ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

domenica 24 marzo 2019

«Gauguin a Tahiti», al cinema per scoprire «il paradiso perduto» dell'artista

È il 1° aprile 1891 quando, a bordo della nave Océanien, Paul Gauguin (1848-1903) lascia Marsiglia diretto a Tahiti, in Polinesia. Ha appena ottenuto dal Governo francese una missione gratuita con lo scopo di «fissare il carattere e la luce della regione», allora molto pubblicizzata dagli opuscoli dedicati alle colonie francesi in Oceania. L’artista realizza così, a quarantatré anni, il suo sogno di abbandonare una realtà che sempre meno sembra essergli congeniale per luoghi che, attraverso la lettura del romanzo «Le mariage» di Pierre Loti, gli sembrano il paradiso in terra.
Quella giornata di inizio aprile del 1891 segna l’avvio di un viaggio che due mesi dopo, il 9 giugno, vedrà Paul Gauguin giungere agli antipodi della civiltà, alla ricerca dell’alba del tempo e dell’uomo.
Ai Tropici, l’artista resterà quasi senza intervalli fino alla morte, prima sull’isola di Tahiti, poi in quella di Hiva Oa, nell’arcipelago delle Marchesi, dove giunge il 16 settembre 1901.
Questi dodici anni vedono il pittore francese andare alla ricerca, disperata e febbrile, dell’autenticità di un luogo dalla natura lussureggiante e dai colori accesi, un vero e proprio Eden che farà di lui uno dei pittori più grandi di sempre tra quelli che si ispirarono alle Muse d’Oltremare.
A questa storia guarda il nuovo appuntamento del progetto «Grande arte al cinema»: «Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto», in cartellone il 25, 26 e 27 marzo.
Il nuovo docu-film, con la partecipazione straordinaria di Adriano Giannini, è diretto da Claudio Poli, su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, che firma anche la sceneggiatura, ed è prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo.
Ripercorrendo le tracce di una biografia che appartiene ormai al mito e di una pittura raffinatamente primordiale, il film-evento, che vanta una colonna sonora originale firmata dal compositore e pianista Remo Anzovino, guiderà lo spettatore in un percorso tra i luoghi che Paul Gauguin scelse come sua patria d’elezione e attraverso i grandi musei americani dove sono custoditi i suoi più grandi capolavori: New York col Metropolitan Museum, Chicago con il Chicago Art Institute, Washington con la National Gallery of Art, Boston con il Museum of Fine Arts.
Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio alla scoperta del «romantico dei mari del Sud» saranno anche gli interventi di esperti internazionali: Mary Morton, curatrice alla National Gallery of Art di Washington, Gloria Groom, curatrice all’Art Institute di Chicago, Judy Sund, docente della New York City University, Belinda Thomson, massima esperta di Gauguin, e David Haziot, autore della più aggiornata e accreditata biografia su Gauguin.
«Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto» trasforma in immagini quel libro d’avventura che fu la vita di Gauguin, ma è anche la cronaca di un fallimento. Perché Gauguin non poté mai sfuggire alle proprie origini, alle ambizioni e ai privilegi dell’uomo moderno. Fu sempre il cittadino di una potenza coloniale: dipinse tra le palme, ma con la mente rivolta al pubblico dell’Occidente, alla sua clientela con la malia dell’esotico. Un paradosso, questo, -raccontano da Nexo Digital- che «si riflette nel destino della sua opera, visto che i suoi quadri oggi sono conservati in grandi musei internazionali dove ogni anno milioni di persone si fermano di fronte alle tele di Tahiti, sognando il loro istante di paradiso, un angolo di silenzio in mezzo alla folla».
Ma da dove nasce la fascinazione di Paul Gaugin per i Tropici? Verrebbe da dire dalle sue stesse origini. L’artista, nato a Parigi il 7 giugno del 1848, a soli quattordici mesi viene portato dai suoi genitori -il giornalista Clovis Gauguin e la sudamericana Aline Marie Chazal- in Perù.
Qui, forse, prende il via la sua iniziazione tropicale: egli resterà, infatti, sempre fiero del suo sangue sudamericano, tanto da sostenere con fermezza una sua parentela con gli Aztechi.
Dopo il ritorno a Parigi, Paul Gauguin si avvicina alla pittura e all’Impressionismo, ma presto sente di dover cercare se stesso altrove. Parte così alla volta della costa bretone, un cuneo di roccia proteso sul vuoto dell'Oceano. In questi luoghi rudi, primitivi, malinconici, il pittore pensa di purificarsi dalla città e dalle mode artistiche parigine. Si mette alla ricerca delle forme ancestrali di una nuova pittura. Ed proprio qui, a Pont-Aven, che Gauguin dipingerà alcune delle sue opere più celebri, come il «Cristo Giallo», in cui riproduce un crocifisso ligneo ammirato nella cappella di Trémalo, o «La visione dopo il sermone», in cui il misticismo bretone trova forma nel cloisonnisme, con le sue campiture nette e stesure compatte di colore.
È qui, in Bretagna, che prende il via la sua meravigliosa avventura del colore, con il distacco dagli Impressionisti e dalle loro pennellate frammentarie, con i contrasti violenti con l’amico e collega Vincent Van Gogh e con l’approdo, poi, a un cromatismo nuovo, anti-naturalistico e legato ai movimenti dell’anima come quello di opere come «La orana Maria, Nafea faa ipoipo, Aha oe feii?» o «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?».
Il racconto sarà accompagnato anche dalle parole dello stesso Gauguin, con brani tratti da testi autobiografici (come «Noa Noa» o «Avant et après»), dalle lettere a familiari, amici e alla moglie Mette, alla quale Paul scriverà: «Verrà un giorno, e presto, in cui mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceano a vivere d’arte, seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare, morire».
La storia di Paul Gauguin è, dunque, la storia -recita Adriano Giannini nel trailer- di «un uomo in fuga dall’arte accademia, dal male di vivere della modernità». È la storia di un ribelle che cerca pace in terre lontane. È la storia di un pittore che sembra aver capito ciò che è importante nella vita: «Quando, finalmente gli uomini comprenderanno -dice- il senso della parola libertà? Che mi importa della gloria? Sono forte perché faccio ciò che sento dentro di me».

Per saperne di più
www.nexodigital.it 

venerdì 22 marzo 2019

«Sulla via della folgore di diamante», a Torino una mostra sulla tradizione religiosa tibetana

Non smette di aggiornarsi e di aggiornarci il Mao – Museo d’arte orientale di Torino. Dopo il nuovo allestimento del corridoio dedicato alle stampe policrome giapponesi, si rinnova anche la Galleria della regione hymalayana. A partire da mercoledì 27 marzo i visitatori potranno, infatti, ammirare venticinque nuove opere appartenenti alla tradizione religiosa tibetana, i thang-ka, databili tra il XVII e il XIX secolo. L’occasione è offerta dalla mostra «Sulla via della folgore di diamante».
Il termine thang-ka indica un tessuto dipinto che può essere arrotolato. I dipinti sono eseguiti a tempera, il supporto è una mussola di cotone e la base di preparazione è realizzata con una mistura di gesso e caolino.
I dipinti sono considerati oggetti sacri non solo perché presentano soggetti religiosi e simboli pertinenti alla complessa iconografia buddhista tantrica, ma anche perché fungono da supporto concreto alla meditazione.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
I soggetti iconografici esposti spaziano dalle raffigurazioni del Buddha Shakyamuni a quelle del Buddha primordiale e dei Cinque grandi Buddha cosmici che da esso discendono. Nel sistema «Vajrayana - la Via della Folgore di diamante» - i Cinque grandi Buddha sono, infatti, considerati essere emanazioni delle qualità spirituali del Buddha primordiale, personificazione dell’illuminazione innata. Ciascuno dei Cinque Buddha cosmici è associato a una direzione dello spazio. Amitabha, il «Buddha della Luce Infinita», è collocato a Occidente, mentre Amogasiddhi, «Colui che conduce all’infallibile realizzazione», è il reggente del Nord. Nell’ambito di questo universo spirituale così spazialmente definito, si collocano esseri intermedi, quali i Bodhisattva, ovvero coloro che rinunciano all’estinzione dal ciclo di nascite e morti (nirvana) per indicare la via della salvezza a tutti gli esseri senzienti.
Oltre alle figure spirituali pacifiche troviamo divinità protettrici della religione, dall’aspetto terrifico, come Mahavajrabhairava, il Grande terrifico, o Yamantaka, il distruttore della morte, così come maestri e adepti tantrici, che a loro volta si mostrano gentili come Tson-ka-pa, fondatore della scuola che dal XVI secolo sarà retta dai Dalai Lama, o terrifici nell’atto di scacciare i demoni.
Due thang-ka tibetane del XVIII secolo, piuttosto rare, sono quelle prodotte nell’ambito della scuola monastica del Bon. Si tratta di una via spirituale parallela al Buddhismo, risalente come quella dei Rnyng-ma-pa a un gruppo antico di lignaggi di praticanti tantrici. È la principale forma religiosa del Tibet non buddhista.
Oltre a vari soggetti religiosi, le opere esposte mostrano alcuni tratti stilistici appartenenti a diverse scuole pittoriche. Lo stile della thank-ga «Storie di Mandhatar, Candraprabha, Supriya», del XVIII secolo, si rifà alla scuola karma sgar bris, una delle due grandi correnti stilistiche in cui si divide la pittura tibetana degli ultimi quattro secoli. Questa bella thang-ka proveniente dal Khams, nel Tibet orientale, si distingue per la levità e delicatezza dei toni con cui viene trattato il paesaggio e per l'eleganza da miniatura con cui sono dipinte le piccole figure collocate nei vari edifici o distribuite nei larghi spazi aperti, elementi che rimandano immediatamente all’estetica del Celeste Impero. Tali caratteristiche sono presenti anche nella thang-ka «Il Palazzo Celeste di Shyamatara (Tara verde)», dove l’accento posto sull’architettura e la concezione vivace del paesaggio conferiscono alla composizione una notevole freschezza, nonostante l’artificiosità della costruzione. Anche se un poco indurite, sopravvivono nelle descrizioni della zona inferiore del dipinto le tracce del trattamento del paesaggio proprio di questo stile.
Oltre ai soggetti rappresentati frontalmente, con una disposizione geometrica delle figure minori, che ricordano il primo stile d’origine nepalese, come nella thang-ka «Vajradhara e i mahasiddha», si segnalano dipinti dalla gradazione cromatica particolare, come nella thang-ka« Rol-pa’i-rdo-rje e nove manifestazioni di Amitayus», che appartiene al gruppo dei mtshal-khang (pittura vermiglia), realizzata con sottili tratti dorati su fondo preparato con il rosso cinabro. Il dipinto «Amoghasiddhi», una thang-ka di carattere misto, vede la figura centrale dipinta a tempera con vari pigmenti su un fondo realizzato con la stessa tecnica delle mtshal-thang.
Un’occasione, dunque, questa mostra per conoscere culture lontane dalla nostra, piene di fascino e di grande perizia artistica.

Informazioni utili 
MAO - Museo d’arte orientale, via San Domenico, 11 – Torino. Orari: martedì-venerdì, ore 10.00 -18.00; sabato-domenica, ore 11.00– 19.00; chiuso lunedì. La biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito fino ai 18 anni e abbonati Musei Torino Piemonte. Informazioni: tel. 011.4436927, e-mail mao@fondazionetorinomusei.it. Sito web: www.maotorino.it.

mercoledì 20 marzo 2019

«I volti del Buddha», Bologna riscopre la storia del suo Museo indiano

C’era una volta: potrebbe avere l’incipit delle favole più belle il racconto della mostra «I volti del Buddha», attualmente allestita negli spazi del Museo civico medievale di Bologna per la curatela di Luca Villa, che si è avvalso per l’occasione della collaborazione di Antonella Mampieri. L'esposizione ricompone, infatti, per la prima volta un’ampia parte delle raccolte appartenute al Museo indiano di Bologna, oggi suddivise e conservate in tre diverse sedi: lo stesso Museo civico medievale, il Museo di Palazzo Poggi e, fuori dal capoluogo emiliano, il Museo di antropologia dell’Università di Padova.
Quella del Museo indiano di Bologna, conosciuto anche con il nome di Museo d’indologia e museo di etnografia indiana orientale, è una storia affascinante, che si intreccia con le vicende della città felsinea tra il 1907 e il 1935.
Allestito nel Palazzo dell’Archiginnasio, nelle sale oggi in uso alla biblioteca, il museo nacque per ospitare inizialmente la cospicua collezione di oggetti, fotografie e manoscritti acquisiti da Francesco Lorenzo Pullè (Modena, 1850 – Erbusco, 1934), professore ordinario di Filologia indoeuropea e sanscrito alla Regia Università di Bologna, durante un viaggio compiuto nel 1902 in Vietnam, Ceylon, India e Pakistan, in occasione della sua partecipazione al Congresso internazionale degli orientalisti ad Hanoi.
Lo studioso modenese aveva in animo di creare un museo che rappresentasse non solo l’area geografica a cui dedicava da molti anni le sue ricerche, ma l’intero continente asiatico. Tuttavia, il suo obiettivo poté dirsi raggiunto solo quando il Comune e l’Università di Bologna, enti che avevano partecipato alla creazione di questa nuova realtà culturale cittadina, si impegnarono a incrementare la collezione originale con acquisti e prestiti temporanei.
L’allestimento - di cui abbiamo traccia grazie alla pianta del museo, conservata presso l’Archivio storico comunale di Bologna- comprendeva molte raffigurazioni di divinità del pantheon hindu e, rispetto ai musei dell’epoca, si distingueva per la presenza di una vasta raccolta di immagini che immortalavano le architetture templari dell’India, hindu, buddhiste e islamiche.
Francesco Lorenzo Pullè era un convinto sostenitore dell’utilizzo della fotografia per far conoscere ad un vasto pubblico l’arte e l’archeologia.
Nella sua ricchissima collezione sono presenti così circa trecentocinquanta stampe fotografiche -in parte consultabili sul sito www.cittadegliarchivi.it- in grado di documentare l'archeologia indiana in maniera esauriente e innovativa per l'epoca.
Fatta eccezione per un piccolo rilievo proveniente da un monumento buddhista indiano, raffigurante delle figure principesche adornate da grandi turbanti e gioielli, lo studioso si distinse, inoltre, per non aver prelevato dai Paesi di origine reperti che altri, invece, separarono dalla cultura d'origine.
La parte più consistente della raccolta fotografica riguarda i ritrovamenti archeologici allora conservati presso il Central Museum di Lahore, nell’odierno Pakistan, dove nei decenni precedenti rispetto al viaggio del professore emiliano erano confluiti reperti e lastre figurate recuperate durante gli scavi effettuati nella non lontana valle di Peshawar. Questi oggetti rappresentano oggi l’eredità dell’arte buddhista del Gandhāra, antica area situata tra gli attuali confini di Pakistan e Afghanistan, dove tra gli ultimi decenni del I sec. a.C. e il IV-V sec. d.C. fiorì una tradizione artistica connessa alla devozione buddhista.
Gli arricchimenti successivi -a cominciare dall'acquisto nel 1908 da parte del Comune di undici statue della raccolta Pellegrinelli, quasi tutte raffiguranti divinità del pantheon buddhista cinese- confermano l’interesse per questa tradizione filosofica e religiosa e l'ambizione di Francesco Lorenzo Pullè di voler creare un'ampia raccolta a testimonianza della ricchezza artistica e culturale dell'Asia.
Si trova, inoltre, lungo il percorso espositivo testimonianza di un'attenzione alle tendenze estetiche dell'epoca, che vedevano spesso opere di arte cinese e giapponese presenti nei salotti e negli studi delle case di illustri cittadini, così come nei saloni di prestigiosi locali pubblici. A tale proposito, va ricordato come Pullè seppe agire affinché il Museo indiano partecipasse dell'eredità Pepoli, grazie all'acquisizione di alcuni vasi ora in mostra nelle sale delle Collezioni comunali d'arte, anch'essi, in parte, di provenienza giapponese.
La vicenda del Museo indiano si concluse definitivamente nel 1935 e due anni più tardi si redasse l'atto con cui le raccolte furono suddivise tra Comune e Università, che ne rimangono ancor oggi custodi, e la famiglia Pullè. Quest’ultima pochi anni dopo cedette almeno una parte della collezione pervenuta al figlio del professore, Giorgio, all'Università di Padova, dove lo studioso emiliano aveva insegnato a lungo prima di passare all'Alma Mater.
Tra i pezzi esposti, insieme con la già citata decorazione in arenaria con figure principesche della collezione Pullè, si segnalano due opere entrambe provenienti dalla raccolta Pellegrinelli: un Buddha della medicina, datato alla fine del XIX secolo, e una rappresentazione di Samantabhadra.
 Eiko Kondo, che curò la prima scheda di catalogazione di quest’ultima opera, la considerò prodotta nel XVII secolo in ambito cinese, aspetto, questo, che conferma l'importanza della raffigurazione, riconoscibile per l'elefante a sei zanne su cui è assiso il bodhisattva.
«Sebbene sia una figura meno nota in Occidente -racconta Luca Villa-, Samantabhadra ha, infatti, un ruolo di rilievo per la grande parte dei lignaggi buddhisti, tanto da essere considerato l'Adi-Buddha (il Buddha primordiale), sia secondo la scuola Nyingma del budddhismo tibetano, sia secondo lo Dzogchen, sentiero di realizzazione spirituale sviluppatosi nella stessa area geografica. Nelle correnti Mahayana, invece, Samantabhadra compare insieme a Manjushri accanto al Buddha storico. Oltre all'importante significato simbolico, la delicatezza dell'esecuzione e lo stato di conservazione decisamente buono, stanno a indicare il valore della statua, superiore rispetto ad altri esemplari della stessa raccolta».
 Una mostra, dunque, di particolare pregio quella proposta dal Museo civico medievale di Bologna non solo per gli appassionati dell’arte indiana, ma anche per chi abbia voglia di andare alla scoperta della storia cittadina.

Informazioni utili
 I volti del Buddha dal perduto Museo Indiano di Bologna. Musei civici d’arte antica - Museo civico medievale, via Manzoni, 4 - Bologna. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00 gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e ogni prima domenica del mese. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/arteantica. Fino al 28 aprile 2019