l’École de Paris». Fondation Pierre Giannada,Rue du Forum, 59 - 1920 Martigny (Svizzera). orari: tutti i giorni, ore 9.00-19.00. Ingresso: adulti ChF 20 /€ 17,00; terza età: ChF 18/€ 15,00, famiglie ChF 42/€ 35,00, bambini oltre 10 anni e studenti ChF 12/€ 10,00 gruppi: ChF 18/€ 15,00. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel.(+41)277223978. Informazioni in Italia: tel. 031.269393. Sito internet: www.gianadda.ch. Fino a domenica 24 novembre 2013.