ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 16 giugno 2017

Alighiero Boetti tra Lugano e Venezia

È la storia di un’amicizia cementata dai colori e dalle forme della pittura quella che va in scena a Lugano, negli spazi del Masi - Museo d’arte della svizzera italiana. Al centro del percorso espositivo, che vede la curatela di Bettina Della Casa, ci sono Alighiero Boetti (1940–1994) e Salvo (1947–2015), due fra le figure più originali della scena artistica italiana della seconda metà del Novecento, che iniziarono la loro attività sul finire degli anni Sessanta a Torino, città in quel periodo teatro di particolare fermento artistico e intellettuale, e che lì, dal 1969 al 1971, condivisero lo studio in corso Principe Oddone 88.
«Vivere lavorando giocando», questo il sottotitolo dell’esposizione tratto da una citazione di Salvo sul suo rapporto lavorativo e amicale con Alighiero Boetti, ripercorre attraverso centocinquanta opere la storia di un’avventura in cui «giocare con l’arte era – per usare le parole degli organizzatori- attività rigorosa, avvincente ed irrinunciabile».
L’esposizione principia dal finire degli anni Settanta, periodo di particolare rinnovamento della Torino dell’Arte povera, allora animata da spazi vitali e innovativi quali le gallerie Sperone, Notizie e Christian Stein. In quegli anni Alighiero Boetti è orientato verso una costante riformulazione della sua identità d’artista: l’idea di autorialità, di messa in scena del soggetto nel suo raddoppiarsi, moltiplicarsi o perdersi è ossessivamente presente nella sua ricerca. Parallelamente il tempo, inteso sia come oggetto di riflessione sia come attiva forza creatrice, diviene motivo di sfida e confronto costante. Nello stesso periodo prende avvio la fascinazione per l’«ordine e disordine» dei fenomeni della realtà indagati dall’artista alla ricerca di un sistema di regole, leggi, criteri ordinatori che, applicati a parole e immagini, dettino la configurazione dell’opera su spazi bidimensionali.
Per Salvo quegli stessi anni rappresentano il momento di affermazione della propria identità attraverso un processo di storicizzazione venato di ironia; intorno al 1973 si ha, invece, la sua virata verso una pittura figurativa intrisa di riferimenti alla storia dell’arte, scelta del tutto insolita in quella stagione di concettualismo dominante.
Il percorso espositivo continua con una sezione intitolata «Infinita varietà del tutto», nella quale si mettono a fuoco gli sviluppi successivi delle rispettive ricerche condotte ormai in modo completamente autonomo. A partire dal 1972, anno del trasferimento di Alighiero Boetti a Roma, rimane tra i due artisti una comune adesione a temi quali l’identità, il viaggio o la morte, ma è la concezione stessa della superficie bidimensionale nell’uno e della pittura nell’altro a dividerli irrimediabilmente. Salvo, da metà degli anni Settanta, si dedica al mezzo pittorico in modo totalizzante, mentre Alighiero Boetti si orienta, sebbene non esclusivamente, verso la pratica concettuale della proliferazione e della delega assegnando cioè ad assistenti, collaboratori e artigiani, a volte a lui sconosciuti, la realizzazione delle opere, spesso concepite in serie, cicli o varianti. Entrambi aprono la strada a una molteplicità di linguaggi e tecniche offrendo un fondamentale contributo alla riflessione concettuale degli anni Sessanta e Settanta del Novecento; ciò li rende ancora oggi importanti figure di riferimento per le generazioni di artisti post-concettuali del ventunesimo secolo.
L’esposizione è completata da un focus allo Spazio -1. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati sul clima artistico e culturale di Torino tra gli anni Sessanta e Settanta/b>, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e Mario Merz solo per fare qualche esempio.
Ad Alighiero Boetti dedica una mostra anche la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che, nei primi giorni di apertura della Biennale d’arte, propone «Minimum / Maximum», a cura di Luca Massimo Barbero.
Attraverso ventidue opere, che coprono un periodo di circa tre decenni, il visitatore viene invitato ad analizzare un tema specifico della poetica boettiana, per certi versi inedito, quale quello del rapporto tra il formato minimo e massimo.
Il percorso espositivo prende le mosse, nella sala Carnelutti, con il confronto tra il più grande e il più piccolo (1966) «Mimetico», e prosegue con le due opere selezionate per la serie «Biro», il grande dittico «Mettere al mondo il mondo» (1972-73) e il piccolo «Ritratto di Giorgio Colombo». Si passa poi ai «Bollini» con l’imponente, e ancora poco conosciuta al pubblico, mappa «Estate 70»: venti metri di carta da parati grezza, quadrettata a matita, sulla quale l’artista ha incollato migliaia di adesivi colorati a formare combinazioni sempre maniacalmente diverse. Gli fa da contraltare «Senza titolo» del 1968, dove i bollini sono ugualmente protagonisti, ma con dimensioni ridotte (70 x 100 centimetri).
In mostra è rappresentata anche la serie «Alternando da uno a cento e viceversa» con l'opera più piccola (1979), una tecnica mista su carta quadrettata intelata, e il grande kilim del 1993 di quasi tre metri di lato.
Un ulteriore confronto vede protagonista il «Storia naturale della moltiplicazione», con la combinazione di dodici elementi da una parte e il singolo modulo dall’altra, entrambi del biennio 1974-75.
L’ultima parte della sala è, quindi, riservata a due serie di grande fascino e impatto: gli «Aerei», con il grande trittico del 1989 (inchiostro e acquarello su carta intelata di 3 metri di lunghezza complessivi) e il piccolo del 1983 (biro su carta, 23x50), e due «Lavori postali». Il maximum della serie è un’opera composta da settecentoventi buste affrancate e timbrate suddivise in sei pannelli (1972), mentre il minimum è composto da sei buste (1970).
Fra la prima e la seconda sala è in esposizione il documentario Niente da vedere Niente da nascondere, realizzato nel 1978 da Emidio Greco in occasione della retrospettiva dedicata a Boetti alla Kunsthalle di Basilea, che alterna immagini della mostra svizzera a momenti nello studio romano dell’artista, importante perché ridà testimonianza diretta delle parole dell'artista.
Il percorso espositivo prosegue nella sala Piccolo Teatro con il confronto tra i rari «Ricami» monocromi -il grande «Titoli» (1978) e il piccolo «Ordine e disordine »(1989)- e, quindi, con i ricami «Tutto e Mappe», con due grandi formati ciascuno dei quali di quasi 6 metri di lunghezza.
Infine la seconda sala ospita due opere del ciclo delle «Copertine»: il volume «1984» che contiene duecentosedici fotocopie xerox rilegate e «Copertine (Anno 1984)», monumentale lavoro costituito da dodici quadri, ciascuno per un mese dell’anno, nei quali sono state ridisegnate a matita su carta e a grandezza naturale complessivamente duecentosedici copertine delle più importanti riviste italiane e straniere del tempo, secondo un ordinamento cronologico. Scriveva nel 1984 Boetti: «In quell’anno le immagini erano milioni. Oggi, forse qualche centinaio, poi rimarrà solo questa copia sbiadita di un tempo coloratissimo».
Da questa serie ha preso spunto il progetto «Colore=Realtà. B+W=Astrazione (a parte le zebre)», nato da un’idea di Hans Ulrich Obrist, direttore artistico delle Serpentine Gallery di Londra, e di Agata Boetti, che riflette sul tema della fotocopia.
L'esposizione riunisce per la prima volta un insieme di opere eseguite con la fotocopiatrice nei diversi momenti della carriera dell’artista: da alcune opere concettuali e metodiche della fine degli anni Sessanta, come «Nove Xerox Anne Marie» (1969), «Autoritratto» (1971) e l’enigmatico «Dossier Postale» (1969-70), a opere legate alla profusione e alla rappresentazione di informazione cartacea dell’inizio degli anni Novanta. Protagonisti del progetto sono in particolare I «15 libri rossi-111», quindici volumi contenenti ciascuno centoundici fotocopie Xerox, dei quali è possibile scoprire interamente il contenuto grazie alla riproduzione e all’allestimento a parete di tutti i 1.665 A4 contenuti nei volumi.
Al centro della sala dedicata alle fotocopie, i visitatori sono, inoltre, invitati a utilizzare una vera e propria fotocopiatrice, seguendo le regole del gioco appositamente create dall’artista messicano Mario Garcia Torres per rendere omaggio ad Alighiero Boetti, e avranno così a disposizione 11.111 fogli di carta rossa per fotocopiare qualsiasi cosa vogliano.

Didascalie delle immagini
[Fig . 1] Alighiero Boetti, Oggi è il diciannovesimo giorno sesto mese dell’anno mille novecento ottantotto all’amato Pantheon (Today it's the 19th day 6th month in the year 1988 at the beloved Pantheon), 1988. Ricamo su tela (625 quadrati),  106 x 115 x 2,8 cm. Collezione Colombo, Milano Photo: Giorgio Colombo, Milano; [fig. 2] Salvo, 57 pittori italiani, 1975. Olio e matita su tavola,  95,4 x 79 cm Eredi Colnaghi Photo: Agostino Osio, Milano; [fig. 3] Alighiero Boetti e Salvo a Vernazza, 1969. Photo: Anne Marie Sauzeau; [fig. 4] Alighiero Boetti, Mappa, 1989-1994. Ricamo su tessuto, 254 x 588 cm. Firenze, Collezione Roberto Casamonti. Courtesy, Tornabuoni Arte; [fig. 5] Alighiero Boetti, Aerei, 1989. Inchiostro e acquarello su carta intelata, cm 150 x 3000. Parigi, Collezione Carmignac; [fig. 6] Veduta della mostra veneziana alla Fondazione Cini

Informazioni utili
Boetti/Salvo. Vivere lavorando giocando. LAC - Lugano Arte e Cultura, piazza Bernardino Luini, 6 - Lugano. Orari: martedì–domenica, ore 10:00–18:00; giovedì aperto fino alle ore 20:00; lunedì chiuso. Ingresso: intero chf 15.-, ridotto chf 10.- (AVS/AI, over 65 anni, gruppi, studenti 17-25 anni), gratuito 16 anni e ogni prima domenica del mese. Informazioni: +41(0)588664230 oinfo@masilugano.ch. Sito internet: www.masilugano.ch. Fino al 27 agosto 2017.

Alighiero Boetti. Minimum /Maximum. Fondazione Giorgio Cini - Isola di San Giorgio (Venezia). Orari: 11.00-19.00; chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Informazioni:  tel. 041. 2710230 o arte@cini.it. Sito web: www.cini.it. Fino al 12 luglio 2017.

giovedì 15 giugno 2017

Da Boetti a Pistoletto, le mostre della Fondazione Cini durante la Biennale

Sono quattro i progetti espositivi che l’Isola di San Giorgio Maggiore ha messo in cantiere per i primi mesi di apertura della Biennale d’arte. Si inizia con un evento collaterale della cinquantasettesima edizione della Mostra internazionale d’arte: «Yesterday/Today/Tomorrow: Traceability is Credibility», un progetto dell’artista irlandese Bryan Mc Cormack che racconta l’odissea dei rifugiati.
Cuore del progetto, visibile fino al prossimo 13 agosto, è la visualizzazione della crisi europea dei migranti e l’avvio di un programma di ricerca per la raccolta, conservazione e interpretazione di questi dati visivi.
L'artista, trascorrendo più di un anno in decine di campi in tutta Europa, ha lavorato con centinaia di profughi di diverse nazionalità chiedendo loro di realizzare tre disegni distinti con delle penne colorate: uno della vita passata («Yesterday-Ieri»), uno della vita presente («Today-Oggi») e uno di come si immaginano la vita futura («Tomorrow-Domani»). I disegni così raccolti costituiscono dei blocchi visivi che formano il cuore dell’installazione.
Il progetto vuole dare una voce a questi rifugiati anche tramite i social media. Ogni giorno verranno caricate su Facebook, Instagram e Twitter tre immagini dei disegni realizzati dai rifugiati. In questo modo l’artista vuole sensibilizzare il mondo alla crisi dei migranti eliminando le barriere linguistiche e culturali.
Poco distante è visibile una nuova scultura site-specific dell'artista americana Pae White: «Qwalala». Si tratta di un muro curvo, lungo 75 metri e alto di 2,4 metri, realizzato con oltre tremila lingotti di vetro colati a mano dall’azienda veneta Poesia Glass Studio.
Ciascun mattone è unico, frutto delle conformazioni imprevedibili e variabili proprie del processo di produzione artigianale. Circa la metà dei mattoni è in vetro trasparente mentre i restanti 1.500 spaziano tra una gamma di ventisei colori, risultato di una tecnica per cui ogni mattone contiene un effetto tempesta: un turbinio di colori, pur rimanendo trasparente. In questo progetto i singoli mattoni rappresentano i moduli di un caos contenuto. L'artista combina i mattoni per comporre ciò che da lontano sembra un modello pittorico astratto ma che, a un esame più attento, rivela mondi inaspettati di particolari. I tenui blu, verdi, rosa, grigi e marroni della tavolozza sono tratti dai colori utilizzati nell’arte vetraria romana del primo secolo creati dalla presenza di zolfo, rame, manganese e altri metalli e minerali.
Il progetto rientra nell’iniziativa «Le stanze del vetro» che, in questi mesi, propone anche la mostra «Ettore Sottsass: il vetro», a cura di Luca Massimo Barbero. L’esposizione presenta più di duecento pezzi, in gran parte provenienti dalla collezione di Ernest Mourmans e molti dei quali mai esposti al pubblico, secondo un allestimento innovativo disegnato da Annabelle Selldorf. Si tratta di una novità assoluta: è la prima volta che viene realizzata una mostra interamente dedicata alla produzione dell’architetto italiano nel campo dei vetri e dei cristalli; per l’occasione è stato pubblicato anche il primo compendio delle le sue opere in vetro, edito da Skira.
Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini, cura anche la mostra «Alighiero Boetti: Minimum/Maximum», realizzata con la collaborazione dell’Archivio Alighiero Boetti e di Tornabuoni Art. L’esposizione presenta il risultato di un processo inedito di selezione e confronto: quello tra il formato minimo e massimo di opere dei cicli più rappresentativi dell’artista, focalizzando così uno dei temi che meglio rappresentano l’operatività creativa dell’artista torinese. All’interno del percorso sarà compreso un progetto speciale, a cura di Hans Ulrich Obrist e Agata Boetti, incentrato sul tema della fotocopia.
All’isola di San Giorgio è visibile, infine, anche il progetto ideato da Michelangelo Pistoletto per la cinquantasettesima edizione della Biennale di Venezia. La mostra, concepita per gli spazi della Basilica di San Giorgio Maggiore e le adiacenti Sala del Capitolo e Officina dell’Arte spirituale, riflette sul destino dell’uomo e l’urgente necessità di un cambiamento sociale radicale.
«Suspended Perimeter – Love Difference», una serie di specchi posizionati in circolo, apre la carrellata di opere esposte fino al prossimo 26 novembre a Venezia. Tra di esse, oltre agli autoritratti del periodo giovanile e alla celebre «Venere degli stracci», si può vedere, nella Sala del Capitolo, «Il Tempo del Giudizio»: le quattro religioni più diffuse nel mondo - Cristianesimo, Buddismo, Islamismo, Ebraismo - sono indotte a riflettere ciascuna su se stessa, come momento di radicale auto-confessione. Ciascuna religione è rappresentata da un elemento simbolico posto davanti a uno specchio: una statua di Buddha, un tappeto per la preghiera rivolto verso la Mecca, un inginocchiatoio. Fa eccezione l’Ebraismo che si presenta come specchi a forma di tavole della legge.
Le varie opere esposte mettono in luce la genesi dell’opera di Pistoletto e dell’immagine come identificazione fenomenologica dello spazio-tempo, accompagnandoci fino alle opere più recenti dove l'artista continua a lavorare con l’immaginazione e a configurare uno scenario che si apre verso il futuro, lasciando ancora una volta aperto quel flusso «tridinamico» del tempo che include inevitabilmente passato, presente e futuro.

Informazioni utili
www.cini.it

mercoledì 14 giugno 2017

Gaetano Pesce e Corrado «Dino» Martens: due mostre sul vetro per «Muve contemporaneo»

C’è anche l’isola di Murano tra gli scenari di «Muve contemporaneo», progetto nato nel 2013 per iniziativa di Gabriella Belli che, nei mesi della Biennale d’arte, apre le porte dei Musei civici di Venezia con l’intento di mostrare il loro volto non solo di depositari della memoria storica della città, ma anche di promotori di un’indagine critica e di un’esplorazione sui linguaggi più attuali della ricerca creativa.
Sono, infatti, due le mostre che il Museo del vetro accoglie in questi giorni. La prima, allestita fino al 17 settembre per la curatela della stessa Gabriella Belli e di Françoise Guichon e Chiara Squarcina, presenta un focus sulla produzione di Gaetano Pesce. Cinquanta i pezzi esposti che, tramite un innovativo allestimento ideato dallo stesso autore, ripercorrono, anche grazie a una selezione di fotografie, le varie tappe della sperimentazione dell’architetto e designer spezzino con il vetro, proponendo una carrellata di oggetti disegnati e realizzati tra il 1988 e il 1992 in collaborazione con il Cirva - Centro di sperimentazione del vetro di Marsiglia.
In quei quattro anni Gaetano Pesce ha lavorato nella città francese una settimana ogni due mesi mettendo a punto le sue «cinque tecniche per il vetro» chiamate Pastis, Joliette, Vieux Port, Pâte de Verre e Plage.
Come spiega la curatrice Françoise Guichon, che ai tempi era direttrice del Cirva, questi metodi di lavoro «fanno uso di vetri elaborati precedentemente dall’industria e la loro denominazione ne sottolinea la natura d’origine: polvere di vetro per Plage, perle di vetro colorato per Joliette, frammenti di vetro piatto colorato, spesso appuntiti e messi gli uni accanto agli altri come «barchette» per Vieux-Port, bottiglie per Pastis».
La Guichon ricorda ancora con queste parole l’artista spezzino: «Come si fa sempre, per valutare la realizzazione delle sue idee Gaetano Pesce procedeva di persona a eseguire i primi test. In camicia, i polsini perfettamente inamidati, protetto solamente da un grosso guanto di tela ignifuga, teneva con un braccio una pistola che spruzzava del vetro in fusione su un supporto posto nella gola rovente di un forno spalancato».
L’esposizione, per lo spirito indagatore e la volontà narrativa volta a testimoniare un’importante fase creativa dell’architetto e designer, si focalizza in modo esaustivo su queste tecniche e sul loro linguaggio espressivo, mostrando come, nel plasmare il vetro, Gaetano Pesce sappia coniugare al meglio, con risultati inaspettati e giocosi, la sua eccezionale sensibilità formale con l’intemperanza di un materiale straordinario.
«Ho pensato che non fosse necessario, con questo lavoro con il vetro, apportare letture che si situassero ad altri livelli rispetto a quello dell’innovazione tecnica -commenta lo stesso autore-. Perché? Perché fare ciò significa già affermare un grande contenuto: bisogna ricercare, bisogna guardare avanti. Oggi abbiamo bisogno di investire nel progresso, cosa che abbiamo dimenticato. Il progresso non è qualcosa di astratto e inutile. È qualcosa di un’utilità immensa».
Gaetano Pesce obbliga così il visitatore a mettersi in gioco con la sua arte «fuori dagli schemi, per usare le parole di Gabriella Belli, consueti di ciò che si dice essere appunto architettura, arte e design, fuori dai percorsi commerciali e industriali tout court, fuori dal mercato, e per certi aspetti, anche fuori dalla consuetudine di dover sempre mostrare bellezza o funzionalità».
In contemporanea, ma fino al 30 settembre, il Museo del vetro propone anche una mostra del pittore e disegnatore veneziano Corrado «Dino» Martens (1894-1970). Attraverso una sessantina di opere, selezionati da Chiara Squarcina, si ripercorre il lavoro dell’artista dal 1938 al 1965 presentando una selezione di serie iconiche come «Oriente», «Eldorado», «Fascia Bianca e Nera», «Arabesco» e «Pittorico», oltre ad alcuni importanti lavori singoli.
I lavori esposti, provenienti dalla collezione di Lutz Holz, testimoniano la straordinarietà del lavoro di Martens che imprimeva a tecniche tradizionali effetti incredibilmente originali attraverso combinazioni di audaci asimmetrie e inattese e irregolari sfumature cromatiche.
Il visitatore può così conoscere un artista capace di una naturale padronanza tecnico-scientifica, come dimostrano chiaramente i disegni e le annotazioni presentate in mostra. La sua precisione e attenzione per il dettaglio lo portarono, dapprima, a lavorare come creatore nella ditta Successori Andra Rioda, dove poté eseguire i suoi esperimenti come la serie di oggetti in filigrana e i vasi in vetro soffiato delle pareti sottilissime. Corrado «Dino» Martens si spostò, quindi, alla vetreria di Aureliano Toso che, da direttore artistico, trasformò in una delle più innovative dell’isola. Frutto, questo, di un lavoro che, insieme con tanti altri maestri vetrai di ieri e di oggi, rende Murano uno degli angoli più affascinanti della Laguna veneta.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Dino Martens, Piatto: Oriente Dandola, 1954 – XX Secolo; [fig. 2] Dino Martens, Vaso: Oriente Osellare Congo, 1952 – XX Secolo; [fig. 3] Gaetano Pesce, Le debut, Collezione CIRVA 88-92

Informazioni utili
Per notizie sugli orari di apertura e sui costi dei biglietti delle mostre in corso ai Musei civici veneziani è possibile consultare il sito http://www.visitmuve.it/.