ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 19 settembre 2014

«Little Big Things», la storia del profumo attraverso la collezione Storp

La famiglia Storp, fondatrice nel 1911 a Monaco di Baviera della Drom fragrances, ha raccolto con competenza e passione, nell’arco di più generazioni, una collezione rara e importantissima di flaconi e contenitori per profumi che oggi conta oltre tremila pezzi e sei millenni di storia. Una significativa selezione di queste opere caratterizza ora, grazie a un prestito a lungo termine, l’inedita proposta espositiva del rinnovato Museo di Palazzo Mocenigo a Venezia – Centro studi di storia del tessuto e del costume.
Per approfondire e ampliare questo interessante tema museografico, la città lagunare propone, fino al prossimo 6 gennaio, nell’androne al piano terra del museo di San Stae una mostra di oltre un centinaio di pezzi -unici per rarità e bellezza- provenienti dalla collezione Storp.
L’esposizione, curata da Chiara Squarcina, con la direzione scientifica di Gabriella Belli, si realizza in collaborazione con il team di Drom fragrances e rappresenta un’opportunità inedita attraverso cui dar conto del virtuosismo e della creatività artigianale sviluppatisi nel campo della produzione di manufatti destinati a contenere il profumo, dall’antichità ai giorni nostri.
Opere d’arte vere e proprie questi piccoli ma preziosi contenitori, dalle soluzioni stilistiche originali ed esclusive, celebrano un’arte antichissima diffusasi in Medio Oriente e poi approdata in Grecia e a Roma.
Il termine «profumo», dal latino per fumum (letteralmente «attraverso il fumo») identifica originariamente una duplice funzione, religiosa e profana.
I primi profumi consistevano in aromi bruciati, come l’incenso, in offerta agli dei e agli antenati.
Quest’arte, che conquisterà anche l’Asia grazie alla mediazione dei mercanti arabi, ritornerà nuovamente in Europa al tempo delle Crociate per raggiungere Venezia.
Il ruolo fondamentale della città lagunare -nelle origini di questa tradizione estetica, cosmetica e imprenditoriale- è messo in luce proprio nella nuova sezione del museo dedicata al profumo, di cui questa mostra costituisce un prezioso corredo, valorizzando una produzione manifatturiera cosiddetta «minore» ma dall’alto significato storico.
I flaconi per profumi hanno saputo far evolvere l’arte della profumeria grazie all’ingegno e alla creatività dei loro ideatori. Esposti negli scrigni di luce nella magica cornice di Palazzo Mocenigo, si svelano nella loro più attuale e affascinante modernità.
La collezione spazia da rarissimi pezzi antichi, come un vaso portaolio in terracotta egiziano del III/II sec. a.C., a flaconi e scrigni in vetro, porcellana e biscuits datati tra il XVI e il XIX secolo, fino ad uno straordinario Flacone in vetro satinato realizzato su design di Salvador Dalì e alle più note creazioni delle maggiori case essenziere e di profumo moderne.
Suddivisa in quattro sezioni principali intitolate «Il divino», «L’amore», «La protezione» e «L’identità», rappresentative di tutte le epoche, la mostra evoca emozioni dimenticate, sconosciute o troppo spesso sepolte nella memoria collettiva.
Sarà così possibile vedere pezzi eccezionali dell’antichità e dell’era pre-classica, illustrati utilizzando note figure della mitologia, ma anche alcuni dei migliori esemplari della marca di profumi Worth e una vetrina dedicata a Elsa Schiapparelli. Nelle varie sale si potranno, invece, respirare le Drom fragrances che sette profumieri internazionali hanno realizzato per la mostra veneziana, le cui «testimonianze fragili della storia del costume» sapranno senz’altro affascinare il visitatore grazie alla loro evocativa forza d’ispirazione.

Didascalie delle immagini 
 [Fig. 1] Pomander o pomo d'ambra - argento dorato, riccamente inciso, catena in argento. Pomander costituito da sei segmenti apribili, decorato all'interno con animali e scene di caccia. Firmato sull'elemento centrale dall'alto al basso: zibetto 1 / ambra 2 / muschio su tre dei sei coperchi scorrevoli: «Limone BA 5 / Rosmarino B 3 / Angelica BA 6». Germania Meridionale, fine XVI sec., 6,5 cm. © drom fragances. [Fig. 2] Perfume Egg. Composizione porta profumi - due gusci con due flaconi in cristallo, montatura in ottone su basamento onice. Francia, 1870 ca., 16 cm. © drom fragances; [fig. 3] Vista di insieme di alcuni esemplari della collezione Storp. 

Informazioni utili
«Little Big Things». Palazzo Mocenigo - Centro studi di storia del tessuto e del costume, Santa Croce, 1992 – Venezia. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-17.00 (la biglietteria chiude mezz’ora prima); chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 5,50, scuole € 4,00. Informazioni: info@fmcvenezia.it, call center 848082000 (dall’Italia), tel. + 3904142730892 (dall’estero). Sito internet: mocenigo.visitmuve.it.  Fino al 6 gennaio 2015. 


mercoledì 17 settembre 2014

Manzù versus Marino Marini, scultori a confronto nel Parmense

La Villa dei capolavori di Mamiano di Traversetolo apre per la prima volta le porte alla scultura contemporanea. Nella dimora parmense, oggi sede della Fondazione Magnani Rocca, è, infatti, in corso la mostra «Manzù – Marino. Gli ultimi moderni», per la curatela di Laura D’Angelo e Stefano Roffi.
Un’ampia selezione di sculture, dipinti e lavori grafici realizzati dai due artisti negli anni compresi tra il 1950 e il 1970 documenta la loro fiduciosa apertura verso le molteplici lingue della modernità e la capacità dimostrata da entrambi nell’incontrare il gusto di un colto e sofisticato mercato internazionale.
Le opere esposte, visibili fino al prossimo 8 dicembre, provengono dalla Fondazione Marino Marini di Pistoia, dal Museo Marini di Firenze, dalla Fondazione e Museo Giacomo Manzù di Ardea (Roma) e da altre importanti collezioni private e pubbliche. Si tratta di lavori visibili molto di raro al di fuori dei loro consueti contesti museali, dei quali rimarrà documentazione in un ricco catalogo di Silvana editoriale. Grazie a questa mostra è, inoltre, possibile sperimentare un inedito confronto diretto -visivo e critico- tra Giacomo Manzù (Bergamo, 22 dicembre 1908 – Roma, 17 gennaio 1991) e Marino Marini (Pistoia, 27 febbraio 1901 – Viareggio, 6 agosto 1980), artisti che hanno offerto un’interpretazione della scultura figurativa classica in una chiave stilistica del tutto personale, i cui esiti affascinanti e sorprendenti dimostrano come la loro produzione fosse ben lontana dall’obsolescenza e dalla chiusura alla storia, bensì perfettamente in grado di esprimere il dramma e il senso dell’uomo dopo le dissoluzioni del conflitto planetario.
Il percorso espositivo si apre con due opere emblematiche, il «Grande ritratto di signora» di Manzù e il «Cavaliere» di Marino -la prima del 1946, la seconda del 1945- provenienti da prestigiose collezioni private. Si tratta di due sculture in grado di spiegare gli aspetti più importanti delle ricerche figurative compiute dai due artisti, dal riferimento a Medardo Rosso per il bergamasco, alla questione della serialità per il maestro toscano. Seguono grandi bronzi, rilievi, dipinti e lavori grafici, in una successione che tiene conto dei temi maggiormente praticati da entrambi nei decenni presi in esame, a partire dalla danza. Si trovano anche i celeberrimi «Cardinali» di Manzù e i «Giocolieri» di Marini. Una speciale attenzione viene, poi, dedicata ai ritratti; non soltanto per sottolineare l’interesse che entrambi nutrirono nei confronti di questo genere artistico, ma anche per fornire una chiave di lettura della loro personalità attraverso i nomi di artisti, galleristi, collezionisti e che ne sostennero e ne accompagnarono l’attività lungo gli anni Cinquanta e Sessanta, tra i quali si ricordano papa Giovanni XXIII, Igor Stravinskij, Marc Chagall, Jean Arp, Mies van der Rohe, John Huston, Kokoschka, oltre alle mogli, Inge Manzù e Marina Marini.
Differenti i percorsi di studio. Mentre Marino Marini si iscrive nel 1917 all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove frequenta i corsi di pittura e di scultura; Manzù non può vantare un’educazione accademica e, figlio di un calzolaio, si forma all’interno delle botteghe bergamasche specializzate nell’intaglio e nella doratura.
Tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, entrambi si trasferiscono a Milano, dove ha inizio una stagione di riflessione e di ricerca che li condurrà, nel giro di pochi anni, a imporsi nel contesto artistico nazionale, portando i primi prestigiosi riconoscimenti internazionali.
Nel 1935 Marino Marini si aggiudica, per esempio, il premio di scultura alla seconda Quadriennale d’arte nazionale di Roma; mentre all’edizione successiva dell’esposizione, nel 1939, lo stesso premio viene assegnato a Manzù. La carriera dei due artisti prosegue con intensità lungo gli anni Quaranta e alle mostre si succedono nuovi successi. Nel 1948 Manzù allestisce una sala personale alla Biennale di Venezia e si aggiudica il premio per uno scultore italiano assegnato dal Comune di Venezia; nel 1952 il medesimo riconoscimento è assegnato a Marino Marini. È all’indomani di questi premi che per i due scultori si inaugura la fase di maggior impegno sul fronte internazionale: le loro opere figurano nelle più importanti esposizioni allestite in Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti e, mentre, dagli anni Cinquanta, l’attività di Marino Marini si sposta principalmente all’estero, Manzù inizia a lavorare alla realizzazione della Porta della Morte per la Basilica di San Pietro, la cui inaugurazione, nel 1964, segna il punto di massima popolarità raggiunto dall’artista.
L’esposizione parmense permette, dunque, una riflessione ad ampio raggio sull’attività dei due artisti con approfondimenti tematici sul genere del ritratto, sul significato della serialità in scultura, sulle fonti visive delle due produzioni e sul dialogo di entrambi gli artisti con il contesto internazionale.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giacomo Manzù, «Bambina sulla sedia», 1955; [fig. 2] Giacomo Manzù, «Cardinale seduto», 1957; [fig. 3] Marino Marini, «Danzatrice», 1952-53; [fig. 4] Marino Marini, «Cavallo e Cavaliere», 1950

Informazioni utili 
«Manzù – Marino. Gli ultimi moderni». Fondazione Magnani Rocca, via Fondazione Magnani Rocca, 4 - Mamiano di Traversetolo (Parma). Orari: martedì-venerdì, ore 10.00-18.00 (la biglietteria chiude alle ore 17.00); sabato, domenica e festivi continuato, ore 10.00-19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00); lunedì chiuso, ma aperto lunedì 8 dicembre. Ingresso: intero € 9,00; scuole € 5,00. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Milano). Informazioni e prenotazioni gruppi: tel. 0521.848327/848148, fax 0521.848337, info@magnanirocca.it. Sito internet: www.magnanirocca.it. Fino all’8 dicembre 2014.

lunedì 15 settembre 2014

«Aspettando Godot»: «una commedia in cui non accade nulla, per due volte»

«Una commedia in cui non accade nulla, per due volte»: così il critico irlandese Vivian Mercier, in un articolo apparso sull’«Irish Times» nel febbraio 1956, recensiva «Aspettando Godot», dramma in due atti di Samuel Beckett, premio Nobel per la letteratura nel 1969, scritto in francese tra l’ottobre 1948 e il febbraio 1949, la cui prima rappresentazione si tenne il 5 gennaio 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi, per la regia di Roger Blin. È, infatti, la condizione dell’attesa a ordire la trama della piéce, pietra miliare della cultura novecentesca e opera emblematica di quella corrente drammaturgica d’avanguardia che ha raccontato la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e che il critico inglese Martin Esslin ha definito Teatro dell’assurdo.
Con questa tragicommedia, nella quale l’azione vera e propria è ridotta a pochi atti insignificanti e persino surreali, l’autore irlandese si libera delle condizioni naturalistiche del teatro borghese ottocentesco, ormai trasformatesi in sterile routine, e prende a prestito la formula di quello che Peter Szondi ha definito «dramma di conversazione» per svuotarla di tutte le sue componenti più rilevanti, privando cioè il dialogo tra i personaggi della sua funzione significante e rendendolo così fine a se stesso. Samuel Beckett rivoluziona, in questo modo, il linguaggio scenico e lo mette in burletta -sostiene lo scrittore Federico Platania- «con la sua commistione di registri alti e bassi (citazioni teologiche e turpiloquio), il mix dei generi (tragedia, commedia, teatro comico, gag da cabaret), con il suo disinnescare quelli che fino ad allora erano considerati punti fermi intoccabili (azione, trama, significato), con le sue pause, i suoi silenzi, i suoi ritorni inconcludenti».
Vladimiro (Didi) ed Estragone (Gogo), i protagonisti della tragicommedia beckettiana, sono due mendicanti che vivono in strada e che in una landa desolata, definita unicamente dalla presenza di un albero, attendono un certo signor Godot, del quale non conoscono né le fattezze né il giorno e l’orario dell’arrivo, ma che sono certi li salverà dal misero stato in cui si trovano. Per ingannare l’attesa ed esorcizzare il vuoto e l’insicurezza che patiscono di fronte al ripetersi ciclico e privo di senso delle proprie vite, così tristi e inutili da far nascere in loro continui propositi di suicidio non portati a termine per fiacchezza o impossibilità materiale (l’albero è troppo basso, la cintura si spezza), i due uomini parlano del più e del meno. Scelgono a caso un’idea, un ragionamento, il commento di un fatto e subito lo abbandonano per un nuovo argomento di conversazione. Si ha così l’impressione di assistere a continui «numeri attoriali» messi in scena da due vecchi interpreti del teatro di varietà o delle comiche cinematografiche che ripetono, talora svogliatamente e per abitudine, un repertorio ormai consumato.
In questa situazione stagnante fatta di eventi minimi come togliersi le scarpe, mangiare una carota o scambiarsi i cappelli, Vladimiro ed Estragone incontrano una strana coppia di personaggi: Pozzo, un proprietario terriero che conduce legato a una corda il suo servo, Lucky, disfatto dalla fatica di trascinare valigie piene di sabbia e trattato come un animale a suon di frustate. Il passaggio di queste persone, che si ripresenteranno anche nel secondo atto (uno cieco, l’altro muto), non ha, però, alcun effetto concreto sulla situazione dei due clochard: «Beh, ha fatto passare il tempo» / «Sarebbe passato lo stesso» / «Sì, ma più adagio», dicono i due protagonisti.
Il dramma si chiude con l’immagine di Vladimiro ed Estragone che continuano ad aspettare Godot, incapaci di qualsiasi azione. «Allora, andiamo?» / «Andiamo» è il duetto che chiude l’opera, ma entrambi i personaggi -annota la didascalia scenica- non si muovono, perché non hanno progetti e non sanno dove recarsi; sono come anchilosati, impossibilitati a fuggire dalla monotona ripetitività della propria esistenza.
Ma chi è Godot? Sono stati scritti fiumi di inchiostro per dare una risposta a questa domanda. Si è parlato di destino, morte e fortuna; l’ipotesi critica più diffusa sostiene, però, che l’invisibile protagonista della tragicommedia sia il Dio cristiano, oltre che per l’evidente richiamo fonetico tra i termini Godot e God, anche per la descrizione di un giovane emissario mandato ai due clochard, che parla di un vecchio con la barba bianca. L’autore ha, però, sempre rifiutato questa lettura della sua opera, affermando a più riprese «Se avessi saputo chi è Godot, l’avrei scritto nel copione» o Se Godot fosse Dio, l’avrei chiamato così».
È, però, certo che a fare da filo conduttore al lavoro del drammaturgo irlandese sia l’idea di una condizione umana segnata dalla sofferenza e dall’assenza di senso della vita stessa. In Samuel Beckett –scrive, infatti, Paolo Bertinetti- «si trova esplicitamente l’eco di Leopardi e di Schopenauer.

Da un lato c’è la consapevolezza dell’«infinita vanità di tutto». Dall’altro c’è la persuasione che la vita è una punizione per la colpa originaria di essere nati. Per i personaggi di Beckett, come per la «creatura» di Ungaretti, «la morte si sconta vivendo» […]. Idea di un pessimismo per molti insostenibile». 
Sulla tragicità della situazione si innesta una comicità che assume toni grotteschi. Poco importa se il pubblico ride perché, come scrisse l’autore al regista Roger Blin in vista della prima messinscena, «niente è più grottesco del tragico». O, per usare le parole di un’altra opera beckettiana, «Finale di partita», «niente è più comico dell’infelicità».


Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Samuel Beckett durante le prove della tragicommedia «Aspettando Godot»; [fig. 2] Eros Pagni e Ugo Pagliai in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth; [fig. 3] Eros Pagni, Roberto Serpi, Ugo Pagliai, e Gianluca Gobbi in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth.