ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

sabato 30 aprile 2022

«On fire», alla Fondazione Cini di Venezia il fuoco dialoga con l’arte contemporanea

Non ha forma, peso e densità. È immateriale e naturalmente fuggevole, eppure scalda, brucia, scoppia, illumina, risplende, distrugge e crea. È un elemento vivo. È, per usare le parole del saggista e giornalista James Henry Leigh Hunt (Southgate, Middlesex, 1784 - Putney 1859), «il più tangibile dei misteri visibili». Il fuoco è, tra i quattro elementi naturali, quello che più ha affascinato il mondo dell’arte, dove ha assunto le funzioni e i significati più diversi, ora di accessorio narrativo, ora di  medium  creativo, ora di presenza sacrale, simbolo di purificazione, rigenerazione e nuovi inizi.
Dal fuoco della redenzione che scalda il Bambino in tante Adorazioni dei pastori alle eruzioni vulcaniche che caratterizzano molti dipinti di area napoletana, dall’immancabile candela che rischiara i notturni di George de La Tour al falò della convivialità presente nel quadro «Upa, upa» di Paul Gauguin, pittori e scultori hanno traghettato il fuoco, quale elemento figurativo, nel Novecento, il secolo delle sperimentazioni e delle performance.
Le Avanguardie del secondo Dopoguerra hanno, quindi, scritto un nuovo capitolo di questa storia millenaria: dagli anni Cinquanta in poi, gli artisti sono, infatti, riusciti ad appropriarsi degli effetti sia distruttivi che generatori del fuoco, impiegandolo su diversi materiali, e hanno usato questo elemento naturale come medium per innovare il loro stesso linguaggio pittorico e plastico.
A questa storia guarda la mostra «On Fire», a cura di Bruno Corà, allestita fino al 24 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore, negli spazi della Fondazione Giorgio Cini, e promossa con la galleria Tornabuoni in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Ventisei opere, tra cui diversi capolavori inediti o raramente mostrati al pubblico, suddivise in sei sezioni, documentano l’uso del fuoco come strumento di combustione dei materiali o come presenza viva con i propri effetti sensoriali, talvolta spettacolari, o, infine, come traccia pittorica attraverso il fumo della combustione.
Ad aprire il percorso espositivo, studiato per exempla, è Yves Klein, artista che fu attratto dall'aspetto dialettico del fuoco, simbolo di distruzione e rigenerazione, vita e morte, bene e di male. «Il fuoco – affermava - è per me il futuro senza dimenticare il passato. È la memoria della natura. È dolcezza, il fuoco ‘è dolcezza e tortura’. È il focolare e l'apocalisse. È un piacere per il bambino sapientemente sedutosi vicino al camino; punisce, tuttavia, ogni disobbedienza quando si vuole giocare troppo da vicino con le sue fiamme. È benessere e rispetto. È un dio tutelare e terribile, buono e cattivo». Nacquero da queste considerazioni le quattro «Peinture de feu» esposte, ovvero le «Antropometrie» degli anni Sessanta, ultima fase della ricerca dell'artista.
Ispirazione creativa e formazione scientifica si sposano, invece, nell’uso del fuoco fatto da Alberto Burri. «Per molto tempo ho voluto – annotava, a tal proposito, l’artista - approfondire il modo in cui il fuoco consuma, comprendere la natura della combustione e come tutto possa vivere e morire nella combustione per formare un'unità perfetta». La fiamma ossidrica dava all’artista umbro la possibilità di imprimere buchi, grinze e strappi, proprio come una cicatrice, alle materie che trattava – inizialmente carta, poi legno e plastica – anche grazie al lavoro manuale. «Nulla - raccontava Alberto Burri - è lasciato al caso. Quello che faccio qui è il tipo di pittura più controllato e controllabile...Bisogna controllare il materiale e questo si ottiene padroneggiando la tecnica».
Mentre per Armand Pierre Fernandez, in arte Arman, punto di partenza per l’uso del fuoco nella sua pratica artistica fu l’opera «Fauteuil d'Ulysse», realizzata negli anni Sessanta, con l'aiuto di Martial Raysse, per una mostra al Museo Stedeljik di Amsterdam. L'idea di questo lavoro, presente nella rassegna veneziana, venne all'artista durante una visita a una discarica, dove vide una poltrona stile Luigi XV che stava bruciando in cima a un mucchio di spazzatura. Da quest’opera principia una serie di combustioni con mobili eleganti e strumenti musicali che venivano consumati dal fuoco prima di essere stabilizzati dall'introduzione di resina. Distruggere un oggetto e farlo rivivere in forma nuova è, dunque, lo scopo del lavoro di Arman con il fuoco.
Dal Noveau Réalisme si passa, quindi, all’Arte povera con Pier Paolo Calzolari, le cui opere sono realizzate fin dall’inizio con materiali in costante conversazione tra loro, umili e provenienti dai contesti semi-industriali urbani o elementi naturali. Tra questi ci sono il fuoco, il legno, ma anche rottami, oggetti quotidiani e tubi al neon. In «Mangiafuoco» la pittura dialoga con la vitalità mutevole della materia, ovvero il fuoco soffiato sulla tela. «Il mio scopo - affermava l’artista - era stato fare in modo che la fiamma viva non rendesse in alcun modo secondario il rosso dipinto sulla tela».
Due lavori caratterizzano, poi, la presenza di Jannis Kounellis in mostra: «Margherita del fuoco» (1967), prima sua opera che fa uso della fiamma ossidrica e della bombola del gas, e «Senza titolo», una doppia lastra di ferro solcata da sette cannelli di rame, dai quali fuoriescono altrettante fiamme alimentate a gas, incorniciata da una sequela di grossi coltelli conficcati su panetti di piombo.
A chiudere il percorso espositivo è un’enorme biblioteca senza libri di Claudio Parmiggiani, realizzata in situ con il fumo e la fuliggine della combustione. L’opera, che pone al centro il tema della memoria, fa parte del ciclo delle «Delocazioni», «uno spazio vuoto di percezioni fisiche – si legge nella nota stampa -, dove però lo spettatore ha la sensazione di penetrare in un luogo abitato. L'assenza di oggetti esposti in precedenza rende i muri ancora più chiari; non c'è più che la loro traccia fuligginosa da vedere».
L’intero percorso espositivo dà sostanza alle parole di Gaston Bachelard: «l'alta dignità delle arti del fuoco deriva dal fatto che le loro opere portano il segno più profondamente umano, il segno dell'amore primitivo. (…) Le forme create dal fuoco sono modellate, più di ogni altra, come bene suggerisce Paul Valéry: 'a forza di carezze'».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Alberto Burri, Rosso Plastica M3, 1961, Plastica, combustione su tela, 121,5 x 182,5 cm. ©Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri; [Fig. 2] Yves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 250 x 130 cm. © Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [fig. 3] ves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 142 x 303 cm.© Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [ig. 4] Jannis Kounellis, Margherita di Fuoco, 1967, Stella di ferro con fiamma ossidrica. diam. 150 cm. ©Claudio Abate, Roma; [fig. 5] Claudio Parmiggiani, Solo la terra oscura, 2020. Fumo e fuliggine su tavola, 240x1824cm. Foto Agostino Osio-Alto Piano. Courtesy Fondazione MAXXI

Informazioni utili
On Fire. Isola di San Giorgio Maggiore, Sala Carnelutti e Piccolo Teatro -  Venezia, Italia. Orari: aperto tutti i giorni (tranne il mercoledì), dalle 11 alle 19. Ingresso gratuito. Sito web: www.cini.it. Fino al 24 luglio 2022

mercoledì 27 aprile 2022

«Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni

«È un’esposizione sulle storie d’amore e i loro diversi tipi di coppie, giovani e vecchie, sull’erotismo, il tradimento, l’alienazione, l’inizio e la fine, il lutto, le tensioni tra lo spirito e il corpo, le parole (titoli e testi) e le immagini». Così Marlene Dumas (Città del Capo, Sudafrica, 1953) racconta la mostra «Open-end», la sua prima «grande personale» in Italia, allestita fino all’8 gennaio negli spazi di Palazzo Grassi, una delle sedi della collezione Pinault a Venezia
È la stessa artista a spiegare il titolo della rassegna, maturata durante i mesi di confinamento e di chiusura dei luoghi di cultura a causa della pandemia per il Covid-19, in un clima di malinconia per i tanti lutti che hanno caratterizzato gli ultimi due anni.
«Ci ho riflettuto molto – racconta Marlene Dumas - prima di trovare un titolo che riflettesse il mio stato d’animo e la mia percezione del mondo. Ho pensato al fatto di essere bloccata a casa, ai musei chiusi al pubblico e a Palazzo Grassi che dovrà essere aperto per accogliere questa mostra. Poi ho pensato alla parola ‘open’, aperto, e al modo in cui i miei dipinti siano aperti a diverse interpretazioni. Nelle mie opere lo spettatore vede immediatamente ciò che ho dipinto, ma non ne conosce ancora il significato. Dove comincia l’opera non è dove termina. La parola ‘end’, fine, che nel contesto della pandemia ha le proprie implicazioni, è al contempo fluida e melanconica».
Un centinaio di opere, selezionate da Caroline Bourgeois, raccontano la produzione più recente dell’artista, attraverso una selezione di dipinti e disegni che vanno dal 1984 a oggi, compreso un nucleo di opere realizzate proprio per la rassegna veneziana. Lavori di piccole dimensioni, come l’inchiostro e pastello su carta «About Heaven» (2001), «Mamma Roma» (2012) o «The Gate» (2001), si alternano ad altri di grande formato, da «Figure in a landscape» (2010) a «The making» of (2020), in un allestimento dal ritmo poetico, ora serrato, ora arioso, che occupa tutti e due i piani espositivi di Palazzo Grassi.
La maggior parte della produzione di Marlene Dumas è costituita da ritratti e figure umane che rappresentano l’intero spettro delle nostre emozioni: la sofferenza, l’estasi, la paura, la disperazione, la tenerezza, l’amore. Volti, corpi, e in alcuni casi organi sessuali, vengono resi sulla tela con una pennellata veloce, fluida ed essenziale, che negli ultimi anni si è fatta più pastosa, visibilmente materica, e con colori non naturalistici, tipici dello stile neoespressionista, che virano verso i toni del blu, del grigio, del rosso scuro e del giallo. Marlene Dumas spiega questa sua scelta figurativa così, con parole poetiche e simboliche: «La pittura è la traccia del tocco umano, è la pelle di una superficie. Un dipinto non è una cartolina».
Non mancano lungo il percorso espositivo - insieme potente ed enigmatico, intimo e provocatorio - autoritratti e opere che ritraggono personalità di spicco della nostra storia più recente, rivisitati in una chiave intima e inedita, da Pier Paolo Pasolini ad Anna Magnani, da Oscar Wilde a Marilyn Monroe, da Charles Baudelaire a «Dora Maar che ha visto piangere Picasso».
Un aspetto cruciale del lavoro di Marlene Dumas è l’uso di immagini provenienti da giornali, cartoline postali, libri, riviste di moda o film, ricombinate in una narrazione pittorica che mette insieme istanze socio-politiche, fatti di cronaca e storia dell’arte. A tal proposito, con una vena ironica, la stessa pittrice afferma: «sono un’artista che usa immagini di seconda mano ed esperienze di prim’ordine».
L’amore e la morte, le questioni di genere e razziali, la situazione di quelli che l’artista chiama i «dannati di questa terra», ovvero tutti coloro che sono stati privati dei propri diritti, l’innocenza e la colpa sono alcuni temi al centro del corpus di opere esposte, realizzate con un fare artistico molto corporeo, quasi erotico. «Dipingere per me è un’attività molto fisica – spiega, a tal proposito, Marlene Dumas – c’è qualcosa di primitivo. Uso il mio corpo e il corpo crea il dipinto, è il gesto che decide. Io penso molto, ma questo non necessariamente porta a un buon dipinto. Conta la tensione del momento nel quale sono fisicamente con i materiali, e anche questi devono trovare la loro strada nel dipinto. Vorrei che il quadro fosse come una danza». Una danza o una poesia, «una scrittura – conclude l’artista - che respira e fa dei balzi, e che lascia spazi aperti per consentirci di leggere tra le righe».

La proposta espositiva della collezione Pinault, per i giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, si completa con la mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies», a cura di Carlos Basualdo e Caroline Bourgeois, allestita fino al 27 novembre a Punta Dogana
Attraverso un percorso espositivo inedito, che affianca lavori storici a opere più recenti, alcune delle quali inedite o presentate per la prima volta in Europa, la rassegna si concentra su tre direttrici fondamentali della produzione dell’autore americano, vincitore del Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale alla Biennale di Venezia nel 2009: lo studio d’artista come spazio di lavoro e creazione, l’uso performativo del corpo e la sperimentazione sonora. . 
Centrale nel percorso espositivo è una serie di installazioni video realizzate negli ultimi anni a partire dal celebre «Walk with Contrapposto» del 1968, che ritraeva Bruce Nauman avanzare lungo un corridoio di legno allestito nel suo studio mentre si sforzava di mantenere la posa chiastica: «Contrapposto Studies, I through VII» (2015/16), «Walks In Walks Out» (2015), «Contrapposto Split» (2017) e «Walking a Line» (2019). Si trovano, poi, esposti lavori storici come, per esempio, «Bouncing in the Corner No.1» (1968) , «Lip Sync» (1969) e «For Children »(2010).  Il risultato è un’esperienza immersiva per il visitatore, invitato a mettersi in gioco con il proprio corpo, i sensi e l’intelletto.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1-5] Vista dell'allestimento della mostra «Open-end» di Marlene Dumas. Courtesy: Palazzo Grassi, Venezia; [fig. 6]  Vista dell'allestimento della mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies». Courtesy: Punta Dogana, Venezia;

Informazioni utili 
Marlene Dumas. open-end- Palazzo Grassi, San Samuele 3231 – Venezia. Orari: tutti i giorni, tranne il martedì, dalle ore 10 alle ore 19. Biglietti: intero € 15,00, ridotto € 12,00. Maggiori informazioni sugli orari, le tariffe, le attività e le modalità di accesso sul sito: www.palazzograssi.it. Fino all’8 gennaio 2023

martedì 26 aprile 2022

Da Donatello ad Alessandro Vittoria, centocinquanta anni di scultura a Venezia

Nel 1450 Venezia è all’apice della sua potenza, grazie al ruolo di cerniera tra l’Oriente e il nord Europa. In questo scenario il gotico viene gradualmente abbandonato per lasciare spazio a uno stile nuovo e, allo stesso tempo, eterno che parte dal ritorno all’antico per dare vita al Rinascimento. È in questo periodo che Donatello (Firenze, 1386 – Firenze, 13 dicembre 1466), fa tappa a Padova, dove soggiornerà per dieci anni, dal 1443 al 1453. Il suo arrivo sancisce il sopraggiungere di influenze esterne al panorama artistico veneto, ancora tardo gotico, e contribuisce alla formazione di una nuova generazione di artisti che si specializzano nella fusione del bronzo e nelle sculture in terracotta. Simbolo di questa nuova plasticità è il «San Lorenzo», un busto in terracotta del 1440, scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia», allestita negli spazi della Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, per la curatela di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini.
Originariamente nella lunetta del portale della Pieve di San Lorenzo a Firenze, il busto di «San Lorenzo» fu acquistato da Giovanni II, principe del Liechtenstein, nel 1889, e fino al 1938 esposto nella residenza estiva della famiglia a Vienna. Solo studi recenti di Francesco Caglioti, condotti tra il 2013 e il 2014 con l’ingresso del lavoro nella collezione di Peter Silverman e Kathleen Onorato, hanno dimostrato l’autografia donatelliana.
L’iconografia della scultura è quella tradizionale, presente in tanti busti reliquari del Medioevo: il santo levita, in eleganti fattezze giovanili, è raffigurato con la dalmatica diaconale, mentre nella mano destra tiene la palma del martirio e in quella sinistra il libro sacro (il Vangelo). Innovativa, invece, è la resa plastica di questa scultura che la mostra veneziana mette a confronto con una «Madonna in trono», sempre in terracotta, di Andrea Briosco detto il Riccio (fine XV secolo) e due raffigurazioni di San Sebastiano, un rilievo della bottega dei Lombardo, proveniente dalla sacrestia della chiesa veneziana dei Santi Apostoli, e un dipinto di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506), tra i simboli della collezione di Giorgio Franchetti esposta alla Ca’ d’Oro.
L’esposizione, la prima dedicata alla scultura del Rinascimento e della Tarda Maniera a Venezia, dedica, quindi, una sala al «Ritorno all’antico». La caduta di Costantinopoli prima (1453) e il ritrovamento del gruppo scultoreo del Laocoonte poi (1506) stimolano, infatti, negli scultori del tempo un nuovo modo di intendere l’estetica, fortemente ispirato alla classicità e allo stesso tempo aperto a nuove idee e tecniche. A rappresentare pienamente questo nuovo corso della storia della scultura è stato scelto il rilievo in marmo «La morte di Lucrezia», recentemente attribuito ad Antonio Lombardo e mai esposto fino a ora in un contesto museale. Realizzato probabilmente nel periodo ferrarese dell’artista, in cui fu eseguito anche il Camerino di alabastro per il duca Alfonso I, quest’opera è esemplificativa della volontà dell’epoca di rappresentare esempi di moralità e virtù patrizie. In questa seconda sala, è possibile ammirare anche l’«Apollo» di Antonio Minello e la «Cleopatra» di Giammaria Mosca, due opere esposte fino insieme, fino al 1624, nella collezione del marchese Costanzo Patrizi a Roma e per la prima volta riunite dopo quasi quattro secoli.
I rimandi alla classicità si notano anche nella rappresentazione dei soggetti sacri: le statue del «Cristo risorto» di Giovanni Battista Bregno rimandano rispettivamente al Doriforo di Policleto e all’Apollo del Belvedere, mentre il Cristo di Lorenzo Bregno, proveniente dalla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, si ispira ai ritratti romani sia nel formato che nella veste del soggetto, simile a una toga. Ha abiti di ispirazione classica anche la «Figura allegorica» di Antonio Rizzo, appartenente alle collezioni della Ca’ d’Oro, che indossa un peplo con un diploide stretto in vito da una cinta come una Nike ellenistica.
L’ultima sala del piano nobile del museo veneziano, sede dell’esposizione, è dedicata, invece, alla «Renovatio Urbis», quel momento in cui Venezia diventa rifugio per artisti e architetti in fuga dalla Roma pontificia, dopo il sacco del 1527. Tra di loro c’è Jacopo Sansovino, architetto e scultore che giunge nella città lagunare sostenuto dal grande collezionista e mecenate Domenico Grimani, che lo presenta al doge Andrea Gritti assicurandogli una rapida ascesa nel contesto culturale della Serenissima. Il suo stile influenza il gusto della città unendo scultura e architettura, come si può notare nella sua «Madonna del Bacio» o nei rilievi bronzei con episodi della vita di San Marco, realizzati per il pulpito della Basilica ed eccezionalmente esposti a Ca d’Oro grazie all’ottimo lavoro della Fondazione Venetian Heritage, organizzatrice dell’evento espositivo con la Direzione regionale musei veneto
Conclude il percorso una serie di busti patrizi, esempi di un modo nuovo di intendere il ritratto commemorativo in una società, quella veneziana, profondamente oligarchica e repubblicana, in cui l’esaltazione del singolo non era ben vista. Si deve ad Alessandro Vittoria lo sdoganamento definitivo di questa raffigurazione, espressamente ispirata agli ideali romani del patriziato in Età repubblicana. Fondendo fantasia antiquaria e verosimiglianza – come si evince dai busti in mostra che ritraggono Marino Grimani, Tommaso Rangone e Francesco Duodo – queste opere esaltano e rendono immortale una classe dirigente dedita a proiettare l’immagine di un governo saggio e sereno, animato dalla linfa vitale della Serenissima.
La rassegna, visitabile fino al 30 ottobre, ha il pregio di restituire ai visitatori, grazie all’esposizione di opere note e di lavori mai visti in contesti museali, la varietà interpretativa della tecnica scultorea, sottolineandone la ricchezza di materiali, le potenzialità espressive e le declinazioni estetiche all’interno di un contesto storico-artistico che troppo spesso predilige, nel discorso su Venezia, la pittura.
Altro punto di forza della mostra è la scelta della cornice espositiva, la Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, forte di una raccolta museale tra le più importanti in città per la qualità delle opere di diverse epoche e tipologie, da sempre uno dei capisaldi del collezionismo privato confluito in raccolte pubbliche e il luogo per eccellenza di concentrazione di capolavori scultorei provenienti da contesti monumentali dispersi, in larga parte concepiti per complessi ecclesiastici smembrati o non più̀ esistenti del territorio lagunare. Per questo motivo assume grande interesse anche la notizia che, al termine dell’esposizione, Venetian Heritage sottoporrà il palazzo a «un generale intervento di restyling e update espositivo».
La mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia» si prefigge, inoltre, di accompagnare il visitatore in un itinerario diffuso per calli e campielli veneziani: è stata, infatti, progettata un’apposita segnaletica che indica la presenza di capolavori scolpiti conservati all’interno delle chiese e dei musei cittadini per creare un dialogo integrato e diffuso tra diversi punti di interesse. Un’occasione, questa, per visitare Venezia con occhi nuovi. 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello (Firenze, 1386 ca. - Firenze, 1466) San Lorenzo, 1440 ca. Terracotta. Londra, Collezione privata. Curtesy Colnaghi Gallery; [fig.2] Tullio Lombardo (Venezia 1455 - 1532), Doppio ritratto. Marmo di Carrara, 47 x 50 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura; [fig. 3] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 4] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 5] Antonio Lombardo (Venezia, 1458 ca. - Ferrara, 1516) Morte di Lucrezia, 1508 - 1516 ca. Marmo di Carrara. Londra, Collezione privata. Courtesy of Colnaghi Gallery; [fig. 6] Gianmaria Mosca (Padova 1495/99 – Cracovia 1573), Porzia. Marmo, 45,5 x 33 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura

Informazioni utili 
«Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia». Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, Calle Ca' d'Oro, 3934 – Venezia. Orari: martedì-domenica, ore 10-19; la biglietteria chiude alle ore 18:30.Ingresso: intero € 13,00, ridotto € 9,00, ridotto per cittadini UE dai 18 ai 25 anni € 2,00. Sito internet: https://www.cadoro.org/. Fino al 30 ottobre 2022

lunedì 25 aprile 2022

Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano

«Solve et coagula», «Sciogli e condensa», dicevano i romani. È racchiusa in queste parole la magia del vetro, materiale figlio di un processo alchemico che, nel passaggio di dissoluzione e ricomposizione di un pugno di sabbia e silicio, arso dal fuoco e «coreografato» dal soffio e dalla sapienza manuale dell’uomo, genera forme trasparenti e opache, fragili e resistenti, colorate o bianche, meraviglie che fanno – giustamente - definire l’alto artigianato un’arte.
Questa tecnica dalle origini antiche ha in Italia un importante centro creativo, l’isola di Murano, dove nel 1291 furono trasferite, in seguito a un editto del doge Tiepolo, tutte le fornaci attive a Venezia al fine di preservare la città, allora centro di scambi commerciali con l’Oriente lungo le vie della seta e delle spezie, dai frequenti incendi che, purtroppo, si sviluppavano frequentemente all’interno delle botteghe compromettendo la vita degli edifici vicini, costruiti in legno.
La concentrazione delle vetrerie a Murano permise alla Serenissima anche di controllarne l’attività, impedendo che i segreti di quest’arte venissero esportati all'estero e facendo così fiorire il commercio del vetro veneziano, le cui fornaci erano sempre foriere di nuove invenzioni. Sulla piccola isola lagunare vide, infatti, la luce, verso la metà del XV secolo, il cristallino o «cristallo veneziano», un vetro estremamente chiaro e trasparente, nato dalla fantasia e dalla perizia creativa di Angelo Barovier (1405-1460 circa), che garantì a Venezia il predominio artistico per oltre due secoli, fino alla comparsa sul mercato del vetro boemo.
Murano fu anche la patria del vetro placcato, che permetteva di far risaltare colori e decorazioni, del vetro ghiaccio, una lavorazione estremamente complessa per ottenere un effetto rugoso con piccole crepe, del lattimo, bianco come la porcellana, del vetro smaltato, del vetro calcedonio, della filigrana, dell’avventurina, del millefiori o vetro colorato, delle conterie e delle murrine.
Di secolo in secolo, l’isola lagunare ha saputo, dunque, mantenere viva la sua peculiare tradizione traghettandola nel Novecento, epoca che ha visto l’affermarsi di tanti importanti marchi come, per esempio, Barovier & Toso, Seguso, Venini, Avem e Vistosi, interessati a far incontrare l’artigianalità dei maestri «fiolari» con il mondo del design e dell’arte.

Questa storia, millenaria, rivive tra le sale del Museo del vetro, «uno dei simboli della venezianità nel mondo», fondato nel 1861 all’interno del gotico Palazzo Giustinian, che attualmente ospita uno dei progetti di «Muve contemporaneo», l’offerta dei Musei civici veneziani per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Silicon Dioxide».
Curata da Berengo Studio, la mostra, che trae il suo titolo dal materiale all’origine del vetro (il diossido di silicio, appunto), ripercorre - attraverso una quarantina di opere, alcune totalmente inedite, e un gruppo disegni, acqueforti e acquerelli - le tappe più significative della carriera di Tony Cragg (Liverpool, 9 aprile 1949), esponente di rilievo della scultura britannica (premio Tuner nel 1988) che ha incentrato la sua ricerca sull’uomo e sull’ambiente, naturale e artefatto.
Accanto agli storici assemblage, lavori di grandi dimensioni che accostano e sovrappongono gruppi di oggetti, sono esposte opere più recenti, alcune appena ultimate, che manifestano la curiosità dell’artista inglese per i vari effetti del vetro colorato, per la sua duttilità alchemica e la sua energia dinamica. Si tratta di lavori realizzati a partire dal 2009, quando Tony Cragg inizia la sua collaborazione con la fornace muranese di Berengo Studio. In mostra sono, dunque, affiancate installazioni su larga scala come «Bromide Figures» (1992), «Blood Sugar» (1992), «Cistern» (1999), collage di bottiglie in vetro satinato, e «Larder» (1999), colorato insieme di vasetti di conserve, a opere più intime come «Curl» (2000), «Spindles» (2021), «Bi» (2021) e la giocosa scultura «Climate» (2021). Tutti questi lavori, visibili fino al 21 agosto, riflettono sulla complessità della physis (il principio e la causa di tutte le cose), «conciliando la totale comprensione della natura organica della realtà con l’accettazione delle sue caratteristiche meno intelligibili», e, nello stesso, raccontano quello che Tony Cragg definisce il «potenziale infinito» del diossido di silicio.

In questi giorni, la piccola isola lagunare è anche sede di uno degli eventi collaterali della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Icône 2020». La mostra - ideata, prodotta e curata da Francesca Franco per l’Atelier muranese - esplora, attraverso schizzi preparatori, dipinti e materiale di documentazione, il processo di creazione della prima scultura in vetro realizzata da Vera Molnár, artista ungherese di nascita e parigina d’adozione, classe 1924, pioniera della computer art con oltre ottant’anni di carriera alle spalle, le cui opere fanno parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York, del Victoriam and Albert Museum di Londra e del Centre Pompidou di Parigi. Partendo dalla prima opera d’arte digitale dell’artista, creata su tela nel 1975 («Computer-Icône/2») a partire da una serie di disegni realizzati al computer nel 1974 («Trapèzes»), la scultura «Icône 2020» esplora il concetto di dicotomia, dando forma all’equilibrio, difficile, tra ordine e disordine.

L’isola lagunare ospita, in concomitanza con la cinquantanovesima Biennale d’arte, anche la collettiva «Le forme del bere», che Elisa Testori ha curato per le sale di «InGalleria», l’art gallery di Punta Conterie, l’hub dall’anima poliedrica dove il design, le arti visive e l’enogastronomia contemporanea si compenetrano stimolando percorsi culturali e del gusto inusuali. La mostra, aperta fino al 31 dicembre, rende omaggio al bicchiere in vetro, oggetto della quotidianità e manufatto che, lungo la sua evoluzione, ha stimolato la creatività dei designer. Accanto a pezzi storici, vere e proprie icone ancora oggi sulle tavole di tutto il mondo, come l’elegante «Ovio» (1983) di Achille Castiglioni, i leggeri calici «Plume» (2000) di Aldo Cibic, i colorati «Goti de fornasa» (1992) di Barovier e Toso, lo scenografico «Esimio» (1993) di Alessandro Mendini, la «Corolla d’autore» (2000) di Vico Magistretti e le «Ballerine fortunate» (1986) di Matteo Thun, ma non solo, sono esposti i lavori di nove designer contemporanei
Lorenzo Damiani
, Giulio Iacchetti, Astrid Luglio, lo Studio Martinelli Venezia, mischer'traxler studio, Luca Nichetto, Philippe Nigro, Ionna Vautrin e Zaven sono stati invitati – racconta la curatrice - a progettare ognuno «una diversa tipologia di bicchiere: il set acqua-vino-digestivo, un bicchiere dedicato all’acqua, un bicchiere per il vino «della casa», la coppia acqua e vino, il boccale da birra, la coppetta da cocktail, la coppa da champagne, il bicchiere da whisky e il tipetto, ovvero il calice veneziano». Ecco così lavori che stupiscono per i loro nuovi codici formali e per le variazioni su forme archetipiche, come il «Filo di Zaven», con una sottile canna di vetro colorato che si fa stelo, i sette bevanti di «Amurius», omaggio alle sette isole muranesi (San Pietro, San Stefano, San Donato, dei Conventi, Sacca San Mattia, Navagero, Sacca Serenella), la coppa in vetro a bolle «Champagne!», «Tulipe», con la sua forma basculante ispirata alle forme femminili, o «Access», un set di sei pezzi che propone una riflessione sulla disponibilità e sull’accesso all’acqua potabile in alcune aree geografiche del mondo.
I processi produttivi sono diversi e i linguaggi artistici aprono nuove frontiere di ricerca, mettendo sotto i riflettori la contemporaneità di un materiale dalla storia antica: il vetro. Ma non un vetro qualunque. Il vetro di Murano, sinonimo di bellezza e pregio nel mondo .

Vedi anche 

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[Fig. 1] Tony Cragg, Larder, 1999. Preserve jars, 100 x 90 x 65 cm. Photo credit Lasse Koivunen; [fig. 2] Tony Cragg, Blood Sugar, 1992. Glass. Photo credit Michael Richter;  [fig. 3 e fig. 4] Tony Cragg: Silicon Dioxide. Exhibition view. Photo credit Michael Richter; [fig. 5] Vera Molnár, Icône 2020 (detail), 2021, Murano glass and 24K gold leaf, 60 x 60 cm, photo by Cristiano Corte ©, Courtesy New Murano Gallery; [figg. 6, 7 e 8] Mostra Forme del bere. Photo: Roberta Orio

Notizie utili 
Tony Cragg. Museo del vetro - Fondamenta Giustinian 8, 30121 Murano. Orari: Aperto tutti i giorni, dalle 10:00 alle 17:00; ultimo ingresso ore 16:00. Ingresso: intero € 10,00, ridotto (Ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero della Cultura (MiC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card) € 7,50; gratuito per esidenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; persone con disabilità e accompagnatore e altre categorie aventi diritto per legge. Informazioni: https://museovetro.visitmuve.it. Fino al 21 agosto 2022

Vera Molnár: Icône 2020. New Murano Gallery, spazi Atelier Muranese, Calle Alvise Vivarini, 6 - Murano (Venezia). Orari: tutti i giorni, dalle 10:00 alle 16:00. Ingresso libero. Informazioni: info@ateliermuranese.com. Sito dell'evento: www.ateliermuranese.com/icone2020. Fino al 27 novembre 2022 

Forme del bere. Punta Conterie, Fondamenta Giustinian, 1 - Murano (Venezia).Orari: da martedì a domenica, dalle 10:00 alle 18:00. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 041.5275174. Sito web:https://puntaconterie.com. Fino al 31 dicembre 2022

venerdì 22 aprile 2022

Venezia, a Palazzo Cini i disegni di Joseph Beuys

Con la sua poetica e la sua inconfondibile pratica artistica ha affrontato tematiche che, molti anni dopo, appaiono ancora urgenti e attuali: il problema ecologico, la spiritualità come strumento per imprimere una svolta nella Storia, l’istanza pacifista, il rapporto tra l’uomo e la natura, la volontà di stabilire una connessione profonda tra la pratica artistica e l’impegno sociale, la manipolazione dell’informazione e la partecipazione democratica alle scelte della politica.
Difficilmente etichettabile e inserito dalla critica ora tra i maestri del Minimalismo, ora tra i padri dell’Arte povera o tra i Concettuali, Joseph Beuys (Krefeld, 12 maggio 1921 – Düsseldorf, 23 gennaio 1986) è stato uno tra gli artisti più emblematici, profetici, anticonformisti e rivoluzionari del Novecento e uno tra i pochi realmente capaci di fare della propria vita un’opera d’arte.
Le performance degli anni Sessanta e Settanta, con i gesti ieratici, il silenzio colloquiante e il carisma dell’azione che vede in scena animali e materiali dalla forte valenza simbolica, gli valgono l’appellativo di «sciamano dell’arte». È lo stesso Joseph Beuys, in realtà, a suggerire il soprannome con il suo racconto, per molti fittizio e leggendario, di ciò che trasforma un aspirante medico in un utopista con il sogno di migliorare il mondo grazie all’arte. L’evento apocrifo accade nel marzo del 1944, durante la Seconda guerra mondiale: il ventitreenne, arruolato con la Luftwaffe (l’aviazione militare tedesca), nel ruolo di sergente radio-mitragliere, partecipa a una missione sul Fronte orientale. Il suo aereo precipita in una foresta della Crimea ed è lì, secondo la leggenda, che avviene la svolta. Joseph Beuys, in fin di vita, viene «magicamente» salvato da un gruppo di nomadi tartari che guariscono le sue gravi ferite con antiche pratiche della loro medicina tradizionale, facendo ricorso a grasso animale e fogli di feltro, materiali che, negli anni a venire, sarebbero tornati in continuazione nella pratica dell’artista, diventando simboli di salvezza e di connessione con la parte più pura e incontaminata dell’umanità.
Forte è anche il legame di Joseph Beuys con l’Italia, in particolare con Napoli, dove diventa amico del gallerista Lucio Amelio, e con il borgo abruzzese di Bolognano, dove, invitato da Lucrezia De Domizio e Buby Durini, porta avanti una serie di attività incentrate sull’agricoltura e sulla sostenibilità ambientale, a partire dalla creazione della «Piantagione Paradise» (1982) con la messa a dimora di settemila piante per il ripristino della biodiversità.
Moderno, anzi modernissimo, anche con questa azione, che dava forma all’idea di un’Italia idilliaca, bucolica e legata alle tradizioni, l’artista non è stato celebrato dal nostro Paese, in occasione del centenario della nascita (1921-2021), come meritava. A risarcire in parte il debito ci pensa la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, presenta la mostra-dossier «Joseph Beuys. Finamente Articolato», curata da Luca Massimo Barbero e realizzata in collaborazione con la galleria Thaddaeus Ropac
Scenario dell’evento, in cartellone fino al 21 novembre, è Palazzo Cini a San Vio, raffinata casa-museo, nel sestiere di Dorsoduro, che custodisce al suo interno capolavori di Giotto, Guariento, Botticelli, Filippo Lippi, Piero di Cosimo e Dosso Dossi, raccolti dal mecenate Vittorio Cini nel corso della sua vita. La riapertura dello spazio veneziano, realizzata come consuetudine grazie al supporto di Assicurazioni Generali, offre anche l’occasione per tornare ad ammirare due capolavori recentemente restaurati: il trittico devozionale ad ante mobili con al centro la Crocifissione del Maestro del Polittico della Cappella Medici (anni venti del XIV secolo) e la «Madonna con il Bambino» dell’artista ferrarese Lorenzo Costa.
La mostra «Finamente Articolato» si propone di restituire un’immagine di Joseph Beuys specifica e distinta da quella maggiormente nota, legata alle celeberrime «azioni politiche e concettuali» e alle «performance sciamaniche», presentando una quarantina di opere, tra cui lavori su carta e disegni, molti dei quali eseguiti già alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta. Il pubblico viene, dunque, condotto agli esordi dell’esperienza creativa del maestro tedesco, dominata da due temi chiave: la figura umana, spesso femminile, e quella animale, associate dalla terra, dai cicli stagionali e dalla fertilità.
Il percorso espositivo principia dalla scultura «Supporto per la schiena di un essere umano finamente articolato (tipo lepre) del XX secolo d.C.», fusa in ferro da un'originale forma in gesso che serviva come schienale terapeutico per sostenere un corpo ferito, nella quale c’è tutto l’immaginario beuysiano, «laddove si unisce il corpo, la protesi, l'uomo, l'animale, uniti in un'unica creatura, dai risvolti magici e mitologici». Tutto intorno ci sono opere come «Bleifrau (Lead Woman)», moderna Venere paleolitica di distillata eleganza, creata nel 1949 quando l’artista era ancora uno studente alla Staatliche Kunstakademie Düsseldorf, la scheggia di felce «Hirschkuh mit Jungem» (1948), la scultura in legno e cemento «Ofen mit Torso» (1948-1850), l’acquerello «Hirsch (Stag)» (1956) e il calco in cera di «Junges Pferdchen» (1955–86), ispirato al «Cavaliere polacco» di Rembrandt (1655).
Dai fogli selezionati «affiorano – si legge nella presentazione - l’interesse per le forme ancestrali delle culture arcaiche, l’attenzione alla febbricitante linea nordica di gotico-espressionista tedesca, l’evocativo richiamo alle pitture rupestri, tra le prime rappresentazioni umane che rimandano all’origine del pensiero mitico e simbolico».

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1. Joseph Beuys, Zwei Frauen, 1955. Pencil, watercolour, gouache and iron chloride on paper. Image 21 x 29,5 cm Frame 41 x 50 x 3 cm (JB 1146). Photo: Ulrich Ghezzi; 2. Joseph Beuys, Weibliche Figur, 1954. Iron chloride on brown paper. Image 24 x 16 cm Frame 45,5 x 36,5 x 3,5 cm (JB 1154).Photo: Ulrich Ghezzi; 3. Joseph Beuys, Hirschkuh mit Jungem (Doe with Calf), 1948. Bronze 17,2 x 56,8 x 1,2 cm (JB 1208). Photo: Jessyka Beuys; 4. Joseph Beuys,  Backrest for a fine-limbed person (Hare-type) of the 20th Century AD, 1972; 5. Joseph Beuys, Bleifrau (Lead Woman), 1949. Lead cast 6 x 22,6 x 6 cm (JB 1202). Photo: Tom Carter; 6.  Joseph Beuys, Junges Pferdchen (Young Horse), 1955 - 1986. Wax cast 120 x 81,5 x 28,5 cm (47,24 x 32,09 x 11,22 in) (JB 1209). Photo: Tom Carter 

Informazioni utili 
«Finamente Articolato». Palazzo Cini, Campo San Vio, Dorsoduro 864 - Venezia. Orari: ore 11 – 19, chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18:15) | aperture straordinarie nelle giornate del 25 aprile 2022 (ingresso gratuito per i residente nel Comune di Venezia) 1° maggio e 18 giugno 2022 – Art Night (ingresso gratuito dalle ore 18-24: ultimo ingresso ore  23:15). Ingresso: intero 10,00 €; ridotto 8,00 € (gruppi superiori a 8 persone/ragazzi 15–25 anni/over 65/Soci Touring Club Italiano/Soci Coop/Soci ALI/Possessori biglietti Casa Tre Oci); Ridotto Dorsoduro Museum Mile 7,00€ (per possessori di biglietti Peggy Guggenheim Collection, Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Gallerie dell’Accademia/possessori di voucher Generali e Visite guidate Fondazione Giorgio Cini); Ridotto 5,00 € (Residenti Comune di Venezia/Soci Guggenheim/studenti e docenti universitari U.E. delle facoltà di architettura, conservazione dei beni culturali, scienze della formazione, iscritti ai corsi di laurea in lettere o materie letterarie con indirizzo archeologico, storico artistico delle facoltà di lettere e filosofia, iscritti alle Accademie delle Belle Arti/ Aderenti alla convenzione Su e Zo per i Ponti); gratuito: minori di 15 anni (i minori devono essere accompagnati)/ membri ICOM (International Council of Museums)/diversamente abili accompagnati da un familiare o da un assistente socio-sanitario/giornalisti accreditati con tesserino/dipendenti Assicurazioni Generali/guide turistiche accreditate/ Amici San Giorgio. Sito web: www.palazzocini.it, www.cini.it. Fino al 21 novembre 2022

mercoledì 20 aprile 2022

A Venezia il rosso e il nero di Anish Kapoor

Presenza e assenza, vuoto e pieno, visibile e invisibile, concavo e convesso, luce e oscurità, maschile e femminile: da sempre la pratica creativa di Anish Kapoor (Bombay, 12 marzo 1954), artista tra i più apprezzati e innovativi della scena contemporanea, noto per le sue sculture lucenti e misteriose dalle forme semi-organiche, indaga la dialettica degli opposti, metafora della contraddittorietà dell’esistenza umana.
Centrale nel lavoro del maestro anglo-indiano, che ha rappresentato la Gran Bretagna alla quarantaquattresima Biennale di Venezia nel 1990 e che è stato insignito di prestigiosi riconoscimenti internazionali tra cui il Praemium Imperiale nel 2011 e il Padma Bhushan nel 2012, è anche la ricerca sui pigmenti. Ecco così il giallo delle prime sculture, il blu laguna della spiritualità orientale, colore che ci parla di infinito e trascendente, il rosso della carnalità, della violenza e del sangue - una vera e propria ossessione per l’artista - e, recentemente, il nero, ma non un nero qualunque, bensì «il nero più nero che esiste» (o quasi). Si tratta del Vantablack S-VIS, materiale in nanotubi di carbonio, capace di assorbire il 99,965 % delle radiazioni luminose, prodotto nel 2014 dalla società di ricerca scientifica britannica «Surrey NanoSystem» per scopi aerospaziali e militari, di cui l’artista ha acquisito i diritti in esclusiva nel 2016 e ne ha fatto uno spray dando vita al Kapoor Black.
Le prime opere realizzate con questo colore innovativo che fa sparire la terza dimensione, e il cui effetto si avvicina al buco nero cosmico, vengono presentate da Anish Kapoor a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima Biennale d’arte, in una retrospettiva alle Gallerie dell’Accademia e nello storico Palazzo Manfrin, recentemente acquisito dallo stesso artista anglo-indiano (che da qualche anno ha anche una casa in Laguna, a Sant’Aponal) per farne un polo artistico e museale «vibrante e vitale», diretto da Mario Codognato.
L’edificio gotico nel sestiere di Cannaregio, oggetto in questi mesi di un radicale progetto di restauro guidato dall’architetto Giulia Foscari di UNA studio e sviluppato in collaborazione con FWR associati, ha una storia che lo lega simbolicamente alle Gallerie dell’Accademia. Sede, sul finire del Settecento, di una prestigiosa collezione di dipinti, sculture e stampe, segnalata nelle guide cittadine almeno dal 1815 e visitata, tra gli altri, da Antonio Canova, Lord Byron, John Ruskin e Edouard Manet, Palazzo Manfrin (già Priuli-Venier) vide disperdere il suo patrimonio nel secondo scorcio dell’Ottocento, dopo la morte dell’«imprenditore visionario» Girolamo Manfrin (1801), commerciante di tabacco con la passione per l’arte, e dei figli Pietro (1833) e Giulia Angela Giovanna (1848). 
Su interessamento di Pietro Selvatico, ventuno di questi dipinti entrarono nel patrimonio delle Gallerie dell’Accademia. Tra di loro c’erano «La Tempesta» e «La Vecchia» di Giorgione, il «San Giorgio» di Andrea Mantegna e il «Ritratto di giovane uomo» di Hans Memling, opere emblematiche di quella che Anish Kapoor definisce «una delle più belle collezioni di pittura classica di tutto il mondo». Ma c'erano anche la «Madonna in trono con il Bambino e un devoto» di Nicolò di Pietro, «I Santi Paolo e Antonio eremiti» di Girolamo Savoldo, «San Pietro e San Giovani Battista» di Alessandro Bonvicino, detto il Moretto.
Confrontarsi con questa storia, far dialogare il passato con il presente, è «la sfida meravigliosa e stupefacente» che l’artista anglo-indiano ha accettato di vivere, portando l’arte contemporanea in uno dei musei che meglio rappresenta lo spirito della Serenissima (anche grazie alle tele di grandi maestri del Rinascimento veneto come Tintoretto, Tiziano, Veronese e Bellini) e scrivendo una nuova pagina della storia che, nelle precedenti edizioni della Biennale d’arte, ha visto esporre alle Gallerie dell’Accademia Mario Merz (2015), Philip Guston (2017) e Georg Baselitz (2019).
Sessanta opere ricostruiscono i momenti chiave della carriera di Anish Kapoor in un percorso insieme imponente e intimo, archetipico e destabilizzante, tra opere storiche e lavori inediti creati negli ultimi tre anni, che si avvale della curatela di Taco Dibbits (Amsterdam, 7 settembre 1968), direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, tra i massimi esperti mondiali di Rembrandt e della pittura fiamminga del XVII secolo.
Una materialità palpabile e magmatica, che esonda nello spazio circostante come «una reliquia laica dell’umanità sofferente» (l’espressione è di Mario Codognato) e che ci invita a riflettere sul mistero della vita e sul dramma della morte, caratterizza le imponenti installazioni nei toni del nero e del rosso che abitano gli spazi delle Gallerie dell’Accademia. In queste sale trovano posto anche i «1000 Names» degli esordi e le opere dipinte con il Kapoor Black, lavori che si realizzano pienamente nell’istante in cui il visitatore le sperimenta: dalle forme nere su fondo bianco apparentemente piatte emerge, al minimo spostamento, una terza dimensione appena percettibile, che subito scompare in un gioco dicotomico tra presenza e assenza, visibile e invisibile. Destabilizza anche l’installazione «Shooting into corner» (2008-2009), con i suoi grandi proiettili di cera rosso sangue, sparati da un cannone; mentre in «Pregnant White Within Me» (2022) l'architettura delle Gallerie dell’Accademia si dilata, suggerendo una ridefinizione dei confini tra corpo, edificio ed essere.
A Palazzo Manfrin, tra le pareti non ancora restaurate e i soffitti affrescati, il pubblico è, invece, accolto dalla nuova monumentale opera «Mount Moriah at the Gate of the Ghetto» (2022), una massa grondante di silicone e vernice che sembra squarciare il soffitto dell’androne. Ci sono, poi, lungo il percorso espositivo opere iconiche come il trittico «Internal Objects in Three Parts» (2013–2015) o «White Sand Red Millet Many Flowers» (1982), ma anche i lavori specchianti, le acque vorticose e rosse di «Turning Water Into Mirror, Blood Into Sky» (2003) e «Destierro» (2017), in cui un caterpillar interamente blu trasporta tonnellate di terra rossa «in un’epica azione di sovvertimento». Tutti i percorsi portano alla spettacolare «Symphony for a beloved sun» (2013), un’installazione con un sole che tramonta (o sorge) su una massa di cera, prodotta a ciclo continuo da una sorta di infernale creazione leonardesca, che tinge l’edificio di rosso sangue, «il colore dell’origine» e della fine, della vita e della morte, che – racconta Anish Kapoor – «ha una presenza fisica e un’oscurità intrinseca, più scura del nero».

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Le fotografie sono di Attilio Maranzanol 

Informazioni utili 
Anish Kapoor
Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin, Venezia 
20 aprile – 10 ottobre 2022   
# Gallerie dell’Accademia  
Campo della Carità, Dorsoduro 1050 - 30123, Venezia  
Vaporetto stop: Accademia - linea 1   
Orari di apertura:  lunedì, 8:15–14, la vendita dei biglietti termina alle ore 13;  da martedì a domenica, 8:15–19:15, la vendita dei biglietti termina alle ore 18:15   
# Palazzo Manfrin  Fondamenta Venier, Cannaregio 342, 30121, Venezia  
Vaporetto stop: San Marcuola o Ferrovia - linea 1; Guglie - linea 4.1, 4.2, 5.1, 5.2   
Orari di apertura:  luned,: 10–14; da martedì a domenica, 10–19:15  
# Biglietti:  intero € 12, ridotto (giovani 18–25 anni) € 2, gratuito per i minori di 18 anni  
# Informazioni: www.gallerieaccademia.it   

martedì 19 aprile 2022

Venezia, Anselm Kiefer dialoga con la storia di Palazzo Ducale

È uno dei luoghi che meglio rappresenta Venezia e la sua storia - grandiosa e millenaria - di Repubblica Serenissima, crocevia di mondi diversi e modello politico basato sulla pacifica convivenza sociale, nonché importante centro di commerci con l’Oriente lungo le vie della seta e delle spezie. Stiamo parlando di Palazzo Ducale, capolavoro dell’arte gotica, nell’area monumentale di piazza San Marco, che è stato, fino al 1797, la residenza dei Dogi e la sede delle magistrature statali, le cui stanze hanno visto all’opera generazioni di artisti tra i quali Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio, Tiziano, Veronese, Tintoretto e molti altri.
In occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, una delle sale più simboliche di questo edificio antico e pieno di storia, quella dello Scrutinio, ovvero la sede designata all’elezione del Doge, apre per la prima volta le proprie porte all’arte contemporanea.
Su invito della Fondazione Musei civici di Venezia, Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945), artista tedesco che nel corso della sua carriera si è confrontato con i temi della storia e della memoria, presenta, per la curatela di Gabriella Belli e Janne Sirén, il progetto site specific «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce».
Il titolo della mostra, aperta fino al 29 ottobre, è mutuato dalle parole del filosofo veneto Andrea Emo (Battaglia Terme - Padova, 1901-Roma, 1983), pensatore solitario e quasi dimenticato, che ha visto pubblicata la sua prima raccolta, «Il Dio negativo. Scritti teorici 1925-1981», solo nel 1989, postuma, grazie all’interessamento di Massimo Cacciari e della casa editrice Marsilio.
In un gioco di stratificazioni, che sovrappone storia a storia e che ci ricorda che «niente è eterno sotto il sole», le sfolgoranti cromie del «Giudizio Universale» (1594-1595) di Jacopo Negretti detto Palma il Giovane e l’affollata e spettacolare tela «La battaglia di Lepanto» (1595-1605) di Andrea Michieli detto il Vicentino, che in una visione simultanea narra le ore lunghe e terribili dello scontro navale fra le flotte musulmane dell'Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa durante la guerra di Cipro (7 ottobre 1571), lasciano temporaneamente spazio ai monumentali pannelli terra-cielo del progetto espositivo di Anselm Kiefer con cui si chiudono le celebrazioni per i 1600 anni dalla fondazione della città di Venezia.
Per comprendere appieno la nuova opera dell’artista tedesco vale la pena ricordare che l’attuale decorazione della Sala dello Scrutinio, un tempo chiamata Sala della Libreria perché conservava al suo interno i preziosi manoscritti lasciati da Francesco Petrarca e dal cardinal Bessarione alla Repubblica, è frutto di un restauro degli anni Ottanta e Novanta del Cinquecento, che ha coperto con nuove tele, una sorta di «Libro d’oro» dedicato alla grandezza della Serenissima, quelle bruciate durante un devastante incendio che colpì Palazzo Ducale nel 1577.
Anselm Kiefer nasconde queste tele con il suo lavoro, «accumulo – scrive Gabriella Belli in catalogo - di strati quasi geologici di materia, magma da cui emergono figure che sembrano alludere ad alcuni episodi della vita della Repubblica e non solo: una bara vuota a ricordare San Marco, una scala per evocare quella di Giacobbe». Ci sono, poi, sommergibili e uniformi di soldati, metafora della forza bellica dei veneziani, una lunga fila di carrelli, macchie d’oro e d’argento, segni di combustione. Mentre le barene ghiacciate di piombo fuso hanno a che vedere con le teorie di Wegener sulla deriva dei continenti. Paradossi e metafore si alternano così davanti allo sguardo del visitatore come in una istantanea fotografica, che fa propria la convinzione di Andrea Emo secondo cui – racconta Anselm Kiefer - «la storia è una catena di azioni illogiche, astoriche, avvenimenti che non hanno nulla a che fare con causa ed effetto. Ogni evento è un passo avanti contro la legge della necessità».
Questi dipinti nascono, dunque, dalla negazione, dalla cancellazione di altri cui si sovrappongono, in un certo senso sono l’esito del fuoco che ha bruciato l’intera decorazione della sala nel 1577, ma anch’essi sono destinati a morire quando si allontaneranno da Palazzo Ducale.
Nell’installazione, che occupa anche la Sala della Quarantia Civil Nova, l’artista tedesco riflette, inoltre, sulla posizione unica di Venezia posta tra il Nord e il Sud e sulla sua interazione tra Oriente ed Occidente trovando connessioni altrettanto significative tra queste differenti culture, la storia della città e il testo dell'opera tragica di Goethe, «Faust: Seconda parte» (1832).
La mostra, che si inserisce nel progetto «Muve contemporaneo», è coraggiosa. «Quanti – si interroga Gabriella Belli, che dirige i Musei civici di Venezia - saranno i visitatori che lamenteranno di non aver potuto ammirare il sangue di Lepanto o di Zara, di non aver potuto portare fiori sulla tomba della storia, costretti a guardare in faccia questo tragico tempo presente? Quanti lasceranno con disappunto la sala e quanti si immergeranno invece in queste rovine contemporanee e prenderanno coscienza di come l’arte possa ancora essere un terreno fertile per coltivare domande e quesiti, anche se apre ai nostri occhi verità inaccessibili, anche se ci mostra il buio, la luce e il buio ancora di questo secolo da poco iniziato ma gravido di dolori e di oscuri presagi? I pellegrini dell’arte sopporteranno tutto questo?». Anselm Kiefer, intanto, fa parlare a Palazzo Ducale il linguaggio del contemporaneo. Rende presente e vivo il passato.

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Anselm Kiefer,  «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Andrea Emo)», 2022, installation view. © Anselm Kiefer. Photo: Georges Poncet. Courtesy Gagosian and Fondazione Musei Civici Venezia

Informazioni utili 
Anselm Kiefer,  «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Andrea Emo)». Palazzo Ducale, Sala dello Scrutinio -Venezia. Orario: tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 18.00; ultimo ingresso alle ore 17.00. Ingresso: https://muve.vivaticket.it/it/tour/palazzo-ducale/2478. Informazioni: https://palazzoducale.visitmuve.it/it/mostre/mostre-in-corso/anselm-kiefer/2022/02/22299/anselm-kiefer. Fino al 29 ottobre 2022 


#MUVEContemporaneo2022 #AnselmKiefer

venerdì 15 aprile 2022

#notizieinpillole, cronache d'arte della settimana dall'11 al 17 aprile 2022

«Présence», a Venezia l'anteprima mondiale della video-installazione di Wim Wenders sul lavoro di Claudine Drai
Si terrà a Venezia, nei giorni del pre-opening della Biennale d’arte, la prima mondiale di «Présence», nuova installazione video firmata da uno dei più grandi maestri del cinema contemporaneo, Wim Wenders (Düsseldorf, 1945),il cui lavoro è stato premiato, negli anni, da una serie di importanti riconoscimenti internazionali come il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia per «Der Stand der Dinge» («Lo stato delle cose»), la Palma d'oro al Festival di Cannes per «Paris, Texas» e l'Orso d'argento al Festival di Berlino per «The Million dollar hotel». A presentare l’evento, in programma nel pomeriggio di venerdì 22 e sabato 23 aprile al Cinema multisala «Rossini», sarà la Pinault Collection, con cui il regista tedesco aveva collaborato nel 2020 partecipando alla curatela di un importante progetto espositivo dedicato a Henri Cartier-Bresson.
L’opera, presentata in due session distinte di 38 minuti ciascuna (entrambe in programma alle ore 17), esplora l’universo espressivo di Claudine Drai (Parigi, 1951), la cui produzione più recente è contestualmente visibile a Venezia, negli spazi di Palazzo Franchetti, dal 21 aprile al 15 maggio.
La leggerezza e la fragilità che caratterizzano la produzione dell’artista francese, quasi del tutto condotta su carta bianca, e la dimensione spirituale che avvolge la sua pratica hanno affascinato e quasi commosso Wim Wenders.
Il regista tedesco ha dato così vita, con la complicità di Claudine Drai, a un racconto visivo che è allo stesso modo un’opera senza precedenti. Girata in 3D tra il 2020 e il 2021, «Présence» restituisce, infatti, una narrazione estremamente evocativa della pratica dell’artista, senza seguire un flusso narrativo lineare.
Il film non è soltanto la visualizzazione di come lo sguardo di un artista si posa sul lavoro di un altro, ma una creazione comune che rifugge qualunque classificazione e si distanzia da qualsiasi regola preesistente. Un controcanto ideale per comprendere l’esposizione parallelamente in corso a Palazzo Franchetti, in grado di offrire al pubblico molteplici strumenti per apprezzare il lavoro di Claudine Drai che, negli anni, ha inventato mondi e spazi in cui la sensazione della materia - carta, bronzo, profumo, parole e luci - risveglia tutti i nostri sensi.
L'ingresso alle proiezioni, alla presenza dei due artisti, è gratuito fino a esaurimento dei posti disponibili. Per maggiori informazioni: www.palazzograssi.it.

In mostra a Siena i «Capricci» di Tano Pisano
«Goya diceva che il sonno della ragione genera mostri. Io mi sono ispirato ai ‘capricci’ di Goya, perché secondo me oggi la ragione è morta e quindi c’è bisogno dell’astrazione, della poesia per tornare a vivere, per non creare mostri, che ce ne sono anche troppi in questi giorni». È racchiusa in questa frase l’idea di «Capricci», la nuova impresa di Tano Pisano - artista di origini siciliane, ma ormai toscano d’adozione – che fino al 5 giugno espone negli spazi dei Magazzini del Sale al Palazzo pubblico di Siena.
La rassegna, che segna il ritorno dell’artista nella città del Palio dopo la mostra «Il gioco del cavallo», temutasi nell’autunno del 2020, allinea centocinquanta opere realizzate per l’occasione, suddivise tra pitture a olio su tela e su carta, acquarelli, carboncini, incisioni, e poi sculture, ceramiche, vasi, meccani e mobiles (sculture in legno che si muovono).
L’esposizione, che sarà visitabile anche nei giorni di Pasqua e Pasquetta, riprende e completa il fil rouge artistico dedicato al cavallo, animale simbolo della celebre disfida senese, omaggiando anche dieci delle diciassette contrade senesi: il Drago, la Giraffa, il Leocorno, la Lupa, l’Oca, la Pantera, la Selva, la Tartuca, la Torre e il Valdimontone. Le altre dieci - l’Aquila, il Bruco, la Civetta, il Nicchio, la Chiocciola, l’Onda e l’Istrice – erano state, invece, al centro della mostra «Il gioco del cavallo». Tano Pisano spiega che, questa volta, l’omaggio sarà differente: «Nella mostra di due anni fa, c’era sempre il cavallo come soggetto principale e poi il simbolo della contrada accanto. Stavolta, invece, l’Oca, la Lupa e le altre che mancavano all’appello le ho dipinte a modo mio, sempre con una pittura figurativa, popolare».
Questa seconda esperienza senese è arricchita dai cosiddetti «Capricci» - ovvero creazioni fantastiche che hanno sempre accompagnato e scandito la lunga carriera dell’artista. Si tratta di draghi, di creature ai confini della realtà e della fantasia, ma anche di invenzioni pure o di satira artistica, tutti stilemi tipici di Tano Pisano, proposti per la prima volta al pubblico italiano.
Per maggiori informazioni: www.tanopisano.com.

Nelle fotografie: 1. Cavallo, acquerello su carta, 102x153cm 2020; 2. Uomo mela, Acquerello su carta, 18x26cm, 2014

«kakemono», in mostra a Torino cinque secoli di pittura
«Cosa dipinta»: è questo il significato, in lingua italiana, di kakemono ((掛物), termine giapponese che indica un rotolo prezioso di tessuto o di carta, dipinto o calligrafato, pensato per essere appeso durante occasioni speciali o utilizzato come decorazione in accordo alle stagioni dell’anno. A questi manufatti di indescrivibile bellezza è dedicata una mostra allestita fino al 25 aprile al Mao – Museo d’arte orientale di Torino, per la curatela di Matthi Forrer, professore di Cultura materiale del Giappone pre-moderno all’Università di Leida, che focalizza l’attenzione sulla collezione del piemontese Claudio Perino. Centoventicinque kakemono, suddivisi in cinque sezioni tematiche (fiori e uccelli, animali, figure, paesaggi, piante e fiori), ma anche ventagli dipinti e lacche decorate compongono il percorso dell’esposizione, la prima in Italia focalizzata su questa forma d’arte, realizzata in collaborazione con il Musec-Museo delle Culture di Lugano.
«Kakemono. Cinque secoli di pittura giapponese. La collezione Perino»
, questo il titolo della mostra torinese, conduce il visitatore attraverso «un mondo ricchissimo, in cui – spiegano gli organizzatori - rappresentazioni minuziose e naturalistiche, punteggiate di dettagli sottili, si affiancano a immagini estremamente essenziali e rarefatte, dove la forma perde i suoi contorni, si disgrega progressivamente per diventare segno evocatore di potenti suggestioni, in un estremo esercizio di sintesi e raffinatezza, quasi un astrattismo ante litteram». In Oriente i pittori dipingevano, infatti, in maniera «impressionistica», «espressionistica» e «astratta» secoli prima che analoghe forme espressive cominciassero ad apparire in Occidente.
I kakemono rappresentano il corrispettivo del «quadro» occidentale, ma, a differenza delle nostre tele o tavole, caratterizzate da una struttura rigida, i rotoli dipinti presentano una struttura relativamente morbida e sono pensati per una fruizione limitata nel tempo. Esposti nel tokonoma (alcova) delle case giapponesi o lasciati per qualche ora soltanto ad oscillare nella brezza di un giardino, queste opere d'arte partecipano del tempo e del movimento, alludono all’impermanenza e alla mutazione quali elementi ineludibili (e positivi) dell’esistenza.
Fra i kakemono esposti al Mao figurano alcune opere dei maggiori artisti giapponesi, tra cui Yamamoto Baiitsu, Tani Buncho, Kishi Ganku e Ogata Korin.
Per informazioni: www.maotorino.it.

Didascalie delle immagini: 1. Kaburagi Kiyokata (1878-1972), Una geisha con parasole, 1920-39. Dipinto a inchiostro e colori su seta, 45,7 x 50,9 cm; 2. Mori Kansai (1814-1894), Iris oscillano al vento, Dipinto a inchiostro e colori su carta, 29,5 x 39,9 cm; 3.  Tani Bunchō (Edo, 1763-1841), Autoritratto dell’artista, 1832. Dipinto a inchiostro su carta, 27 x 49,2 cm

Una speciale etichetta di Amarone per la mostra multimediale «Il mio Inferno. Dante profeta di speranza»

Una mostra multimediale su Dante Alighieri e i suoi gironi danteschi, la creatività di Gabriele Dell’Otto, fumettista che ha lavorato anche per la Marvel, e un vino certificato Docg: a suggellare questo incontro d’arte e di sensi, presentato alla fiera Vinitaly, è stata l’azienda Se-condo Marco, nata a Fumane (Verona) nel 2008 per volontà di Marco Speri.
A fregiarsi dell’etichetta illustrata, che sarà utilizzata per un numero limitato di bottiglie, è un Amarone del 2013, un vino, di colore rosso rubino con riflessi granati, che porta al naso sen-tori di amarena, prugna e spezie. «Al palato – assicurano della cantina veronese - è complesso, avvolgente e asciutto; armonico ed elegante».
L’etichetta raffigura Dante, sperduto in una «selva oscura» («Inferno», Canto I), che cerca di uscirne risalendo le pendici di un colle, mentre gli si fanno incontro tre belve che lo ricacciano in-dietro. A questo punto il «Sommo poeta» incontra Virgilio che, dopo essersi presentato e aver ascoltato la sua richiesta, gli propone di uscire dalla selva per un’altra via, attraversando tutto l’aldilà.
La mostra per cui è stata realizzata l’etichetta da collezione è «Il mio Inferno. Dante profeta di speranza», allestita fino al 29 maggio a Verona, negli spazi scenografici del Bastione delle Maddalene, per iniziativa dell’associazione Rivela e della casa editrice Centocanti, con il Comune e la Diocesi di Verona.
Tunnel e cunicoli accolgono le trentacinque tappe della rassegna, che raccontano il le-game tra Dante Alighieri e Verona, una delle città che accolse lo scrittore durante il suo esilio (prima dal 1303 al 1304, poi dal 1313 al 1318), il vagare del poeta per la «selva oscura», gli incon-tri con la guida Virgilio, con Lucifero e con i dannati Paolo e Francesca, Cerbero e Farinata Degli Uberti.
Immagini, video, suoni, riflessioni del saggista e pedagogista Franco Nembrini e illustra-zioni di Gabriele Dell’Otto conducono i visitatori, soprattutto i più giovani, alla scoperta del «Sommo poeta» e alle sue domande esistenziali, alla ricerca di un senso pieno per la vita.
Il percorso della mostra, che ha per guida d’eccezione il robot umanoide Nao, parte, infat-ti, da un’intuizione: il significato profondo della prima cantica della «Divina Commedia» è conte-nuto nella «Vita Nova», l’opera scritta da Dante circa dieci anni prima, nella quale l’incontro con Beatrice è visto come promessa di felicità. La morte della donna provoca nel cuore del poeta un profondo dolore e la percezione della contraddizione dell’esperienza umana: l’uomo vive per l’infinito, ma si scontra con la finitezza di tutti i suoi tentativi e di tutte le sue scelte. Da questa ri-flessione nasce la «Divina Commedia», che – spiegano gli organizzatori - «non rappresenta una raffinata fuga nell’aldilà, ma un faticoso cammino per guardare al mondo terreno dall’aldilà, per cogliere la pienezza della felicità, del bene, della verità». Il «Sommo poeta» diventa così «profeta di speranza»: «interlocutore credibile e contemporaneo, capace con le sue parole e i suoi esempi concreti di porre chi osserva di fronte al desiderio di felicità, per affrontare con speranza e coraggio il proprio inferno».
Per maggiori informazioni: www.danteprofetadisperanza.it.

«La prima Cosa bella», a Bologna un evento artistico per la Giornata mondiale della Terra
«The rooom»
, spazio culturale bolognese che ha sede a Palazzo Aldrovandi Montanari, festeggia la Giornata mondiale della terra. Il 22 aprile, dalle 18 alle 22, Gianluca Chiodi (Edolo – Brescia, 1966), fotografo e artista che vive sul lago di Como in una cornice naturale che gli ha permesso di affinare la propria sensibilità verso le problematiche legate all’ecosostenibilità e alla salvaguardia ambientale, presenta «La prima Cosa bella».
La mostra è un’anticipazione del più ampio progetto espositivo «Hearth», articolato in cinque «stazioni visive», il frutto della lunga ricerca dell’artista sul rapporto che lega l’uomo al pianeta e che vuole porsi come momento di riflessione e presa di coscienza delle responsabilità di ogni essere umano nei confronti dell’ambiente in cui vive e delle future generazioni.
L’evento bolognese presenta due stazioni del progetto: «Orbite» e «Nel nome della madre». La prima sezione espositiva è costituita da una serie di fotografie che mostrano l’essere umano nella sua essenziale nudità, mentre ruota attorno alla Terra, perno essenziale della sua vita. «Nel nome della madre» espone, invece, un emozionante video at-traverso il quale l’artista, in un dialogo personale con il pianeta Terra e la sua coscienza riflette sulle responsabilità che sente in prima persona in quanto «essere umano».
La mostra sarà integrata, in occasione di «ArteFiera», con le altre tre stazioni del progetto, «I am», «Risvegli, 100% Biodegra-dabile» e «Fragile», che saranno visibili dall’11 maggio al 30 giugno.
L’esposizione, patrocinata da Plastic Free Odv Onlus, si inserisce all’interno del percorso culturale e artistico attraverso cui «the rooom» crea collaborazioni con i migliori talenti creativi, nell’intento comune di valorizzare e promuovere quei principi di sostenibilità e inclusione che prendono vita nella creazione di progetti di comunicazione.
La partecipazione è a numero limitato e solo su prenotazione. Per le prenota-zioni è necessario scrivere a press@therooom.it. Per maggiori informazioni: www.therooom.it.

«La guida bugiarda», una curiosa visita guidata al Museo Popoli e culture di Milano
Vero o falso? Sarà questa la domanda alla quale dovranno rispondere gli utenti della particolare visita guidata che il Museo Popoli e Culture, allestito all’interno del Centro Pime di Milano (via Monte Rosa, 81), ha ideato per la giornata di sabato 23 aprile, dalle ore 15 alle ore 16:30.
«La guida bugiarda», questo il titolo dell’iniziativa, invita i visitatori a indovinare l’autenticità delle informazioni ricevute, mettendo alla prova le proprie conoscenze geografiche e antropologiche, alla scoperta di culture e tradizioni legate agli oggetti della collezione esposti in museo.
Dalla danza della Tucandeira, il rito di passaggio dei Saterè Mawè dell’Amazzonia brasiliana, alla storia di Laozi, autore del Tao Te Ching, il testo fondamentale del taoismo, a guida museale fornirà ai visitatori informazioni miste a bugie, che verranno successivamente disvelate ripercorrendo le tappe della visita guidata nelle sale del museo, attraverso uno stimolante scambio e confronto di gruppo che permetterà di conoscere tante storie legate a usi e tradizioni di Africa, Asia, Oceania e America.
Per partecipare occorre iscriversi al link: urly.it/3n0_0.
Per informazioni: tel. 02.43822379 o museo@pimemilano.com. La pagina web di riferimento è https://centropime.org/eventi/la-guida-bugiarda-copy/.

«Carne blu», debutta al Piccolo di Milano la «fiaba nera» di Federica Rosellini
È la primavera del 2020. Chiusa in casa, come tutti noi, per il lockdown, Federica Rosellini, una delle più talentuose e promettenti interpreti della scena contemporanea, disegna e scrive, scrive e disegna. Nasce così «Carne blu», un romanzo pubblicato nel 2021 da Giulio Perrone editore, che la stessa attrice trasforma, poi, in uno spettacolo teatrale, il cui debutto si è tenuto mercoledì 13 aprile, in prima nazionale, al Teatro Studio Melato di Milano.
Per la regia della stessa Federica Rossellini, alla sua prima creazione per la scena, «Carne blu» si avvale di un’architettura scenica di grande suggestione, creata da Paola Villani e abitata dalle realizzazioni scultoree di Daniele Franzella. Visual designer è Massimo Racozzi. I costumi sono firmati da Simona D’Amico; le luci da Luigi Biondi. Mentre il suono, ogni sera dal vivo, è a cura di Gup Alcaro.
Prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e co-diretto da Fiona Sansone, esperta di didattica e di teatro dell’infanzia, lo «spettacolo per voce sola», nel quale riecheggia la letteratura di Ludovico Ariosto e Virginia Woolf, racconta la storia di un viaggio, quello di Orlando, un bambino nato sulla Luna. «A differenza degli altri bambini, - si legge nella presentazione - Orlando non ha un cuore di carne protetto dalla cassa toracica, ma una piccola tasca di stoffa ricolma d’acqua, sulla sinistra del petto, dove nuota un pesciolino tutto d’oro, di nome Sunny. Quando Orlando lascia il proprio cuore libero di nuotare, la metamorfosi inizia e il corpo cambia, attraversando specie e generi diversi: è maschio e femmina, è uccello e insetto. Nato sulla Luna, in una dimensione altra, fuori dal tempo ordinario, Orlando è un personaggio metamorfico, fatto di potenziali moltitudini, libere dalle classificazioni, capace di portare sul palcoscenico le questioni dell’identità e del doppio».
Lo spettacolo, una vera e propria «fiaba nera» dalle tinte gotiche, rimarrà in cartellone a Milano fino a fine mese e sarà corredato da un incontro con l’autrice in programma venerdì 22, alle ore 17, al Chiostro di via Rovello.
Per maggiori informazioni: www.piccoloteatro.org.

Foto di Masiar Pasquali