Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 avveniva una delle più grandi tragedie che la storia della navigazione ricordi in tempo di pace: il naufragio, nel corso del suo viaggio inaugurale, del transatlantico britannico «Titanic», allora la più grande nave passeggeri del mondo. Un evento, questo, che ha inciso in profondità sull’immaginario collettivo attraverso decine di libri e film che hanno rievocato il disastro che vide la scomparsa degli oltre millecinquecento passeggeri. Sono poche, invece, le testimonianze relative agli anni impiegati dalla compagnia britannica «White Star Line» per la costruzione del «transatlantico inaffondabile», di una grande imbarcazione, cioè, che potesse battere qualunque altra nave per dimensioni, comfort, lusso, sicurezza e che avesse così il dominio delle rotte oceaniche che collegavano il Vecchio continente all’America. Tra queste, una tra le più recenti è rappresentata dal volume «Titanic – dal cantiere all’oceano», scritto dal giovane ricercatore Gaetano Anania. Il libro, frutto di una passione a lungo coltivata dall’autore, racconta la vicenda del «Titanic» da una prospettiva inedita, quella di William Walsh, studente di ingegneria navale che ebbe la possibilità di documentare in un diario i lavori di costruzione della nave nei cantieri «Harland & Wolff» di Belfast. Il ricco apparato iconografico contenuto nel libro, proveniente in buona parte dal prestigioso archivio dello storico navale Maurizio Eliseo, costruisce il cuore della mostra «Titanic – dal cantiere all’oceano», allestita a Trieste, al Centro commerciale «Il Giulia». L’esposizione, curata da Claudio Luglio, raccoglie una quarantina di immagini d’epoca che raffigurano soprattutto gli operai al lavoro e le diverse fasi di lavorazione del transatlantico all’interno dei cantieri irlandesi che, per poter costruire navi di così grandi dimensioni, all’epoca subirono grandi lavori di potenziamento. «In quegli anni - racconta lo storico navale Matteo Martinuzzi - le compagnie inglesi e tedesche, ovvero le principali potenze marittime dell’epoca, si contendevano il primato delle navi più grandi lussuose e veloci, arrivando a costruire veri e propri colossi del mare. La compagnia britannica «White Star Line» progettò la realizzazione di tre transatlantici giganti da oltre 45.000 tonnellate: l’«Olympic», il «Titanic» e il «Britannic». Tutte e tre le imbarcazioni verranno ricordate come le più sfortunate navi mai esistite, con le ultime due affondate e la prima sopravvissuta ad almeno tre gravi incidenti. L’insegnamento che ci ha lasciato la perdita del «Titanic» -conclude Martinuzzi- è la sconfitta della superbia dell’uomo che credeva di aver realizzato qualcosa che la natura mai avrebbe potuto distruggere ed invece non fu così». «La mostra vuole essere un modo originale di rievocare il centenario – dichiara il curatore Claudio Luglio – in quanto la nostra attenzione è diretta a coloro che hanno contribuito alla realizzazione della nave, il più delle volte dimenticati dalle cronache e dalle opere di fiction sul «Titanic». Ma l’esposizione triestina - conclude Luglio – oltre ad avere un forte legame con una città che ha una lunga tradizione navale, intende essere anche un significativo sforzo di aprire ad iniziative culturali un luogo solitamente deputato al commercio come «Il Giulia»».
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Il «Titanic» alla banchina di allestimento; [fig. 2] Le imponenti eliche del «Titanic»
Informazioni utili
Titanic – dal cantiere all’oceano. Centro Commerciale Il Giulia - galleria pianoterra, via Giulia 75/3 – Trieste. Orari: lunedì-sabato, ore 9.30-20.00 e domenica, 10.00-19.30. Ingresso libero. Fino a sabato 28 aprile 2012.

propone la
e dall’altro il sogno […]. Preferisco restare in un vuoto galleggiante [...]. Non esiste più che un solo universo, quello del sogno, del quale possiedo tutte le leve di comando a sorpresa [...]. Donne di carne nascono con una testa di stella [...] I gigli spalancati che calmano il loro dolore ridono come bocche [...]. Ci sono attorno cavalli di piume, uccelli nelle canne dei fucili da caccia, gufi mostruosi ornati da palchi di cervi. Ci sono donne dall’occhio rosso, dalle guance di coccinella, dai piedi di smalto, da immagini perse nello schermo dei sogni, ci sono innocenti decapitati dalla corda della forca […]». E’ racchiuso in queste parole, scritte nel «Discours du rivolté» per un numero del 1927 della rivista «Le Grand Jeu», il significato della ricerca artistica di
stessa disinvoltura nella pittura, nella scultura, nella poesia, nel disegno, nell’arte cinematografia e persino nel teatro, per il quale si occupò dell’allestimento della scenografia e dei costumi del balletto «But» di
umoristicamente insoliti, svelano il loro più recondito significato...sono in qualche modo gli indizi, i sintomi di un universo che ci è sempre più difficile controllare e che è pronto a sfuggirci. Forze misteriose, perché incontrollabili, aspettano solo un ordine imminente per distruggerlo, o per obbligarlo a distruggersi. Un altro universo, inconcepibilmente diverso dal nostro, è già lì, creato, pronto a sfuggirci […]" . Mentre Arturo Schwarz, che più d’ogni altro ha capito la grandezza di Maurice Henry, ha scritto : «È sorprendente che un artista di una tale statura sia stato quasi completamente dimenticato in Francia come in Italia. Penso che, paradossalmente, gli abbia nuociuto l'essere stato considerato non solo l'inventore del disegno umoristico surrealista e senza dubbio il più grande umorista francese vivente, ma anche soprattutto un poeta. La sua fama di disegnatore ha eclissato il grande e sensibile pittore che è sempre stato nonostante molti abbiano presto capito che Maurice Henry, dall’impressionate potere poetico, fu tra i più rari umoristi di oggi a meritare il nome di artista. Sicuramente egli è uno dei più grandi testimoni del suo tempo».