Fu la prima moglie di Vittorio Cini, ma fu soprattutto una delle più affascinanti interpreti italiane del primo Novecento, oltre che una vera e propria icona liberty e una donna d’avanguardia. Stiamo parlando dell’attrice Lyda Borelli (La Spezia, 1887 – Roma, 1959), scelta dalla Fondazione Cini di Venezia, prestigiosa istituzione culturale ubicata sull’Isola di San Giorgio, per festeggiare i dieci anni del suo Istituto per il teatro e il melodramma.
All’artista ligure, che si divise tra i più grandi palcoscenici mondiali e i primi set del cinematografo, è dedicata la mostra in programma fino al prossimo 15 novembre a Palazzo Cini a San Vio, frutto dell’ampio lavoro di ricerca condotto da Maria Ida Biggi, con Marianna Zannoni, recentemente pubblicato dalla Fratelli Alinari di Firenze.
Nata figlia d’arte nel 1887, la Borelli cominciò giovanissima la propria carriera debuttando nel 1901, a soli quattordici anni, nella Drammatica compagnia italiana di Francesco Pasta e Virginia Reiter. Si esibì, quindi, sotto la regia di Virgilio Talli, e nel 1905 ottenne il ruolo di prima attrice giovane, recitando al fianco di Eleonora Duse. Intorno agli anni Dieci l’artista firmò un vantaggioso contratto con la nuova Compagnia drammatica italiana diretta da Ruggero Ruggeri, arrivando a portare in scena fino a settanta titoli in un anno. Nel 1912 divenne capocomica della Compagnia italiana Gandusio-Borelli-Piperno, diretta da Flavio Andò, mentre nel 1915 entrò a far parte della nuova Compagnia diretta da Ermete Novelli, con la quale portò in scena, in prima assoluta al teatro Carignano di Torino, «Le nozze dei Centauri» di Sem Benelli. Nel 1918 l’attrice sposò il conte Vittorio Cini e abbandonò le scene per dedicarsi alla vita familiare.
Questa storia rivive nella mostra veneziana grazie a rari documenti d’archivio, alcuni dei quali inediti, e a una straordinaria galleria di fotografie che gettano luce su una importante interprete del primo Novecento, musa ispiratrice dei più grandi fotografi e artisti del periodo.
Mario Nunes Vais, Arturo Varischi e Giovanni Artico, Emilio Sommariva e Attilio Badodi sono alcuni dei maestri dell’obiettivo per i quali la Borelli posò sia in abiti di scena sia dando sfoggio delle sue celebri toilettes.
Per l’occasione la sartoria veneziana Atelier Nicolao ha realizzato tre abiti di scena dell’attrice: il costume di Favetta in occasione della prima rappresentazione assoluta dell’opera «La Figlia di Iorio» di Gabriele D’Annunzio, quello della protagonista di «Salomè» di Oscar Wilde, indossato durante la «danza dei setti veli», e un abito borghese che documenta l’eleganza dell’artista nella vita quotidiana.
La mostra fornisce anche un quadro generale sulla personalità dell’attrice, la cui immagine di donna emancipata, costruita attraverso il carattere dei personaggi che interpretava, ma anche alla forza del suo carattere nella vita reale, contribuì a farne un modello di modernità. Madrina della jupe-culotte, la prima forma di pantalone femminile, Lyda Borelli fu anche una delle prime donne a sperimentare l’ebbrezza del volo, affiancata dai maggiori aviatori dell’epoca, e a comparire al volante di un’automobile.
In mostra vi sono anche le rare e inedite stereoscopie su lastre di vetro, realizzate da un apparecchio fotografico appartenuto alla stessa Borelli, e diversi album con preziosi ritagli stampa che documentano i suoi successi a livello nazionale e internazionale.
Una sezione della mostra veneziana è dedicata all’immagine pittorica dell’attrice. Tra i ritratti di noti esponenti della pittura italiana della Belle Époque, assume un ruolo particolare il dipinto del pittore Ettore de Maria Bergler, uno dei maggiori rappresentanti del liberty siciliano, e quello della pittrice Maria Vinca, che mostra Lyda Borelli in una dimensione familiare insieme ai due figli Giorgio e Mynna.
Completa il percorso espositivo un montaggio video realizzato dalla Fondazione cineteca italiana di Milano: un excursus sulle interpretazioni cinematografiche della Borelli, fondamentali nella costruzione della sua immagine d’artista. A tal proposito durante i mesi di apertura della mostra si terrà, fino al prossimo 8 novembre, la rassegna «Lyda Borelli diva cinematografica», articolata negli spazi del teatro La Fenice, della Casa del cinema – Videoteca Pasinetti e della stessa Fondazione Giorgio Cini.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Lyda Borelli, 1910. Fotografia Varischi e Artico. Collezione privata; [fig. 2] Lyda Borelli con un'automobile Isotta Fraschini, 1914. Fotografia di Attilio Badodi. Collezione privata; [fig. 3] Lyda Borelli con la jupe-culotte, 1911 circa. Fotografia di Mario Nunes Vais. Istituto centrale per il catalogo e la documentazione – Gabinetto Fotografico nazionale, Archivio Nunes Vais, Roma
Informazioni utili
«Lyda Borelli, una primadonna del Novecento». Palazzo Cini, San Vio, Dorsoduro 864 – Venezia. Orari: ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso ore 18.15), chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18.15). Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: Istituto per il teatro e il melodramma, tel. 041.2710236 o teatromelodramma@cini.it. Fino al 15 novembre 2017
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
domenica 17 settembre 2017
venerdì 15 settembre 2017
Vittorio Zecchin e i suoi vetri trasparenti per Cappellin e Venini
Sono circa duecentocinquanta vetri eterei soffiati a comporre il percorso espositivo della mostra che la Fondazione Giorgio Cini di Venezia dedica, negli spazi «Le stanze del vetro», a Vittorio Zecchin (1878-1947), artista e pittore muranese che ha contribuito in modo determinante, anche grazie all’appoggio di due imprenditori illuminati quali Giacomo Cappellin e Paolo Venini, a modernizzare negli anni Venti la storia della produzione vetraria veneziana.
La rassegna, curata da Marino Barovier, vuole porre l’accento su quella raffinatissima produzione di soffiati monocromi di ispirazione classica che segnò una svolta decisiva nel panorama muranese del XX secolo, contribuendo in maniera decisiva alla rinascita di questo settore che, salvo rare eccezioni, era fermo sulla sterile ripetizione di modelli ormai sorpassati.
In particolare la rassegna alle Stanze del vetro, visitabile fino al prossimo 7 gennaio, documenta la produzione di Vittorio Zecchin a partire dal 1921, quando venne chiamato, in qualità di direttore artistico, alla V.S.M. Cappellin Venini & C., vetreria fondata quell’anno dall’antiquario veneziano Giacomo Cappellin e dal neoavvocato milanese Paolo Venini, con l’intento di realizzare una nuova produzione rivolta a una clientela alto borghese.
In parte ispirati alla storia della vetreria cinquecentesca, in parte ai vetri raffigurati sulle tele di pittori veneziani del XVI secolo, i manufatti dell’artista si distinsero subito rispetto alle coeve realizzazioni muranesi, connotate da eccessivi virtuosismi, sia per le proporzioni classiche e le linee di notevole essenzialità, sia per le notevoli cromie in prevalenza dai toni delicati, ma anche dalle tonalità intense e brillanti giocate nei toni del giallo, del verde, del blu e dell’ametista.
«Evasione dagli schemi tradizionali, apertura verso le avanguardie artistiche, padronanza delle tecniche di lavorazione», per usare le parole degli organizzatori, caratterizzano, infatti, questa nuova stagione del vetro a Murano, che scrive un’importante pagina del made in Italy. L’esposizione permette di ammirare coppe e vasi di grande rigore, a volte dotati di basi piatte, talvolta segnati da pieghe o strozzature sul corpo o sul collo. Tra i vetri dalle linee classiche si distingue il celebre vaso detto «Veronese», che trae origine da un modello presente nella grande tela cinquecentesca de «L’annunciazione», dipinta dall’omonimo pittore e conservata alle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
Il riferimento alla pittura e ai manufatti di quel periodo si possono apprezzare anche nella piccola rassegna di servizi da tavola, che sembrano tratti dalle mense di Tintoretto e che documentano a titolo esemplificativo le numerose realizzazioni della vetreria in questo ambito.
Allo stesso modo, la produzione di carattere più utilitaristico viene documentata da una piccola selezione di compostiere, per la maggior parte impreziosite sul coperchio da delicati frutti d’ispirazione settecentesca.
Il lavoro di Vittorio Zecchin, avviato in sinergia con i due soci Cappellin e Venini, rispondeva appieno al nuovo gusto che andava affermandosi, come dimostrò il notevole consenso che la vetreria riscosse fin dal suo esordio, sia in ambito nazionale che internazionale, anche grazie alla sua partecipazione a importanti esposizioni di arte decorativa come la prima Biennale di Monza e la celebre Exposition Internationale des Arts Décoratifs di Parigi. Da qui -era il 1925- le strade di Cappellin e Venini si divisero; ognuno proseguì per conto proprio:ì, il primo con la M.V.M. Cappellin & C. e il secondo con la V.S.M. Venini & C., dove il ruolo di Zecchin passò allo scultore Napoleone Martinuzzi.
L’artista muranese scelse di rimanere con Giacomo Cappellin e operò come direttore artistico della nuova fornace, dove rimase fino all’ottobre 1926, continuando a progettare nuovi modelli caratterizzati da un sobrio classicismo e da una signorile essenzialità, che niente hanno da invidiare al miglior design europeo coevo.
Informazioni utili
Vittorio Zecchin: i vetri trasparenti per Cappellin e Venini. Fondazione Giorgio Cini - Le stanze del vetro, Isola di San Giorgio Maggiore - Venezia. Orari: ore 10.00–19.00, chiuso il mercoledì. Ingresso: libero. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org o www.cini.it. Dall'11 settembre 2017 al 7 gennaio 2018.
La rassegna, curata da Marino Barovier, vuole porre l’accento su quella raffinatissima produzione di soffiati monocromi di ispirazione classica che segnò una svolta decisiva nel panorama muranese del XX secolo, contribuendo in maniera decisiva alla rinascita di questo settore che, salvo rare eccezioni, era fermo sulla sterile ripetizione di modelli ormai sorpassati.
In particolare la rassegna alle Stanze del vetro, visitabile fino al prossimo 7 gennaio, documenta la produzione di Vittorio Zecchin a partire dal 1921, quando venne chiamato, in qualità di direttore artistico, alla V.S.M. Cappellin Venini & C., vetreria fondata quell’anno dall’antiquario veneziano Giacomo Cappellin e dal neoavvocato milanese Paolo Venini, con l’intento di realizzare una nuova produzione rivolta a una clientela alto borghese.
In parte ispirati alla storia della vetreria cinquecentesca, in parte ai vetri raffigurati sulle tele di pittori veneziani del XVI secolo, i manufatti dell’artista si distinsero subito rispetto alle coeve realizzazioni muranesi, connotate da eccessivi virtuosismi, sia per le proporzioni classiche e le linee di notevole essenzialità, sia per le notevoli cromie in prevalenza dai toni delicati, ma anche dalle tonalità intense e brillanti giocate nei toni del giallo, del verde, del blu e dell’ametista.
«Evasione dagli schemi tradizionali, apertura verso le avanguardie artistiche, padronanza delle tecniche di lavorazione», per usare le parole degli organizzatori, caratterizzano, infatti, questa nuova stagione del vetro a Murano, che scrive un’importante pagina del made in Italy. L’esposizione permette di ammirare coppe e vasi di grande rigore, a volte dotati di basi piatte, talvolta segnati da pieghe o strozzature sul corpo o sul collo. Tra i vetri dalle linee classiche si distingue il celebre vaso detto «Veronese», che trae origine da un modello presente nella grande tela cinquecentesca de «L’annunciazione», dipinta dall’omonimo pittore e conservata alle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
Il riferimento alla pittura e ai manufatti di quel periodo si possono apprezzare anche nella piccola rassegna di servizi da tavola, che sembrano tratti dalle mense di Tintoretto e che documentano a titolo esemplificativo le numerose realizzazioni della vetreria in questo ambito.
Allo stesso modo, la produzione di carattere più utilitaristico viene documentata da una piccola selezione di compostiere, per la maggior parte impreziosite sul coperchio da delicati frutti d’ispirazione settecentesca.
Il lavoro di Vittorio Zecchin, avviato in sinergia con i due soci Cappellin e Venini, rispondeva appieno al nuovo gusto che andava affermandosi, come dimostrò il notevole consenso che la vetreria riscosse fin dal suo esordio, sia in ambito nazionale che internazionale, anche grazie alla sua partecipazione a importanti esposizioni di arte decorativa come la prima Biennale di Monza e la celebre Exposition Internationale des Arts Décoratifs di Parigi. Da qui -era il 1925- le strade di Cappellin e Venini si divisero; ognuno proseguì per conto proprio:ì, il primo con la M.V.M. Cappellin & C. e il secondo con la V.S.M. Venini & C., dove il ruolo di Zecchin passò allo scultore Napoleone Martinuzzi.
L’artista muranese scelse di rimanere con Giacomo Cappellin e operò come direttore artistico della nuova fornace, dove rimase fino all’ottobre 1926, continuando a progettare nuovi modelli caratterizzati da un sobrio classicismo e da una signorile essenzialità, che niente hanno da invidiare al miglior design europeo coevo.
Informazioni utili
Vittorio Zecchin: i vetri trasparenti per Cappellin e Venini. Fondazione Giorgio Cini - Le stanze del vetro, Isola di San Giorgio Maggiore - Venezia. Orari: ore 10.00–19.00, chiuso il mercoledì. Ingresso: libero. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org o www.cini.it. Dall'11 settembre 2017 al 7 gennaio 2018.
mercoledì 13 settembre 2017
Un’inedita Frida Kahlo in mostra a Milano
Donna dalla personalità molto forte, indipendente e passionale, riluttante nei confronti delle convenzioni sociali, Frida Kahlo è una di quelle figure femminili che ha lasciato un contributo significato nella storia dell’arte del secolo scorso. La sua notorietà tra il grande pubblico è, però, dovuta soprattutto ad alcune sfumature della sua vita, dall’amore tormentato con il pittore muralista Diego Rivera alla sofferenza fisica causata da un terribile incidente occorsole all’età di 17 anni, fino al desiderio mai realizzato di essere madre.
Ma che cosa si nasconde «oltre il mito»? Che cosa c’è al di là della «Fridomania» che ha trasformato una talentuosa artista in un’icona pop da poster e calendari? A rispondere a questa domanda prova la mostra-evento ospitata dal Mudec – Museo delle culture di Milano a partire dal prossimo 1° febbraio, che vede la curatela di Diego Sileo, storico specializzato nell’arte contemporanea sudamericana che ha fatto parte, come unico membro europeo, del progetto di ricerca sul nuovo archivio di Frida Kahlo e Diego Rivera del Museo Frida Kahlo di Città del Messico.
La rassegna, frutto di un lavoro di ricerca durato sei anni, riunirà per la prima volta in Italia tutte le opere provenienti dal Museo Dolores Olmedo e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le due più importanti e ampie raccolte dedicate all’artista sudamericana.
Sarà, inoltre, possibile vedere tra le cento opere esposte (una cinquantina di dipinti, oltre a disegni e fotografie) altri capolavori di Frida Kahlo inediti per il nostro Paese, che vedono tra i prestatori il Phoenix Art Museum, il Madison Museum of Contemporary Art e la Buffalo Albright-Knox Art Gallery.
Diego Sileo, coordinato nel suo lavoro da Hayden Herrera e Juan Rafael Coronel Rivera, proverà ad andare oltre gli stereotipi che hanno visto interpretare l’opera dell’artista latina «come un semplice riflesso delle sue vicissitudini personali o, nell’ambito di una sorta di psicoanalisi amatoriale, come un sintomo dei suoi conflitti e disequilibri interni».
Per un’analisi seria e approfondita della poetica di Frida Kahlo è, infatti, necessario spingersi al di là degli angusti limiti di una biografia spesso analizzata con una certa morbosità.
In questo lavoro il curatore della mostra milanese è stato facilitato dallo studio delle fonti e dei documenti ritrovati nell’archivio di Casa Azul, la dimora dell’artista a Città del Messico, che consta di 22.105 documenti, 5.387 fotografie, 3.874 pubblicazioni, 124 grafiche che comprendono disegni, bozzetti, progetti, mappe, e una ventina di oggetti personali tra cui vestiti, protesi e busti ortopedici.
La leggenda di Frida -racconta Diego Sileo- «affonda le sue radici nel mito romantico dell’artista tormentato, ma, soprattutto, riproduce tutti gli stilemi associati alla figura della donna artista: malata e ipersensibile, instabile emotivamente, formatasi all’ombra di un maestro con cui instaurò una storia d’amore tragica e passionale, ribelle, e poco rispettosa delle convenzioni della sua epoca».
Ma dalle indagine realizzate in Messico «la donna dagli occhi di velluto e dalle acconciature sofisticamente etniche» -due caratteristiche, queste, che hanno contribuito a crearne il mito- ha il volto di un’artista a tutto tondo, che ha saputo superare gli steccati del Surrealismo per raccontare in maniera originale il suo tempo, la storia politica e sociale del suo Paese, e non solo il suo privato.
Il percorso espositivo non seguirà una progressione cronologica, perché fatalmente riporterebbe alla solita lettura della sua vita, ma analizzerà tematiche che hanno contraddistinto tutto il suo esistere e operare. L’espressione della sofferenza vitale, la ricerca cosciente dell’Io, l’affermazione della «messicanità», la sua leggendaria forma di resilienza sono alcuni dei temi principali che permeano la sua vita e la sua opere. Gli stessi argomenti si rifletteranno nel progetto d’allestimento della mostra, che si svilupperà attraverso cinque sezioni: «Politica», «Donna», «Violenza», «Natura» e «Morte». Ovviamente non mancheranno lungo il percorso espositivo i tanti autoritratti di Frida Kahlo, «una bomba avvolta in nastri di seta», così come venne definita dal poeta e critico d’arte francese André Breton, che non ebbe di certo una vita facile, ma che fu sempre capace di dire «Viva la vida».
Didascalie delle immagini
[Fig.1 ] Frida Kahlo, Autorretrato, 1940. Olio su alluminio, 63,5 x 49,5 cm. Harry Ransom Center - The University of Texas, Austin. Crediti: ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 2] Frida Kahlo, La columna rota, 1944 . Olio su tela, 39.8 x 30.5 cm. Museo Dolores Olmedo Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 3] Frida Kahlo, Mi nana y yo, 1937. Olio su lamina, 30.5 x 35 cm. Museo Dolores Olmedo. Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada
Informazioni utili
Frida Kahlo. Oltre il mito. Museo delle culture di Milano, via Tortona, 56 – Milano. Orari: lunedì, ore 14.30‐19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì, ore 9.30-22-30; il servizio di biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it.Dal 1 febbraio al 3 giugno 2018.
Ma che cosa si nasconde «oltre il mito»? Che cosa c’è al di là della «Fridomania» che ha trasformato una talentuosa artista in un’icona pop da poster e calendari? A rispondere a questa domanda prova la mostra-evento ospitata dal Mudec – Museo delle culture di Milano a partire dal prossimo 1° febbraio, che vede la curatela di Diego Sileo, storico specializzato nell’arte contemporanea sudamericana che ha fatto parte, come unico membro europeo, del progetto di ricerca sul nuovo archivio di Frida Kahlo e Diego Rivera del Museo Frida Kahlo di Città del Messico.
La rassegna, frutto di un lavoro di ricerca durato sei anni, riunirà per la prima volta in Italia tutte le opere provenienti dal Museo Dolores Olmedo e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le due più importanti e ampie raccolte dedicate all’artista sudamericana.
Sarà, inoltre, possibile vedere tra le cento opere esposte (una cinquantina di dipinti, oltre a disegni e fotografie) altri capolavori di Frida Kahlo inediti per il nostro Paese, che vedono tra i prestatori il Phoenix Art Museum, il Madison Museum of Contemporary Art e la Buffalo Albright-Knox Art Gallery.
Diego Sileo, coordinato nel suo lavoro da Hayden Herrera e Juan Rafael Coronel Rivera, proverà ad andare oltre gli stereotipi che hanno visto interpretare l’opera dell’artista latina «come un semplice riflesso delle sue vicissitudini personali o, nell’ambito di una sorta di psicoanalisi amatoriale, come un sintomo dei suoi conflitti e disequilibri interni».
Per un’analisi seria e approfondita della poetica di Frida Kahlo è, infatti, necessario spingersi al di là degli angusti limiti di una biografia spesso analizzata con una certa morbosità.
In questo lavoro il curatore della mostra milanese è stato facilitato dallo studio delle fonti e dei documenti ritrovati nell’archivio di Casa Azul, la dimora dell’artista a Città del Messico, che consta di 22.105 documenti, 5.387 fotografie, 3.874 pubblicazioni, 124 grafiche che comprendono disegni, bozzetti, progetti, mappe, e una ventina di oggetti personali tra cui vestiti, protesi e busti ortopedici.
La leggenda di Frida -racconta Diego Sileo- «affonda le sue radici nel mito romantico dell’artista tormentato, ma, soprattutto, riproduce tutti gli stilemi associati alla figura della donna artista: malata e ipersensibile, instabile emotivamente, formatasi all’ombra di un maestro con cui instaurò una storia d’amore tragica e passionale, ribelle, e poco rispettosa delle convenzioni della sua epoca».
Ma dalle indagine realizzate in Messico «la donna dagli occhi di velluto e dalle acconciature sofisticamente etniche» -due caratteristiche, queste, che hanno contribuito a crearne il mito- ha il volto di un’artista a tutto tondo, che ha saputo superare gli steccati del Surrealismo per raccontare in maniera originale il suo tempo, la storia politica e sociale del suo Paese, e non solo il suo privato.
Il percorso espositivo non seguirà una progressione cronologica, perché fatalmente riporterebbe alla solita lettura della sua vita, ma analizzerà tematiche che hanno contraddistinto tutto il suo esistere e operare. L’espressione della sofferenza vitale, la ricerca cosciente dell’Io, l’affermazione della «messicanità», la sua leggendaria forma di resilienza sono alcuni dei temi principali che permeano la sua vita e la sua opere. Gli stessi argomenti si rifletteranno nel progetto d’allestimento della mostra, che si svilupperà attraverso cinque sezioni: «Politica», «Donna», «Violenza», «Natura» e «Morte». Ovviamente non mancheranno lungo il percorso espositivo i tanti autoritratti di Frida Kahlo, «una bomba avvolta in nastri di seta», così come venne definita dal poeta e critico d’arte francese André Breton, che non ebbe di certo una vita facile, ma che fu sempre capace di dire «Viva la vida».
Didascalie delle immagini
[Fig.1 ] Frida Kahlo, Autorretrato, 1940. Olio su alluminio, 63,5 x 49,5 cm. Harry Ransom Center - The University of Texas, Austin. Crediti: ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 2] Frida Kahlo, La columna rota, 1944 . Olio su tela, 39.8 x 30.5 cm. Museo Dolores Olmedo Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 3] Frida Kahlo, Mi nana y yo, 1937. Olio su lamina, 30.5 x 35 cm. Museo Dolores Olmedo. Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada
Informazioni utili
Frida Kahlo. Oltre il mito. Museo delle culture di Milano, via Tortona, 56 – Milano. Orari: lunedì, ore 14.30‐19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì, ore 9.30-22-30; il servizio di biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it.Dal 1 febbraio al 3 giugno 2018.
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