ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 23 dicembre 2019

Ritorno in Romagna per «La Madonna del Patrocinio» di Albrecht Dürer

È un Natale speciale quello di Bagnacavallo, piccolo centro urbano in provincia di Ravenna, che ha appena visto tornare negli spazi del suo Museo civico, situato nell’ex convento delle suore Clarisse Cappuccine di San Girolamo, un’opera che fa parte della sua storia. Stiamo parlando della tavola «La Madonna del Patrocinio», detta anche «Madonna di Bagnacavallo», probabilmente realizzata da Albrecht Dürer (Norimberga, 21 maggio 1471 – Norimberga, 6 aprile 1528) nei primi decenni del Cinquecento, al tempo del suo secondo viaggio in Italia, quello dal 1505 al 1507, che lo vide raggiungere Venezia e Bologna, anche se alcuni studiosi, tra i quali il tedesco Fedya Anzelewsky e l’italiano Vittorio Sgarbi, ne anticipano la realizzazione alla fine del Quattrocento.
L’opera -attualmente conservata in provincia di Parma, alla Fondazione Magnani Rocca di Traversetolo- manca in città da cinquant’anni, ovvero dall’inizio del 1969, quando le monache romagnole la vendettero al collezionista e mecenate Luigi Magnani, incapaci di far fronte all’improvviso interesse mediatico e della comunità scientifica per quel prezioso olio, che, a memoria d’uomo, era sempre stato davanti ai loro occhi come anonimo oggetto di devozione popolare, racchiuso nel coretto del convento e visibile attraverso una grata.
Ad accendere i riflettori sul quadro era stato, solo sei anni prima, il sacerdote e studioso Antonio Savioli, che nel 1961 ne aveva dato segnalazione sul «Bollettino diocesano di Faenza», provocando sin da subito l’estasiata sorpresa di Roberto Longhi, che, basandosi su una «pallida» fotografia, l’aveva attribuito con certezza ad Albrecht Dürer.
Lo studioso aveva, quindi, pubblicato nel luglio 1961 l’immagine della tavola sulla rivista «Paragone», aggiungendo alcune osservazioni sui restauri di cui era stata fatto oggetto, prova delle sue antiche origini: «l’uno, forse inteso ad ovviare gli effetti di una vecchia bruciatura, comprende -scrive il Longhi- un’intera ciocca della chioma ricadente sulla destra del volto della Vergine e, per la notevole perizia della esecuzione, mostra di essere stato condotto da mano ‘filologicamente’ addestrata e pertanto, direi, non prima del secolo dei ‘lumi’; l’altro, più che un vero restauro, è un’aggiunta che, provvedendo a mascherare certe parti del Bimbo, mostra di essere stata indotta da scrupoli moralistici post-tridentini e infatti, anche tecnicamente, denota il tardo Cinquecento».
Indagini di archivio hanno appurato che l’opera, uno dei pochi dipinti di Dürer presenti in Italia, faceva parte dei beni del convento sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1774, e che fu salvata dalle espropriazioni napoleoniche grazie a una mediocre copia di epoca neoclassica, che le evitò così di fare -ricorda Raffaella Zama nel suo articolo del 2018 per «Romagna arte e storia»- la fine della pala dell’altare maggiore della vicina chiesa di Cotignola, con «Le Sante Chiara e Caterina» del Guercino, confiscata e confluita nel 1811 a Brera.
La mostra al Museo civico di Bagnacavallo, visibile fino al prossimo 2 febbraio, vuole, dunque, colmare una sorta di «debito» rimasto aperto nei confronti della cittadinanza, che mai vide «La Madonna del Patrocinio» prima della sua partenza cinquant’anni fa per Parma, ma vuole anche essere l’occasione per fare il punto sulle ricerche storico-artistiche e sull’intricata vicenda conservativa della tavola.
Come arrivò un dipinto di tale importanza tra le mura di un piccolo convento di provincia? Quali elementi concreti avvalorano la paternità düreriana dell’opera e ne rivelano una qualità tale da configurarla come una prova di assoluto valore dell’artista? Che cosa fece scoprire la «giusta pulitura» della tavola, realizzata nel 1970 dall’Istituto centrale del restauro? Sono queste alcune delle domande alle quali si propone di rispondere la rassegna romagnola, parte integrante di un progetto culturale ben più ampio: la grande mostra sull’attività grafica di Albrecht Dürer, «Il privilegio dell’inquietudine», curata da Diego Galizzi con Patrizia Foglia, e in programma fino al prossimo 19 gennaio al Museo civico di Bagnacavallo, uno dei centri più attivi in Italia per quanto riguarda lo studio, la valorizzazione e la conservazione del linguaggio incisorio, con la sua collezione di oltre tredicimila stampe.
La tavola düreriana esposta nell’ex convento delle suore Clarisse Cappuccine di San Girolamo presenta un’atmosfera intima e tenera. La Vergine è ritratta seduta e tiene sulle sue ginocchia il Bambino. Tra i due c’è un tenero gioco di gesti e di sguardi: la mano sinistra del Piccolo tocca quella della Madre, l’altra tiene un simbolico rametto di fragole. Alcuni particolari, come la riccia e lucente «chioma a fili brillanti di rame» di Maria e il panneggio del suo velo con la piega pesante che compie sulla testa, dimostrano un gusto tipicamente nordico, che sembra far proprio anche la lezione dell’arte rinascimentale italiana, soprattutto l’insegnamento coloristico e l’impaginazione scenica di Giovanni Bellini, ammirato dall’artista nel primo viaggio in Italia, risalente al 1494-1495.
Più che come pittore, Dürer è stato, però, apprezzato come incisore. Erasmo da Rotterdam, nel suo «Dialogus De Recta Latini Graecique Sermonis Pronunciatione» del 1528, affermò, infatti, che il maestro di Norimberga aveva addirittura superato Apelle, l’antico pittore greco esempio di artista proverbialmente inarrivabile, perché non aveva bisogno del colore per creare, ma gli bastavano delle linee nere.
La perizia incisoria del maestro norimberghese viene raccontata a Bagnacavallo attraverso centoventi opere, provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private italiane, tra le quali sono visibili capolavori come il ciclo dell’«Apocalisse», il «Sant’Eustachio», il «San Girolamo nello studio», «Il Cavaliere la morte e il diavolo» e «Melanconia», «un’opera pregna di intellettualismo fin quasi all’esoterismo, che -spiega Diego Galizzi- cela un vero e proprio autoritratto spirituale dell’artista, giunto alla melanconica presa di coscienza che un approccio razionale all’arte e al mondo non può che dare risposte insufficienti».
Attraverso dieci sezioni tematiche il visitatore si trova immerso nel visionario sogno di perfezione di un ragazzo, figlio di un umile orafo di Norimberga, che ha voluto inseguire il suo desiderio di appropriarsi dei segreti della rappresentazione della bellezza. Conosce le tante anime di Dürer, che la critica ha definito ora un umanista, ora un gotico, ora un artigiano, ora un teorico e che, come tutti i grandi artisti, portava in sé la contraddizione di avere una personalità sfaccettata, continuamente ansiosa di ricercare e produrre cose nuove. Lo riconosceva lo stesso Max Klinger: «Un’opera grafica di Dürer non si riferisce né a un quadro replicato, né traduce sensazioni di colore in forme estranee alla tecnica adottata. È compiuta in se stessa e definitiva, priva solo di quanto l’idea, eternamente inarrivabile, rifiuta alle possibilità di ogni artista».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Albrecht Dürer, Madonna del Patrocinio, s.d.. Olio su tavola, cm 47,8 x 36,5. Traversetolo (Parma), Fondazione Magnani-Rocca; [fog. 2] Albrecht Dürer, La Natività, 1504, bulino, mm. 183x118 inciso, 187x125 foglio, esemplare di unico stato. Collezione Museo civico delle Cappuccine di Bagnacavallo; [fig.3] Albrecht Dürer, Melencolia I (La Melanconia), 1514, bulino, mm. 240x186, esemplare di II stato su due. Collezione Musei civici di Pavia(Credit Musei civici di Pavia); [fig. 4] Albrecht Dürer, Sant’Eustachio, 1501 ca., bulino, mm. 360x260, esemplare di unico stato.Collezione Musei civici di Novara; [fog. 5] Albrecht Dürer, San Girolamo nello studio, 1514, bulino, mm. 245x187 inciso, 360x255 foglio, esemplare di unico stato. Collezione Museo civico delle Cappuccine di Bagnacavallo

Informazioni utili
Il previlegio dell’inquietudine (fino al 19 gennaio 2020) e La Madonna del Patrocinio (fino al 2 febbraio 2020) Museo Civico delle Cappuccine, via Vittorio Veneto 1/a Bagnacavallo (Ravenna). Orari: martedì e mercoledì, ore 15.00-18.00; giovedì, ore 10.00-12.00 e ore 15.00-18.00; da venerdì a domenica, ore 10.00-12.00 e ore 15.00-19.00; chiusura il lunedì e i post-festivi. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 0545.280911, centroculturale@comune.bagnacavallo.ra.it. Sito internet: www.museocivicobagnacavallo.it.

venerdì 20 dicembre 2019

Bologna, a Santa Maria della Vita il presepio di Wolfango

Ci sono la filosofa greca Ipazia e le sfogline bolognesi, un santo come papa Giovanni XXIII e la regina delle pornostar Moana Pozzi, Il pacifico Gandhi e il ribelle Giuseppe Garibaldi, Ronald Regan e Michail Gorbaciov ai tempi della Guerra fredda, Charlie Chaplin nei panni del comico Charlot e Giulietta Masina nelle vesti di un clown triste per il film «La strada»: gioca sugli opposti il Presepio di Wolfango, un bizzarro, sorprendente impasto di sacro e profano, presente e passato, storia e quotidiano, immaginario e reale, con cui la città di Bologna festeggia, negli spazi della chiesa di Santa Maria della Vita, il Natale 2019.
Quella a cui ha dato vita l’artista emiliano, che si è interessato a lungo all’illustrazione di classici della letteratura come la «Divina Commedia» (1972), «Pinocchio» (1980), «Alice nel paese delle meraviglie» (2012) e «Cappuccetto rosso» (2016), è una personalissima Corte dei miracoli, «un’ideale ed enorme piazza della vita, con la sua serietà e banalità, con la sua santità e la sua drammaticità […] in cui si intersecano -per usare le parole del cardinale Matteo Zuppi, nel catalogo pubblicato da Minerva edizioni- la tradizione sacra, le vicende personali dell’autore, la storia civica ed ecclesiale di Bologna e dell’Italia e, infine, l’attualità mondiale, con volti noti e conosciuti dell’arte e della politica».
Non ci sono gerarchie e differenze in questo racconto perché la storia di Gesù che si fa uomo tra gli uomini riguarda tutti e tutti interessa. Ecco così che un personaggio di fantasia come Mickey Mouse può stare vicino a Barack Obama, l’ex presidente degli Stati Uniti, o a Carlo V d’Asburgo.
Con loro ad animare il presepio di Wolfango ci sono anche personaggi cari a Bologna come lo storico dell’arte (e politico) Eugenio Riccòmini, padre Olinto Marella, il fotografo Nino Migliori e l’ex rettore dell’Alma Mater Fabio Roversi-Monaco, raffigurato nei panni del giurista che emanò il «Liber Paradisus».
In tutto le statuine in mostra fino al prossimo 16 gennaio, per la curatela di Alighiera Peretti Poggi (la figlia dell’artista), sono duecento e sono plasmate in terracotta, accostando all’iconografia religiosa classica -dai Magi ai pastori, dalla stella cometa al bue e all’asinello – luoghi, simboli, oggetti e personaggi che intrecciano la storia con la S maiuscola alla dimensione intima e familiare di Wolfango, con l’immancabile sagoma della Madonna di San Luca che si staglia nella neve.
Non poteva mancare in questo gruppo di personaggi San Francesco, autore del primo presepio, quello del 1223, al quale Wolfango disse di essersi ispirato in quanto ne aveva «messo in pratica il dettato», in una sorta di manifesto tridimensionale che invita all’inclusione, all’accoglienza e alla bellezza della diversità.
L’artista, che era solito definirsi «l’agnostico a cui piace il presepio», iniziò a costruire le statuine a partire dal 1964, anno di nascita della figlia Alighiera, e ha continuato a farlo, anno dopo anno, per oltre cinquant’anni, con l’obiettivo di rendere magiche le feste della sua famiglia, con un’opera che fosse un tenero omaggio alla tradizione e alla ritualità del Natale e al tempo stesso la traccia di una memoria, di un filo rosso in grado di legare tra loro tutte le cose.
Quello di Wolfango è, dunque, un presepe che racconta «la vita, soprattutto quella di Bologna e dei suoi abitanti, più o meno illustri, più o meno famosi. Maestri, insegnanti, medici, artigiani, imprenditori, professori, sacerdoti, politici, persone care, familiari: tutti sono entrati a far parte, di anno in anno, della grande opera», racconta Alighiera Peretti Poggi. «Era una felicità -spiega ancora la figlia dell’artista- trovarsi in mezzo a queste statue, spesso alte come me, che erano amici, giganti buoni, compagni di avventure, personaggi animati che mi proteggevano ed ancora oggi li vivo così. Tutte le statue hanno un nome e ci aiutano a ricordare la storia, a riviverla, a conoscerla».
Alla mostra si accompagna un bel catalogo di Minerva edizioni di oltre quattrocento pagine, che uniscono alle fotografie delle duecento statue del presepio le schede scritte negli anni dallo stesso Wolfango e i disegni preparatori. Questi stessi disegni sono in mostra al piano superiore del complesso monumentale di Santa Maria della Vita, insieme con l’opera «La cornamusa nel muschio»: «un acrilico su tela del 2006, nel quale -si legge nella nota di presentazione- Wolfango dipinge e riporta alla memoria le sue statuine avvolte nel muschio, che la guerra distrusse», quelle amate statuine che gli regalò lo zio Peppino, uno dei tanti personaggi del suo presepio, domestico e mondano allo stesso tempo.

Informazioni utili
Il presepio di Wolfango. Chiesa di Santa Maria della Vita, via Clavature, 8-1 – Bologna. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 19.00; martedì 24 dicembre e 31 dicembre, ore 10.00-16.00; aperto anche il 25, 26 dicembre e il 1° e 6 gennaio. Ingresso libero. Sito internet: www.genusbononiae.it. Ufficio stampa: ufficiostampa@minervaedizioni.com | patrizia.semeraro@mec-partners.it | luciana.apicella@mec-partners.it. Fino al 16 gennaio 2020.

giovedì 19 dicembre 2019

Milano, da Palazzo Marino al Museo Diocesano: quadri come strenne di Natale

Puntuali, con l’avvicinarsi del Natale, tornano le mostre dedicate a un solo quadro: un ospite da ammirare con attenzione scrupolosa, come un diamante prezioso in uno scrigno.
A Milano c’è l’imbarazzo della scelta. A Palazzo Marino, in Sala Alessi, sono arrivati dalla Pinacoteca civica di San Gimignano due grandi tondi (del diametro di 162 centimetri con la cornice e di 110 senza), che compongono «L’Annunciazione» (nella seconda foto) realizzata da Filippino Lippi tra il 1483 e il 1484, a 26 anni, quando era allievo di Sandro Botticelli ed era già impegnato in importanti committenze come quella della Cappella Brancacci a Firenze.
Le due opere, raffiguranti «L’Angelo annunziante» e «L’Annunziata» (nella prima foto), furono commissionate all’artista dal Comune per ornare la Sala del Municipio. Sei anni dopo, nel 1490, i Priori e i Capitani di San Gimignano vollero dotare i dipinti di due preziose cornici, intagliate, dipinte e dorate, eseguite da un anonimo artigiano, forse locale, che gli studiosi identificano con Antonio da Colle, attivo nella città toscana nella seconda metà del Quattrocento.
All’iniziativa natalizia di Palazzo Marino, in programma fino al 12 gennaio, si uniscono i Municipi 2, 3, 7 e 8 del Comune di Milano, dove sarà possibile ammirare due importanti opere delle collezioni civiche del Castello Sforzesco: «L’Adorazione dei pastori», attribuita dalla bottega di Paolo Caliari detto il Veronese, in mostra prima villa Scheibler (fino al 18 dicembre) e poi all’Emeroteca di via Cimarosa (dal 21 dicembre al 12 gennaio), e «L’Annunciazione» di Panfilo Nuvolone, allestita prima alla Cascina Turro (fino al 18 dicembre) e quindi all’Auditorium Cerri (dal 21 dicembre al 12 gennaio).
La prima tela mostra il momento in cui i pastori, avvertiti dagli angeli, si recano a rendere omaggio a Gesù, appena nato in una capanna, addossata a un edificio monumentale.
Questo tipo di composizione è in linea con quanto elaborato dal maestro veneto nella fase tarda della sua attività: la struttura del dipinto è allargata e le figure sono affondate in più marcate zone d’ombra, come si può rilevare anche nell’«Adorazione dei pastori» conservata nelle raccolte del Castello di Praga. La struttura dello sfondo è semplificata rispetto ai più tipici dipinti del Veronese, tuttavia la critica ritiene ipotizzabile un suo intervento diretto. 
«L’Annunciazione» di Panfilo Nuvolone è, invece, un chiaro esempio della scuola di pittura lombarda. Per molto tempo fu ascritta a Camillo o a Giulio Cesare Procaccini, ma oggi trova il suo punto di riferimento nella fase tarda e meno conosciuta dell’artista, la cui ultima opera, la pala di San Giuseppe per l’oratorio di Grumello, firmata e datata, costituisce un punto di riferimento per questa tela come mostrano le affinità con le figure angeliche e le impalpabili velature dei bianchi con cui è reso il bouquet di gigli. Nella rappresentazione dei fiori è evidente la celebrata esperienza di Nuvolone come pittore di nature morte.
Mentre al Museo diocesano, nei Chiostri di Sant’Eustorgio, i riflettori sono puntati su Artemisia Gentileschi e la sua «Adorazione dei magi» (nella terza e nella quarta foto), concessa eccezionalmente dalla Diocesi di Pozzuoli, per la cui Cattedrale fu eseguita tra il 1636 e il 1637.
Il dipinto è parte di un ciclo commissionato dal vescovo spagnolo Martín de Léon y Cárdenas dopo il 1631, anno dell’eruzione del Vesuvio che risparmiò la città puteolana.
Ad Artemisia Gentileschi furono affidate ben tre tele (oltre all’«Adorazione dei Magi», i «Santi Procolo e Nicea» e «San Gennaro nell’anfiteatro») che eseguì fra il 1635 e il 1637, anno della sua partenza per l’Inghilterra. In questo dipinto la pittrice elabora la lezione caravaggesca alla luce dei nuovi contatti con gli artisti napoletani: la sua predilezione per una gamma cromatica essenziale, risolta sulle variazioni dei toni marroni, rossi, blu e gialli si associa alla straordinaria attenzione per la verità delle cose, come si nota, ad esempio, nello splendido oggetto d’argento portato dal re mago in ginocchio e ad una attenta e scenografica resa degli effetti luce-ombra.

La figura della Vergine è descritta con grande dignità, mentre con dolcezza porge il bambino alla venerazione dei Magi, sotto gli occhi di San Giuseppe che, secondo la tradizione iconografica dell’episodio evangelico, resta defilato sullo sfondo.
La composizione è dominata dalle imponenti figure dei Magi in primo piano, riccamente abbigliati, e alla moda con manti di stoffe preziose (la figura del re moro appare rovinata in seguito all’incendio che colpì la cattedrale nel 1964).
La solennità dell’evento epifanico e dei gesti di riverenza e rispetto dei Magi si coniugano all’atmosfera di affettuosa intimità che si crea grazie ad un sapiente gioco di sguardi.
Milano offre così molteplici occasioni ai suoi cittadini e ai turisti per riflettere sul mistero della nascita di Gesù, Verbo che si fa carne per amore del mondo e degli uomini.

Informazioni utili
L'Annunciazione di Filippino Lippi. Palazzo Marino, Sala Alessi, piazza della Scala, 2 - Milano. Orari: tutti i giorni dalle ore 9.30 alle ore 20.00 (ultimo ingresso alle ore 19.30), giovedì dalle ore 9.30 alle ore 22.30 (ultimo ingresso alle ore 22.00); chiusura anticipata alle ore 18 il 24 e 31 dicembre 2019 (ultimo ingresso alle ore 17.30) | Festività del 25 e 26 dicembre, del 1° e 6 gennaio, dalle ore 9.30 alle ore 20.00 (ultimo ingresso alle ore 19.30). Ingresso libero. Informazioni: tel. 800.167.619. Sito: www.comune.milano.it. Fino al 16 gennaio 2020.

 L’adorazione dei Magi di Artemisia Gentileschi. Museo Diocesano Carlo Maria Martini, ingresso da piazza Sant’Eustorgio, 3 – Milano. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; chiuso il lunedì (eccetto festivi); la biglietteria chiude alle ore 17.30. Biglietto Museo Diocesano Carlo Maria Martini: intero € 8,00; ridotto e gruppi € 6,00; scuole e oratori € 4,00. Biglietti cumulativi (Museo Diocesano, Museo della Basilica di Sant’Eustorgio, Cappella Portinari, Cimitero paleocristiano): intero € 10,00; ridotto e gruppi € 8,00; scuole e oratori € 6,00. Catalogo: Silvana Editoriale. Informazioni: tel. 02.89420019; 02 89402671; info.biglietteria@museodiocesano.it. Fino al 26 gennaio 2020

mercoledì 18 dicembre 2019

Dall'Ermitage a Roma: alla Rhinocerhos di Alda Fendi i «Santi Pietro e Paolo» di El Greco

Un rinoceronte in resina a grandezza naturale, realizzato nei laboratori di Cinecittà, troneggia sotto l’Arco di Giano. A esaltarne il profilo sono le luci calde del premio Oscar Vittorio Storaro, che vanno a comporre la scritta «Roma esisterà finché esisteranno gli uomini». È questo il biglietto da visita con cui la Fondazione Alda Fendi – Esperimenti accoglie, dall’autunno 2018, il pubblico negli spazi della sua galleria Rhinocerhos, un palazzo del Seicento tra il Velabro, il Palatino e la Bocca della Verità, riqualificato dall’estro creativo dell’architetto francese Jean Nouvel.
Lo spazio, distribuito su 3500 metri quadrati e sei piani, è ispirato ai «Passages di Parigi» di Walter Benjamin e propone una modalità innovativa e straordinaria, con mostre, creazioni multimediali, action, interferenze artistiche che vanno dalle arti visive a quelle performative come documenta il progetto «Istantanee dell’assurdo», una ricognizione sulla surrealtà come punto di vista, che vede protagonisti Eugène Ionesco e Samuel Beckett.
Nel 2018, in occasione dell’apertura, la galleria ha avviato anche una collaborazione con il Museo statale dell’Ermitage di San Pietroburgo, grazie alla quale è stato concesso in prestito «L’adolescente» di Michelangelo, visto da oltre ventiduemila visitatori. Quest’anno, grazie all’accordo triennale firmato con l’ente russo, si replica: il Natale porta alla Rhinocerhos un vero e proprio omaggio a Roma e ai suoi patroni con l’esposizione dei «Santi Pietro e Paolo» di El Greco.
Entrata nelle collezioni del museo sulla Neva nel 1911, quale dono di Pëtr Pavlovič Durnovo, governatore generale di Mosca durante la Rivoluzione russa del 1905, l’opera è esposta abitualmente nella sala dei capolavori dell’arte spagnola, accanto a una delle «Skylight Halls», che caratterizzano il cosiddetto Nuovo Ermitage, realizzato tra il 1839 e il 1851.
Il quadro è emblematico dello stile ormai pienamente maturo di El Greco, «entrato nella storia della pittura come il più grande autore della Spagna del XVI secolo - scrive il curatore dell’esposizione Svyatoslav Savvateev nel saggio del catalogo pubblicato da Il Cigno GG Edizioni - e divenuto uno degli artisti più conosciuti e celebrati di tutta la storia dell’arte europea».
Le opere dell’artista - grande precursore del primo modernismo e padre nobile delle nuove generazioni artistiche, secondo la definizione dello storico dell’arte tedesco Julius Meier-Graefe- danno vita a uno stile tormentato e tragico, dove si scontrano attualità realistica ed evocazione visionaria, che unisce e rielabora il colore di Tiziano, il luminismo di Tintoretto ed elementi tratti da Correggio, Parmigianino, Raffaello e Dürer. Anche il dipinto dell’Ermitage, realizzato dall’artista probabilmente tra il 1587 e il 1592, è un’opera profonda e spiritualmente intensa.
I due apostoli vengono rappresentati insieme, secondo una consuetudine di antica origine, all’interno di uno spazio buio - cosa piuttosto eccezionale nell’opera del pittore greco - e con la propria tradizionale iconografa: Pietro con la chiave della porta del Paradiso e Paolo mentre tiene in mano un libro aperto, in riferimento alle sue lettere scritte alle prime comunità cristiane.
Paolo, deciso e scapigliato, è in primo piano e con la mano sinistra compie un gesto fermo, con l’indice puntato su un volume; l’apostolo Pietro è in una posizione serena, eretta, ha uno sguardo contemplativo ma allo stesso tempo penetrante e riflessivo. Il suo sguardo è volto nella stessa direzione di quello di Paolo in modo da conferire alla composizione unità e finalità espressive, come suggerisce anche la dinamica della mano destra dei due santi, che sembrano muoversi l’una verso l’altra per dar vita a un insieme inscindibile.
L’esposizione è affiancata dalla proiezione di immagini tratte da due film dedicati a El Greco, diretti rispettivamente da Luciano Salce (1966) e Iannis Smaragdis (2007), e dalla riproduzione in formato 1:1 di alcune tra le più importanti opere della collezione spagnola dell’Ermitage, che permetteranno al pubblico di contestualizzare l’opera esposta alla Rhinocerhos. In particolare si incontreranno Francisco de Zurbarán, ammirato per un naturalismo tipicamente caravaggesco e un «realismo drammatico», e Luis de Morales, attivo soprattutto in Estremadura, ma apprezzato in tutta la Spagna e soprannominato «El divino Morales» per la spiccata predilezione per i soggetti religiosi.
In linea con la politica culturale della Fondazione Alda Fendi – Esperimenti la mostra è a ingresso gratuito: un messaggio simbolico e concreto, questo, perché la cultura deve essere di tutti. Deve essere -dicono dalla galleria- «un patrimonio dell’umanità».

Informazioni utili
I Santi Pietro e Paolo di El Greco. Palazzo rhinoceros,  via dei Cerchi, 21 - Roma. Orari: martedì-domenica, ore 12.00-24.00. Ingresso gratuito. Informazioni: 340.6430435, info@fondazionealdafendi- esperimenti.it. Fino al 15 marzo 2020. 

martedì 17 dicembre 2019

A Lugano un nuovo spazio per il Masi: riapre Palazzo Reali

Lugano ritrova uno dei suoi spazi espositivi. Dopo tre anni di lavori di ristrutturazione, ha riaperto al pubblico Palazzo Reali, nuova sede del Masi - Museo d’arte della Svizzera italiana, i cui spazi ospiteranno la collezione permanente e saranno dedicati a progetti legati ad artisti locali o a maestri di respiro internazionale, che prediligono per le loro opere gli ambienti raccolti di una dimora storica.
Il restyling dell’edificio, condotto dall’Amministrazione cantonale sotto la regia dell’architetto Piero Conconi, ha interessato gli spazi amministrativi, gli impianti d’illuminazione e di climatizzazione e la grande vetrata a pianterreno. Quest’ultima, assieme all’apertura su via Canova, precedentemente oscurata, contribuisce oggi a illuminare le sale, mettendo in dialogo l’interno dell’edificio con lo spazio urbano circostante.
All’interno della storica dimora di proprietà del Cantone Ticino trovano ora spazio gli uffici, le sale espositive, un atelier creativo, un laboratorio di restauro, una biblioteca, distribuiti su tre piani.
Si corona così il sogno di una doppia sede per il Masi: Palazzo Reali andrà, infatti, ad affiancare il Lac – Lugano arte & cultura.
A segnare il debutto del ritrovato spazio espositivo è il nuovo allestimento della collezione permanente, a cura di Cristina Sonderegger, che si sviluppa sui tre piani espositivi, testimoniando la storia del museo attraverso documenti audiovisivi provenienti dagli archivi della Radiotelevisione svizzera, accessibili tramite un totem multimediale.
I lavori esposti coprono un periodo che spazia dalla fine del Trecento agli anni Cinquanta del Novecento. La pittura di ritratto nell’Ottocento, il Simbolismo, il Ritorno all’ordine degli anni Venti, la fotografia degli anni Trenta, l’Espressionismo sono solo alcuni degli approfondimenti che, sala dopo sala, scandiscono il percorso espositivo, nel quale le opere vengono raggruppate per autore, nuclei tematici, periodi storici e correnti artistiche.
L’allestimento porta alla luce, a piano terra, l’intervento a parete di Niele Toroni, «Impronte di pennello n. 50 ripetute a intervalli regolari», realizzato per l’apertura al pubblico del Museo cantonale d’arte nel 1987; al suo fianco sono esposti «Spartaco» (1847–50 ca.) di Vincenzo Vela – di cui ricorre il bicentenario della nascita –, «Golena» (2016) del giovane artista ticinese Marco Scorti e una «Deposizione» lignea risalente al XIV–XV secolo.
Al primo piano il percorso espositivo si apre con la pittura religiosa del periodo compreso tra il Trecento e Cinquecento, di cui fa parte «La Natività con due angeli» (1530–35) del Giampietrino. A questa sezione ne segue una dedicata alla pittura del Seicento e Settecento con artisti delle terre ticinesi come Pier Francesco Mola, Giovanni Serodine e Giuseppe Petrini.
Attraverso una galleria di ritratti femminili il visitatore è, dunque, immerso nella pittura di matrice neoclassica, popolare, scapigliata e naturalista, ammirando così anche il cambiamento dei vestiti e delle acconciature tra la fine del Settecento e i primi anni Trenta del Novecento.
Le sale successive ospitano esempi di pittura e scultura di derivazione simbolista tra Svizzera, Ticino e Lombardia, fra cui si segnalano «Anbetung II» (1893–94) di Ferdinand Hodler, «Il canto dell’aurora» (1910–12) di Luigi Rossi e «Maternità» (1886–87) di Gaetano Previati. Sono, inoltre, presenti alcuni paesaggi realizzati a cavallo tra Ottocento e Novecento, dai quali emergono il naturalismo velato di simbolismo di Filippo Franzoni e il divisionismo di Edoardo Berta e Umberto Boccioni.
Al secondo piano, l’allestimento è incentrato sull’arte della prima metà del Novecento. Si trovano opere, tra gli altri, di Achille Funi, Carlo Carrà e Mario Sironi, Jean Arp, Fritz Glarner, Wilhelm Schmid, Christian Rohlfs, Hermann Scherer e Werner Neuhaus, testimoni delle varie Avanguardie del periodo.
Conclude questo primo allestimento della collezione permanente un omaggio a uno dei massimi esponenti del Dadaismo e delle sperimentazioni cinematografiche, ovvero Hans Richter, di cui sono esposti l’opera «Rythmus 23» e una serie di disegni preparatori, assieme alla proiezione dell’omonimo filmato.
Nel 2020, a fianco delle opere della collezione, Palazzo Reali presenterà le fotografie del duo Harry Shunk & János Kender (dal 1° marzo al 14 giugno), dei vincitori del concorso Bally Artist of the Year Award (dal 29 marzo al 26 aprile), di Vicenzo Vicari (dal 30 agosto al 1° gennaio 2021), e del Prix Manor Ticino (dall’8 novembre al 14 febbraio 2021).
Un programma, dunque, vario quello di Palazzo Reali, che va a confermare la ricca stagione d’arte di Lugano, che nel 2019 ha anche visto l’apertura del Musec a Villa Malpensata.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] F. Hodler, Adorazione II, 1893-1894; [fig. 2] Giampietrino, Natività con due angeli, 1530-1535; [fig. 3] P.F. Mola, Socrate insegna ai giovani la conoscenza di sé, 1940-1650; [fig. 4] N. Toroni, Impronte di pennello n. 50, 1987. Foto Dona De Carli, Locarno

Informazioni utili
Museo d’arte della Svizzera italiana - sede di Palazzo Reali, via Canova, 10 - Lugano (Svizzera). – 6900 Lugano. Orari: martedì – domenica, ore 13:00 – 17:00. Ingresso gratuito (fino al 31.12.2019). Informazioni: +41 (0)58 866 4240, info@masilugano.ch. Sito internet: masilugano.ch


lunedì 16 dicembre 2019

«Lo Schiaccianoci», allo Strehler di Milano va in scena la magia del Natale

È magico e incanta il pubblico da sempre con la sua musica colorata ed elegante, gioiosa e vivace. È lo spettacolo natalizio per eccellenza, quello che ha fatto sognare generazioni di spettatori con l'albero, la nevicata, l'atmosfera di festa, l'apertura dei regali. Ed è anche -a detta del coreografo e danzatore russo George Balanchine- «uno dei più bei doni della danza, non soltanto per i bambini, ma per chiunque ami l’elemento magico del teatro». Fino al prossimo 22 dicembre, «Lo Schiaccianoci», con il suo «incanto perenne», va in scena allo Strehler di Milano. A firmare l’allestimento, che vedrà in scena gli allievi della Scuola di ballo della Scala, è Roberta Guidi di Bagno; mentre le coreografie, ispirate a quelle originali di Lev Ivanov, portano la firma di Frédéric Olivieri.
Il balletto, in due atti e tre scene, con prologo ed epilogo su musiche di Pëtr Il'ič Čajkovskij, mutua la propria trama dalla favola borghese ottocentesca «Nüssknaker und Mäusekönig» («Lo schiaccianoci e il re dei topi») di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, nella versione liberamente rivisitata e privata dai suoi elementi drammatici e horror da Alexandre Dumas padre, l’«Histoire d'un casse-noisette».
L’edizione proposta al Piccolo Teatro di Milano da Frédéric Olivieri, all’epoca dell’ideazione -nel 2011- a capo della scuola scaligera, oggi direttore del corpo di ballo del tempio milanese della musica e della danza, rispecchia l’atmosfera fantastica e onirica del balletto originale di Lev Ivanov, subentrato nelle coreografie all’anziano e malato Marius Petipa, a cui era stato inizialmente affidato il mandato da Ivan Vsevoložskij, a capo dei Teatri imperiali russi.
Il debutto del balletto si ebbe il 18 dicembre 1892 al Mariinskij di San Pietroburgo alla presenza dello zar Alessandro III; tra gli interpreti di questa prima esecuzione, diretta dal compositore Riccardo Drigo, spiccano l’italiana Antonietta Dell’Era, nel ruolo della Fata Confetto, il russo Pavel Gerdt e Olga Preobrajenska, che diresse poi la Scuola di ballo fra il 1921 e il 1925, su sollecitazione di Arturo Toscanini.
In scena allo Strehler di Milano si alterneranno due cast con oltre cento ballerini. Nei ruoli principali debutteranno nove allievi fra il sesto e l’ottavo corso: Matteo Zorzoli (Drosselmeyer), Youma Miceli (Clara), Tommaso Calcia (Soldato/Schiaccianoci), Vincenzo Mola (Fritz), Letizia Masini (Fata Confetto), Federico Lussana (Principe Camillo), Davide Mercoledisanto (Re dei Topi), Priscilla Volpe (Regina della Neve) e Anna Zingoni (Bambola).
Al centro della storia c'è una bambina di Norimberga, la dolce e romantica Clara (o, secondo le versioni predominanti Masha, diminutivo russo di Maria), che si prepara a festeggiare il Natale con i propri parenti ed amici. Fra i tanti invitati al sontuoso ricevimento, si distingue uno strano personaggio di nome Drosselmeyer, un po' prestigiatore e un po' giocattolaio, che regala alla protagonista alcuni pupazzi meccanici, ma soprattutto uno schiaccianoci di legno a forma di soldatino.
A mezzanotte, quando gli ospiti si congedano, la piccola si addormenta su una poltrona del divano e precipita in un sogno/incubo fantastico, nel quale il nuovo giocattolo si trasforma in un bellissimo e coraggioso principe azzurro, con cui combattere contro l'esercito dei topi e, una volta vinta la battaglia, partire in viaggio per il paese delle delizie. Qui vivono la Fata Confetto e altri personaggi di fantasia come il Cioccolato, il Caffè, il Bastoncino di zucchero candito e i Cannoncini alla crema. La bambina trascorre con loro una notte da favola. Ma tutti i sogni, si sa, durano poco: al risveglio balli e suoni sono svaniti; accanto alla piccola, felice di questo sogno di Natale, c'è solo il suo amato schiaccianoci di legno.
Considerato, insieme con il «Lago dei cigni» (1895) e «La Bella addormentata nel bosco» (1890), uno dei balletti fondamentali dell’Ottocento e uno dei più affascinanti di tutti i tempi, «Lo schiaccianoci» deve la sua fama a musiche allegre, sognanti e divertenti entrate nell’immaginario collettivo come il «Galop» iniziale, il «Trepak» (o «Danza russa»), la «Danza della fata Confetto» e lo squisito «Valzer dei fiori», che segna la fine dello spettacolo con il suo inevitabile lieto fine, in cui sogno e realtà si fondono e si confondono.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Foto di Silvia Amoroso; [figg. 3 e 4] Foto di Marcello Chiappalone; [fig. 5] Foto di Giulia Guccione [Si ringrazia l'ufficio stampa del Piccolo Teatro di Milano per le immagini]

Informazioni utili
Lo Schiaccianoci. Piccolo Teatro Strehler, Largo Antonio Greppi, 1 - Milano. Coreografia: Frédéric Olivieri, da Lev Ivanovič Ivanov. Ripresa da Maurizio Vanadia. Musica Pëtr Il’ic Čajkovskij. Scene e costumi: Roberta Guidi di Bagno. Con la Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala. Ingresso: platea intero € 33,00 | Ridotto giovani e anziani (under 26 e over 65) € 21,00 | balconata intero € 26,00 | ridotto giovani e anziani (under 26 over 65) € 18,00. Informazioni: servizioalpubblico@piccoloteatromilano.it. Sito internet: www.piccoloteatro.org. Fino al 22 dicembre 2019

venerdì 13 dicembre 2019

Parma, un anno da capitale italiana della cultura

Dall’arte del «pittore singularissimo» Antonio Allegri, conosciuto come il Correggio (Correggio, c. 1489 – Correggio, 5 marzo 1534), a quella manierista di Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino (Parma, 11 gennaio 1503 – Casalmaggiore, 24 agosto 1540). Dalla musica scritta di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) a quella diretta da Arturo Toscanini (Parma, 25 marzo 1867 – New York, 16 gennaio 1957). Dalla letteratura di Giovannino Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, 1º maggio 1908 – Cervia, 22 luglio 1968) al cinema di Bernardo Bertolucci (Parma, 16 marzo 1941 – Roma, 26 novembre 2018). Dall’austera semplicità architettonica della facciata del duomo con il suo battistero in marmo rosa firmato da Benedetto Antelami (Val d'Intelvi, 1150 circa – 1230 circa), insigne esempio del Romanico padano, all’eleganza formale del teatro Farnese alla Pilotta, ricostruito nel Novecento, ma simbolo vivido della capacità costruttiva del seicentesco Giovanni Battista Aleotti, detto l'Argenta (Argenta, 1546 – Ferrara, 12 dicembre 1636). Il genio creativo ha da sempre casa a Parma e non è un caso, dunque, che la città emiliana sia stata scelta come Capitale italiana della cultura 2020.
Il cartellone è ambizioso con i suoi quasi cinquecento eventi (tra mostre, performance teatrali, concerti, festival d’arte, rassegne, open call e dibattiti), frutto della progettualità, delle competenze e della passione di oltre settecento partner dell’Amministrazione comunale parmense, motore dell’iniziativa, che ha voluto coinvolgere nel suo anno speciale anche le vicine Piacenza e Reggio Emilia.
«La cultura batte il tempo» è il claim scelto per il programma di «Parma 2020», la cui inaugurazione si terrà con una tre giorni in programma da sabato 11 a lunedì 13 gennaio, festa del patrono cittadino Sant’Ilario, che vedrà arrivare al teatro Regio, nella giornata di domenica 12, anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Nella stessa giornata si inaugurerà, inoltre, la prima mostra in cartellone: «Time machine. Vedere e sperimentare il tempo» (Palazzo del Governatore, 11 gennaio – 3 maggio 2020), nata da un’idea di Michele Guerra e curata da Antonio Somaini con Eline Grignard e Marie Rebecchi.
L'esposizione esaminerà il modo in cui il cinema e altri media fondati sulle immagini in movimento hanno trasformato nel corso degli ultimi centoventicinque anni la nostra percezione del tempo, attraverso una serie di tecniche di manipolazione temporale: dall'accelerazione al ralenti, dal fermo immagine al time-lapse, dalla proiezione a ritroso al loop e alle infinite varianti di quella operazione cinematografica fondamentale che è il montaggio.
Douglas Gordon, Rosa Barba, Tacita Dean, Stan Douglas e filmmakers come Martin Arnold, Harun Farocki, Jean-Luc Godard e Bill Morrison sono tra i protagonisti del percorso espositivo, che permetterà di «vedere e sperimentare il tempo» attraverso estratti filmici, videoinstallazioni, immagini fotografiche e proiezioni provenienti dal cinema delle origini e da quello sperimentale, dal cinema classico e da quello contemporaneo.
Tra le mostre da non perdere c’è anche «Hospitale. Il futuro della memoria» (Oltretorrente, 24 aprile – 10 ottobre 2020), una video-narrazione su grande scala ideata da Studio Azzurro che racconterà, attraverso otto tappe, la storia dell’Ospedale vecchio, uno dei più antichi d’Italia, del quale sono attualmente in corso i lavori di restauro.
«Parma 2020» vedrà arrivare in città anche Anish Kapoor (Bombay, 12 marzo 1954), artista conosciuto per le sue creazioni a forte coinvolgimento emotivo e sensoriale, protagonista di un progetto ancora da definire che metterà in dialogo il passato e il presente della città, le sue varie anime: la romana e la medioevale, la rinascimentale e la barocca, la borbonica e l’asburgica, la contadina e l’imprenditrice, quella delle tradizioni popolari e del melodramma e quella dell’innovazione tecnologica, aperta al futuro.
I tre eventi espositivi rientrano nel Progetto Pilota del Dossier di candidatura, al cui interno sono previste anche quattro Open Call per promuovere l’accessibilità e la contaminazione tra cultura, imprese, tessuto urbano, periferie e comunità locali: «Imprese Creative Driven», «Creating sustainability», «Cultura per tutti, cultura di tutti», dedicata alle nuove sfide dei musei, e «Temporary Signs», un progetto di riscrittura ambientale che tiene insieme quartieri e artisti under 35.
Al Progetto Pilota, il Dossier di candidatura affianca «Officine contemporanee», un palinsesto di mostre, produzioni teatrali e musicali, festival e cantieri-laboratorio che vogliono offrire un pensiero sul contemporaneo, inteso come «luogo che tiene insieme i tempi».
In questo frangente, Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition presenterà «Noi, il cibo, il nostro pianeta: alimentiamo un futuro sostenibile» (Galleria San Ludovico, Portici del Grano e Spazio A, 11 gennaio – 13 aprile 2020). La Diocesi di Parma proporrà la mostra «I mesi e le stagioni. Piazza Duomo con gli occhi di Benedetto Antelami» (Battistero di Parma, maggio – novembre 2020). Il teatro Regio ha in calendario un festival dedicato alla rivoluzione del concetto di tempo nelle arti del Novecento. Il Festival Verdi presenterà la mostra «Opera!» (Palazzo del Governatore, 19 settembre 2020 – 13 gennaio 2021). Il Complesso monumentale della Pilotta guarderà, invece, alla sua storia con «I Farnese: le arti, il potere. 1513-1731» (21 ottobre 2020 – 31 gennaio 2021), un'esposizione che indaga come questa potente casata abbia scritto pagine importanti per le arti nel Rinascimento e nel Barocco.
Tra i tanti altri eventi in calendario meritano una segnalazione anche l'antologica dell’austriaco Francesco Ciccolella, premiato come illustratore dell’anno 2019 dall’American Illustration and American Photography, la mostra «Labirinti. Umberto Eco, Franco Maria Ricci. Storia di un segno», la rassegna «You are Here. The cities of Spiekermann», in programma per ottobre all’Abbazia di Valserena, sede del CSAC – Centro studi e archivio della comunicazione, che omaggerà la figura di Erik Spiekermann, ideatore dell’iconica P, brand di «Parma 2020».
Per celebrare questo intenso anno all’insegna della cultura, Fabrica realizzerà, infine, un inedito reportage del territorio, curato da Oliviero Toscani, con l’intento di raccontare ogni singola iniziativa in programma.
«Points of view», questo il titolo del progetto, sarà la più grande chiamata a raccolta di fotografi di tutti i tempi. Professionisti, grandi maestri e amatori saranno invitati a raccontare Parma e il suo progetto di valorizzazione della cultura. Cultura come «metronomo della vita della città». Cultura come strumento per il «benessere della comunità, veicolo di sviluppo sociale ed economico, luogo di libertà e democrazia, spazio e tempo di inclusione e di crescita individuale e comunitaria». Cultura come sguardo rivolto al passato, alla storia della città, per creare un futuro migliore, scommettendo, anche e soprattutto, sulla «carta dell’inclusione e della sostenibilità».



Didascalie delle immagini
Le immagini di Parma pubblicate sono di Edoardo Fornaciari. In ordine è possibile vedere: il teatro Regio, il teatro Farnese, il parco di Palazzo Ducale, il teatro dei burattini, la Galleria nazionale e il Museo Bodoni. Nella prima immagine è visibile il logo di Erik Spiekermann per Parma 2020
Si ringrazia l'ufficio stampa Delos di Milano (delos@delosrp.it) per le fotografie

Per saperne di più
www.parma2020.it

giovedì 12 dicembre 2019

Napoli, quattro sculture di Jan Fabre per il Pio Monte della Misericordia

«La purezza della misericordia», «La libertà della compassione», «La rinascita della vita» e «La liberazione della passione»: sono questi i titoli delle quattro sculture che Jan Fabre (Anversa, 14 dicembre 1958) ha realizzato per la Cappella del Pio Monte della Misericordia a Napoli.
Si tratta di un ritorno in città per l’artista, che la scorsa estate ha presentato, con il titolo di «Oro rosso», la sua ricerca sulla vita e sulla morte, sulla vanitas e sulla bellezza in quattro sedi partenopee: il Museo e Real Bosco di Capodimonte, il Museo Madre, la storica galleria Studio Trisorio e, appunto, la Chiesa del Pio Monte della Misericordia.
In questi spazi Jan Fabre aveva allestito, per la curatela di Melania Rossi, «The Man Who Bears the Cross (L’uomo che sorregge la croce)», un autoritratto in cera, del 2015, in cui l’artista tiene in bilico, sul palmo della mano, una croce di oltre due metri.
L’iniziativa aveva riscosso un grande successo e un fortissimo afflusso di pubblico, affascinato dal modo in cui l’opera si era armonizzata con il contesto della chiesa sia dal punto di vista estetico-formale che in senso concettuale e spirituale.
Da questo appuntamento espositivo è nata l’idea di allestire in maniera permanente al Pio Monte della Misericordia un insieme di nuove opere di Jan Fabre, recuperando così anche un passato glorioso dell’istituto che, nell’allestimento della propria cappella, ha sempre fatto ricorso all’arte contemporanea (tale era, all’epoca in cui fu introdotta, la pittura del Caravaggio, così come quella di Battistello, di Luca Giordano e di altri artisti ancora).
L’artista belga ha così creato un corpus di quattro sculture in corallo rosso che rappresentano complesse associazioni simboliche e iconografiche, concepite per essere poste in stimolante dialogo con i dipinti seicenteschi già esistenti nella chiesa.
I lavori - ciascuno alto 110 centimetri e del peso di circa 50 chilogrammi - sono interamente ricoperti di corallo rosso, sotto forma di roselline, perle e mezze perle e di piccoli cornetti.
La scelta del materiale -prodotto naturale che, sebbene raro e prezioso, è già ampiamente documentato nella produzione artistica napoletana- è evidentemente carico di significati simbolici e implica una suggestione spirituale di energia e di forza vitale.
Se fin dai primi anni Ottanta il corpo in tutte le sue forme è l’oggetto centrale della ricerca di Jan Fabre e un tema ricorrente della sua produzione artistica, un posto particolare, in questa costellazione concettuale, è occupato dal cuore -elemento centrale di ciascuna scultura- simbolo, al tempo stesso fisico e spirituale, di compassione e di amore universale, e rappresentazione dell’unità centrale di una saggezza costituita da sentimento e pensiero.
Nelle sculture ideate per Cappella del Pio Monte della Misericordia, la cui inaugurazione si terrà il prossimo 21 dicembre, a ciascuno dei quattro cuori raffigurati sono legati elementi diversi, ma sempre muniti di forte suggestione simbolica e in relazione costante con il contesto estetico e spirituale di riferimento.
«La purezza della misericordia» presenta un giglio, attributo dell’immacolata purezza di Maria, e la mascella d’asino, metafora direttamente prelevata dalle «Sette Opere di Misericordia» di Caravaggio (1606 -1607) per indicare l’atto di «dare bere agli assetati». «La libertà della compassione» raffigura una colomba, simbolo dello Spirito Santo, e rinvia al «San Paolino che libera lo schiavo» di Giovan Bernardo Azzolino (1626-1630). «La rinascita della vita» con l’edera, figura della resurrezione e della vita eterna, che avvolge la croce, simbolo centrale del cristianesimo e albero della vita, intende porsi in dialogo con la «Deposizione» di Luca Giordano (1771). Nella scultura «La liberazione della passione», infine, la torcia, emblema di illuminazione e di speranza, e la chiave, simbolo di San Pietro e della porta del regno dei cieli, si pongono in rapporto con il «San Pietro che resuscita Tabithà» di Fabrizio Santafede (1611).
Il progetto, che vede ancora una volta la curatela di Melania Rossi, è stato reso possibile grazie alla generosità e all’amore per l’arte del collezionista Gianfranco D’Amato e di Enzo Liverino, proprietario di una storica azienda che lavora ed esporta corallo. Per l’occasione verrà pubblicato un catalogo edito da Electa Mondadori, con testi di Luigi Pietro Rocco di Torrepadula, Gianfranco D’Amato e Vincenzo Liverino, saggi di Stefano Causa, Bianca Cerrina Feroni, Dimitri Ozerkov, Melania Rossi, Els Wuyts, oltre ai disegni collage realizzati dall’artista.
Un progetto, dunque, composito quello del Pio Monte della Misericordia, grazie al quale Jan Fabre si confronta ancora una volta con il brillio del corallium ruber del Mediterraneo, lavorato nella cittadina vesuviana di Torre del Greco, e con la storia di Napoli.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Jan Fabre, «La Libertà della Compassione». Cappella del Pio Monte della Misericordia, Napoli. Foto: Luciano Romano; [fig. 2]  Jan Fabre, «La Purezza della Misericordia». Cappella del Pio Monte della Misericordia, Napoli. Foto: Luciano Romano Jan Fabre; [fig. 3] Jan Fabre, «The Man Who Bears the Cross (L’uomo che sorregge la croce)». Cappella del Pio Monte della Misericordia, Napoli. Foto: Luciano Romano

Informazioni utili
Jan Fabre - La Purezza della Misericordia | La Libertà della Compassione | La Rinascita della Vita | La Liberazione della Passione. Installazione permanente di quattro sculture in corallo. Pio Monte della Misericordia, Via dei Tribunali 253 - Napoli. Orari: lunedì – sabato, ore 9.00–18.00; domenica, ore 9.00–14.30; ultimo ingresso consentito 30 minuti prima della chiusura. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,00. Informazioni: segreteria@piomontedellamisericordia.it. Ufficio stampa: Alessandra Santerini, email alessandrasanterini@gmail.com, cell. 3356853767 | Giovanni Sgrignuoli, email giovanni@gmspress.com, cell. 3289686390. Sito internet: www.piomontedellamisericordia.it. Dal 22 dicembre 2019.

mercoledì 11 dicembre 2019

«La critica e l’arte di Leonardo da Vinci», Crossmedia ristampa il saggio di Lionello Venturi

Gli anniversari, come i restauri, si rivelano spesso straordinarie occasioni di studio, approfondimento e conoscenza. A questo assunto non è venuto meno il cinquecentenario dalla morte di Leonardo da Vinci, che ha permesso di riscoprire i molteplici interessi dell’artista toscano.
In questo scorcio di fine anno, il calendario prevede ancora, nel nostro Paese, qualche appuntamento leonardesco interessante. Mentre a Milano ha da poco inaugurato, al Museo della scienza e della tecnica, una mostra permanente con centosettanta opere e trentanove installazioni multimediali che raccontano l’interesse del maestro per l’arte della guerra, il volo e le vie d’acqua, Torino risponde con una rassegna, alla Biblioteca reale, che allinea nove disegni autografi dell’artista, tra i quali il celebre «Autoritratto».
Sotto la Mole, al Museo storico nazionale d’artiglieria, nel Mastio della Cittadella, c’è, in questi giorni, anche la possibilità di vedere all’opera un robot progettato da Camau mentre disegna «La Gioconda». La performance, più spettacolare e divulgativa che rigorosamente scientifica, fa parte del percorso espositivo di «Leonardo da Vinci. I volti del genio», la rassegna a cura dello spagnolo Christian Gálvez, che ha il suo pezzo forte nella «Tavola lucana», una tempera su legno realizzata tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo, ritrovata nel 2008 da Nicola Barbatelli, che raffigura il volto dell’artista ripreso di tre quarti in semi-profilo, con caratteristiche fisiche molto diverse dalle aspettative e da quelle già evidenziate dal famoso ritratto della Biblioteca reale di Torino.
Anche Firenze celebra, in questi ultimi giorni di dicembre, l’anniversario leonardesco e la fa in maniera insolita, con la presentazione al complesso monumentale di Santo Stefano al Ponte, a due passi da Ponte vecchio, di un libro fondamentale per gli studi sull’artista.
Lunedì 16 dicembre, alle ore 17, Roberta Barsanti, direttrice del Museo leonardiano di Vinci, e Raffaele Nencini presenteranno, infatti, la ristampa del volume «La critica e l’arte di Leonardo da Vinci» (160 pagine, 25 euro), un classico di Lionello Venturi, storico dell’arte che ha lavorato nei musei di Venezia, Roma e Urbino e che si è distinto, nei suoi anni torinesi, per essere stato uno dei pochi docenti italiani a rifiutare di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo.
L’iniziativa editoriale è stata fortemente voluta da Crossmedia Group, realtà fiorentina attiva dal 2008 che, in anni recenti, ha creato prodotti innovativi per la fruizione e la valorizzazione dei beni culturali come le mostre multimediali, immersive e itineranti, su Raffaello, Magritte e Leonardo.
Apparso nel 1919 in occasione del quattrocentesimo anniversario della morte dell’artista toscano, il libro era fuori catalogo da tempo: l’ultima ristampa del volume risaliva, infatti, al 1988, quando la Zanichelli editore di Bologna ne aveva pubblicato un’edizione anastatica.
L’anniversario del mezzo millennio è sembrata, quindi, l’occasione giusta per riportare il testo sul mercato editoriale e renderlo disponibile alle nuove generazioni di studiosi e appassionati di Leonardo.
Il libro, uno dei testi più importanti di Lionello Venturi insieme con «Il gusto dei primitivi», è un saggio inconsueto, che viola la consueta regola della trattazione monografica, preferendo un taglio per tematiche. La natura, i contemporanei, la scienza, le fonti e il disegno sono gli argomenti trattati.
Il critico d’arte Giulio Carlo Argan ne parlava come di un libro profondamente segnato dall'esperienza bellica, che lo studioso aveva vissuto in prima persona come tenente in un reparto di fanteria.
L’opera, di grande vivacità intellettuale, è percorsa da un forte disprezzo verso i pregiudizi e da una notevole capacità di sintesi. Lionello Venturi separa l'indagine dello scienziato dall'opera dell'artista, e ammette spregiudicatamente che molti aspetti della prima ritornano inesorabilmente nella seconda.
In questo libro appare, inoltre, per la prima volta uno dei fondamenti del fare critica dello studioso, che, muovendo dallo storicismo crociano, ha approfondito le questioni metodologiche della storia dell'arte introducendo il concetto di gusto come elemento soggettivo di cultura figurativa.

Per saperne di più 
www.ctcrossmedia.com

martedì 10 dicembre 2019

«Artonauti», un nuovo album di figurine dedicate al Novecento e ai Monuments Men

Le figurine da collezione non sono più riservate solo al mondo dei calciatori e dei cartoni animati. Dallo scorso marzo per i più piccoli è stato pensato anche un album dedicato alla storia dell’arte: «Artonauti».
Il primo numero, incentrato sui grandi artisti e sulle opere celebri dei secoli compresi tra la preistoria e Paul Gauguin, è stato un vero e proprio successo con ben quattro ristampe in pochi mesi.
Grazie alla creatività e alla passione di Daniela Re e di Marco Tatarella, fondatori dell’impresa sociale non-profit WizArt, Ale, Morgana e il cane Argo ritornano così in edicola, dal prossimo 13 dicembre, con una nuova avventura. Questa volta si va alla scoperta delle Avanguardie storiche del primo Novecento insieme a nonna Artemisia e ai Monuments Men, gli eroi silenziosi che durante la Seconda guerra mondiale hanno salvato il patrimonio artistico europeo da uno dei più grandi furti della storia.
I tre protagonisti si ritroveranno magicamente catapultati negli Stati Uniti del 1943, nello Studio Ovale del presidente Franklin Delano Roosvelt, che li manderà in Europa alla ricerca della «Madonna di Bruges», capolavoro di Michelangelo trafugato dai nazisti. Qui Ale, Morgana e il cane Argo avranno modo di conoscere i grandi protagonisti delle Avanguardie storiche, spesso vittime di censura da parte del regime nazista per aver prodotto «arte degenerata».
Le opere pubblicate non corrispondono, però, a quelle storicamente ritrovate dai Monuments Men: sono alcuni dei principali capolavori di Matisse, Picasso, Munch, Klee, Kandinsky, Marc, Klimt, Miró, Chagall, Modigliani, Goncharova, Boccioni e Mondrian, tra gli altri.
«Il Novecento: alla ricerca dei tesori perduti», questo il titolo del nuovo album dedicato alla memoria di Khaled al-Asaad (archeologo siriano decapitato dall’Isis), è ancora più ricco e interattivo del precedente: si compone di centosedici pagine, quindici tavole di illustrazione, ben centododici opere d’arte da ricostruire grazie a trecentoventiquattro figurine e ventiquattro indovinelli, tra «aguzza la vista», rebus e giochi di parole, oltre a veri e propri indizi per portare avanti la caccia al tesoro e ritrovare la «Madonna di Bruges».
Venticinque coppie di Twin Cards collezionabili consentiranno ai bambini dai 7 ai 14 anni, questo il target del nuovo album, di allenare la memoria, riconoscendo le opere a partire dai dettagli.
Sarà, inoltre, possibile scoprire i luoghi dove sono conservate le tele pubblicate grazie a una mappa.
Infine per raccontare lo stretto legame tra arti visive e musica che ha caratterizzato il Novecento, sette QR code permetteranno di ascoltare altrettante proposte musicali legate a sette diversi artisti presenti nell’album.
Ma c’è di più, grazie al concorso «In viaggio con gli Artonauti» i fortunati che troveranno un Golden Ticket nei propri pacchetti di figurine, potranno godere di un’esperienza creata ad hoc con Elesta Art Travel, tour operator specializzato in viaggi culturali che ha predisposto itinerari speciali, dedicati ai vincitori: una visita a una città d’arte, a un museo o un tour esperienziale alla scoperta delle bellezze di una città italiana, per un totale di ventuno premi.
Grazie al classico gioco «ce l’ho, ce l’ho, mi manca», con le figurine di «Artonauti» l’arte diventa, dunque, un gioco da ragazzi, che conquista anche i più grandi, a partire dagli insegnanti che subito hanno intuito le sue potenzialità dell'album come stimolo culturale per i più giovani e per le famiglie.

Vedi anche 
Artonauti, arrivano in edicola le figurine della storia dell'arte 

Per saperne di più 
www.artonauti.it

lunedì 9 dicembre 2019

Parma, alla Pilotta l’Epifania secondo Rembrandt

Il 2019 verrà ricordato in Italia come l’anno del cinquecentenario dalla morte di Leonardo da Vinci. Ma il mondo dell’arte ricorda quest’autunno anche la scomparsa di un altro autore rappresentativo per la pittura europea, e più precisamente per il «secolo d’oro olandese»: Rembrandt Harmenszoon van Rijn (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre 1669), artista molto prolifico con il suo catalogo di circa seicento tele, duemila disegni e quattrocento incisioni, ma poco presente nelle collezioni pubbliche del nostro Paese.
Le opere di Rembrandt sono, infatti, conservate solo in quattro sedi italiane: la Galleria Sabauda di Torino, gli Uffizi di Firenze, Capodimonte a Napoli e il Museo interreligioso di Bertinoro, sulle appendici dell’Appennino forlivese, che nelle antiche segrete medioevali e nella cinquecentesca cisterna della Rocca vescovile propone un dialogo tra cristianesimo, ebraismo e islam.
Si rivela, dunque, prezioso l’appuntamento promosso dalla città di Parma, grazie a un accordo con il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, che ricorda l’anniversario rembrandtiano dei trecentocinquanta anni dalla morte, con l’esposizione dell’«Adorazione dei Magi» (1632), vero e proprio manifesto del fare pittorico del maestro di Leida.
A ospitare la tela è, fino al prossimo 26 gennaio, il Complesso monumentale della Pilotta, imponente palazzo simbolo del potere ducale dei Farnese, la cui Galleria nazionale è un vero e proprio scrigno di tesori con opere significative come, per esempio, «La scapigliata» di Leonardo (attualmente al Louvre), la «Madonna dell’umiltà» del Beato Angelico, la «Guarigione del nato cieco» di El Greco, la «Schiava turca» del Parmigianino, l’«Incoronazione della Vergine» del Correggio, il «Ritratto di Maria Luigia d’Asburgo in veste di Concordia» di Antonio Canova e «La spiaggia» di Renato Guttuso.
L’«Adorazione dei Magi», dipinta intorno al 1632, è un olio su carta incollato su tela di piccole dimensioni (45 x 39 centimetri), che si rifà a un passaggio del Vangelo secondo San Matteo, nel quale è scritto: «udito il re, essi [i magi], partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. / Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. / Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra».
L’opera appartiene a una fase di emancipazione creativa di Rembrandt, uscito da poco dalla bottega del maestro Pieter Lastman, pittore celebre per le sue scene bibliche, mitologiche e storiche, che aveva studiato e lavorato in Italia esportando nel suo Paese alcune delle caratteristiche principali della pittura barocca, a partire dalla lezione di Caravaggio sull’uso della luce e da quella della famiglia Carracci sullo studio rigoroso del vero, fondamento imprescindibile per le loro scene costruite con una grande ricchezza e varietà di dettagli e personaggi.
In risposta ai codici formali del tardo-manierismo italiano, l’artista fiammingo riprende, infatti, iconografie provenienti da Oriente, meta in quegli anni dei viaggi commerciali della Compagnia delle Indie e oggetto di crescente attenzione, che con il loro esotismo sembrano perfetti per evocare un mondo lontano e sconosciuto come quello della Terra Santa narrato nell’antico Testamento e nei Vangeli. Turbanti, mantelli preziosi, armature, gioielli e, al centro della scena, un grosso ombrello parasole sono gli accessori insoliti che Rembrandt sceglie per animare la sua composizione a più figure, con vari personaggi in abiti orientali e sul lato destro la Madonna e il Bambino, due figure, queste, che presentano legami non totalmente recisi con l’arte italiana del tempo.
La struttura della scena è caratterizzata da un attento gioco focale e da un’esaltazione illusionistica del dettaglio tale da rivelare, attraverso la pittura, la tessitura teologica della storia: la luce si concentra sulla figura del saggio con la barba bianca inginocchiato, che china il suo capo davanti al Cristo tenuto in braccio da Maria, mentre al centro della rappresentazione appare un altro Re magio con gli occhi rivolti verso chi guarda e il braccio teso a benedire il Bambino. L’interesse di Rembrandt sta, dunque, tutto nel tributo che gli antichi saperi magici e astronomici d’Oriente riservano a un Principe divino più potente di tutti, quindi destinato a superare e a sussumere a sé la parzialità dei poteri pagani che lo hanno preceduto.
La tela è stata realizzata in parallelo a una serie di incisioni preparatorie riferite a episodi della vita e della passione di Cristo, mai portate a termine, ed è dipinta in grisaille, chiaroscuro quasi privo di colore introdotto per la prima volta a Roma nella prima metà del Cinquecento.
Un tono prevalentemente marrone si combina con il grigio o l’azzurro: in primo piano domina un morbido color seppia, mentre in secondo piano e in profondità prevale un freddo color grigio precisamente calcolato per essere confrontato con la morbidezza del resto del soggetto. Le tenui gradazioni di colore che avvolgono dalla penombra i singoli dettagli danno alla rappresentazione una sfumatura drammatica, anche questa tipica del linguaggio rembrandtiano.
Le elevate qualità pittoriche della grisaille dell’Ermitage hanno portato i soprintendenti del museo russo ad attribuire la tela all’artista di Leida, dopo una prima fase di incertezza: all’epoca dell’acquisizione, nel 1932, l’opera era, infatti, stata considerata una copia di un dipinto pressoché identico, ma di dimensioni maggiori, che si trova al Museo d’arte di Göteborg (71 x 65,8 cm.).
L’attribuzione è stata confermata dall’analisi della tela ai raggi X, che ha evidenziato correzioni da parte dell’autore, pentimenti che costituiscono, dunque, una prova della sua autenticità. Un’autenticità che si ravvisa anche nei colori autunnali dell’«Adorazione dei Magi», avvolti da forti effetti di chiaroscuro, che ci parlano del recupero di una lettura diretta delle Sacre Scritture caratterizzate da un confronto spesso mistico con il divino, più in linea con la spiritualità popolare e borghese dei paesi del Nord di area protestante.

Didascalia del quadro
Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606-1669), Adorazione dei Magi, 1632. Olio su carta incollato su tela, 45x39 cm. Courtesy Museo dell’Hermitage, San Pietroburgo

Informazioni utili
«Un Rembrandt dall’Ermitage 1669 - 2019: 350 anni dalla morte del maestro». Complesso monumentale della Pilotta, Strada alla Pilotta, 15 – Parma. Orari: da martedì a domenica, ore 8.30 – 19.00; domenica e festivi, ore 13.00-19.00 . Ingresso: la visita alla sala dedicata all’Adorazione dei Magi di Rembrabdt è compresa nel biglietto di ingresso alla Galleria nazionale | intero € 10,00, ridotto gruppi € 8,00, ridotti dai 18 ai 25 anni € 2,00 | fino ai 18 anni gratuito. Informazioni per il pubblico: tel. 0521.233309, cm-pil.info@beniculturali.it. Ufficio stampa: Carla Campanini, carla.campanini@beniculturali.it, tel. 0521.233309 | Lara Facco press@larafacco.com. Fino al 26 gennaio 2020

venerdì 6 dicembre 2019

Firenze, al Museo de’ Medici un ritratto di Cosimo I

Ha scritto tre secoli di storia di Firenze, dal XV al XVIII secolo, e ha lasciato in eredità un patrimonio storico e artistico di grande rilevanza. Stiamo parlando della famiglia de’ Medici, alla quale è stato da poco dedicato nella città toscana un museo.
La neonata istituzione, ubicata a metà strada tra la Cattedrale e la Basilica della Santissima Annunziata, è frutto della passione di Samuele Lastrucci, giovane direttore d'orchestra e studioso di musica antica e barocca.
Aperto non a caso nell’anno in cui si festeggia il doppio cinquecentenario della nascita di Cosimo I e di Caterina de’ Medici, il museo ha come suo location il piano nobile di un antico palazzo fiorentino in via de’ Servi, quello di Sforza Almeni, che vide camminare tra le sue stanze Eleonora di Toledo e artisti come Bartolomeo Ammannati e Giorgio Vasari.
In queste sale, fatte costruire da Piero d'Antonio Taddei, i visitatori possono ammirare dalla scorsa estate reliquie e cimeli provenienti da collezioni private, installazioni multimediali e opere d’arte, scoprendo così la storia della casata medicea, che ebbe il controllo del Gran Ducato di Toscana dal 1424 al 1737, ovvero dalla signoria di Cosimo il Vecchio a quella di Gian Gastone.
La prima sala è dedicata alla genealogia e offre un ritratto della famiglia de’ Medici attraverso un suggestivo cinema olografico.
La stanza seguente racconta, invece, la nascita del Granducato, le ville di proprietà della famiglia, la flotta dei Cavalieri di Santo Stefano, fondata da Cosimo I°, e la famosa battaglia di Anghiari, combattuta tra le truppe milanesi della famiglia Visconti e l’esercito fiorentino.
Il museo continua, poi, con una grande sala dedicata al mecenatismo artistico, caratteristica peculiare della dinastia, nella quale, oltre a una galleria di pittura virtuale e a una preziosa collezione di monete originali dal XV al XVIII secolo, è possibile ammirare una scultura di Giovanni Battista Foggini ritraente Ferdinando II.
Il percorso continua, quindi, con una sezione dedicata alla moda del tempo, con alcune statue per banchetti su modelli del Giambologna (realmente fuse nello zucchero), e una sala sulla scienza, in cui sono conservate una collezione storica di animali imbalsamati, una serie di minerali e alambicchi legati all'alchimia, un modello del telescopio con il quale Galileo Galilei scoprì i pianeti medicei e persino un documento originale del papa che condannò l'astronomo pisano.
A tutto ciò si aggiungono la piccola sala originariamente utilizzata come cappella palatina dallo Sforza Almeni, all’interno della quale è conservato ancora oggi un prezioso soffitto affrescato del XVI secolo, e una sorta di cantinetta, dove è possibile conoscere i vini preferiti dalla famiglia de’ Medici, tutelati dallo specifico bando emesso da Cosimo III già nel 1716.
Non manca lungo il percorso espositivo anche un piccolo ambiente nel quale ammirare la più fedele ricostruzione tridimensionale al mondo della corona granducale, oggi perduta.
Nella mission della neonata istituzione c’è anche l’organizzazione di mostre temporanee, eventi, incontri, presentazioni editoriali e conferenze.
Tra le rassegne in cartellone si segnala «Cosimo I. Spolveri di un grande affresco», curata dall’antiquario Alberto Bruschi, che offre al pubblico l’occasione di vedere una quindicina di opere tra dipinti, reliquie, curiosità, manoscritti, medaglie, libri a stampa e oggetti di vario genere incentrati sulla figura del granduca toscano.
Tra i pezzi esposti si possono ammirare ben quattro medaglie della settecentesca Serie medicea, opera di Antonio Selvi, che raffigurano Cosimo I, Eleonora di Toledo, Camilla Martelli e il misterioso Don Fagoro (si tratta, in realtà, di Don Pedricco, figlio del granduca, morto a meno di un anno di età, ma raffigurato dall’incisore come un giovinetto di almeno 15 anni e in armatura).
Una delle opere più importanti esposte è il quadro-bozzetto preparatorio di Jacopo Ligozzi per il dipinto «Bonifacio VIII riceve gli ambasciatori fiorentini» nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, che l’artista terminò nel 1592 e il cui disegno è oggi conservato nel Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi.
«La scena -raccontano al Museo de’ Medici- doveva illustrare il momento in cui papa Bonifacio VIII nel 1295, vedendosi attorniato dagli ambasciatori fiorentini che gli rendevano omaggio, esclamò che i fiorentini erano il quinto elemento della Terra, alludendo ovviamente ai quattro elementi costitutivi del cosmo della filosofia presocratica. Solo che Ligozzi pose sul fondo dell’immagine la personificazione della Toscana al centro, affiancata invece che dai quattro elementi, dai quattro continenti, considerando, dunque, anche l'America».
Lungo il percorso espositivo si possono, inoltre, vedere il «Ritratto di Cosimo I» attribuito all’Allori e due reliquie di Pio V, ovvero il guanto della mano destra, con il quale il papa benedisse le truppe della Battaglia di Lepanto, e una pantofola, una di quelle che Cosimo dovette baciare il giorno della sua incoronazione granducale, avvenuta nel 1569. Un momento importante, questo, per la politica cosimiana e per il potere della famiglia de’ Medici, regina indiscussa di Firenze per ancora altri due secoli. 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Bronzino (bottega). Ritratto di Cosimo I (attr. Allori); [fig. 2] J. Ligozzi, Bonifacio VIII riceve gli ambasciatori fiorentini, quadro-bozzetto preparatorio, ante 1592; [fig. 3] A. Haelvegh. Ritratto di Cosimo I, acquaforte.c. 1675; [fig. 4] Stemma coniugale Medici-Toledo affisso sullo sprone del Palazzo di Sforza Almeni

Informazioni utili 
Cosimo I. Spolveri di un grande affresco. Museo de’ Medici - Palazzo di Sforza Almeni (primo pano), via dei Servi 12 – Firenze. Orari: tutti i giorni, ore 10-18. Biglietti: 9,00 euro intero, 5,00 euro ridotto (da 7 a 25 anni, gruppi di minimo 10 persone, accompagnatori di persone con disabilità, residenti di Firenze); ingresso libero (da 0 a 6 anni, persone con disabilità, guide turistiche e giornalisti accreditati). Informazioni: www.museodemedici.com |museodemedici@gmail.com. Fino al 24 marzo 2020