ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 16 marzo 2018

Milano, Arturo Martini e il monumento per il Palazzo di Giustizia in una mostra del Fai

«Di Martini apprezzo il fatto che abbia cambiato il linguaggio della scultura». Così Claudia Gian Ferrari (1946-2010), gallerista e collezionista che per anni è stata un personaggio chiave del mercato e della storia dell’arte italiana del Novecento, raccontava il suo amore per l’opera dello scultore trevigiano, la cui produzione si è avvicinata all’esperienza del movimento «Valori plastici», con un’attenzione particolare alla purezza delle forme e alle suggestioni del mondo arcaico.
Figlia di Ettore Gian Ferrari, anima di una delle gallerie più dinamiche della Milano del Dopoguerra e direttore per oltre venticinque anni dell’ufficio vendite della Biennale di Venezia, Claudia Gian Ferrari è riuscita a coniugare nell’arco della sua vita appassionata l’eredità lavorativa del padre, caratterizzata dal successo mercantile, con una raffinata attività di ricerca, che l’ha vista vestire sia i panni della storica che della critica d’arte.
Parte di questo lavoro di studio, confluito nel novembre 2016 all’interno della donazione che la gallerista aveva fatto negli anni precedenti al Fai – Fondo per l’ambiente italiano, riguarda proprio Arturo Martini (Treviso, 1889-Milano, 1947). La documentazione, che ha trovato collocazione nei sotterranei di Villa Necchi Campiglio a Milano, «non comprende atti quali la corrispondenza o le pratiche personali dell’artista – fanno sapere dagli uffici della onlus milanese-, ma registra pressoché sistematicamente proprio la lunga attività della galleria Gian Ferrari relativamente all’opera dello scultore, alla sua conoscenza e alla sua divulgazione».
«Dalla battaglia contro il gruppo dei falsi cosiddetti «di Anticoli Corrado», con i quali si cercò di invadere il mercato negli anni ’70 e ’80, fino alla promozione di mostre e restauri e alla scoperta e riproposizione dell’importante gruppo di gessi originali delle maggiori sculture di «Valori Plastici» della collezione Becchini, scomparsi per decenni in un deposito alle falde del Monte Amiata e ritenuti dispersi, la vita professionale di Claudia Gian Ferrari -fanno ancora sapere dal Fai- è stata scandita, come quella di un appassionato detective, dalla costante ricerca di opere che potessero sempre meglio illustrare l’attività e le conquiste di questo grande genio della scultura europea del Novecento».
La gallerista milanese fu anche un’attenta collezionista dell’opera del trevigiano. Dei quarantacinque pezzi, donati nel 2008 al Fai – Fondo per l’ambiente italiano, ben quattro portano, infatti, la firma di Arturo Martini, a partire dall’importante capolavoro «L’amante morta», realizzato nel 1921 e appartenente al periodo di «Valori Plastici». Mentre il «Dormiente», copia dell’originale tuttora conservato a Roma, è arrivato a Villa Necchi in seguito alla scomparsa di Claudia Gian Ferrari.
Ed è proprio la residenza milanese a fare da scenario a una mostra dedicata ad Arturo Martini, per la curatela di Amedeo Porro, Paolo Baldacci e Nico Stringa, che ruota attorno all’opera più rappresentativa e grandiosa dell’artista conservata a Milano: il monumentale altorilievo della «Giustizia Corporativa», eseguito nel 1937 per l’atrio al primo piano del Palazzo di Giustizia, progettato da Marcello Piacentini.
L’opera è un racconto sulla vita e le attività dell’uomo, che appaiono tutte sottoposte al giudizio della «Legge», a cui richiama la «Giustizia», qui seduta sull’albero del «Bene» e del «Male», con il volto sereno e quasi impassibile, ma nello stesso tempo sollecito e attento, e in mano gli attributi tradizionali, la bilancia e la spada. Intorno alla Giustizia, un’enciclopedia di miti, figure e immagini che vanno a comporre un coro polifonico: le «Ambizioni» («Amore», «Arte» e «Bellezza»), affiancate dalla «Vanità», gli «Eroi», a cui si contrappone la «Viltà», la «Famiglia», la «Dottrina» (incarnata dagli «Intellettuali») e le «Opere assistenziali».
Martini modellava in creta e non scolpiva direttamente la pietra, lavoro che poi commissionava a figure intermediarie da lui dirette. Per la realizzazione della «Giustizia Corporativa» fu necessaria una grandiosa opera di montaggio: un basamento a gradoni di legno, sul quale venivano appoggiati e fissati i calchi in gesso delle colossali crete ad altezza umana uscite dalle mani dell’artista. Ogni gruppo, grazie a strutture e sostegni lignei retrostanti, veniva incastrato al suo posto e il tutto unificato da passaggi di gesso liquido su piedistalli e gradini, e infine chiuso da una cornice di legno gessato, come in una scatola. Una volta realizzati, i blocchi in gesso furono inviati a Carrara dove i marmisti, sotto il controllo e la direzione dell’artista, tradussero l’intera opera in marmo, creando blocchi e incastri di pietra che potessero quindi essere montati a Milano nell’atrio dell’edificio, cosa che avvenne nel 1940.
A Villa Necchi Campiglio sono esposti, per la prima volta riuniti, il bozzetto originale in gesso, due grandi altorilievi in gesso a grandezza naturale serviti come modelli per il gruppo degli «Intellettuali» e della «Famiglia», il grande marmo di «Dedalo e Icaro» e un bozzetto in bronzo del gruppo della «Famiglia». Insieme a questi pezzi è possibile seguire, attraverso la riproduzione di tutti gli ingrandimenti, l’interpretazione fotografica che Martini stesso volle dare della sua opera, dirigendo personalmente l’illuminazione e gli scatti per il libro a essa dedicato con la prefazione di Riccardo Bacchelli (edizioni del Milione, 1937).
In occasione della mostra, viene, inoltre, proposto un itinerario martiniano per conoscere e approfondire le opere del maestro che arricchiscono Milano, dall’Arengario al Museo del Novecento e all’Ospedale Maggiore. Un modo per riannodare le fila del complesso e ambivalente rapporto di Martini con la città, dove visse dal 1919 alla fine del 1920 e, quindi, dal 1933 al 1942, producendovi molte delle sue opere maggiori.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Arturo Martini, Giustizia Corporativa, 1937. Particolare; [fig. 3] Arturo Martini, La famiglia - Figliol prodigo, 1937; [fig. 4] Arturo Martini, Gli intellettuali, 1937

Informazioni utili
Arturo Martini e il monumento  per il Palazzo di Giustizia a Milano. villa Necchi Campiglio, Via Mozart, 14 - Milano.Orari: da mercoledì a domenica, dalle ore 10 alle 18; aperto lunedì 2 aprile e martedì 1 maggio Ingresso (con visita alla villa): intero € 12,00; ridotto (ragazzi 4-14 anni): € 4,00; iscritti FAI gratis. Per informazioni: www.villanecchicampiglio.it o www.mostramartini.it. Fino al 6 maggio 2018.   

mercoledì 14 marzo 2018

«I have a dream», i grandi discorsi della storia in uno spettacolo teatrale

Era il 28 agosto 1963 quando Martin Luther King pronunciava, al Lincoln Memorial di Washington, il celebre discorso «I have a dream», diventato simbolo della lotta contro il razzismo. Quelle parole insieme alle tante altre affermazioni che hanno segnato la nostra storia sono al centro dell’omonimo atto unico che Valentina Lodovini e Ivano Marescotti porteranno in scena nella serata di giovedì 22 marzo, alle ore 21, al cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio.
A rendere ancora più prezioso lo spettacolo, che si avvale della regia di Gabriele Guidi, saranno le voci fuori campo di Gigi Proietti, Catherine Spaak, Rosario e Beppe Fiorello, Arnoldo Foà. Le musiche sono di Matteo Cremolini, il disegno luci porta la firma di Patrick Vitali. Mentre le videoproiezioni vedranno al lavoro Gianluca del Torto.
Da Demostene a Robespierre, da Pericle a Elie Wiesel, passando per Gandhi, Kennedy, Churchill, Fidel Castro, Mandela, Umberto Eco e altri ancora: con questo appuntamento di alto valore civile, lo spettatore verrà accompagnato alla scoperta di parole memorabili pronunciate, in epoche differenti, da sedici uomini e donne che, con il loro pensiero e la loro azione, hanno inciso positivamente sul loro presente e scritto pagine importanti per il nostro futuro.
Il testo, scritto da Ennio Speranza e Gabriele Guidi, prende spunto da tre domande e un assunto: «Quante volte -si legge nella presentazione- le parole hanno contribuito a segnare un’epoca, svelando ideali e aspettative di intere generazioni? Quante volte un particolare momento storico viene ricordato grazie a una frase o il frammento di un discorso che ha lasciato un segno indelebile? E quante volte ancora i grandi oratori hanno saputo accendere passioni civili individuando i traguardi sociali da conquistare trascinando milioni di persone? Le parole -alla pari degli eventi, dunque- hanno inciso sul corso della storia; anzi, diventando esse stesse eventi, hanno fatto la storia».
Democrazia, identità etnica, ruolo delle donne, eccidi, intolleranza religiosa, ma anche arte e letteratura come strumenti di protezione dell’essere umano sono solo alcune delle tematiche che verranno affrontate con questo spettacolo, inserito nel programma della stagione «Mettiamo in circolo la cultura», che vede alla direzione artistica Maria Ricucci dell’agenzia «InTeatro» di Opera (Milano) e che è stata incluso dal Comune di Busto Arsizio nel cartellone cittadino «BA Teatro».
«L’atto unico -raccontano gli organizzatori- è da poco tornato in scena, a distanza di quasi dieci anni aggiornato, rivisto e concepito per due interpreti, legati fra loro da un rapporto molto particolare. Quello tra Valentina Lodovini e Ivano Marescotti è, infatti, un legame di grandi affinità, non privo di una sottile ironia derivante dal confronto tra generazioni differenti, che rende ancora più stimolante questo loro raffronto sul valore odierno delle parole.
Dopo Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia, Gianfranco Jannuzzo e Debora Caprioglio, il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio, la cui stagione vanta quasi trecentoquaranta abbonati, punta, dunque, ancora una volta su una coppia da palcoscenico. E una coppia, questa volta di comici, sarà in scena anche nel successivo spettacolo della stagione: «Il rompiballe» di France Veber, per la regia di Marco Rampoldi, che venerdì 13 aprile, alle ore 21, vedrà in scena Max Pisu e Claudio Batta.
L’atto unico «I have a dream», particolarmente adatto per i più giovani e per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, è stato definito dalla critica «prezioso come un’ostrica» per la sua capacità di suggerire, grazie alla straordinaria attualità delle tematiche affrontate, come la Storia stessa possa offrire alle coscienze gli strumenti per riflettere sui problemi che affliggono anche oggi il mondo.
Il costo del biglietto per la commedia «I have a dream – Le parole che hanno cambiato la storia» è fissato ad € 33,00 per la poltronissima, € 30,00 (intero) o € 27,00 (ridotto) per la poltrona, € 28,00 (intero) o € 25,00 (ridotto) per la galleria. Le riduzioni sono previste per studenti, over 65 e per gruppi (Cral, scuole, biblioteche e associazioni) composti da minimo dieci persone. Il diritto di prevendita è di euro 1,00.
Il botteghino del cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio sarà aperto per la prevendita da giovedì 15 marzo con i seguenti orari: dal lunedì al sabato, dalle ore 17 alle ore 19. I biglietti sono già comodamente acquistabili on-line, tramite il circuito Crea Informatica, sui siti www.cinemateatromanzoni.it e www.webtic.it.
Per maggiori informazioni sulla programmazione della sala è possibile contattare il numero 339.7559644 o lo 0331.677961 (negli orari di apertura del botteghino e in orario serale, dalle ore 20.30 alle ore 21.30, tranne il martedì) o scrivere all’indirizzo info@cinemateatromanzoni.it.

Informazioni utili
www.cinemateatromanzoni.it

lunedì 12 marzo 2018

CM, Bologna e la moto: una storia lunga trent’anni

Bologna e la moto: una storia d’amore lunga trent’anni. Va, infatti, dal 1929 al 1959 il periodo d’oro della città emiliana nel settore produttivo motociclistico. Sono questi gli anni in cui il territorio felsineo diviene un centro di importanza nazionale, grazie a una concentrazione senza eguali di piccole e medie aziende produttrici di moto finite (oltre settanta quelle attive con alterne fortune in quegli anni) e un numero ancora maggiore di ditte in grado di fornire tutto ciò che serve per assemblare qualsiasi motociclo.
In quegli stessi anni si situa l’avventurosa storia della CM, al centro di un volume fresco di stampa, edito da Giorgio Nada Editore, per la curatela di Enrico Ruffini e Antonio Campigotto.
A questa storia guarda anche la mostra allestita fino al 3 giugno al Museo del patrimonio industriale di Bologna, che presenta una quindicina di modelli della CM, tra i più significativi esemplari presenti nelle collezioni di Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, insieme a un ricco apparato di immagini fotografiche e di cataloghi, in gran parte inedito, e a tre proiezioni su schermo e a video.
Mario Cavedagni, il fondatore, e il suo tecnico di fiducia, Renato Sceti, si formano come meccanici presso la GD, la prima importante marca locale, distinguendosi anche come piloti-collaudatori. Ne sono ancora dipendenti nel 1929 quando viene registrata una nuova ditta, la CM, che fin dagli esordi si avvale di prestigiose collaborazioni esterne, come quella dei fratelli Laurenti e Alfonso Drusiani. Per trent’anni, senza altre risorse che una piccola officina e pochi operai diretti con grande competenza, la CM mantiene una presenza significativa sul mercato, facendo fronte alle sue volubili richieste, ma anche alle avversità, in primo luogo la scomparsa di Mario Cavedagni, grazie alla coraggiosa gestione della moglie Irma Ginepri negli anni Quaranta.
Le macchine proposte dalla CM sono eccellenti per il turismo, lo sport e l’impiego commerciale; i modelli abbracciano tutte le cilindrate con ogni possibile variante, ma sempre con adeguati criteri costruttivi e finiture curate ed eleganti.
Il primo esemplare della casa bolognese, una 175 con distribuzione a tiges, pronta già alla fine del 1929, si impone nella Milano-Roma-Napoli del 1932 con Cavaciuti, Zini e Pagani, richiamando l’attenzione dei clienti cui sono subito proposte le versioni Turismo, Gran Turismo e Sport.
Durante il quinquennio 1935-’40 non si contano i perfezionamenti e le modifiche: teste lubrificate, tubi di scarico unici o doppi, bassi o rialzati, cambi comandati a mano o a pedale, telai rigidi o elastici, strumentazioni di bordo più o meno ricche, mozzi e freni delle migliori marche. Ancora oggi si stenta a credere come tale variatissimo listino sia potuto uscire da una fabbrica con solo venticinque operai, dieci apprendisti e cinque impiegati.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, la vendita delle moto si riduce drasticamente per essere infine vietata, lasciando solo qualche spazio ai motocarri. Mario Cavedagni muore il 14 novembre 1940 e alla conduzione della CM subentra la vedova, Irma Ginepri, che affronta con coraggio le difficoltà del periodo bellico assistita da fedeli collaboratori. Così, già verso la fine del 1945, la ditta è nuovamente presente sul mercato con qualche moto di tipo pre-bellico prodotta con rimanenze di magazzino o avventurosi acquisti. Nel 1946 il listino offre pochi, ma aggiornati articoli: moto 250 e 500 con distribuzione a tiges, nonché un motocarro 600, utile nei cantieri della ricostruzione.
La nuova produzione inizia nel 1948 con una motoleggera 125, economica e facile da guidare, che vedrà poi le versioni Turismo, Sport, Gran Sport.
L’anno seguente è la volta della 250 bicilindrica a due tempi, massima espressione della tecnica CM, destinata a continui aggiornamenti. Aggiornato il listino, forse troppo assortito, vengono introdotte alcune novità organizzative e tecniche: gli operai, riassunti o nuovi, sono circa venti; mancando le forniture di Drusiani, vengono montati in ditta i componenti del motore e del cambio ordinati a case specializzate.
Ritorna, infine, in azienda Renato Sceti che, dando il suo apporto alla messa a punto della celebre Mondial 125 brevettata da Drusiani, fa parte dell’equipe che la segue nelle prime grandi affermazioni e nella conquista dei prestigiosi Record mondiali di velocità del 1948-’49.
Nel 1949 Franco Cavedagni, divenuto maggiorenne, condivide con la madre Irma la conduzione della ditta, con una nuova ragione sociale. Questo accordo coincide con una svolta nell'indirizzo produttivo: abbandonata la linea classica a quattro tempi di grossa o media cilindrata, viene sviluppata quella a due tempi, moderna e gradita, di cilindrata 125 e 250.
La 250, creata nel 1949 da Sceti, avrà una carriera sportiva tale da essere considerata una delle più interessanti quarto di litro fabbricate in Italia. Dai primi modelli Turismo si ricavano moto dalle caratteristiche eccezionali come la Sport e la Supersport SS.
Nel settore quattro tempi viene proposto nel 1954 il Francolino 175 nei tipi Turismo con distribuzione a tiges e Sport o Centauro con distribuzione ad albero a camme in testa.
Per il mercato dei mezzi di trasporto a tre ruote sono, infine, proposti il mototriciclo 49, il furgoncino 48, il Muletto 160 e, soprattutto, il motocarro 175 a quattro tempi.
L’aggiornamento del catalogo e l’assidua presenza nelle competizioni assicurano alla CM, fino al 1955, un costante aumento nelle vendite.
L’impiego utilitario della moto cederà spazio, di lì a poco, a quello dell’automobile, divenuta accessibile nel prezzo per larghi strati della popolazione.
Inizia una fase negativa, a danno soprattutto delle moto di grossa cilindrata o di classe, a vantaggio di ciclomotori e scooter. Ne soffre gravemente la CM, che ha spesso adottato motori veloci, ciclistica speciale, finiture impeccabili. Il crollo delle vendite nei settori alti della produzione non è compensato dal recupero con le cilindrate minori o con i motocarri.
Il marchio CM viene concesso alla Ditta Negrini di Vignola per i suoi ciclomotori. La CM vede crescere le passività, così nel 1958 viene imposta l’amministrazione controllata, seguita dalla procedura fallimentare nel 1959.
È la fine di una storia che ha dato molto anche all'attività agonistica del settore. L’esordio sportivo della CM avviene l’8 maggio 1930 al V Gran Premio Reale di Roma, dove il pilota Primo Zini, che della casa è anche meccanico collaudatore, giunge al secondo posto. Memorabile, poi, il successo nel 1932 di Celeste Cavaciuti, Primo Zini e Nello Pagani, ai primi tre posti alla Milano-Roma-Napoli. A seguire, qualche altra affermazione e diversi piazzamenti, soprattutto nelle gare di regolarità, allora molto in voga. Dal 1934, con la 250, gareggiano per la regolarità Giuseppe Boselli, poi titolare di FB e Mondial, per la velocità Guglielmo Sandri e Nino Martelli. Ma nel 1935-’36 diminuiscono le competizioni a causa delle restrizioni dei carburanti imposte dalla Società delle nazioni per la guerra d’Etiopia. La CM si fa valere nella 350 dove le grandi case italiane sono assenti, modificando il tipo monoalbero a seconda delle esigenze dei piloti, come Nino Martelli, Marino Guarnieri e Domenico Carancini.
Nel dopoguerra le moto tradizionali non ottengono grandi successi, fatta eccezione per quelli di Hugo Moradei su Gheppio 250 in Brasile, di Luigi Albertazzi su 500 nel motocross e di Guido Borri su 560 side nella Milano-Taranto. Le nuove 125, 160, 175 sono, invece, adatte alle gare di regolarità, di velocità in piano ed in salita, di gran fondo come la Milano-Taranto, la 12 Ore di Imola, il Motogiro, dove si fanno valere.
La CM non può permettersi piloti ufficiali, ma le sue moto, semplici, sicure, veloci, di prezzo ragionevole, sono utilizzate fino agli anni Sessanta da molti piloti privati nelle categorie MSDS, Cadetti e Juniores. Una storia, dunque, quella della casa bolognese che ha dato tanto allo sport, ma anche alla quotidianità delle persone.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Anselmo Ronzieri viene festeggiato dai tifosi entusiasti dopo la vittoria con la C.M nella Classe 250 sul Circuito di Melzo, il 17 luglio 1938; [fig. 2] Il titolare della C.M, Mario Cavedagni, con la 250 Corsa da poco realizzata (1934 ca.); [fig. 3] In sella ad una C.M 250, in gara nella 24 Ore di Regolarità del 1936, Giuseppe, Boselli, industriale dalle nobili origini, titolare della lombarda F.B.  A Bologna trovò i tecnici in grado di costruirgli la mitica F.B-Mondial 125 Campione del Mondo nel triennio 1949-’51; [fig. 4]  Guido Borri, alla guida della C.M side-car, ed il passeggero Italo Neri sono qui impegnati in un passaggio acrobatico nell’edizione 1956 della Milano-Taranto, una delle più prestigiose gare di regolarità italiane dell’epoca; [fig. 5]  Questi due centauri parteciparono nel 1948 alla Cronoscalata Bologna-Osservanza. Franco Cavedagni, con la C.M 350 monoalbero (n. 37), arrivò 4°; Arciso Artesani, sulla Gilera Saturno 500 (n. 101) per noie al magnete si fermò poco dopo la partenza; [fig. 6]  Sulla C.M 175 Super Sport è seduto Claudio Martelli, giovane pilota emergente, in gara a Cortemaggiore il 30 settembre 1934.

Informazioni utili 

«Moto Bolognesi C.M - Trent’anni memorabili 1929-1959». Museo del Patrimonio Industriale | Fornace Galotti, via della Beverara 123 – Bologna. Orari di apertura: fino al 28 febbraio 2018 - dal martedì al venerdì, ore 9.00 – 13.00, sabato, ore 9.00 – 18.30. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00; gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e la prima domenica del mese. Informazioni: tel. 051.6356611 e  museopat@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/patrimonioindustriale. Fino al 3 giugno 2018