ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
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martedì 10 maggio 2022

«Art City 2022», l’arte invade Bologna. Tra i protagonisti Tino Sehgal, Italo Zuffi e Pedro Neves Marques

È quasi impossibile non lasciarsi travolgere da una fresca e salutare ventata di arte contemporanea in questi primi giorni di maggio a Bologna. Piazze, musei, gallerie, fondazioni e palazzi storici della città aprono, giorno dopo giorno, i propri spazi per ospitare mostre, eventi e iniziative speciali. Il merito è di «Art City», il progetto di alleanza culturale nato dieci anni fa dalla collaborazione tra il Comune di Bologna e gli organizzatori di «Arte Fiera», che vede il coordinamento dei locali musei civici e la curatela di Lorenzo Balbi.
In attesa dell’«Art City White Night», la «notte bianca» che sabato 14 maggio vedrà gli amanti della creatività contemporanea «fare le ore piccole» tra mostre e installazioni, ci si può lasciare incuriosire dalle oltre duecento proposte, molte a ingresso gratuito, che compongono il cartellone di questa edizione, tutte da scoprire grazie alla guida booklet e alla mappa, due prodotti cartacei da portare sempre con sé e da conservare nella propria biblioteca, curati nel visual design da Filippo Tappi e Marco Casella.
Ai due artisti è stata affidata anche l’identità visiva della kermesse. Lo sfondo di «Art City 2022» è Bologna stessa, vista come una galassia nella quale ogni cosa accade: «un agglomerato – si legge nella guida - di pianeti iridescenti, stelle pulsanti, materia oscura, pulviscolo, che danza indisturbato al ritmo astronomico». In questi giorni, dalla centrale piazza Maggiore al periferico viale Aldo Moro, gli eventi entrano, infatti, in contatto, «si sovrappongono, si fondono, si fanno eco, si moltiplicano alla velocità della luce» e lasciano una scia che, come «un bagliore anomalo» ed «evanescente», convive con «il rumore della città, delle strade, dei portici, dei colli e delle persone», dà nuova luce alla quotidianità.
Cuore pulsante del cartellone è, come avviene ormai dal 2018, lo «Special Project». Per l’edizione 2022 è stato invitato Tino Sehgal (1976), uno degli artisti più radicali che siano emersi negli ultimi anni, Leone d’oro all'Esposizione internazionale d’arte di Venezia nel 2013. Le sue opere sono autentiche sculture viventi, coreografie di persone in movimento che generano situazioni insolite, a volte surreali, con cui il pubblico è invitato a confrontarsi. L’intervento pensato per Bologna, che si avvale della curatela di Lorenzo Balbi, animerà piazza Maggiore, il cuore della città, da secoli luogo di incontro e scambio, con i palazzi medievali e l’imponente Basilica di San Petronio a farle da cornice. Qui quarantacinque ballerini e interpreti, i cui corpi e gesti verranno utilizzati dall’artista come materiale creativo e umano per comporre una grande opera, si muoveranno nello stesso spazio del pubblico, invitato, quest’ultimo, a essere non solo fruitore ma anche protagonista della coreografia di Tino Sehgal, ricca di riferimenti alla storia e al passato.
Il «Main Program» di «Art City» ha in agenda anche altri otto progetti curatoriali che spaziano tra le diverse pratiche artistiche e che affiancano giovani emergenti a maestri ormai affermati sulla scena internazionale, tra i quali Pedro Neves Marques, che rappresenta il Portogallo alla 59esima Biennale d’arte di Venezia. Secondo una tradizione consolidata e apprezzata, questi progetti entreranno anche all’interno di luoghi non convenzionali, magari raramente accessibili al pubblico. Quest’anno, per esempio, si spazierà da siti simbolici per eccellenza della storia civica, come Palazzo d’Accursio e la Pinacoteca nazionale di Bologna, a spazi di grande pregio riconvertiti in contenitori culturali, tra i quali l’Oratorio di San Filippo Neri e il teatro San Leonardo, ma anche da un prezioso tesoro architettonico come il Padiglione de l’Esprit Nouveau, realizzato su progetto di Le Corbusier, fino allo scrigno verde dell'ateneo bolognese, ovvero l’Orto Botanico con il suo erbario.
Un elemento trasversale che caratterizza i progetti della decima edizione è la prevalenza della dimensione esperienziale dell’opera, in cui è l’azione a ridefinire gli spazi attraverso i corpi. Lo documenta bene la mostra dedicata a Giulia Niccolai (1934-2021), unica artista non vivente presente nel «Main program». All’Esprit Nouveau la sua ricerca poetica, visiva e sonora, che è spaziata dal nonsense a giochi linguistici su oggetti considerati femminili come bottoni e spilli, è ricostruita attraverso documenti, fotografe, testi, registrazioni e opere, selezionati dalle curatrici Allison Grimaldi Donahue e Caterina Molteni. Ma è anche riattivata grazie a un nuovo lavoro performativo di Giulia Crispiani.
L’elemento performativo è presente anche in «Zhōuwéi Network» di Emilia Tapprest, una video-installazione immersiva, visibile da giovedì 12 maggio al teatro San Leonardo, che attraverso il medium cinematografico «esplora la relazione tra datificazione, potere politico ed esperienze affettive individuali».
Altro progetto performativo presente nel «Main Program» è «Stultifera», grande opera performativa del giovane Benni Bosetto, presentata nel Salone degli Incamminati della Pinacoteca nazionale di Bologna, per la curatela di Caterina Molteni. Il lavoro è ispirato a «La nave dei folli» (1494) di Sebastian Brant, opera satirica apparsa nel 1494, ribaltandone la critica morale e riflettendo invece sul potenziale del 'folle', sulla sua assenza di paura e, quindi. sulle dinamiche generative insite in tale istintività. La scena si svolge su una nave destinata a un viaggio senza fine, sulla quale i passeggeri interagiscono assumendo identità archetipiche, nella necessità di delineare un nuovo ordine sociale.
Vivere lo spazio attraverso azioni che lo ridefiniscono e generano narrazioni è un tratto peculiare anche della ricerca di Italo Zuffi, protagonista di «Fronte e retro», personale a cura di Lorenzo Balbi e Davide Ferri che si sviluppa su due sedi, la Sala delle Ciminiere del MAMbo, che propone un percorso retrospettivo dalla metà degli anni Novanta al 2020, e Palazzo De’ Toschi, dove sarà visibile una serie di nuove produzioni.
Il «Main program» mette al centro anche un tema che è caposaldo dell’identità di «Art City» fin dalla prima edizione, quella del 2013: il dialogo delle opere con lo spazio urbano. Trova, per esempio, collocazione nei centralissimi spazi della Sala Tassinari, gestita da Fondazione per l'innovazione urbana a Palazzo d’Accursio, «Emergency Break» di Kipras Dubauskas, installazione filmica a cura di Elisa Del Prete e Silvia Litardi, che presenta per la prima volta in Italia la trilogia dell’artista dedicata al tema fortemente attuale del «soccorso», con un’anteprima del capitolo su Bologna. Il cubano Carlos Garaicoa interagisce, invece, con il settecentesco spazio dell’Oratorio di San Filippo Neri, luogo molto amato dal pubblico, ricordandone attraverso un’installazione, a cura di Maura Pozzati, la distruzione durante la Seconda guerra mondiale e il restauro che ha consentito di recuperare un capolavoro dell’architettura barocca bolognese.
Crea una relazione viva con lo spazio ospitante anche la videoinstallazione Aedes Aegypti» di Pedro Neves Marques, a cura di Sabrina Samorì, in programma all’Orto Botanico ed Erbario dell’Università di Bologna. L’opera si compone di due parti: in una sequenza, la zanzara si poggia sulla pelle umana succhiando il sangue, mentre nell’altra due zanzare sono colte nel momento di copulazione.
Le sale storiche di Palazzo Vizzani saranno, invece, abitate da «Fuori Terra», mostra di Mattia Pajè a cura di Giovanni Rendina, incentrata su un gruppo scultoreo composto da figure umanoidi immerse in un ambiente installativo.
Il calendario include, inoltre, le proposte di musei, fondazioni, spazi istituzionali e gallerie indipendenti della città. Tra le esposizioni da non perdere ci sono «La memoria del futuro. Mario Ramous un intellettuale a Bologna, dal dopoguerra agli anni Novanta» a Palazzo Accursio, «Sissi. Sacri indici» al LabOratorio degli Angeli di Camilla Roversi, «Cross Collection. Collezioni a confronto» alla Raccolta Lercaro e «Pierpaolo Pasolini. Folgorazioni figurative» alla Cineteca di Bologna.
Come di consueto, protagoniste di primo piano della art week bolognese saranno l’Associazione Gallerie Bologna a la Confcommercio Ascom Bologna, con proposte espositive che spazieranno dalla grande arte figurativa italiana del Novecento a eccellenti artisti internazionali, ad autori del nostro territorio, in un percorso che spazia dalla ceramica iperrealista di Bertozzi & Casoni a Giorgio Morandi, da Lucio Fontana ad Alberto Burri, da Filippo De Pisis a Piero Guccione
La città si prepara, dunque, a trasformarsi in un teatro delle più diverse pratiche del contemporaneo. Guida alla mano, scarpe comode ai piedi e, soprattutto, tanta sana curiosità sono gli ingredienti giusti per viversi questa vivace e colorata settimana bolognese, per ritornare a respirare arte a pieni polmoni.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Palazzo Bentivoglio, Bologna. Foto © Fabio Mantovani; [fig. 2] Pinacoteca nazionale di Bologna. Foto © Costantino Muciaccia. Su concessione del Ministero della Cultura - Pinacoteca nazionale di Bologna; [fig. 3] Palazzo Vizzani - Alchemilla. Foto Luca Ghedini; [fig. 4] Tino Sehgal nel Giardino delle Rose a Blenheim. Foto © Edd Horder. Courtesy Blenheim Art Foundation; [fig. 5] Piazza Maggiore. Bologna. Foto © Ornella De Carlo; [fig. 6] Centro di Ricerca Musicale - Teatro San Leonardo, Bologna. Foto Massimo Golfieri; [fig. 7] Emilia Tapprest, Zhōuwéi Network, 2021. Still da video. Courtesy l’artista

Informazioni utili 

lunedì 9 maggio 2022

Al via a Bologna la quarantacinquesima edizione di «Arte Fiera»

Bologna indossa il suo abito più bello, quello che fa incontrare la storia con i colori e l’energia del contemporaneo, e per una settimana contende a Venezia, dove è in corso la 59esima Biennale con il titolo «Il latte dei sogni», il ruolo di capitale italiana dell’arte. La città felsinea è, infatti, pronta a ospitare la quarantacinquesima edizione di «Arte Fiera», la prima in presenza dopo la pandemia da Covid-19 e la quarta, conteggiando anche il progetto digitale «Playlist» del 2021, curata da Simone Menegoi.
Dal 1974 l’evento mercantile bolognese, il più longevo del settore in Italia, è sinonimo di qualità e non ha mai tradito le aspettative di intenditori ed estimatori rimanendo sempre fedele alla propria vocazione: essere la manifestazione di riferimento per le gallerie italiane e per l’arte italiana del XX e XXI secolo.
Si muove lungo questa strada ben consolidata e apprezzata anche la nuova edizione che, dal 13 al 15 maggio (con preview per gli addetti ai lavori nella giornata di giovedì 12), animerà i Padiglioni 15 e 18 del Quartiere fieristico di Bologna, dove è stato ideato per l’occasione un nuovo percorso di accesso e un inedito allestimento degli stand, più elegante e curato rispetto al passato.
Centoquarantatré, tra cui alcune interessanti new entry, sono le gallerie che saranno presenti in fiera e che sono state chiamate a presentare un numero limitato di artisti, se non addirittura mostre monografiche (ne saranno presenti trentacinque), tanto per i maestri storicizzati quanto per le ultime generazioni.
Accanto alla tradizionale «Main Section», che spazia dal moderno e dall’arte postbellica, fino al contemporaneo di ricerca, e che ha un forte accento sull’arte italiana, il percorso espositivo sarà suddiviso in tre sezioni, curate e su invito, che approfondiranno altrettanti ambiti importanti per l’identità della fiera: l’arte moderna e del Dopoguerra storicizzato («Focus»), la pittura del nuovo millennio («Pittura XXI»), la fotografia e il video («Fotografia e immagini in movimento»).
Con «Focus», sezione introdotta nel 2020 e che quest’anno vede la curatela di Marco Meneguzzo, ci si concentrerà sul periodo tra fine anni Cinquanta e anni Settanta e sulla cosiddetta «arte esatta» (che comprende arte cinetica, arte programmata ed esperienze affini), con particolare attenzione alla scena italiana (ma anche con un audace «sconfinamento» nel mondo della creazione digitale e degli NFT).
Il critico Davide Ferri curerà, invece, la sezione «Pittura XXI», una proposta inedita per le fiere d’arte, giunta quest’anno alla sua terza edizione, che offrirà una panoramica specializzata dedicata al medium artistico più tradizionale, tornato negli ultimi anni al centro dell’attenzione della critica, delle istituzioni e del mercato. Il percorso spazierà dai talenti emergenti agli artisti mid-career italiani e internazionali.
Infine, Fantom - una piattaforma composta da Selva Barni, Benedetta Pomini, Ilaria Speri, Massimo Torrigiani e Francesco Zanot - si è occupata della curatela di «Fotografia e immagini in movimento», sezione giunta alla sua terza edizione, che include a pieno titolo anche il video e che è aperta al dialogo fra fotografia e altri media.
Arte Fiera prevede, poi, un ricco palinsesto di contenuti trasversali, riunito sotto il titolo di «Public program», che offrirà agli addetti ai lavori e al grande pubblico un significativo spaccato dello stato dell’arte del nostro Paese. Tra questi appuntamenti si inserisce l’intervento di Liliana Moro (Milano, 1961), che – dopo Flavio Favelli, Eva Marisaldi e Stefano Arienti – è stata invitata a Bologna per realizzare un’opera inedita, di grandi dimensioni o comunque ambiziosa, da presentare al pubblico negli spazi espositivi. Per rispondere alla commissione, l’artista milanese ha scelto un materiale inconsueto, ma a cui ricorre regolarmente fin dagli anni Novanta: il suono. Ne è nata una grande scultura sonora, elaborata a partire dalla sua stessa voce, di cui i visitatori faranno esperienza nel loro transito dall’ingresso Nord verso i padiglioni.
In questa cornice si inserisce anche la terza edizione del progetto «Oplà. Performing Activities», a cura di Silvia Fanti (Xing), che prevede quattro interventi. Jacopo Benassi (1970) proporrà «Unisex» in uno spazio inatteso come le toilette dell’area Infopoint della fiera. Invernomuto, duo composto da Simone Bertuzzi (1983) e Simone Trabucchi (1982), presenterà la performance immateriale e radiofonica «Vernascacadabra». Muna Mussie (1978), artista eritrea di base a Bologna, metterà in scena «Persona», un incontro con il pubblico mediato dalla pratica del cucino. Infine, Luca Trevisani (1979) proporrà «Ai piedi del pane», intervento inedito al crocevia tra l’attività performativa e scultura metamorfica e biologica, che dà vita a scarpe con suole di pane innestate su tomaie preesistenti, bassorilievi da portare a spasso per gli spazi di Arte Fiera.
Nel «Public program» sono inseriti anche i «Book Talk» dedicati ai libri pubblicati di recente. Tra i protagonisti si segnalano Liliana Moro, Cecilia Casorati, il gallerista Mario Pieroni, Gianfranco Maraniello, Massimo Kaufmann, Marco Meneguzzo, Domenico Quaranta, Valentino Catricalà, Lucilla Meloni, Laura Cherubini e Andrea Viliani.
Infine, Arte Fiera ospiterà nel proprio programma collaterale «Note di sguardi», un progetto di fotografia, ideato nel 2021 da Giovanna Sarti, che vede coinvolti tre quartieri di altrettante città europee: Cervia, Bologna e Berlino. A trentasei artisti internazionali attivi nelle tre città o in zone limitrofe è stato chiesto di scegliere un’immagine proveniente dal loro archivio da stampare in forma di poster e da esporre nello spazio pubblico dei quartieri designati nell’arco di un anno, con cadenza mensile. A Bologna, nel passaggio che collega i due padiglioni fieristici, il pubblico potrà vedere una selezione dei poster realizzati fino ad ora.

Ma in occasione dell’evento mercantile l’intera Bologna si veste a festa. La città ospiterà, infatti, la decima edizione di «Art City», il programma istituzionale di mostre, eventi e iniziative speciali, realizzato sotto la direzione di Lorenzo Balbi, che per tutta la settimana animerà varie location della città e culminerà con la «White Night» di sabato 14 maggio, che prevede l’apertura di tutti gli spazi espositivi fino a tarda notte. Ad affiancare i nove main projects - affidati ad artisti emergenti come Benni Bosetto, Kipras Dubauskas, Mattia Pajè, Emilia Tapprest, a nomi più consolidati come Andreas Angelidakis, Giulia Niccolai, Italo Zuffi e ad artisti internazionali come Carlos Garaicoa e Pedro Neves Marques - alta è l'attesa per lo special project del 2022: l'intervento di Tino Sehgal, curato da Lorenzo Balbi e concepito appositamente per piazza Maggiore, da secoli luogo di incontro e scambio, circondata da palazzi medievali e dall’imponente Basilica di San Petronio. Qui, da venerdì 13 a domenica 15 maggio, quarantacinque ballerini e performer daranno vita a una coreografia ricca di riferimenti alla storia e al passato, un’occasione unica per vivere l’arte in termini di esperienza sociale di scambio reciproco. Un ritorno in grande stile per la cultura cittadina perché la cultura, quella vera, vive grazie alla presenza dell’altro, al confronto con il pubblico.

Didascalie delle immagini
1. Per Barclay, Ballerina “Cathrine”, 2001, courtesy Galleria Giorgio Persano fotografia a colori, 300 x 596 cm; 2. Pier Paolo Calzolari, Studio, 1986, courtesy Repetto Gallery Sale, ferro, bouquet di rose su carta applicata su legno, 51 x 41 x 11 cm; 3. Franco Guerzoni, Affresco in corsa d’opera, 2014, courtesy Galleria Studio G7 stucchi e pigmento in polvere su tavola curva e legni pigmentati, cm 212x158; 4. Giorgio Morandi, Natura morta, 1963. Olio su tela, cm 30 x 35. Courtesy: Tornabuoni arte; 5. Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1965-66. Idropittura su tela, cm 45 x 65. Courtesy: Tornabuoni Arte: 6. Giorgio Morandi, Fiori, 1949. Olio su tela, cm 20 x 18. Courtesy: Galleria d’arte Maggiore

Informazioni utili
Arte Fiera 2022. Dove: Quartiere Fieristico di Bologna, Padiglioni 15 e 18. Ingresso: ingresso Nord della Fiera (da Piazza Costituzione: servizio gratuito di navette ogni 2 minuti). Quando: apertura al pubblico 13-15 maggio 2022; 12 maggio (solo su invito) - press preview ore 11.00-12.00 / preview 12.00-17-00 / vernissage 17.00-21.00. Orari: 13 maggio 11.00-12.00 riservato vip / 12.00-20.00 apertura al pubblico; 14 e 15 maggio 11.00-20.00 apertura al pubblico. Informazioni: tel. 051.282111. Contatti digitali: www.artefiera.it | Facebook @artefiera | Instagram @artefiera_bologna | YouTube http://bit.ly/11qM4ni | Hashtag ufficiale #artefiera2022

domenica 8 maggio 2022

Arriva al cinema il film-evento «Tutankhamon. L’ultima mostra» di Ernesto Pagano

«Vedo cose meravigliose».
Sono passati cento anni da quando l’archeologo ed egittologo britannico Howard Carter, fatto un piccolo foro nell’intonaco di copertura di una parete sotterranea nella Valle dei Re, in Egitto, pronunciava questa frase gettando per la prima volta lo sguardo nella camera sepolcrale della tomba del faraone Tutankhamon. La stanza era stracolma di oggetti meravigliosi, un ricchissimo corredo funerario dal valore inestimabile, miracolosamente scampato a saccheggi e distruzioni, che si apprestava a entrare nella leggenda.
Quel giovane elevato al rango di semidio ad appena nove anni e morto prematuramente e inaspettatamente nel 1824 a.C., non ancora ventenne, per un intreccio di casualità, 3342 anni dopo la sua sepoltura, stava per diventare uno dei faraoni più famosi dell’antico Egitto, l’unico capace di guadagnarsi la celebrità per il suo sarcofago d’oro massiccio, per i suoi gioielli, per le sue armi, per le sue gemme, per il suo trono e, ultimo ma non ultimo, per quella leggendaria e misteriosa «maledizione» che sembra aver colpito tutti quelli che parteciparono al ritrovamento della tomba.
A questa storia, che principia il 26 novembre 1922, è dedicato il nuovo film-evento del progetto «La grande arte al cinema» di Nexo Digital, «Tutankhamon. L’ultima mostra», su soggetto e per la regia di Ernesto Pagano, in cartellone nei principali cinema italiani dal 9 all’11 maggio.
Ad accompagnare lo spettatore nel racconto di questa vicenda entusiasmante - che farà tappa anche tra le sale del Museo egizio del Cairo e nelle location di Los Angeles, Londra e Parigi, dove, a partire dal 2018, sono stati ospitati centocinquanta oggetti del tesoro appartenuto al leggendario faraone egizio (l’intero corredo è composto da 5398 manufatti) - sarà Manuel Agnelli, vincitore del David di Donatello per la migliore canzone originale con la sua «La profondità degli abissi», brano inserito nel film «Diabolik» dei Manetti Bros.
Mentre la colonna sonora del progetto cinematografico di Ernesto Pagano, che sarà disponibile da questo maggio su etichetta Nexo Digital, porta la firma di Marco Mirk, che ha realizzato per l’occasione, a suo dire, «musiche orchestrali e sognanti, colorate da chitarre elettriche dilatate e pianoforti arpeggiati», ma anche melodie «più psichedeliche con synth scuri e dal sapore enigmatico» o «più post rock con batterie riverberate e chitarre desertiche». 
 Il docu-film, prodotto da Laboratoriorosso, nasce, inoltre, da un confronto serrato tra Ernesto Pagano e il fotografo Sandro Vannini, conosciuto per il suo lavoro ormai ventennale attorno alle antichità egiziane e, in particolare, alla figura di Tutankhamon. Sono, infatti, sue le immagini che corredano il catalogo della più grande mostra internazionale mai dedicata al «Golden Boy», l’ultima in assoluto che ha acceso i riflettori sul tesoro del giovane faraone perché, per volere del governo egiziano, ora questo patrimonio immenso diverrà inamovibile e potrà essere visitato solo nella sua sede del Cairo. 
Le fotografie ad altissima risoluzione di Sandro Vannini, unico fotografo ad aver avuto accesso al tesoro liberato dalle sue vetrine, prima della partenza per la tournée internazionale della mostra «King Tut. Treasures of the Golden Pharaoh», raccontano come gli oggetti danneggiati nel corso della Rivoluzione egiziana del 2011 abbiano recuperato le loro fattezze originarie grazie al sapiente lavoro dei restauratori.
Il lavoro di Sandro Vannini, commissionato nel 2017 dalla società Img, è basato principalmente su tecnologie digitali sofisticate e d'avanguardia che, applicate alla ricostruzione virtuale, alla fotografia e alle riprese video, rappresentano la nuova frontiera della narrazione e della descrizione dei patrimoni artistici e culturali. 
Grazie all’incarico ricevuto in esclusiva, il fotografo non ha solo avuto la fortuna di poter «mettere in posa» il tesoro del giovane faraone, ma si è anche trovato nella posizione unica di raccontare dall’interno come viene spostato un capolavoro fragile e prezioso come l’imponente Statua del guardiano del re in legno dipinto e dorato (mai più mossa da quando Carter l’aveva inviata da Luxor al Cairo alla fine degli anni Venti).
Attraverso le spettacolari e rivoluzionarie fotografie di Sandro Vannini si snoda anche la ricostruzione di stralci della vita e del rituale funebre del faraone della XVIII dinastia.
Mentre grazie a uno dei più ricchi archivi fotografici privati del mondo dedicati al tesoro e a materiali fotografici e cinematografici originali raccolti tra il Metropolitan Museum di New York e il Griffith Institute di Oxford, gli spettatori potranno rivivere i momenti più emozionanti della scoperta della tomba e del suo tesoro, l’eco della celebre maledizione di Tutankhamon, i frammenti della storia del giovane faraone.
Come in una macchina del tempo, il docu-film porterà, dunque, gli spettatori a cento anni fa raccontando – anche attraverso interviste a esperti e letture drammatizzate dei diari di Howard Carter – la storia dell’epocale scoperta del 1922, con la conseguente ondata di «Tutmania», che rese un archeologo inglese ostinatamente innamorato dell’Egitto e il suo finanziatore, Lord Carnarvon, due star mediatiche. «Nel 1924, mentre Billy Jones & Ernest Hare – racconta, a tal proposito, il regista - suonavano il primo pezzo ballabile di successo, intitolato «Old King Tut», alla British Empire Exhibition di Wembley veniva aperta al pubblico una ricostruzione della tomba di Tutankhamon capace di attirare folle oceaniche di visitatori». Era l’inizio di una fama che non è mai andata scemando».
Il racconto storico permetterà di arrivare anche all’epoca contemporanea quando il celebre archeologo Zahi Hawass, Ministro delle antichità egizie fino al 2011, trasformò il «Golden Boy» in un ambasciatore d’Egitto nel mondo. Fu in quegli anni che per la prima volta venne fattaa una Tac alla mummia del faraone per indagarne le cause della morte: proprio alle scansioni di quelle Tac è stato concesso l’accesso esclusivo in occasione del docu-film.
La storia del progetto cinematografico di Ernesto Pagano è, dunque, avvincente ed ha anche una morale. Secondo gli egizi, l’eternità di un uomo finirà soltanto quando non ci sarà più nessuno al mondo a pronunciare il suo nome. Cento anni fa il «Golden Boy», a lungo dimenticato, è ritornato sotto i riflettori. La giostra dei media e delle mostre internazionali, così come dei documentari e dei libri fotografici, continua ancora oggi a vorticare, luccicante e piena di fascino, attorno al suo nome e al suo volto, riscoperto grazie alla folle ostinazione di un uomo innamorato dell’archeologia. La maschera d’oro di Tutankhamon e la scoperta di Howard Carter rimangono e rimarranno ben incise e vive nella memoria dell’umanità. I loro nomi continueranno a essere pronunciati ad alta voce. Saranno consegnati all’eternità.


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domenica 1 maggio 2022

#notizieinpillole, le mostre da vedere a Venezia durante la Biennale d'arte # 1

La città di Venezia si veste a festa per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte. Mentre all’Arsenale e ai Giardini vanno in scena oltre quattromila opere di duecento e tredici artisti provenienti da cinquantotto Paesi di tutto il mondo, la città regala, per la primavera e l’estate, un ricco cartellone di eventi collaterali o di appuntamenti ideati per l’occasione da musei e gallerie. Oltre alle mostre imperdibili - Anish Kapoor alle Gallerie dell’Accademia, Anselm Kiefer a Palazzo Ducale, Marlene Dumas a Palazzo Grassi, Joseph Beuys a Palazzo Cini a San Vio e i Surrealisti alla Peggy Guggenheim Collection – Venezia offre ai visitatori internazionali tanti altri progetti espositivi che meritano una visita. Da Hermann Nischt a Louise Nevelson, da Mary Weatherford a Danh Vo, vi proponiamo qualche suggerimento per un itinerario lagunare all’insegna dell’arte contemporanea. 

In mostra a Venezia la «20. malaktion» di Hermann Nitsch
«Volevo mostrare come le colature, gli spruzzi, le sbavature e gli schizzi di liquido di colore rosso possono evocare un’eccitazione intensa nello spettatore, portandolo a provare sensazioni molto forti». Così Hermann Nitsch (Vienna, 29 agosto 1938 – Mistelbach, 18 aprile 2022), padre dell’Azionismo viennese, protagonista di performance acclamate e discusse, con corpi nudi, animali sgozzati, sangue e interiora, parlava di «20. malaktion», la ventesima azione pittorica originariamente creata e presentata al Wiener Secession di Vienna nel 1987. Il lavoro è in mostra fino al 20 luglio a Venezia, negli spazi delle Oficine 800, sull'isola della Giudecca, in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Presentata da Zuecca Projects e promossa dalla Helmut Essl’s Private Collection, in collaborazione con la Galerie Kandlhofer, l’esposizione, per la curatela di Roman Grabner, si articola in un’opera di grande formato (5x20 metri) realizzata con la tecnica del pouring (colatura), collocata sulla parete frontale, un grande quadro splatter (10x10 metri), steso sul pavimento, e numerosi quadri più piccoli, per un totale di cinquantadue lavori dalla pittura gestuale e immediata.
Le opere della «20. malaktion», che fanno tutte parte della medesima collezione, quella di Hulumt Essl, rivelano come la loro genesi abbia avuto luogo tra «scoppi di furia scatenata e gesti delicati». Le tele sono allestite negli spazi delle Oficine 800 con l’intento di ricreare quella disposizione sacra, rituale, che l’artista organizzò più di trenta anni fa. L’installazione, che pervade l’intero spazio espositivo, è, infatti, completata da vesti imbrattate, fiori e un altare a significare come questo progetto estremo e cruento, dall’alta valenza teatrale, volesse condurre il pubblico a una riflessione sulla sua vita e a una conseguente catarsi e purificazione, liberandolo da tabù religiosi, morali e sessuali. Un’energia mistica e un’ebbrezza visionaria colgono, in effetti, chiunque entri nello spazio espositivo della Giudecca per vedere quella che è a oggi la più grande retrospettiva mai realizzata in Italia sul padre dell’Azionismo viennese.
Per maggiori informazioni: http://www.zueccaprojects.org/.

Nelle immagini: «Hermann Nitsch - 20. malaktion». Venezia, Oficine Ottocento. Fino al 20 luglio 2022. Vista della mostra. Foto di Marcin Gierat 


«Vivere nel vetro»: a Venezia quattro designer del XX secolo e le loro creazioni per FontanaArte
Ci sono alcuni elementi d’arredo iconici come i vasi «Cartoccio» degli anni Trenta, il lampadario a sospensione «Dahlia», che riproduce un grande fiore con i petali di cristallo colorato sorretti da una struttura in ottone zapponato e nichelato, o la lampada da tavolo «Giova», che all’occorrenza si trasforma in un portafiori, nella mostra «FontanaArte. Vivere nel vetro», allestita fino al 31 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore.
Ottantacinque pezzi tra i più significativi della produzione centenaria dell’azienda milanese sono esposti ne «Le stanze del vetro», progetto culturale nato nel 2012 dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e la Pentagram Stiftung, che si avvale per l’occasione della curatela di Christian Larsen e dell’allestimento di Massimiliano Locatelli. Si tratta di vasi, lampade, portaritratti, scatole, posacenere e set da tavolo dall’eleganza raffinata e lineare, oltre a rari tavoli in cristallo con sostegni in legno, realizzati tra il 1932 e il 1996, sotto la guida di quattro affermati designer del XX secolo: Gio Ponti (1932-1933), Pietro Chiesa (1933-1948), Max Ingrand (1954-1967) e Gae Aulenti (1979-1996).
La mostra veneziana si concentra, dunque, sulle possibilità poetiche del vetro in lastre, un materiale industriale che la FontanaArte porta nel mondo del design d’autore, facendolo incontrare ora con la logica razionale del Modernismo ora la giocosità del Postmodernismo.
Il percorso espositivo, nel quale è presente una sala per ognuno dei quattro designer che furono a capo della direzione creativa dell’azienda milanese, culmina in una suite arredata con l’intento di rievocare una dimora fatta di interni in vetro, dando così forma al sogno degli architetti modernisti diventato realtà per la prima volta con Gio Ponti e Luigi Fontana.
Sull’isola di San Giorgio Maggiore, dove fino al primo maggio, è stata visitabile anche la seconda edizione di «Homo Faber», maestoso evento dedicato ai mestieri dell’alto artigianato artistico internazionale, che propone anche un focus sui maestri del Giappone e il loro ancestrale savoir-faire.
Fino al 24 luglio la Fondazione Cini presenta, inoltre, due mostre di arte contemporanea. In collaborazione con la galleria Tornabuoni, si tiene la rassegna «On Fire», a cura di Bruno Corà, con ventisei opere elaborate mediante il fuoco da artistiche delle Avanguardie novecentesche come Alberto Burri, Yves Klein, Arman, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis e Claudio Parmiggiani. Mentre, con la galleria Templon di Parigi, viene proposta una personale dell’americano Kehinde Wiley, a cura di Christophe Leribault, presidente del Musée d'Orsay e del Musée de l'Orangerie. «An Archaeology of Silence», questo il titolo dell’esposizione, include una serie di dipinti e sculture monumentali inediti, nei quali l’artista mette in luce la brutalità del passato coloniale, americano e globale, usando il linguaggio figurativo dell'eroe caduto. I nuovi ritratti mostrano giovani uomini e donne neri in posizioni di vulnerabilità che raccontano una storia di sopravvivenza e resilienza.
Per maggiori informazioni: www.cini.it

Didascalie delle immagini:FontanaArte. Vivere nel vetro, installation view, ph. Enrico Fiorese


Emilio Vedova e Arnulf Rainer, due artisti e i mali del mondo

«Un artista non può accettare la guerra. Non può accettare la sopraffazione. Voi direte: cosa centra questo con la pittura? Io vi dico: questa è la mia pittura». Suonano attuali le parole del partigiano e pittore Emilio Vedova (Venezia, 1919-2016), diffuse attraverso un video, all’interno della mostra allestita fino al 30 ottobre a Venezia, nello studio dell’artista alle Zattere, oggi spazio espositivo.
Curata da Fabrizio Gazzarri, la rassegna allinea una selezione di ventiquattro lavori, realizzati tra il 1949 e il 1993, che documentano come la pratica artistica del pittore veneziano, uno degli esponenti di spicco dell’Informale italiano, abbia tratto linfa vitale dalle vicende politiche e sociali del suo tempo e abbia sempre costruito una relazione responsabile con l’altro e con il mondo.
Con la sua pittura viscerale, fisica e violenta, Emilio Vedova, figlio di una stagione definita dal potenziale di malvagità e spargimento di sangue della Seconda guerra mondiale e dai rischi della passività di fronte al totalitarismo, ha dato, per esempio, voce al dolore per il bombardamento della biblioteca di Sarajevo («Chi brucia un libro, brucia un uomo», 1993) o per la rivoluzione in Romania dell’89 («Per uno spazio», 1989), ma ha anche raccontato la Berlino del muro («Plurimo», 1964 e «Berlin ’64», 1964).
A dare conferma di questo interesse dell’artista per le criticità del nostro tempo e la fragilità della nostra esistenza sono i titoli delle varie sezioni espositive che compongono la mostra, parole ricorrenti nei suoi scritti e discorsi: «Contro», «No», «Venezia muore», «Allarme», «Umano», «Confine», «Plurimo», «Per».
La rassegna veneziana, intitolata «Ora», si completa nel vicino Magazzino del sale con una sezione dedicata ad Arnulf Rainer (Baden bei Wien, 1929), amico dell’artista, mosso da un comune interesse per le vicende dell’uomo.
Del pittore tedesco, influenzato principalmente dal Surrealismo e dall’Espressionismo astratto americano, sono esposte una ventina di opere, scelte tra le «Croci» degli anni ’80 e i «Kosmos» dei primi anni ’90. Questi ultimi lavori, dalla forma circolare, rappresentano l’universo e sono metafora dell’infinito. Mentre le Croci, che per l’artista sono «abbreviazioni» del volto umano, rimandano inevitabilmente al tema della sofferenza, che, nel confronto con le pareti in mattone impregnate di sale dello spazio espositivo, «difficilmente – racconta il curatore Helmut Friedel - potrebbe essere percepita in modo più straziante».
Per maggiori informazioni: www.fondazionevedova.org.

Didascalie delle immagini: Particolare di allestimento della mostra “Rainer - Vedova: Ora.”, Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia, 23 aprile 2022 - 30 ottobre 2022. © Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio, Siena

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Danh Vo, Isamu Noguchi e Park Seo-Bo: sperimentazioni contemporanee alla Querini Stampalia di Venezia
Come si può infondere nuova vita a un palazzo storico che racchiude in sé storie differenti? Cosa si può aggiungere a un percorso espositivo già completo, che spazia tra stili ed epoche differenti, dal Cinquecento veneto al Modernismo novecentesco, in un raffinato collage di decorazioni, arredi, libri, oggetti pregiati e opere d’arte di Bellini, Tiepolo, Longhi e Credi? Sono queste le domande che si è posto il danese-vietnamita Danh Vo (Bà Rịa – Vietnam, 1975) per la mostra che la Fondazione Querini Stampalia ospita, in collaborazione con White Cube, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia.
L’artista - che cura anche il progetto espositivo con Chiara Bertola, responsabile del programma pluriennale «Conservare il futuro» - espone insieme all’architetto e scultore statunitense di origini giapponesi Isamu Noguchi (Los Angeles, 1904 – New York, 1988), e al pittore coreano Park Seo-Bo (Yecheon – Gyeongbuk, 1931), riconosciuto come il padre del movimento Dansaekhwa.
Le opere dei tre artisti, appartenenti a generazioni differenti e con stili narrativi dissimili, instaurano un dialogo raffinato con il palazzo veneziano, la cui struttura è stata rivisitata, per l’occasione, con luci e pareti temporanee, agili configurazioni che indicano una strada e al contempo mostrano l’evoluzione dello spazio.
A segnare il percorso sono una serie di ritratti fotografici, dedicati al tema del giardinaggio e scattati con lo smartphone, che raffigurano i fiori del giardino di Danh Vo a Güldenhof - il suo studio e fattoria a nord di Berlino – e nei parchi di Pantelleria, della Danimarca, del Friuli e di Siviglia. Le immagini sono stampate a colori con i nomi latini scritti in bella calligrafia a matita dal padre dell'artista, Phung Vo.
Di Park Seo-Bo è, invece, esposto un insieme di dipinti monocromi della serie «Écriture», che si legano profondamente alle nozioni di tempo, spazio e materia. Mentre di Isamu Noguchi sono visibili le iconiche lampade «Akari» (ovvero «luce»), strutture in carta, ricavate dall’albero di gelso, concepite nel 1951 nel corso di un viaggio a Hiroshima, che richiamano le lanterne chochin giapponesi e sono influenzate dall’estetica del design americano.
«Ospiti e intrusi» del palazzo veneziano, Vo, Noguchi e Park Seo-Bo alterano così la nostra percezione di oggetti e opere, portando una nuova luce nel percorso espositivo. Il tutto all’insegna di una vitale sperimentazione.
Per maggiori informazioni: https://www.querinistampalia.org

Didascalie delle immagini: 1.Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Francesco Allegretto); 2 . e 3. Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Ollie Hammick) 

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Venezia, a Palazzo Grimani Mary Weatherford reinterpreta Tiziano
È una delle opere più potenti, crude e sconvolgenti di Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 27 agosto 1576) la fonte di ispirazione del ciclo pittorico che Mary Weatherford (Ojai, 1963) presenta a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, all’interno di uno dei più incantevoli scrigni rinascimentali della città: il Museo di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa.
«La punizione di Marsia», un’opera di soggetto mitologico dipinta dal maestro veneto in tarda età, tra il 1570 e il 1576, e oggi conservata al Museo arcivescovile di Kroměříž nella Repubblica Ceca, è, infatti, lo spunto che ha dato vita a una dozzina di lavori, realizzati dall’artista californiana tra il gennaio e il marzo 2021 e riuniti sotto il titolo «The Flaying of Marsyas».
Ispirandosi alla tavolozza del pittore rinascimentale e rendendo omaggio alla caratteristica luce di Venezia, Mary Weatherford ha utilizzato la vernice Flashe e luci al neon - materiali che fanno parte della sua pratica artistica dal 2012 - per restituire l’effetto della tela antica. Macchie di colore dalle tonalità cupe e terrose danno così forma alla violenza della scena tizianesca, che raffigura il dio Apollo mentre scuoia il satiro Marsia, dopo aver vinto una sfida di canto e musica. Mentre i neon, con i loro tubi e cavi dell’alimentazione, simili a tante linee disegnate a mano, feriscono e illuminano le tele, con cui l’artista vuole proporre una riflessione sul destino, l'alterigia e il rapporto tra l'umano e il divino.
La mostra completa l’attuale programma espositivo del museo veneziano, che in questi giorni ospita anche le rassegne «Domus Grimani», sulla statuaria classica che faceva parte della collezione del patriarca Giovanni Grimani, e «Archinto», con dodici tele di Georg Baselitz, realizzate appositamente per la Sala del Portego e collocate in cornici settecentesche a stucco, dove fino alla fine del XIX secolo campeggiavano i ritratti della famiglia Grimani.
Per maggiori informazioni: https://polomusealeveneto.beniculturali.it/musei/museo-di-palazzo-grimani

Didascalie delle immagini: Mary Weatherford, The Flaying of Marsyas – 4500 Triphosphor, 2021-22. Flashe e neon su lino, 236,2 x 200,7 cm. © Mary Weatherford. Foto: Frederik Nilsen Studio. Courtesy: Gagosian

Al Fondaco dei Tedeschi le «Storie invisibili» di Leila Alaoui
«Era un’artista che brillava. E lottava per i dimenticati della società, i senzatetto, i migranti. Usando una sola arma, la fotografia». Così il 19 gennaio 2016, sulle pagine del «New York Times», Dan Bilefsky ricordava Leila Alaoui (Parigi, 10 luglio 1982- Ouagadougou, 18 gennaio 2016), giovane fotografa e videoartista franco-marocchina, morta in seguito a un attentato di terroristi jihadisti a Ouagadougou, mentre lavorava per una commissione di Amnesty International sui diritti delle donne in Burkina Faso.
Il suo impegno umanitario, che l’ha portata più volte a raccontare le diversità culturali e le migrazioni nell’area del Mediterraneo, ha dato vita a una fondazione, che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, porta a Venezia, con la complicità della Galleria Continua, la mostra «Storie invisibili/Unseen stories».
Al Fondaco dei Tedeschi, centro dello shopping deluxe nei pressi del ponte di Rialto, sono esposti, fino al 27 novembre, due progetti documentari della fotografa.
La corte interna dell’edificio è abitata una serie di gigantografie, di grande impatto visivo e in parte inedite, tratte da «Les Marocains», un ritratto corale del Paese d’origine di Leila Alaoui, realizzato con uno studio fotografico portatile, che documenta le popolazioni marocchine e le loro tradizioni, a rischio di estinzione.
Al quarto piano si trova, invece, un estratto di «Crossing», racconto attraverso immagini e video del viaggio intrapreso dai migranti subsahariani per raggiungere il Marocco e le coste dell’Europa. Frammenti di realtà si uniscono a immagini fittizie e a effetti sonori derivati dalla registrazione di narrazioni vere per un percorso di grande impatto emotivo.
Per maggiori informazioni: https://www.dfs.com/it/venice/art-and-culture/leila-alaoui-unseen-stories.

Nella fotografia: Leila Alaoui, Souk de Boumia - Moyen-Atlas (Les Marocains), 2011. Stampa Lambda, 180 x 120 cm Courtesy: Galleria Continua & Fondation Leila Alaoui


Venezia: Heinz Mack, Lucio Fontana, Antony Gormley e Huong Dodinh, quattro artisti in piazza San Marco
È «Der Garten Eden (Il giardino dell'Eden)», travolgente, multicolore e monumentale (6 x 3,5 metri) quadro a campi di colore, dall'indiscusso effetto ipnotico, l’opera più simbolica della mostra «Vibration of Light / Vibrazione della luce», in programma fino al 17 luglio alla Biblioteca nazionale marciana di Venezia, nello storico Salone monumentale del Sansovino. Curata da Manfred Möller, l’esposizione presenta una selezione di dipinti di grande formato di Heinz Mack (Lollar, Germania, 1931), uno dei più importanti esponenti dell'arte cinetica a livello mondiale, accanto a un insieme di stele di luce parzialmente rotanti e a una scultura a specchio alta quattro metri, creata appositamente per l’occasione ed esposta nel cortile interno di Palazzo reale.
I lavori proposti – tra cui spiccano delle tele nei toni del nero, grigio e bianco, in cui centrale è il tema della struttura - sono collocati in un dialogo di grande effetto storico-artistico con i dipinti a parete e i tondi del soffitto che ornano il Salone monumentale del Sansovino, opere che portano la firma dei più importanti artisti rinascimentali, dal Tintoretto a Tiziano.
Si accede alla mostra, che fa parte degli Eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, attraverso il Museo Correr, dove espone, nell’ambito di «Muve contemporaneo», l’artista franco-vietnamita Huong Dodinh (Soc Trang, 1935). «Ascension» è il titolo della sua esposizione, pensata appositamente per la Sala delle Quattro Porte.
L’installazione comprende quattordici dipinti, ciascuno alto tre metri, sostenuti da altrettanti pannelli alti e affusolati, collocati secondo uno schema triangolare attorno alla scultura lignea della «Madonna della Misericordia», che risale al XV secolo. Su una superficie pittorica dai colori neutri, ogni tela presenta sottili e quasi impercettibili linee curve e verticali, dipinte dell’artista durante la sua pratica meditativa. Il tutto crea un’atmosfera mistica e spirituale, scandita da una sorta di ascensione verso la luce.
Chiude il percorso tra le proposte espositive visitabili in piazza San Marco, dove è aperta anche «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce» di Anselm Kiefer, la mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley», a cura di Luca Massimo Barbero, che presenta opere su carta, disegni e sculture dei due artisti. Scenario dell’esposizione, aperta fino al 27 novembre, è il Negozio Olivetti, gioiello architettonico progettato da Carlo Scarpa e affidato in gestione al Fai – Fondo per l’ambiente italiano. Per informazioni: https://bibliotecanazionalemarciana.cultura.gov.it/ | https://www.visitmuve.it/ | https://fondoambiente.it.

Didascalie delle immagini: 1. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack; 2. Mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley» al Negozio Olivetti di Venezia. ©photo: Ela Bialkowska OKNO studio; 3. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack

Biennale Arte 2022, una mostra di Louise Nevelson per la riapertura della Procuratie Vecchie
Cinquanta archi e cento finestre affacciate sulla piazza più bella del mondo: si presentano così le Procuratie Vecchie, uno dei monumenti più iconici di Venezia, antica sede dei Procuratori della Serenissima Repubblica, collocata sul lato sinistro di piazza San Marco, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr.
Dopo cinquecento anni, il prestigioso edificio lagunare - progettato all’inizio del XVI secolo dall’architetto Bartolomeo Bon e completato una ventina di anni dopo, nel 1538, da Jacopo Sansovino - ha riaperto al pubblico per iniziativa delle Agenzie Generali, che ne hanno fatto la casa della Fondazione «The Uman Safety Net», un hub dedicato alle iniziative sociali, per il sostegno e la valorizzazione delle potenzialità delle persone più fragili e più vulnerabili, a cominciare dai bambini e dai rifugiati.
Il restauro, durato cinque anni, è stato affidato allo studio David Chipperfield Architects Milan, che ha restituito al pubblico i 12.400 metri quadrati dei tre piani dell’edificio creando un ambiente moderno, ma fedele alla sua originaria struttura.
Nell’ambito degli eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, le Procuratie Vecchie ospitano, fino all’11 settembre, una monografica di Louise Nevelson (vicino a Kiev, Ucraina, 1899 – New York, 1988), figura rivoluzionaria dell’astrazione americana, in mostra anche all’Arsenale con il potente assemblage «Homage to the Huniverse» (1968).
«Persistence», questo il titolo della rassegna in piazza San Marco, riunisce, per la curatela di Julia Bryan-Wilson, una sessantina di lavori realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Novecento.
Articolato in nove sale del secondo piano, il percorso espositivo presenta, nello specifico, collage e assemblage scultorei, insieme ad alcuni pezzi iconici come le sculture di grandi dimensioni in legno dipinto, le sculture bianche, tra le quali l’installazione multipla a colonna «Dawn’s Presence – Three» (1975), e rari lavori dalle tonalità color oro come «The Golden Pearl» (1962).
Il pubblico potrà così approfondire i tratti salienti del processo creativo dell’artista, oltre al suo interesse per materiali non convenzionali come legno grezzo, metallo, cartone, carta vetrata e pellicola di alluminio.
Per maggiori informazioni: louisenevelsonvenice.com.

Didascalie delle immagini: «Persistence», mostra di Louise Nevelson alle Procuratie di Venezia per la 59esima Biennale d'arte. Foto di Lorenzo Palmieri. Courtesy: Louise Nevelson Foundation


A Venezia un capolavoro di Giorgione: il «Ritratto di giovane» del Museo di belle arti di Budapest
Arriva dal Museo di belle arti di Budapest il nuovo ospite speciale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: il «Ritratto di giovane» di Giorgione, al suo ritorno nella città lagunare dopo più di duecento anni. Il museo sul Canal Grande, dove è in corso la grande mostra del contemporaneo Anish Kapoor (ne abbiamo parlato al link https://foglidarte.blogspot.com/2022/04/anish-kapoor-venezia-gallerie-accademia-.html, ndr) offre, dunque, un'occasione in più ai turisti della Biennale per attraversare le sue porte e lasciarsi avvolgere dalla bellezza. 
Il prestito, che rientra in un progetto di scambi internazionali che la realtà diretta da Giulio Manieri Elia sta portando avanti negli ultimi anni, rappresenta un’occasione importante per ammirare un’opera di straordinaria qualità accanto ad altri capolavori del pittore veneto presenti nel museo veneziano: la «Sacra Conversazione», la «Vecchia», la «Tempesta», il «Concerto» e la «Nuda». Il ritratto è collocato, a partire dal 31 marzo, proprio in sala VIII, al primo piano, dove sono esposti gli altri lavori del maestro di Castelfranco in collezione.
Il dipinto, realizzato intorno al 1503, è «una delle poche opere superstiti di Giorgione - sottolinea László Baán, direttore generale del museo di Budapest-, proviene dalla collezione dell'unico patriarca veneziano di origine non italiana, l'ungherese Giovanni Ladislao Pyrker, vissuto nel XIX secolo, e grazie alla sua generosa donazione è entrato a far parte del patrimonio nazionale ungherese». Vi è raffigurato un uomo giovane, vestito di un'ampia casacca scura trapuntata e ricamata, sopra la camicia bianca. La folta capigliatura castana, con scriminatura al centro, ricade a caschetto lasciando scoperte le orecchie. Il volto ovale è girato di tre quarti verso sinistra e leggermente piegato in giù. Gli occhi sono grandi ed espressivi, le sopracciglia folte, il naso robusto, la bocca carnosa, il mento appuntito.
Sotto il profilo compositivo e stilistico il lavoro si ricollega strettamente alla «Vecchia». Dunque, l’esposizione dei due dipinti affiancati sulla stessa parete innescherà probabilmente ulteriori riflessioni in merito alla ipotesi, avanzata da parte della critica, che la tela oggi a Budapest costituisse «il coperto […] depento con un’homo con una veste de pelle negra» che accompagnava la «Vecchia», secondo quanto indicato nell’inventario Vendramin del 1601.
Roberta Battaglia, curatrice delle collezioni del Quattrocento e Cinquecento alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, afferma, inoltre, che «la proposta di interpretare il ritratto come esempio di contemplazione e ascesi neoplatonica si addice alla dimensione interiore del personaggio cui concorre anche la qualità astratta e ideale della luce. L’incarnato del volto risalta sulla massa compatta della chioma scura, contraddistinta da una insolita bicromia, che ha fatto supporre la presenza di una reticella oppure l’utilizzo di una tintura per schiarire le bande laterali dei capelli, secondo la moda per lo più femminile del tempo».
Dóra Sallay, curatrice della Pittura italiana (1250-1500) al museo di Budapest, sottolinea, infine, che il dipinto «si distingue tra i ritratti rinascimentali anche per il suo soggetto enigmatico: l'espressione assorta del giovane sconosciuto, il gesto che indica un sentimento profondo e la serie di emblemi difficilmente decifrabili dipinti sul parapetto hanno dato origine a innumerevoli interpretazioni e colpiscono tutti noi con la forza del loro mistero».
Per maggiori informazioni: gallerieaccademia.it.

...E poi...
A Venezia il rosso e il nero di Anish Kapoor- Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano - «Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni 

sabato 30 aprile 2022

«On fire», alla Fondazione Cini di Venezia il fuoco dialoga con l’arte contemporanea

Non ha forma, peso e densità. È immateriale e naturalmente fuggevole, eppure scalda, brucia, scoppia, illumina, risplende, distrugge e crea. È un elemento vivo. È, per usare le parole del saggista e giornalista James Henry Leigh Hunt (Southgate, Middlesex, 1784 - Putney 1859), «il più tangibile dei misteri visibili». Il fuoco è, tra i quattro elementi naturali, quello che più ha affascinato il mondo dell’arte, dove ha assunto le funzioni e i significati più diversi, ora di accessorio narrativo, ora di  medium  creativo, ora di presenza sacrale, simbolo di purificazione, rigenerazione e nuovi inizi.
Dal fuoco della redenzione che scalda il Bambino in tante Adorazioni dei pastori alle eruzioni vulcaniche che caratterizzano molti dipinti di area napoletana, dall’immancabile candela che rischiara i notturni di George de La Tour al falò della convivialità presente nel quadro «Upa, upa» di Paul Gauguin, pittori e scultori hanno traghettato il fuoco, quale elemento figurativo, nel Novecento, il secolo delle sperimentazioni e delle performance.
Le Avanguardie del secondo Dopoguerra hanno, quindi, scritto un nuovo capitolo di questa storia millenaria: dagli anni Cinquanta in poi, gli artisti sono, infatti, riusciti ad appropriarsi degli effetti sia distruttivi che generatori del fuoco, impiegandolo su diversi materiali, e hanno usato questo elemento naturale come medium per innovare il loro stesso linguaggio pittorico e plastico.
A questa storia guarda la mostra «On Fire», a cura di Bruno Corà, allestita fino al 24 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore, negli spazi della Fondazione Giorgio Cini, e promossa con la galleria Tornabuoni in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Ventisei opere, tra cui diversi capolavori inediti o raramente mostrati al pubblico, suddivise in sei sezioni, documentano l’uso del fuoco come strumento di combustione dei materiali o come presenza viva con i propri effetti sensoriali, talvolta spettacolari, o, infine, come traccia pittorica attraverso il fumo della combustione.
Ad aprire il percorso espositivo, studiato per exempla, è Yves Klein, artista che fu attratto dall'aspetto dialettico del fuoco, simbolo di distruzione e rigenerazione, vita e morte, bene e di male. «Il fuoco – affermava - è per me il futuro senza dimenticare il passato. È la memoria della natura. È dolcezza, il fuoco ‘è dolcezza e tortura’. È il focolare e l'apocalisse. È un piacere per il bambino sapientemente sedutosi vicino al camino; punisce, tuttavia, ogni disobbedienza quando si vuole giocare troppo da vicino con le sue fiamme. È benessere e rispetto. È un dio tutelare e terribile, buono e cattivo». Nacquero da queste considerazioni le quattro «Peinture de feu» esposte, ovvero le «Antropometrie» degli anni Sessanta, ultima fase della ricerca dell'artista.
Ispirazione creativa e formazione scientifica si sposano, invece, nell’uso del fuoco fatto da Alberto Burri. «Per molto tempo ho voluto – annotava, a tal proposito, l’artista - approfondire il modo in cui il fuoco consuma, comprendere la natura della combustione e come tutto possa vivere e morire nella combustione per formare un'unità perfetta». La fiamma ossidrica dava all’artista umbro la possibilità di imprimere buchi, grinze e strappi, proprio come una cicatrice, alle materie che trattava – inizialmente carta, poi legno e plastica – anche grazie al lavoro manuale. «Nulla - raccontava Alberto Burri - è lasciato al caso. Quello che faccio qui è il tipo di pittura più controllato e controllabile...Bisogna controllare il materiale e questo si ottiene padroneggiando la tecnica».
Mentre per Armand Pierre Fernandez, in arte Arman, punto di partenza per l’uso del fuoco nella sua pratica artistica fu l’opera «Fauteuil d'Ulysse», realizzata negli anni Sessanta, con l'aiuto di Martial Raysse, per una mostra al Museo Stedeljik di Amsterdam. L'idea di questo lavoro, presente nella rassegna veneziana, venne all'artista durante una visita a una discarica, dove vide una poltrona stile Luigi XV che stava bruciando in cima a un mucchio di spazzatura. Da quest’opera principia una serie di combustioni con mobili eleganti e strumenti musicali che venivano consumati dal fuoco prima di essere stabilizzati dall'introduzione di resina. Distruggere un oggetto e farlo rivivere in forma nuova è, dunque, lo scopo del lavoro di Arman con il fuoco.
Dal Noveau Réalisme si passa, quindi, all’Arte povera con Pier Paolo Calzolari, le cui opere sono realizzate fin dall’inizio con materiali in costante conversazione tra loro, umili e provenienti dai contesti semi-industriali urbani o elementi naturali. Tra questi ci sono il fuoco, il legno, ma anche rottami, oggetti quotidiani e tubi al neon. In «Mangiafuoco» la pittura dialoga con la vitalità mutevole della materia, ovvero il fuoco soffiato sulla tela. «Il mio scopo - affermava l’artista - era stato fare in modo che la fiamma viva non rendesse in alcun modo secondario il rosso dipinto sulla tela».
Due lavori caratterizzano, poi, la presenza di Jannis Kounellis in mostra: «Margherita del fuoco» (1967), prima sua opera che fa uso della fiamma ossidrica e della bombola del gas, e «Senza titolo», una doppia lastra di ferro solcata da sette cannelli di rame, dai quali fuoriescono altrettante fiamme alimentate a gas, incorniciata da una sequela di grossi coltelli conficcati su panetti di piombo.
A chiudere il percorso espositivo è un’enorme biblioteca senza libri di Claudio Parmiggiani, realizzata in situ con il fumo e la fuliggine della combustione. L’opera, che pone al centro il tema della memoria, fa parte del ciclo delle «Delocazioni», «uno spazio vuoto di percezioni fisiche – si legge nella nota stampa -, dove però lo spettatore ha la sensazione di penetrare in un luogo abitato. L'assenza di oggetti esposti in precedenza rende i muri ancora più chiari; non c'è più che la loro traccia fuligginosa da vedere».
L’intero percorso espositivo dà sostanza alle parole di Gaston Bachelard: «l'alta dignità delle arti del fuoco deriva dal fatto che le loro opere portano il segno più profondamente umano, il segno dell'amore primitivo. (…) Le forme create dal fuoco sono modellate, più di ogni altra, come bene suggerisce Paul Valéry: 'a forza di carezze'».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Alberto Burri, Rosso Plastica M3, 1961, Plastica, combustione su tela, 121,5 x 182,5 cm. ©Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri; [Fig. 2] Yves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 250 x 130 cm. © Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [fig. 3] ves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 142 x 303 cm.© Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [ig. 4] Jannis Kounellis, Margherita di Fuoco, 1967, Stella di ferro con fiamma ossidrica. diam. 150 cm. ©Claudio Abate, Roma; [fig. 5] Claudio Parmiggiani, Solo la terra oscura, 2020. Fumo e fuliggine su tavola, 240x1824cm. Foto Agostino Osio-Alto Piano. Courtesy Fondazione MAXXI

Informazioni utili
On Fire. Isola di San Giorgio Maggiore, Sala Carnelutti e Piccolo Teatro -  Venezia, Italia. Orari: aperto tutti i giorni (tranne il mercoledì), dalle 11 alle 19. Ingresso gratuito. Sito web: www.cini.it. Fino al 24 luglio 2022