ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 21 maggio 2019

Da Merano a Fontanellato, otto labirinti da vedere

Il più leggendario è senz’altro quello di Cnosso, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal re Minosse, sull'isola di Creta, per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall'unione di sua moglie Pasifae con un toro.
L’ultimo nato in termini di tempo è quello ricreato da Milovan Farronato per il Padiglione Italia dell’attuale edizione della Biennale internazionale d’arte di Venezia, all’interno del quale si trovano le opere di Enrico David (Ancona, 1966), Liliana Moro (Milano, 1961) e della compianta Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari, 2017), scomparsa lo scorso anno.
Il labirinto è da sempre un luogo affascinante, carico di mistero e di simbologia, un viaggio del quale si conosce la meta, ma non la strada per raggiungerla.
Virail, la piattaforma che compara i diversi mezzi di trasporto per trovare la soluzione migliore per ogni esigenza, ha da poco proposto ai suoi utenti un percorso su e giù per l'Italia, nel quale perdersi e ritrovarsi, in mezzo alla natura, tra i dedali più belli del nostro Paese.
Il viaggio può partire da Kränzelhof, una delle cantine che puntellano l’area di Merano e che producono vini nella zona di Cermes, tra le montagne dell’Alto Adige.
La tenuta ha una storia antichissima, pare risalga addirittura al 1182, e oggi è famosa non solo per le bottiglie che vengono prodotte, ma anche per i suoi sette giardini. Uno di questi ospita un labirinto vinicolo, un’opera più unica che rara in Italia, realizzata con oltre dieci specie diverse di vitigni. Il percorso di 1500 metri fu voluto dal proprietario, il conte Franz Graf Pfeil, e, ogni anno, seguendo un tema specifico, viene decorato con opere d’arte diverse per arricchire la visita dei curiosi che vogliono perdersi e giocare tra le viti.
Rimanendo nel Nord-est merita una segnalazione il labirinto situato sull’isola di San Giorgio, a Venezia, raggiungibile in pochi minuti di vaporetto da piazza San Marco. Tra le mete più gettonate dagli amanti dell’arte, che in questi mesi potranno ammirare una bella retrospettiva di Alberto Burri alla Fondazione Cini e una raffinata personale di Sean Scully in Basilica, l'isola permette di avventurarsi, all'interno dell’antico convento, nel Labirinto Borges, costruito nel 2011 in omaggio allo scrittore argentino Jorge Luis Borges e alla sua opera «Il giardino dei sentieri che si biforcano».
Il percorso è creato con oltre tremila piante di bosco e si snoda per circa mille e centocinquanta metri, ma la vera sorpresa la si può scoprire solo guardando il dedalo dal campanile della chiesa di San Giorgio Maggiore: i sentieri, tra spirali e linee rette, danno vita ad innumerevoli parole e simboli da individuare, tra cui anche la parola Borges.
Rimanendo in provincia di Venezia un altro labirinto da visitare è quello di Stra, a Villa Pisani, una delle più famose residenze della Riviera del Brenta, punto di riferimento architettonico e artistico importante, ma anche meta perfetta anche per gli amanti dei giardini. Il suo dedalo in siepi di bosso, realizzato nel diciottesimo secolo come luogo di divertimento e corteggiamento, è un piccolo capolavoro: nella torretta centrale, ai tempi, una dama mascherata era solita aspettare il cavaliere alle prese con il complesso percorso, pronta per rivelarsi una volta raggiunta.
In Veneto ci sono altri tre labirinti da non perdere: due in provincia di Padova, uno nel Veronese. Quest'ultimo si trova a Valeggio sul Mincio, nel parco di Sigurtà, che dal 1978 ospita al suo interno specchi d’acqua, decine e decine di specie diverse di piante, un elegante castelletto, aree didattiche e un grande labirinto, composto da oltre mille e cinquecento piante di tasso che superano i due metri.
Ci sono voluti ben due anni per progettare questo dedalo e il doppio di tempo perché le piante raggiungessero l’altezza ottimale. La torretta al centro, meta finale di chiunque provi a risolvere il suo enigma, è ispirata a quella francese del parco Bois de Boulogne di Parigi: un dettaglio molto elegante che si sposa perfettamente con l’atmosfera del parco.
Nel Padovano merita, invece, una visita Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel cui giardino, ricco di alberi secolari da tutto il mondo, di fontane e di statue ospita c'è un grande labirinto in bosso: un dedalo quadrato che oggi è tra i più grandi realizzati nel XVII secolo e giunti fino a noi.
La maggior parte delle piante fu posizionata tra il 1664 e il 1669 e ha, quindi, oltre quattrocento anni: un dettaglio che rende l’esperienza ancora più autentica.
Il percorso, voluto dal cardinale San Gregorio Barbarigo, raggiunge in totale i 1500 metri e fu realizzato con un forte significato simbolico: il complesso cammino verso la perfezione e la salvezza.
I sei vicoli ciechi e il circolo vizioso rappresentano i vizi capitali e costringono i visitatori a tornare sui propri passi, una metafora che invita a riflettere sui propri errori per raggiungere la salvezza, ossia il centro del labirinto e il suo punto più alto.
Il giardino venne realizzato dalla famiglia Barbarigo come voto a Dio per sconfiggere la peste del 1631, l’epidemia che segnò anni molto difficili e dolorosi per Venezia.
Il labirinto, in particolare, intendeva trasmettere un messaggio positivo: la vita può essere complicata, ma tutto si risolve poiché c’è sempre una via d’uscita.
Dal 1929 il giardino è di proprietà della famiglia Pizzoni Ardemani, oggi giunti alla terza generazione, che come i proprietari precedenti si impegno ad essere custodi attenti e scrupolosi di questo luogo unico al mondo per varietà botanica e per la sua simbologia.
Sempre nel Padovano ci sono i labirinti del Castello di San Pelagio, nome con cui è conosciuta Villa Zaborra, al cui interno è conservato il Museo del volo, uno spazio espositivo dedicato alla storia dell’uomo e dell’aria, dai primi studi ai mezzi spaziali, passando per mongolfiere e personaggi che hanno compiuto imprese straordinarie.
La villa accoglie tre ben dedali, ognuno con un proprio tema: il Labirinto del Minotauro, di ispirazione mitologica, il Labirinto africano, arricchito con animali e maschere rituali, e il Labirinto del «Forse che sì forse che no», ispirato a un’opera di Gabriele D’Annunzio.
Nel Nord-ovest è, invece, immancabile una visita al dedalo del Castello di Masino a Caravino, una delle tante residenze aristocratiche del Piemonte. Un tempo dimora dei conti Valperga, l'affascinante edificio è oggi proprietà del Fai - Fondo ambiente italiano. Il suo dedalo si trova all’interno del parco e rappresenta il secondo labirinto botanico più grande della nostra penisola. È un percorso ricco di svolte e vicoli ciechi ricostruito secondo l’antico progetto settecentesco, quando il castello si trasformò da massiccia fortezza a elegante dimora nobile.
Chiede il percorso tra i labirinti italiani Fontanellato, in provincia di Parma, con il Labirinto della Masone, aperto ai visitatori nel 2015. Interamente realizzato con oltre duecentomila piante di bambù, l'intero percorso supera i tre chilometri e permette al pubblico di camminare affiancato da canne alte anche quindici metri. Quello voluto da Franco Maria Ricci non è, però, solo un dedalo nel quale vagare, ma anche un luogo dedicato all’arte e alla musica, agli eventi e agli incontri: un vero e proprio punto di riferimento culturale nel territorio.
Sono tante, dunque, le occasione che l’Italia offre per una giornata in mezzo alla natura, giocando a perdersi e a ritrovarsi cullati dalle suggestioni di un elemento come il labirinto di cui è in debito molta arte e letteratura.

Informazioni utili
[Fig. 1] Labirinto del Masone a Fontanellato, Parma; [fig. 2] Labirinto di Villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia; [fig. 3] Labirinto di Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel Padovano;  [fig. 4] Labirinto Borges all'Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Ph Agenzia Vision. Courtesy Fondazione Giorgio Cini; [figg. 5 e 6] Labirinto Sigurtà a Valeggio sul Mincio; [fig. 7] Labirinto della Kränzelhof in Alto Adige

sabato 18 maggio 2019

Riaperto a Zurigo il Pavillon Le Corbusier

Zurigo ha da poco ritrovato uno dei suoi tesori artistici. La scorsa settimana ha riaperto al pubblico, dopo un importante lavoro di restyling del costo di circa cinque milioni di franchi, durato diciotto mesi e curato da Silvio Schmed e Arthur Rüegg, il Pavillon Le Corbusier, commissionato all’architetto, designer, urbanista e artista svizzero-francese negli anni Sessanta dalla collezionista Heidi Weber.
Situato sulla riva orientale del lago, nel quartiere di Seefeld, in una incantevole posizione a pochi passi dal centro storico della città svizzera, l’edificio, completato nel 1967, rappresenta l’ultima costruzione di Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Édouard Jeanneret-Gris (La Chaux-de-Fonds, 6 ottobre 1887 – Roccabruna, 27 agosto 1965), figura tra le più influenti della storia dell'architettura contemporanea, ricordato con Ludwig Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright e Alvar Aalto come maestro del Movimento moderno.
Il Pavillon, che si sviluppa su due piani, è interamente costruito in vetro, acciaio, pannelli di vernice colorata e cemento armato, un elemento, quest’ultimo, che l’architetto svizzero-francese ha utilizzato più volte come un vero e proprio strumento di espressione come documentano, per esempio, la Cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp e Villa Savoye a Poissy, due dei suoi tanti edifici entrati a far parte del patrimonio Unesco.
Il padiglione espositivo -usato da Heidi Weber come spazio per i lavori artistici della propria collezione, dai dipinti a olio ai disegni, dai mobili alle sculture- segue, inoltre, appieno il sistema Modulor, una misura di grandezze sviluppata dall’artista sul rapporto di determinazione della sezione aurea, riguardo alle proporzioni del corpo umano, del quale egli stesso diceva: «è una scala di proporzioni che rende difficile l'errore, facile il suo contrario».
Il Pavillon ebbe una lunga esegesi come dimostrano numerosi schizzi e progetti realizzati a partire da metà degli anni Cinquanta. La realizzazione e poi il completamento dell'opera si devono molto alla pazienza e perseveranza di Heidi Weber. Fu, infatti, la collezionista e mecenate svizzera a ottenere dalla città di Zurigo il diritto di uso per cinquant'anni del suolo, il prato Blatterwiese, e fu sempre lei si adoperò per superare le molte difficoltà, prima fra tutte la morte dello stesso Le Corbusier. I lavori di realizzazione, iniziati nel 1964, furono, infatti, interrotti dalla morte del celebre architetto nell'agosto del 1965 e ripresero, quindi, con un nuovo team di progetto per terminare nel 1967.
Dal 2014 il padiglione, espressione perfetta di quella «sintesi delle arti» teorizzata da Le Corbusier, è entrato nelle disponibilità della città di Zurigo che, dal 2019, lo aprirà tutti gli anni da maggio a novembre. La gestione dell'edificio è stata affidata al Museo für Gestaltung, la più importante istituzione di design e di arte visiva in Svizzera con la sua collezione di oltre 500mila opere, che gestisce altri due musei cittadini.
Il Pavillon ospiterà, di anno in anno, mostre temporanee, manifestazioni e workshop tesi a illustrare le opere e l’enorme influenza dell'architetto franco-svizzero nel mondo dell’arte. La mostra d'apertura si intitola «Mon univers» ed è dedicata a una delle tante passioni di Le Corbusier: il collezionismo. Gli oggetti esposti, provenienti dalla fondazione intitolata all’artista e da importanti collezioni private, creano un dialogo tematico con il padiglione e sono presentati insieme con alcuni filmati dell’architetto e a una mostra permanente di fotografie realizzate dal celebre René Burri tra il 1955 e il 1965, nel suo ruolo di cronista visivo di Le Corbusier.
Da non perdere per chi si trova a Zurigo, oltre al rinnovato Padiglione in riva al lago, sono anche gli eventi promossi nelle altre due sedi del museo: la mostra dedicata a Sebastião Salgado, fino al 23 giugno, e la permanente «Collection Highlights», dove si possono ammirare icone del design svizzero quali il pelapatate Rex, il coltellino dell’esercito svizzero firmato Victorinox e anche il celeberrimo font «Helvetica».

Informazioni utili 
Pavillon Le Corbusier, Höschgasse 8 - 8008 Zürich. Orari: da martedì a domenica, ore 12.00 – 18.00; giovedì, ore 12.00 – 20.00. Informazioni: tel. +41434464468, welcome@pavillon-le-corbusier.ch. Sito internet: www.pavillon-le-corbusier.ch.

giovedì 16 maggio 2019

«Planet or plastic?»: a Bologna una mostra sull’uso consapevole della plastica

È la chiesa che custodisce il famoso «Compianto del Cristo morto», uno dei più vigorosi ed espressivi capolavori della scultura italiana, modellato in terracotta nella seconda metà del Quattrocento da Niccolò dell’Arca. Ma, da qualche settimana, è anche la sede di una mostra che propone una riflessione sull’uso consapevole e responsabile della plastica nell’ambito di una campagna internazionale lanciata dal National Geographic, che vede tra i testimonial italiani Marco Mengoni. Fino al prossimo 22 settembre Santa Maria della Vita, complesso monumentale fondato nella seconda metà del XIII secolo dalla Confraternita dei Battuti o Flagellati e gestito dal 2006 da Genus Bononiae, ospita la rassegna «Planet or plastic?», curata da Marco Cattaneo, direttore di National Geographic Italia, e dalla redazione, con la collaborazione della scrittrice e documentarista Alessandra Viola.
Leggera, resistente, economica: la plastica ci ha cambiato la vita. Dall'elettronica alla sanità fino ai trasporti e al più semplice oggetto di consumo oggi non possiamo più farne a meno, ma quella prodotta dalla sua invenzione a oggi, riciclata solo in minima parte, si sta accumulando nell'ambiente. Da quel giorno del 1954 ne sono stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate, di cui 6,3 sono diventati rifiuti che possono rimanere nell'ambiente anche per 400 anni o più. Perché le materie plastiche non sono biodegradabili. La plastica che finisce in mare mette in pericolo la vita degli animali marini, si accumula in grandi isole galleggianti, e con il tempo si rompe in pezzi sempre più piccoli che vengono ingeriti da pesci, cetacei, uccelli.
L’esposizione accompagna lo spettatore in un coinvolgente percorso articolato in una quarantina di foto e due video-installazioni volte a provocare una riflessione sul materiale che è diventato ormai sinonimo di degrado e distruzione del pianeta. Otto sono i grandi temi trattati dalla rassegna: dalla quantità di plastica prodotta nel mondo all’impatto sull’ambiente e sulla catena alimentare, dal riuso all’educazione individuale e collettiva.
Il percorso della mostra alterna le fotografie dei grandi reporter di National Geographic all'originale lavoro artistico di Mandy Barker, che ha scelto di raccogliere rifiuti di plastica da tutto il mondo per un progetto fotografico di eccezionale valore estetico e al tempo stesso di grande impatto emotivo. All’interno della rassegna è possibile, inoltre, ammirare l’installazione «Iceberg», di Francesca Pasquali, artista nota per rivalutare oggetti d’uso comune, come delle semplici cannucce di plastica per farne delle vere e proprie opere d’arte.
Completa il percorso la proiezione del documentario «Punto di non ritorno» del regista premio Oscar Fisher Stevens e dell'attore Leonardo Di Caprio: un affascinante resoconto sui drammatici mutamenti che si verificano oggi in tutto il mondo a causa dei cambiamenti climatici. ormai sinonimo di degrado e distruzione del pianeta. Otto i grandi temi in mostra, dalla quantità di plastica prodotta nel mondo all’impatto sull’ambiente e sulla catena alimentare, dal riuso all’educazione individuale e collettiva.
La mostra, che è interamente prodotta con materiali riciclabili come cartone alveolare e carta da parati, offrirà anche l'occasione per partecipare a un grande progetto collettivo. Ai visitatori è richiesto di portare a Santa Maria della Vita e lasciare in un grande contenitore le loro bottiglie di plastica, una per ciascuno di loro. Quelle bottiglie troveranno nuova vita in un’installazione architettonica itinerante che sarà l'oggetto del concorso internazionale di idee «Plastic Monument – Architectural Design Competition», che vedrà in giuria architetti del calibro di Kengo Kuma, Carlo Ratti e Italo Rota. Il concorso, bandito da YAC - Young Architects Competitions, vedrà giovani architetti sfidarsi per realizzare un'installazione destinata a farsi ambasciatrice internazionale dei valori di tutela e sensibilità ambientale propri della mostra.
La rassegna bolognese si propone così di dimostrare quanto sia opportuno gestire la plastica in maniera opportuna nel rispetto del nostro pianeta.

Informazioni utili 
Planet or Plastic?. Chiesa Santa Maria della Vita, via Clavature, 8-10 – Bologna. Orari: martedì - domenica, ore 10.00 – 19.00. Ingresso: intero 10,00 euro, ridotto 5,00 euro. Informazioni: tel. 051.19936343 - esposizioni@genusbononiae.it. Sito web: www.genusbononiae.it. Fino al 22 settembre 2019

martedì 14 maggio 2019

«You are Leo», un viaggio tra reale e virtuale nella Milano di Leonardo

È partito ormai da qualche giorno il conto alla rovescia per la presentazione di «You Are Leo», il primo virtual reality guide street tour dedicato a Leonardo da Vinci (1452-1519), in occasione dell’anniversario dei cinquecento anni dalla morte. La preview, prevista per la mattinata del 23 maggio alla Fonderia Napoleonica Eugenia di Milano, permetterà di scoprire tutti i segreti di questa inedita passeggiata nel centro di Milano, che è al contempo un viaggio nel tempo.
Grazie ad avanzate tecnologie immersive, il visitatore potrà ripercorrere i passidel genio vinciano, partendo dalla Fabbrica del Duomo passando, poi, per Palazzo Reale, nella cui Corte Vecchia c’era lo studio dell’artista, per proseguire, quindi, verso la Pinacoteca Ambrosiana, dove è conservato il Codice Atlantico, e la Porta Vercellina, con la vista medioevale del Naviglio di San Gerolamo e della campagna. La visita virtuale, realizzata da Way – We Augment You con Artem, si concluderà al complesso di Santa Maria delle Grazie, dove è conservato uno dei capolavori di Leonardo: l’«Ultima cena».
In seguito a un’importante ricerca scientifica per una corretta ricostruzione filologica, che ha guardato alle fonti letterarie e iconografiche legate alla storia del Rinascimento milanese legata al Ducato di Ludovico il Moro, è stato creato un virtual tour che mostra Milano come poteva essere ammirata dal maestro della «Gioconda».
Ne è nato un viaggio turistico reale attraverso la città e virtuale attraverso il tempo: «Leonardo da Vinci -raccontano a tal proposito gli ideatori del percorso- ci ha donato i suoi occhi per mostrarci la sua Milano, mettendo le persone al centro di un'esperienza totalmente immersiva nella Milano di allora». Per questo motivo nella realizzazione del progetto si è guardato anche all'architettura del Quattrocento ancora visibile nel capoluogo lombardo: l’Ospedale Maggiore, il Castello di Porta Giovia, i resti dell’antico Palazzo Ducale, come pure alle miniature di Cristoforo de Predis.
Verrà compiuto concretamente un percorso a piedi di circa un miglio lombardo (1,8 km) della durata di un’ora e quaranta minuti, durante la quale il visitatore vedrà ricostruirsi e animarsi l’area intorno a sé, così come le opere d’arte connesse alla narrazione, che verranno visualizzate e raccontate in ambienti limbo a 360°.
Ciascun partecipante verrà munito di un avanzatissimo visore VR, all’interno del quale si attiveranno le esperienze virtuali.
Ad accompagnare il viaggio sarà un esperto storico dell’arte, che accoglierà e guiderà il visitatore nel percorso e gestirà l’attivazione delle esperienze VR.
A quel punto la guida reale lascerà il posto a quella virtuale che offrirà gli occhi di Leonardo per immergersi nei suoi luoghi e vedere ciò che lui stesso vedeva. Un viaggio, dunque, tra realtà e virtuale che farà diventare lo spettatore Leonardo, come recita lo stesso titolo del progetto: «You are Leo».

Informazioni utili 
www.youareleo.com. Biglietti: intero € 25,00, ridotto € 20,00 per over 65 e under 18, famiglia adulto € 15,00, famiglia bambino € 15,00, gratuito fino a 6 anni, turisti stranieri € 30,00 (visita in inglese). Prenotazione gruppi e scuole, Ad Artem, tel. 026597728, info@adartem.it.

domenica 12 maggio 2019

Guala Bicchieri, la Magna Charta e il suo lascito a Vercelli

La concessione della Magna Charta Libertatum, strappata al re Giovanni Senzaterra dai baroni del suo Regno il 15 giugno 1215 a Runnymede, è uno dei grandi momenti della storia inglese e non solo.
Questo documento, scritto in latino, è, infatti, la prima carta di natura giuridica che elenca i diritti fondamentali del popolo, o meglio di una parte di esso (alto clero, nobili, baroni e funzionari di Stato), sancendo che nessuno, sovrano compreso, è al di sopra della legge e che chiunque, secondo il principio dell’habeas corpus integrum, ha diritto a un processo equo.
Per queste ragioni la Magna Charta viene ancora oggi ritenuta da molti studiosi il primo documento fondamentale per il riconoscimento universale dei diritti del popolo, nonostante fosse inscritta nel quadro di una giurisprudenza di tipo feudale, nonché il documento che ha decretato la nascita del moderno stato di diritto o per certi versi della forma moderna della democrazia.
Pochi, invece, sanno o si ricordano che dietro a questo testo c’è anche una mano italiana, quella del cardinale Guala Bicchieri (Vercelli, 1150 circa – Roma, 1227), in quegli anni legato pontificio alla corte inglese, che fece da «supervisore» al documento ponendo il proprio sigillo nelle versioni revisionate del 1216 e del 1217.
Questa terza variante del documento, solitamente conservata nel Capitolo della Cattedrale di Hereford, è esposta per la prima volta in Italia all’Arca di San Marco a Vercelli, in occasione delle manifestazioni per gli ottocento anni dalla fondazione dell’Abbazia di Sant’Andrea, la cui prima pietra venne posata il 19 febbraio 1219 proprio dal cardinale Guala Bicchieri.
L’importanza delle missioni affidategli dal pontefice e il ruolo che giocò sullo scacchiere internazionale, non fecero, infatti, mai dimenticare al prelato piemontese, tra l’altro tutore del giovane re Enrico III durante la reggenza di Guglielmo il maresciallo, il legame con la sua terra natale.
Al mecenatismo di Guala Bicchieri, la cui famiglia faceva parte dell’operoso ceto dei cives legato alla Chiesa vercellese, si deve, infatti, anche il sostegno economico per la realizzazione di Sant’Andrea, uno dei primi esempi di costruzione gotica in Italia, che vide la sua inaugurazione nel 1227.
A questa storia guarda la mostra «La Magna Charta - Guala Bicchieri e il suo lascito», prima tappa di un progetto espositivo corale e diffuso che coinvolge più realtà vercellesi, dall’archivio fotografico del Museo Borgogna per arrivare all’Archivio di Stato, senza dimenticare il Museo Francesco Leone e il Museo del Tesoro del Duomo.
L’allestimento scenografico nello spazio dell’ex chiesa di San Marco mette in luce le caratteristiche e l’importanza della Magna Charta e del cardinale Guala Bicchieri, permettendo ai visitatori di conoscere la storia del prelato, e il legame con la città di Vercelli, in un viaggio temporale attraverso il Medioevo e i secoli successivi.
Accanto alla pergamena della Magna Charta, che rappresenta uno dei momenti più importanti della nostra storia, la mostra accoglie opere di eccezionale valore storico-artistico, che raccontano la sensibilità e il gusto di Guala Bicchieri, come il prezioso cofano e gli smalti di Limoges, provenienti dal Palazzo Madama - Museo civico d’arte antica di Torino, o il raffinato coltello eucaristico, usualmente custodito dalle Civiche raccolte di arte applicata – Castello Sforzesco di Milano.
A completare il percorso espositivo, ideato da Daniele De Luca, sono due ritratti del XVII e del XIX secolo raffiguranti il cardinale, concessi in prestito dall’Asl-Ospedale di Sant’Andrea di Vercelli, e un nucleo di documenti inediti: codici, fogli e pergamene della Biblioteca diocesana agnesiana, oltre a documenti della Biblioteca civica di Vercelli, tra cui uno dei due codici detti «dei Biscioni».
Un’occasione, dunque, quella promossa dalla Città di Vercelli, con il polo universitario cittadino e con la collaborazione della Fondazione Torino Musei, per riannodare i fili della propria storia e per conoscere le vicende di un suo illustre concittadino, quel Guala Bicchieri, intelligente giurista e appassionato cultore dell’arte, «la cui missione inglese – scrive Gianna Baucero nel libro «In viaggio con il cardinale»- ha i contorni di un affascinante romanzo medievale nel quale intrigo, ardore militare e lotte religiose si stagliano contro lo sfondo della corte d'Inghilterra».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Magna Charta, redazione del 2017. Prestito concesso dal Capitolo della Cattedrale di Hereford, Regno Unito. Fronte del documento; [fig. 2] Magna Charta, redazione del 2017. Prestito concesso dal Capitolo della Cattedrale di Hereford, Regno Unito. Retro del documento; [fig. 3] Cofano di Guala Bicchieri. Limoges, 1220-1225 circa. Rame traforato, sbalzato, cesellato, stampato, inciso e dorato, smalto champlevé, paste vitree, legno di noce verniciato, tela di canapa grigia. Torino, Palazzo Madama – Museo civico d’arte antica; [fig. 4] Cofano di Guala Bicchieri. Limoges, 1220-1225 circa. Rame traforato, sbalzato, cesellato, stampato, inciso e dorato, smalto champlevé, paste vitree, legno di noce verniciato, tela di canapa grigia. Torino, Palazzo Madama – Museo civico d’arte antica 

Informazioni utili 
«La Magna Charta: Guala Bicchieri e il suo lascito. L’Europa a Vercelli nel Duecento». Arca - ex chiesa di San Marco, piazza San Marco 1 – Vercelli. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-19.00. Ingresso: intero € 5,00; gratuito per giovani fino ai 24 anni, over 65, studenti universitari, Abbonamento Musei Piemonte, Abbonamento Musei Lombardia, Tesserati FAI, Soci Touring Club. Informazioni, prenotazioni e visite guidate gruppi: ATL Valsesia Vercelli, cell. 335.709.6337 o info@santandreavercelli.com. Sito internet: http://santandreavercelli.com. Fino al 9 giugno 2019

venerdì 10 maggio 2019

Un «tesoro ritrovato» al Musec di Lugano: in mostra nuove sculture della collezione Brignoni

Era il 1984 quando, grazie a una donazione di arte etnica di proprietà di Serge Brignoni, la Municipalità di Lugano decideva di inaugurare il Museo delle Culture.
La sede prescelta per ospitare questa nuova realtà fu l’Heleneum, una bella villa neoclassicheggiante in riva al lago, giusto all’inizio del sentiero che da Castagnola porta all’antico abitato di Gandria.
Cinque anni dopo, il 23 settembre 1989, il museo apriva i battenti.
Al suo interno si muovevano due differenti ideologie gestionali: Serge Brignoni, appassionato dell’art nègre con Giacometti e Miró, voleva dimostrare come le opere esposte fossero parte delle fonti che avevano rinnovato i linguaggi artistici del Novecento; i giovani studiosi che la Municipalità di Lugano aveva coinvolto nel progetto intendevano costruire principalmente un centro di competenza che si occupasse delle culture e delle società non occidentali.
I risultati dei primi anni di gestione della neonata organizzazione dimostrarono che ambedue le prospettive erano probabilmente troppo ambiziose per la realtà socio-culturale e per gli interessi locali di allora. Il museo finì per chiudere i battenti.
Solo nel 2005 la Municipalità di Lugano decise di ridare nuova linfa a quella realtà, tanto da trovargli due anni fa, nella primavera del 2017, anche una nuova sede negli spazi di Villa Malpensata.
Sin dalla riapertura il Museo delle Culture aveva un sogno: riunire l’intera collezione di Serge Brignoni. Delle originali ottocento opere che il collezionista aveva immaginato di donare a Lugano ne era arrivate 541 al momento dell’inaugurazione e altre 127 negli anni successivi.
Una parte abbastanza importante della raccolta era rimasta nella casa bernese di Brugnoni o era stata venduta o destinata altrove.
Il più importante dei nuclei non giunto a Lugano era stato donato, alla fine del 1998, al Kunstmuseum Bern che, a sua volta, poco tempo dopo, aveva deciso di depositarlo al Musée d’ethnographie di Neuchâtel.
Queste opere, in tutto venticinque, sono state da poco acquisite dal Museo delle Culture, dopo una trattativa con Berna iniziata dalla Fondazione Culture e Musei due anni fa, al tempo del passaggio del Musec a Villa Malpensata. Il Museo di Neuchâtel ha, infatti, riconosciuto Lugano come la sede migliore per ospitare anche quella parte della raccolta di Brignoni.
Le opere acquisite dal museo luganese diretto da Francesco Paolo Campione sono soprattutto sculture di legno provenienti dall’Indonesia, dall’Oceania e dall’Africa, che fanno sì che oggi il Musec abbia la più rilevante collezione al mondo di grandi sculture di legno del Borneo.
La nuova acquisizione è attualmente al centro di una mostra, aperta fino al prossimo 10 novembre, nello «Spazio Cielo» di Villa Malpensata nell’ambito delle «anteprime» organizzate in vista dell’inaugurazione ufficiale del “nuovo” Musec, fissata per l’aprile del 2019.
L’allestimento è particolare: le opere sono esposte come se fossero state appena disimballate e, per questo, accanto a ognuna di esse vi è una lunga descrizione. «Abbiamo immaginato -raccontano dal museo- il titolo della scheda per suggerire l’emozione di chi, dell’opera, percepisce prima di tutto un valore unitario. Il contenuto della scheda è stato, invece, immaginato per condurre per mano il visitatore alla scoperta di alcuni valori remoti dell’opera d’arte, quelli espressi dall’originario creatore e dal contesto culturale».
Tra i pezzi esposti è possibile ammirare una scultura balinese di legno nobile interamente rivestita di antiche monete forate al centro, raffigurante la divinità Sri Sedana, la cui immagine è associata alla ricchezza materiale e al sostentamento.
 Ci sono, poi, interessanti testimonianze di vari popoli locali: gli Abelam con una maschera di fibra vegetale, gli Asmat e i Toraja con la raffigurazione di un corpo finemente intarsiato con motivi geometrici a rilievo.
Merita, infine, una segnalazione il palo cerimoniale (sapundu) originario dell’isola del Borneo, realizzato nel XIX secolo, che veniva impiegato dal popolo Ngaju nelle feste di “seconda sepoltura” per immolare i bufali in onore dei defunti.
Un percorso, dunque, curioso e interessante quello proposto dal Musec, con l’intento anche di ricreare una gioia, quella di chi è riuscito a ottenere per Lugano questa raccolta e quella di Serge Brignoni, che con questi pezzi, espressioni creative di alto grado, è riuscito anche a trasmetterci le sue aspirazioni e gli ideali di un’intera generazione di artisti alla ricerca di una fuga dal realismo figurativo che aveva condizionato secoli di arte europea.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] cultura balinese di legno nobile interamente rivestita di antiche monete forate al centro. Raffigura la divinità Sri Sedana, la cui immagine è associata alla ricchezza materiale e al sostentamento. [Indonesia, Bali, XIX - inizio del XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 2] Parte alta di un palo cerimoniale (sapundu) originario dell’isola del Borneo. Era impiegato dal popolo Ngaju nelle feste di “seconda sepoltura” per immolare i bufali in onore dei defunti. [Indonesia, Borneo, XIX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 3] cultura raffigurante un antenato del popolo Asmat. [Indonesia, Papua, XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 4] Grande maschera di fibra vegetale intessuta, raffigurante un antenato del popolo Abelam. [Nuova Guinea, Maprik, XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano.

Informazioni utili 
«Un tesoro ritrovato. Nuove opere della Collezione Brignoni». MUSEC, Villa Malpensata, Riva Caccia 5 / Via Mazzini 5 – Lugano (Svizzera). Orari: tutti i giorni, dalle ore 14.00 alle ore 18.00, martedì chiuso. Ingresso: Chf 5.-. Informazioni: +41 (0)58 866 6964. Sito internet: https://www.mcl.lugano.ch/. Fino al 16 giugno 2019. Prorogata fino al 10 novembre 2019.

mercoledì 8 maggio 2019

58° Biennale di Venezia: l’arte e i nostri «tempi interessanti»

È una densa nube bianca che ammanta e quasi nasconde la facciata del Padiglione centrale ad accogliere il pubblico ai Giardini della Biennale per la cinquantottesima edizione dell’Esposizione internazionale d’arte. Il vapore che si innalza dall’edificio è un omaggio dell’italiana Lara Favaretto (Treviso, 1973), veneta di nascita e torinese d’adozione, ad Alighiero Boetti e alla sua scultura-autoritratto «Mi fuma il cervello» (1993), dalla cui testa uscivano fumi prodotti da un dispositivo elettrico-idraulico, sintomi del pensiero. Questa nebbia, simbolo della nostra precarietà sociale e culturale, è la migliore introduzione possibile al composito progetto ideato da Ralph Rugoff, direttore dal 2006 della Hayward Gallery di Londra, uno degli spazi pubblici più importanti del Regno Unito, per l’evento espositivo veneziano, in programma dall’11 maggio al 24 novembre.
La mostra, che si intitola «May You Live In Interesting Times» (una frase, questa, spesso citata negli ultimi ottant’anni da importanti autori e politici come sir Austen Chamberlain, Arthur C. Clarke e Hillary Clinton, che ne hanno parlato come di «un’antica maledizione cinese», in realtà mai esistita), si propone, infatti, di raccontare il nostro tempo, pieno di sfide e di instabilità di varia natura, facendo vestire all’artista i panni di una cronista sui generis, capace di raccontare la realtà con occhio attento e insieme poetico.
L’accelerazione dei cambiamenti climatici, le violenze sociali, etnico-religiose o razziali, le migrazioni, la rinascita di programmi nazionalistici in varie parti del mondo, le crescenti disuguaglianze economiche sono solo alcuni dei temi trattati dai settantanove artisti invitati alla Biennale, che hanno portato in Laguna due loro lavori, uno per i Giardini e uno per l’Arsenale, delineando così una sorta di guida eterogenea per leggere il nostro presente.
«Le opere esposte nelle due sedi, insieme all’atmosfera che evocano, sono piuttosto diverse -racconta Ralph Rugoff nella presentazione in catalogo-, non tanto perché si sviluppano attorno a principi o concetti separati, bensì perché mostrano aspetti diversi della pratica di ciascun artista», offrendo così al pubblico «la possibilità di interpretare un tipo di opera alla luce dell’altra».
Tra gli artisti che cambiano registro narrativo nelle due sedi espositive c’è, per esempio, Shilpa Gupta (Mumbai, India, 1976). Ai Giardini il giovane indiano presenta un cancello elettrico residenziale che sbatte violentemente contro la parete, fino ad incrinarla e romperla, facendoci così riflettere sui confini geografici e sulle loro funzioni arbitrarie e repressive. Mentre all’Arsenale propone la stessa meditazione con la poetica installazione sonora «For, in your tongue, I can not fit» (2017-2018), composta da cento microfoni appesi al soffitto, ognuno con un verso stampato su carta e infilato su altrettante punte di metallo, dai quali esce una sinfonia di voci registrate che declamano e intonano i versi di cento poeti incarcerati a causa della loro produzione o delle loro posizioni politiche.
La divisione tra «Proposta A» e «Proposta B» (con questi nomi Ralph Rugoff differenzia i due percorsi) dipende anche dalla dimensione delle opere esposte ed è la prima volta che viene proposta nella storia della Biennale.
L’Arsenale, cuore dell’industria veneziana navale fondata nel XXII secolo, ospita, nei suoi rustici e suggestivi spazi, i lavori più monumentali a partire da «Barca nostra», la chiacchierata installazione dello svizzero Christoph Büchel (Basilea, 1966) che porta in Laguna la testimonianza del più grande naufragio avvenuto nel mar Mediterraneo, quello del 18 aprile 2015, nel quale morirono tra le settecento e le mille persone, facendoci così riflettere sui fenomeni migratori contemporanei e sulle politiche collettive che causano questo tipo di tragedie.
Di dimensioni monumentali sono anche le due opere proposte da Yin Xiuzhen (Pechino, Repubblica Popolare Cinese, 1963), entrambe caratterizzate da una forte sensazione di pessimismo e apprensione: «Nowhere To Land» (2012), con due pneumatici di un jet avvolti in un tessuto nero e appesi al soffitto, e «Trojan» (2016-2017), con un enorme passeggero-pupazzo di stracci rannicchiato sul sedile di un aereo nella posizione indicata dalle istruzioni di sicurezza.
Tessuti di varie fogge vengono messi in mostra anche dall’inglese Ed Atkins (Oxford, Regno Unito, 1982) con il suo guardaroba di vecchi costumi teatrali, parte della complessa installazione «Old Food» (2017-2019), carica di storicità e malinconia, che evoca rovine, paesaggi sospesi, atmosfere medioevali, personaggi in lacrime e cibi immangiabili.
Di grande impatto scenografico è anche il progetto presentato da Tavares Strachan (Nassau, Bahamas, 1979) sulla figura di Robert Henry Lawrence Jr, un astronauta afro-americano che morì l’8 dicembre 1969, durante un incidente di volo. L’installazione è composta da una scultura luminosa e fluttuante raffigurante uno scheletro e da un breve necrologio formato da luci al neon, che svela il razzismo di cui l’astronauta è stato vittima.
L’inglese Jesse Darling riflette, invece, sulla precarietà del nostro tempo attraverso «March of the Valedictorians» (2016), un raggruppamento di sedie rosse delle scuole elementari, con gambe sottili e oblunghe, che riescono a stare in piedi solo sostenendosi reciprocamente. Le sedie sono al centro anche del progetto di Augustas Serapinas (Vilnius, Lituania, 1990), che si è ispirato a quelle dei bagnini sulla spiaggia per creare delle inedite sedute per i sorveglianti della mostra.
Lungo gli spazi dell’Arsenale attraggono, inoltre, l’attenzione del visitatore anche più disattento la scultura di ventisei metri in vetro e marmo, «Veins Aligned» (2018), di Otobong Nkanga (Kano, Nigeria, 1974), il mercato di Zhanna Kadyrova (Brovary, Ucraina, 1961), la grande ruota incatenata di Arthur Jafa (Tupelo, Usa, 1960), i coralli all’uncinetto (presenti anche ai Giardini) di Christine e Margaret Wertheim (Brisbane, Australia, 1958) e, per finire, il lavoro del duo formato da Sun Yuan (Pechino, 1972) e Peng Yu (Pechino, 1974): una poltrona romana in silicone bianco, alla quale è legato un tubo di gomma che sbatte producendo un grande frastuono.
I due artisti sono al centro anche della proposta più intrigante dei Giardini: «Can’t Help Myself» (2016), una bloody clean machine che pulisce senza sosta, con gesti meticolosi o con la rabbia di un animale in gabbia, il sangue (inchiostro rosso) sparso all’interno di un cubo ermetico dalle pareti in acrilico.
Scenografica è anche l’installazione proposta da Nabuqi (Ulanquab, Repubblica Popolare Cinese, 1984): «Do real think happen in moments of rationality?», riproduzione di una mucca in vetroresina a grandezza naturale, posizionata su un binario circolare in acciaio inossidabile, che si muove accompagnata da una colonna sonora di sample registrati nella natura, per strada e nei bar.
Ritornando all’inizio della mostra, all’ingresso del Padiglione centrale, Antoine Catala (Tolosa, Francia, 1975) propone un’interessante riflessione sul tema della comunicazione con la sua opera «It’s Over» (2019), nove pannelli ricoperti di silicone dai colori pastelli che si gonfiano e si sgonfiano ritmicamente facendo apparire messaggi come «Dont’ Worry» (Non ti preoccupare), «It’ s Over» (è finita), «Tutto va bene, hey, relax». Ryoji Ikeda (Gifu, Giappone, 1966), con il suo «Spectra III», un corridoio di tubi luminosi fluorescenti, manda, invece, in cortocircuito la nostra capacità di processare ciò che vediamo, generando paradossalmente una tabula rasa sensoriale.
Passeggiando tra le sale labirintiche del Padiglione centrale si possono, poi, incontrare anche i sacchi dell’immondizia di Andreas Lolis (Argirocastro, Albania, 1970), le sculture di frammenti corporei di Yu Li (Shangai, Repubblica Popolare Cinese, 1985), i cestini della spazzatura a forma di gabbia toracica di Andra Ursuta (Salonta, Romania, 1979), i pastori tedeschi in ceramica di Kemang Wa Lehulere (Città del Capo, Sudafrica, 1984), la placenta umana immersa in formalina di Alexandra Bircken (Colonia, Germania) e, per finire, il video «Leonardo’s Submarine» (2019) di Hito Steyerl (Monaco, Germania, 1966), nel quale il genio vinciano viene raccontato attraverso il prototipo di sottomarino inventato nel 1515 per difendere Venezia dagli attacchi dell’Impero ottomano.
Come consuetudine la Biennale d’arte apre anche molti spazi della città per accogliere due progetti speciali, da quello di Ludovica Carbotta (Torino, 1982) a Forte Marghera a quello sulle arti applicate del Victoria and Albert Museum di Londra, ventuno eventi collaterali, come la bella mostra di Baselitz alle Gallerie dell’Accademia, e alcuni dei novanta Padiglioni nazionali di questa edizione, che vede la partecipazione per la prima volta di Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan. Ricco è anche il cartellone di eventi proposto dalle varie sedi espositive cittadine, a partire dalla raffinata mostra di Alberto Burri alla Fondazione Cini o da quella, altrettanto interessante, di Jannis Kounellis alla Fondazione Prada.
Venezia diventa così, con questa nuova Biennale, uno straordinario palcoscenico per riflettere sul nostro presente, sui «tempi interessanti» che stiamo vivendo, carichi di problemi, ma sicuramente germinativi per chi si occupa d’arte.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Lara Favaretto, Thinking Head, 2018; [Fig. 2] Sun Yuan and Peng Yu, Dear, 2015; [fig. 3] Andreas Lolis, Untitled, 2018; [fig. 4] Tavares Strachan , Robert, 2018; [fig. 5] Shilpa Gupta, Untitled, 2009; [fig. 6] Nabuqi, Do real think happen in moments of rationality?, 2018; [fig. 7] Yin Xiuzhen , Trojan, 2016-2017; [fig. 8] Shilpa Gupta, For, In Your Tongue I Cannot Fit, 2017-2018; [fig. 9] Opera di Kemang Wa Lehulere al Padiglione centrale
 
Informazioni utili
«May You Live In Interesting Times». 58. Esposizione internazionale d'Arte. Giardini e Arsenale - Venezia.Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì, escluso il 13 maggio, il 2 novembre e il 18 novembre. Ingresso: intero plus € 35,00, ridotto plus € 25,00, intero regular € 25,00, ridotto regular € 22,00 o € 20,00, i costi degli altri biglietti sono disponibili sul sito internet. Catalogo ufficiale, catalogo breve e guida: Marsilio editore, Mestre. Informazioni: tel. 041.5218828. Sito internet: www.labiennale.org. Dall’11 maggio alo 24 novembre 2019.

«I love lego», un milione di mattoncini al Salone degli incanti di Trieste

Da oltre sessant'anni fanno giocare bambine e bambini di tutto il mondo, ma non smettono di affascinare gli adulti. Stiamo parlando dei mattoncini Lego, dichiarati nel 1999 «giocattoli del secolo» dalla rivista «Fortune», a cui Genertel, la compagnia diretta di Generali Italia nata nel 1994, dedica in questi giorni, con la complicità di Arthemisia e in occasione dei venticinque anni dalla sua fondazione, una mostra al Salone degli incanti di Trieste.
«I love lego» è il titolo della rassegna, che ha portato in Friuli Venezia Giulia oltre un milione di mattoncini, utilizzati per comporre città moderne e monumenti antichi per oltre cento metri quadrati di scenari.
Dalla metropoli contemporanea ideale alle avventure leggendarie dei pirati, dai paesaggi medievali agli splendori dell’Antica Roma, fino alla conquista dello spazio sono tanti i mondi in miniatura, progettati e costruiti a Trieste da RomaBrick, uno dei LUG (Lego® User Group) più antichi d’Europa, con il giocattolo ideato da Ole Kirk Kristiansen, falegname danese della piccola città di Billund, sede del più antico parco Legoland.
In altre parole, dietro ogni edificio, strada, mezzo o piazza che i visitatori del Salone degli incanti vedranno c’è un lavoro collettivo e assolutamente originale, frutto della collaborazione di un team che vanta al suo interno la presenza di numerosi architetti e ingegneri.
Ad accogliere il pubblico in mostra è un grande diorama ispirato alle avventure nei lontani mari caraibici, tra navi pirata, atolli di origine vulcanica e il leggendario kraken, un gigantesco cefalopode dai tentacoli lunghissimi, simili a un calamaro, costruito con oltre cinquemila pezzi.
Si approda, quindi, sullo spazio con la riproduzione di un insediamento minerario lunare, in cui l’uomo si avvale dell’aiuto di astronavi, droidi e macchinari per la ricerca di nuove risorse.
Sembra, questa, la riproposizione di tante scene avveniristiche viste al cinema e proprio alla «settima arte» si rifà il diorama «Nido d’aquila», ispirato alla saga «A Song of Ice and Fire» dello scrittore americano George R.R. Martin e alla pluripremiata serie televisiva «Game of Thrones».
Lo scenario, esposto per la prima volta al Lucca Comics and Games nel 2016 e in continua costruzione, occupa attualmente una superficie di quasi 3 metri quadrati e fa uso di oltre trecentomila pezzi, mentre la sommità dell’inespugnabile roccaforte, residenza della casata Arryn, raggiunge 1,80 metri di altezza.
Altro spettacolare diorama work in progress è quello dedicato alla città contemporanea, iniziato nel 2010 da Marcello Amalfitano, Marco Cancellieri, Antonio Cerretti e Manuel Montaldo. Con oltre 250mila mattoncini sono stati edificati stadi, tratte ferroviarie, zone verdi e aree ricreative, oltre al «BrickTheater», al «Legolad Hospital», al Museo archeologico e all’«Empire Brick Building», edificio ispirato al famoso grattacielo di New York.
Guardano, invece, al passato i diorami dedicati ai fori romani imperiali e a un castello di ispirazione medioevale. Il primo lavoro riproduce con 80mila mattoncini il Foro di Nerva o Transitorio, un insieme di monumentali piazze che costituivano il centro della città di Roma in epoca imperiale.
L’altro diorama, nato da un'idea di Marco Cancellieri e Jonathan Petrongari nel  2011, mette in mostra una città fortificata e un piccolo villaggio alle porte di Winterfell, la dimora della casata Stark nel profondo Nord. Ancora un omaggio, quindi, agli appassionati della serie televisiva «Game of Thrones».
Il progetto espositivo triestino prevede, inoltre, il coinvolgimento dei giovani artisti Fabio Ferrone Viola, Luigi Folliero, Irem Incedayi, Daniele Clementucci e Corrado Delfini con le loro opere a tema Lego: spunti pop e materiali di riciclo per raccontare come un gioco possa trasformarsi in arte.

Informazioni utili
I love Lego. Salone degli Incanti, Riva Nazario Sauro, 1 - Trieste. Orari: da martedì a venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (ultimo ingresso 45 minuti prima) |  aperture straordinarie: domenica 21 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; lunedì 22 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; giovedì 25 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; mercoledì 1° maggio, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; domenica 2 giugno, dalle ore 10.00 alle ore 19.00. Biglietti: intero € 11,00, ridotto € 9,00; sono previste altre forme di riduzione per i dipendenti e i clienti Genertel.  Informazioni: www.arthemisia.it , www.triestecultura.it. Fino al 30 giugno 2019  

lunedì 6 maggio 2019

I Ciardi, pittori di paesaggi e giardini

«Un buon ombrello bianco e il vero», una tavolozza di colori e la magia della natura a fare da compagna: non basta altro a Guglielmo Ciardi (Venezia, 1842-1917) quando, nei paesaggi campestri del suo amato Veneto, si dedica alla pittura.
Sono gli anni dell’arte en plein air, quelli degli stagni ridondanti di ninfee di Claude Monet, dalle alzaie dei macchiaioli e del verde dei parchi e dei giardini francesi che ammaliarono Pierre August Renoir, Camille Pisarro e tanti altri impressionisti.
Sono gli anni della «scuola del vero» veneziana, quella che ha un debito di riconoscenza nei confronti del paesaggista padovano Domenico Bresolin (1813 –1900), docente nella classe di «Vedute di paese e di mare» all’Accademia di belle arti di Venezia. È, infatti, questo artista, uno dei pionieri nell’uso del mezzo fotografico, che, nella tarda estate del 1865, invita alcuni dei suoi migliori allievi, tra cui Guglielmo Ciardi, a fare un’esperienza di immersione totalizzante nella pedemontana trevigiana, per studiare un paesaggio diverso da quello lagunare.
In quelle sei settimane di esercizio, Domenico Bresolin stimola i suoi giovani alunni a dipingere en plein air e a rapportarsi direttamente con la realtà naturale, superando così quei limiti che il «paesaggio di composizione», praticato all’interno delle aule, imponeva agli allievi.
Per Guglielmo Ciardi è la novità che segna una carriera. Qualche anno dopo, intorno al 1870, l’artista veneziano è ancora là, nella marca trevigiana, probabilmente lungo le rive del Sile, quando l’amico e collega Egisto Lancerotto (1847-1916) lo ritrae intento a dare forma e colori al paesaggio e alle sue variazioni di luce. Gugliemo Ciardi è giovane e barbuto. Sta seduto su un tronco d’albero davanti al suo cavalletto, su cui è montata una tela di circa cinquanta centimetri per settanta. Porta un berretto in testa e una camicia bianca su dei pantaloni da lavoro scuri. Studia i toni dell’atmosfera, il contrasto e l’integrazione tra le luci e le ombre.
Questo ritratto è stato scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «I Ciardi. Paesaggi e giardini» allestita al Palazzo Sarcinelli di Conegliano Veneto, per la curatela di Giandomenico Romanelli e l’organizzazione di Civita Tre Venezie.
Attraverso una sessantina di opere viene ripercorsa non solo la carriera di Guglielmo, ma anche quella dei figli Beppe (Venezia, 1875-Quinto di Treviso, 1932) ed Emma (Venezia, 1879-1933), protagonisti della stagione pittorica, italiana e internazionale, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, con la partecipazione alle Biennali di Venezia e a importanti appuntamenti espositivi tra Londra e Monaco, come ricordava Ugo Ojetti, nell’ottobre del 1909, sulle pagine del «Corriere della Sera».
Il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo pubblicato da Marsilio editore, prosegue, quindi, con un focus sugli esordi di Guglielmo, ancora influenzato dalla tradizione paesaggistica accademica, come si nota dal precocissimo e inedito dipinto «Paesaggio fuviale» del 1859.
Si possono, poi, ammirare una serie di straordinarie vedute campestri dei primi anni Settanta, spesso ambientate lungo quel suggestivo corso d’acqua di risorgiva che è il Sile, un territorio ancora incontaminato e lontano dalle seduzioni turistiche.
I prolungati soggiorni attorno a Quinto di Treviso, Fonzaso, Asiago e San Martino di Castrozza permettono a Guglielmo di instaurare un dialogo intimo con questi territori, protagonisti, anno dopo anno, delle sue opere paesaggistiche al pari della laguna veneziana (non trattata in questa mostra per esplicita scelta del curatore Romanelli).
Non mancano lungo il percorso espositivo paesaggi dolomitici, immagini dell’altipiano di Asiago e della Carnia, ritratti durante i lunghi soggiorni estivi in montagna. Tra le alte quote, Guglielmo si arrampica con il cavalletto portatile e la tavolozza per schizzare e dipingere in solitudine «dal vero», immerso nella natura e affascinato dall’ebbrezza della luce alpina, regalandoci quadri con verdi intensi che giocano con i toni argentini delle creste rocciose e gli azzurri dei cieli striati da nubi.
Guglielmo si dimostra, inoltre, sempre aggiornato sulla pittura europea di quegli anni: lo documentano i cicli degli anni Ottanta con stagni, ispirati alla pittura impressionista, o le suggestioni simboliste dell’ultima stagione, che risentono della fascinazione per la pittura nordica, apprezzata attraverso le esposizioni organizzate dalla Biennale di Venezia, di cui è l’artista tra i fondatori e alla quale partecipa per undici edizioni, fino al 1914.
La seconda sezione della mostra è dedicata, invece, al lavoro di Emma Ciardi, instancabile pittrice e viaggiatrice apprezzata a livello internazionale, cultrice della tradizione del vedutismo veneziano, capace di rielaborare le esperienze macchiaiole, impressioniste e tardo impressioniste con un’originale chiave espressiva.
L’artista riscopre la grande tradizione settecentesca di Francesco Guardi e delle sue «macchiette» (cioè le piccole scene collocate in parchi e giardini delle ville venete), riprendendone il brio e l’eleganza in chiave moderna. Le sue damine incipriate, i cavalieri danzanti in minuetti aggraziati, le carrozze, le livree dei valletti conquistano soprattutto il pubblico inglese.
Il paesaggio della Gran Bretagna, visitata e dipinta in compagnia del padre nel 1910, compare, poi, spesso nelle sue opere. Lungo il percorso espositivo si possono, per esempio, ammirare scorci del Tamigi e di Trafalgar Square, tutti giocati sui toni grigio-argentei tipici della City e del suo fiume, ma anche vivaci bozzetti «in cui -racconta Romanelli- passanti e mezzi di trasporto, come case e cieli, sono sagome di pasta colore che compongono lo spazio, elementi dinamici in cui la forma, perdendo definizione, si sfalda in vibrazioni di luce».
Il percorso si chiude con l’opera di Beppe Ciardi, presentata sotto una luce nuova che vuole mettere in evidenza la modernità e gli accenti simbolisti dell’autore, il quale, pur nella fedeltà alla poetica paterna, introduce elementi più tipicamente novecenteschi, frutto della fascinazione per l’opera di Arnold Böcklin, fino a dar spazio a una visione personale del paesaggio.
Nella sua pittura si afferma via via, oltre a una presenza pacata di animali e pastori, la centralità della figura umana che, grazie alla lezione di Ettore Tito, talora si emancipa fino a prevalere sul paesaggio.
Importante è per Beppe anche lo studio della pittura campestre di Giovanni Segantini, a cui lo introduce Vittore Grubicy de Dragon, pittore e noto promulgatore di concetti simbolisti e divisionisti. L’atmosfera cupa e brumosa delle opere dei primi anni lascia così spazio a toni più chiari e ricchi di luce; la pennellata si fa col tempo sempre più larga, avvolgente, gli impasti sempre più spessi e robusti.
Il percorso espositivo evidenzia così l’evoluzione del linguaggio di ciascuno dei tre autori, mettendo in evidenza peculiarità, convergenze e divergenze nel loro modo di trattare la pittura paesaggistica. Come osserva il curatore Giandomenico Romanelli «la ricchezza della loro scelta […] si misura nelle radicali novità che essi (e soprattutto Guglielmo) sanno introdurre in questo genere pittorico: la luce declinata in tutte le possibili atmosfere, la presenza viva e palpitante della natura nelle piante, nei campi, nelle messi, nelle distese di eriche; la maestosità spesso scabra delle masse montuose, colte nella luce azzurra dell’alba o in quella struggente e aranciata dei tramonti, i filari, i covoni, i corsi d’acqua».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Guglielmo Ciardi tra i figli Emma e Beppe; [Fig. 2] Gugliemo Ciardi, «Mattino alpestre (Sorapis)», 1894 circa. Olio su tela, 150 X 300 cm Venezia, Istituto Veneto di SS.LL.AA. – V.I.C.; [fig. 3] Guglielmo Ciardi, «Lungo il Sile», Anni Ottanta dell’Ottocento. Olio su tela, 105 X 81 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 4] Emma Ciardi, «Dame mascherate», 1909 circa. Olio su tela, 44,5 X 51,3 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 5] Emma Ciardi, «Oxford Street», 1908. Olio su cartone, 20 X 27cm Padova, Courtesy Galleria Arte Cesaro; [fig. 6] Beppe Ciardi, «Zattera», 1925 ca.. Olio su tela, 64 x 92 cm. Pordenone, Collezione privata; [fig. 7] Beppe Ciardi, «Il bagno o Ragazzi sul fiume», 1899. Olio su tavola, 36 x 56 cm. Voghera, Collezione privata. © Saporetti, Milano

Informazioni utili 
«I Ciardi. Paesaggi e giardini». Palazzo Sarcinelli, via XX Settembre, 132 - Conegliano (Treviso). Orari: martedì – giovedì, ore 9.00 – 18.00; venerdì – domenica, ore 10.00 -19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 8,50 (studenti, adulti over 65 anni, convenzioni, gruppi con almeno 10 unità, residenti nel Comune di Conegliano nei giorni feriali) o € 7,00 (gruppi da 10 a 25 persone), ridotto scuole € 4,00, biglietto famiglia € 25,00. Informazioni: tel. 0438.1932123. Sito internet: www.mostraciardi.it. Fino al 23 giugno 2019

sabato 4 maggio 2019

«Segni esemplari», Bodoni e il suo «Manuale tipografico»

«Io vivo sempre segregato dal gran mondo, e procuro ultimare il mio Manuale tipografico che da quarant’anni mi tiene occupatissimo, e sia certo che Ella ne avrà copia qualora sarà a laudevol termine ridotto». Era il 28 dicembre 1800 quando Giambattista Bodoni (Saluzzo, 26 febbraio 1740 – Parma, 30 novembre 1813) scriveva ad Andrés Franco Castellanos promettendogli una copia del suo «Manuale tipografico».
L’opera avrebbe in realtà visto la luce solo una ventina di anni dopo, nel 1818, pubblicata postuma dalla vedova dello studioso, Margherita, con l’intento di portare a termine quello che era stato un progetto lungamente pensato, e infine, avviato dal marito.
Al suo interno è contenuta una collezione di 665 alfabeti diversi e una serie di circa 1300 fregi, oltre a una prefazione nella quale Giambattista Bodoni espone alcuni criteri di metodo legati al suo modo di operare: «tanto più bello sarà un carattere -scrive per esempio-quanto più avrà regolarità, nettezza, buon gusto e grazia».
Questa raccolta, della quale si è appena festeggiato il bicentenario dalla pubblicazione, è al centro della mostra «Segni esemplari», promossa dal Museo bodoniano al Palazzo della Pilotta di Parma, con la curatela di Silvana Amato, che si è avvalsa per l’occasione dell’ausilio di Grazia Maria De Rubeis e Caterina Silva.
Il «Manuale tipografico» del 1818, a dispetto del titolo, non appartiene né all’ambito dei compendi né a quello dei campionari. Ci troviamo piuttosto di fronte a un orgoglioso e monumentale riepilogo con cui Giambattista Bodoni voleva mettere nero su bianco, fissando nel tempo, la sua attività. L’incisore e tipografo di Saluzzo non era, in realtà, nuovo alla pubblicazione di una raccolta di caratteri. Già nel 1788 aveva, infatti, dato alle stampe un «Manuale tipografico», in questo caso privo di prefazione e di testo esplicativo.
Evidentemente, lo studioso -racconta Silvana Amato- aveva mutuato il termine dal piccolo manuale tecnico di Pierre-Simon Fournier, il «Manuel typographique» del 1764, ma i «due volumi esprimevano, seppur con lo stesso titolo, due oggetti con funzione diversa. Quello di Fournier, in effetti, era un vero manuale nel senso di strumento divulgativo di descrizione degli elementi essenziali di una pratica complessa, dall’incisione dei punzoni all’impressione delle matrici e alla fusione dei caratteri mobili. Quello di Bodoni era, invece, un campionario di caratteri e ornamenti da lui realizzati».
Accanto ai due volumi di Giambattista Bodoni, ai suoi punzoni, alle sue matrici e agli studi manoscritti, la mostra alla Pilotta presenta anche alcuni manuali e campionari di caratteri realizzati da altri autori prima e dopo il 1818, con l’intento di raccontare in maniera più che esaustiva la scrittura alfabetica nella sua forma tipografica.
L’esposizione, il cui progetto grafico è curato da Rosanna Lama e Nicolò Mingolini, si apre, poi, anche al contemporaneo, presentando il lavoro di un selezionato gruppo di grafici internazionali. Si tratta di «testimonianze visive– racconta ancora Silvana Amato- che ci permettono di rintracciare, attraverso l’evoluzione della forma dei caratteri, lo svolgersi stesso della nostra storia, e di sfruttare l’occasione per avviare nuovi discorsi critici intorno al tema della scrittura come strumento di conoscenza».
Un omaggio, dunque, di grande interesse quello che il Palazzo della Pilotta fa a Giambattista Bodoni, uno dei più grandi innovatori della stampa tipografica, pioniere, insieme al collega francese Didot, dei cosiddetti caratteri tipografici moderni, e narratore con il suo «Manuale» della storia e della tecnica di un'arte antica, fondamentale per lo sviluppo dell'editoria.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Minuta autografa di lettera del 29 dicembre 1800 ad Andrés Franco Castellanos; [fig. 2] Lettera theta dell’alfabeto greco che appartiene ai cosiddetti caratteri “esotici” disegnati da Giambattista Bodoni è tratta dalla pagina 42 del secondo volume del «Manuale tipografico» del 1818; [fig. 3] Manifesto realizzato per la mostra dal grafico inglese Patrick Thomas che illustra su un muro uno dei primi principi acquisiti quando era studente: la crenatura (ovvero lo spazio bianco tra le lettere) si controlla meglio se il testo è rovesciato

Informazioni utili 
«Segni esemplari». Palazzo della Pilotta - Galleria Petitot della Biblioteca Palatina, - Parma. Orari: dal lunedì al giovedì, dalle ore 9.00 alle ore 18.00, il venerdì e il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00. Ingresso: € 3,00. Informazioni: info@museobodoniano. Sito internet: www.museobodoniano.it. Fino al 18 maggio 2019