ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 27 luglio 2012

Robert Capa, il fotografo che raccontò la Storia

«Amare la gente e farglielo capire». Era questa la filosofia di vita di Endre Ernő Friedmann, in arte Robert Capa. L’interesse per il «fattore umano» è infatti, sempre stato fondamentale per il fotoreporter ungherese che, con l’obiettivo attento e curioso della sua Leica, ha raccontato i fatti più importanti della storia, fissando sulla pellicola e divulgando attraverso la carta stampata gli sguardi e i volti dei protagonisti di eventi come la Guerra civile spagnola (1936-1939), l’invasione giapponese della Cina (1938), la Seconda guerra mondiale, il conflitto arabo-israeliano (1948) e quello indocinese (1954).
Una selezione di queste immagini, scelte tra gli oltre settantamila negativi del fotografo, conservati presso l’archivio dell’Agenzia Magnum Photos, sono in mostra a Verona, nei suggestivi spazi del Centro internazionale di fotografia Scavi scaligeri, per iniziativa della stessa Magnum Photos, la famosa agenzia che Robert Capa fondò, nel 1947, con gli amici Henri Cartier-Bresson e David Seymour.
L’esposizione, in programma fino a domenica 16 settembre, ripercorre la straordinaria carriera del fotoreporter di Budapest, definito dalla prestigiosa rivista inglese «Picture Post» «il miglior fotoreporter di guerra del mondo», attraverso novantotto immagini in bianco e nero, a partire dal primo reportage, datato 1932 e dedicato al rivoluzionario Leon Trotsky in esilio a Copenhagen, per giungere al 25 maggio 1954, giorno nel quale Robert Capa, poco più che quarantenne, perse la vita, calpestando una mina anti-uomo su un sentiero indocinese, mentre era intento a fotografare le manovre francesi sul delta del Fiume Rosso.
Dagli anni del Fronte popolare a Parigi allo sbarco in Normandia, dalla liberazione anglo-americana della Sicilia alla nascita dello Stato di Israele, dai reportage in Unione Sovietica (1947) e in Giappone (1954) fino all’ultima campagna fotografica, per «Life», in indocina: quello che il fotografo ungherese, l’uomo capace di «mostrare l’orrore di un intero popolo nel volto di un bambino», come ebbe a scrivere il biografo Richard Whelan, consegna al visitatore è il racconto di un ventennio di storia mondiale, un racconto fatto attraverso immagini famose, che sono entrate a far parte del nostro patrimonio visivo del Novecento.
Un esempio su tutti è la chiacchieratissima «Morte di un miliziano lealista», una fotografia del settembre 1936, scattata sul fronte di Cordova, che per l’impatto visivo viene paragonata a «Guernica» di Pablo Picasso. L’immagine ritrae un soldato repubblicano che sta per cadere al suolo con le braccia spalancate, colpito a morte. L’attimo è colto con un tale tempismo che, in anni recenti, più di una persona ha accusato l’autore di aver chiesto al giovane di mettersi in posa. In realtà, la foto sembra essere originale. A tacere, ma mai definitivamente, le voci di dubbio sull’autenticità del celebre scatto, sono state delle ricerche che hanno identificando il soldato raffigurato con Federico Borrell Garcia, caduto in battaglia a Cerro Muriano, e che hanno permesso all'Internation Center of Photography di Manhattan di recuperare il negativo dell’immagine.
Altri scatti leggendari sono quelle che raccontano il D-Day, ossia lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944. Robert Capa arrivò in Francia con i soldati americani, e nella confusione riuscì a catturare perfettamente il clima, la tensione e il pericolo che venne affrontato nello storico attacco annunciato da Dwight David Eisenhower. Quel giorno il fotografo scattò settantadue foto, delle quale ne rimangono soltanto undici tremolanti testimonianze, a causa della fretta maldestra di un tecnico di «Life», che, per accelerare l’asciugatura, ne rovinò irrimediabilmente l’emulsione. Sono scatti, noti per quella didascalia, «Sligtly out of Focus» («Leggermente fuori fuoco»), scelta come titolo per la autobiografia di Robert Capa, che rappresentano il documento per antonomasia di che cosa significhi «essere sulla notizia», nella storia da raccontare, accanto a quei soldati con i quali, nelle settimane precedenti, si era condiviso la sofferenza del conflitto, la solitudine della distanza, la paura di non tornare più a casa.
Robert Capa conosceva bene il dolore che andava raccontando con il suo lavoro. A diciassette anni aveva dovuto abbandonare il Paese natale, l’Ungheria, per l’adesione ad alcune attività studentesche di sinistra contro il regime proto-fascista dell’ammiraglio Moklós Horthy. Due anni dopo, nel 1933, era stato costretto a lasciare la Germania, dove si era rifugiato, per sfuggire all’antisemitismo nazista. Nel 1937, sul fronte spagnolo, durante i combattimenti svoltisi a Brunete, aveva perso la compagna, Gerda Taro, la donna che aveva cambiato per sempre il suo destino, inventando il personaggio del misterioso fotografo americano Robert Capa, del quale solo lei poteva «girare» le fotografie e venderle ai giornali. Più che uno stratagemma pubblicitario, un’incredibile premonizione. Scoperto il bluff, infatti, Endre Ernő Friedmann fu per tutti, sempre e soltanto, Robert Capa. Da tutto questo nasceva quell’«empatia irresistibile» per il prossimo, della quale ha parlato John Steinbeck,
Ma la vita di quest’uomo dal carattere curioso, dall’intelligenza viva e dalla battuta sempre pronta non era fatta solo di guerra e di morte. Robert Capa era anche una persona che sapere ammaliare gli altri, con il suo sorriso guascone e l’inguaribile entusiasmo, tanto da farsi molti amici tra le persone dello spettacolo e della cultura. Ecco così sfilare in mostra a Verona numerosi ritratti di vip dell’epoca: dall’algida Ingrid Bergman ad un innamorato e servizievole Pablo Picasso, da Henri Matisse all’amico Ernest Hemigway, lo scrittore chiamato simpaticamente «papà», che, alla notizia della morte del fotoreporter ungherese, disse: «Capa è stato un buon amico e un grande e coraggiosissimo fotografo. Era talmente vivo che devo mettercela tutta per pensarlo morto».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Robert Capa, Contadino siciliano indica la direzione presa dai tedeschi nei pressi di Troina, Sicilia, 4 - 5 agosto 1943. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto; [fig. 2] Robert Capa, Morte di un miliziano lealista, Fronte di Cordova, inizio settembre 1936. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto; [fig. 3] Robert Capa, Sbarco delle truppe americane a Omaha Beach, Normandia, Francia. 6 giugno 1944. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto; [fig. 4] Robert Capa, Henri Matisse. Cimiez, Nizza, Francia, agosto 1949. © Center International of Photography / Magnum Photos / Contrasto

Informazioni utili
Robert Capa. Centro internazionale di fotografia Scavi scaligeri – cortile del Tribunale, piazza Viviani – Verona. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-19.00; giovedì aperto fino alle ore 22.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00, ridotto scuole e ragazzi € 1,00. Nota: il giovedì, alle ore 18.30, e la domenica, alle ore 11.00, visita guidata compresa nel biglietto d'ingresso. Catalogo: Silvana editorale, Cinisello Balsamo (Milano). Informazioni: tel. 045.8007490/8013732/8000574 o scaviscaligeri@comune.verona.it. Sito internet: www.comune.verona.it/scaviscaligeri/index.htm. Fino a domenica 16 settembre 2012.

mercoledì 25 luglio 2012

Bergamo, tre Botticelli per una mostra

E’ costruita attorno all’intenso «Vir dolorum» («Cristo Dolente»), recentemente restituito alla mano di Sandro Botticelli, la piccola, ma preziosa mostra temporanea che l’Accademia Carrara di Bergamo propone per tutta l’estate e fino all’inverno. Solo tre le opere esposte, per la curatela di Maria Cristina Rodeschini, negli spazi di Palazzo della Ragione, dal 27 luglio al 4 novembre. Tre opere, queste, raccolte in mostra sotto il titolo di «Sandro Botticelli ‘persona sofistica’» (secondo la definizione di Giorgio Vasari nelle sue «Vite»), che rappresentano una sintesi ad alto livello del percorso professionale del maestro fiorentino, dal primo periodo, documentato dal noto «Ritratto di Giuliano de’ Medici» (1478 – 1480, tempera e olio su tavola, cm 60 x 41), sino ai due versanti tematici, sacro e profano, del «Cristo dolente» e della tavola raffigurante la «Storia di Virginia» (circa 1500 – 1510, tempera e oro in conchiglia su tavola, cm 83 x 165). Tutti questi lavori, sottoposti a restauro negli ultimi anni fanno parte della collezione dell’Accademia Carrara.
Opera dal forte impatto emotivo e dagli effetti luminosi e cromatici di grande raffinatezza, il «Cristo dolente» (1495–1500, tempera e oro su tavola, cm 47x32), a lungo trascurato dalla critica, è stato, in tempi recenti, definitivamente attribuito a Botticelli. L’opera, restaurata da Carlotta Beccaria nel 2010 per essere esposta nella mostra dedicata all’artista al Museo Poldi Pezzoli di Milano, rappresenta un chiaro esempio del tardo stile del maestro, in cui la ricerca di drammaticità ed espressività e il forte carattere mistico e pietistico costituisce un richiamo alla spiritualità savonaroliana della fine del XV secolo.
Le ricerche condotte da Andrea Di Lorenzo hanno ricostruito l’intricata vicenda che ha visto il Cristo separarsi dalla «Mater Dolorosa», con la quale costituiva un dittico destinato al culto privato, che nella mostra bergamasca è “virtualmente” riunito all’opera perduta, finora mai segnalata nel catalogo dell’artista.
Come le altre opere di Botticelli conservate nella Pinacoteca, il «Cristo dolente» giunse nelle raccolte della Carrara dalla donazione del grande storico dell'arte Giovanni Morelli, che lo aveva acquistato a Firenze. In seguito, la tavola raffigurante la Vergine entrò a far parte della collezione della granduchessa Maria di Russia, figlia dello zar Nicola I, ma se ne perderanno le tracce dal 1913, anno in cui è esposto all’Ermitage di San Pietroburgo. La riproduzione della «Mater dolorosa» pubblicata nel raro catalogo di questa mostra (dove si citano anche le misure, del tutto coincidenti con quelle del suo pendant conservato a Bergamo) costituisce l'ultima traccia dell'opera, oggi considerata perduta, ma ha consentito di riunire idealmente due opere destinate a completarsi.
La mostra prosegue con la presentazione del restauro del ritratto del giovane Giuliano de’ Medici, fratello minore di Lorenzo il Magnifico, morto nel 1478 nella Congiura dei Pazzi, che tentò di porre fine all’egemonia della famiglia medicea. L’intrigo segue il giovane -qui azzimato in camicia bianca, giornea e zuppone- oltre la morte e ancora oggi pone l’opera al centro del dibattito: tra le varie copie del suo ritratto realizzate da Botticelli, non si riesce a identificare il prototipo -la versione conservata a Washington, ricca di dettagli, o quella conservata a Berlino, dal modellato più morbido?- e la fonte di ispirazione. Quello che è certo è che si tratta di un ritratto commemorativo.
Il dipinto è stato oggetto di un delicato intervento conservativo, sostenuto da Italia Nostra (sezione di Bergamo) ed eseguito da Carlotta Beccaria, per la superficie pittorica, e da Roberto Buda, per il supporto ligneo, i quali, con la direzione di Amalia Pacia della Soprintendenza per i Beni storici e artistici di Milano, si sono occupati non solo del restauro pittorico, ma prima ancora nel recupero del supporto, con la rimozione della rigida ‘parchettatura’, applicata in precedenti interventi, che aveva causato sulla tavola pericolose fenditure, la maggiore delle quali attraversava l’occhio e il naso scendendo fino alla veste.
Il dipinto raffigurante la «Storia di Virginia», infine, che ha il suo pendant nella «Storia di Lucrezia», conservato all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, era parte integrante di una spalliera, manufatto molto diffuso nell’ultimo quarto del Quattrocento. Riprendendo la vicenda narrata dallo storico Tito Livio, Botticelli rappresenta gli episodi cruciali della triste storia della giovane Virginia: il rapimento da parte del capo dei decemviri, Appio Claudio, e del suo legato Marco Claudio, la morte per mano del padre nel tentativo di salvarne l’onore, e la rivolta popolare che ne scaturì. Le vicissitudini di Virginia, come quelle di Lucrezia, divennero chiaro esempio di castità e fedeltà, spesso raffigurate nei forzieri nuziali, fino a diventare allegorie adottate dall’Umanesimo civile italiano. L’analisi stilistica dell’opera spinge a collocarla tra il 1496 e il 1500, quindi durante l’ultima attività di Botticelli, coadiuvato dai suoi collaboratori. In questa occasione si presenta anche il restauro dell’opera, eseguito nel 2000 da Rossella Lari, con la direzione di Emanuela Daffra della Soprintendenza per i Beni storici e artistici di Milano, nell’ambito del progetto «Restituzioni» della banca Intesa Sanpaolo. In occasione dell’esposizione, che è corredata da una videoguida italiano/inglese, è stato pubblicato il quarto numero della collana «I Quaderni sul Restauro» (Lubrina Editore), con introduzione di Maria Cristina Rodeschini e Serena Longaretti, testo critico e schede di Andrea Di Lorenzo, relazioni di restauro di Carlotta Beccaria, Roberto Buda e Rossella Lari.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Sandro Botticelli,«Cristo Dolente in atto di benedire», 1495 – 1500, Tempera e oro su tavola, cm 47 x 32. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara; [fig. 2] Sandro Botticelli, «Mater dolorosa». Dal catalogo della mostra «L'eredità della granduchessa Maria Nikolaevna», a cura di N. N. Vranghel, San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage, 1913;[fig. 3] Sandro Botticelli, «Storia di Virginia», circa 1500 – 1510, Tempera e oro in conchiglia su tavola, cm 83 x 165. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara; [fig. 4] Sandro Botticelli, «Ritratto di Giuliano de’ Medici», 1478 – 1480, Tempera e olio su tavola, cm 60 x 41. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara. 

Informazioni utili
Sandro Botticelli ‘persona sofistica’. Palazzo della Ragione, piazza Vecchia - Bergamo Alta. Orari: fino a settembre, martedì-domenica 10.00-21.00; sabato sino alle 23.00; da ottobre a novembre, martedì-venerdì 9.30-17.30; sabato e domenica 10.00-18.00. Ingresso: intero € 5,00; ridotto e gruppi € 3,00; scuole, giovani card e family card € 1,50.  Prenotazioni e visite guidate: tel. 035.218041 (lunedì-venerdì, ore 9.00-18.00). Informazioni: tel. 035.399677. Sito internet: www.accademiacarrara.bergamo.it. Dal 27 luglio al 4 novembre 2012. 

lunedì 23 luglio 2012

Montale e De Pisis: dalla poesia alla pittura, andata e ritorno

«Qualche anno fa, a Parigi, portai alcuni quadri e disegni a un vecchio artigiano perché facesse le cornici. Più che vecchio era antico, apparteneva a una razza civile che si sta estinguendo anche in Francia (più lentamente che in Italia), quella dell’artigiano colto. Guardò con indifferenza quadri e disegni che portavano firme note e si fermò su uno: ‘Questo è il più bello. Si capisce che non è di un pittore di professione, ma è pieno di talento. Deve essere di un poeta’». L’opera alla quale fa riferimento questo episodio raccontato da Guido Pioveve, in un numero de «L’Europa letteraria» del 1946, è di Eugenio Montale.
Dal 1938 alla fine degli anni Settanta, l’autore di «Meriggiare pallido e assorto» non si è, infatti, limitato a esprimere emozioni e sensazioni con le sole parole, ma ha anche disegnato e dipinto, cercando di dare forme e colori a luoghi e persone, che erano alle origini delle sue suggestioni poetiche.
Le prime prove dello scrittore e giornalista genovese riguardano disegni a matita e inchiostro, raffiguranti ritratti di amici o composizioni floreali. Il passaggio al colore avviene nel 1945, su sollecitazione di Raffaele De Grada, suo maestro insieme con Guido Peyron.
I temi sono quelli della pittura tradizionale, la natura morta e le vedute paesaggistiche, dipinti a olio su tavola di legno e, dopo il trasferimento a Milano del 1948, tracciati a pastello su carta, cartone o «materiali di fortuna». In questi lavori, in cui il soggetto viene reso attraverso segni rapidi e «lievi cipre di colore», il poeta presenta, a detta del critico Franco Russoli, «vere occasioni di incontro evocativo, di durata intimista, dove l’oggettivazione acquista toni visionari, un candore di tenera magia». I riferimenti più prossimi di questi suoi «paesaggi dell’anima» –è lo stesso artista a rivelarlo- sono Giorgio Morandi e Filippo De Pisis, dei quali possedeva più di un’opera nella sua collezione.
Nel 1955, Eugenio Montale scopre, poi, l’originalità di una pittura dall’evidente prossimità al linguaggio informale, fatta di materiali non tradizionali, che si possono trovare ovunque: caffè, cappuccino, vino bianco e rosso, olio, cenere, rossetto, dentifricio e mozziconi di sigaretta, senza contare l’osso di seppia sul quale, nel 1972, traccia il profilo di un’upupa, uccello al quale lo scrittore dedica addirittura una serie pittorica.
Uno spaccato di questa estrosa produzione rivive, fino a domenica 26 agosto, negli spazi del Museo d’arte Mendrisio, nel Canton Ticino, dove è allestita la mostra «De Pisis e Montale. Le occasioni tra poesia e pittura», a cura di Paolo Campiglio. Una quarantina di carte dipinte e incise del giornalista ligure, del quale sono esposti anche documenti e autografi provenienti dal Fondo Montale del Centro manoscritti dell’Università di Pavia, dialogano con una cinquantina di opere, in prevalenza oli su tela e chine acquerellate, del maestro ferrarese, focalizzando l’attenzione del visitatore su temi quali -precisano gli organizzatori- «il paesaggio mediterraneo e il rapporto con gli elementi naturali, la poetica dell’oggetto e la reificazione dell’io, il motivo degli uccelli impagliati o degli animali tragici, il ritratto come presenza evanescente, la città».
I due artisti, coetanei del 1896, si conobbero a Genova, nel 1919, grazie a un amico comune e, da allora, si frequentarono durante le ferie estive, tra Rapallo e Cortina, si dedicarono opere e si scrissero. Tra le carte di questa loro corrispondenza sono state scoperte anche due chicche: lo schizzo montaliano di un ritratto e il manoscritto originale, fino ad oggi sconosciuto, dell'epigramma «Alla maniera di Filippo De Pisis», inserito nella prima edizione delle «Occasioni», quella del '39, sul quale sono visibili varianti e cancellature per mano dello stesso autore. Un dono, questo, al quale il pittore ferrarese, che aveva iniziato la sua carriera come letterato, rispose, «per amichevole contraccambio», con un altro regalo: l’opera «Natura morta con beccaccino» (1932). Questo olio su tela è esposto, a Mendrisio, accanto ai fogli dell’«Erbario», realizzati dallo stesso artista nel 1917 e provenienti dal Museo botanico dell’Università di Padova, e a altre sue celebri nature morte, composizioni in cui grandi conchiglie, raffigurate in primo piano, dialogano con ampi orizzonti, o opere nelle quali sono rappresentati oggetti come una boccetta di inchiostro, un ventaglio o una scatola di fiammiferi. E’ il caso di «Natura morta marina con guanto» (1927), «Uccelli impagliati» (1947) o «Il ventaglio cinese» (1947) messe, qui, a confronto con alcuni lavori dell’ultimo periodo della vita, provenienti dalla collezione della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Ferrara, come «La rosa nella bottiglia» (1950), dove i soggetti ricorrenti della produzione di Filippo De Pisis appaiono quasi ‘sbiancati’ da una luce abbacinante.
Non manca, poi, in mostra un esaustivo apparato documentario, arricchito da rare edizioni delle prime raccolte liriche del poeta, come la prima edizione delle «Occasioni» fitta di annotazioni di Filippo De Pisis, a fianco dei libri di poesie o con illustrazioni del pittore emiliano, come la ristampa del volume «Poesie», (Vallecchi, 1954), per la quale Eugenio Montale scrisse sul «Corriere della Sera»: «in linea di principio non siamo tra coloro che diffidano dei pittori che scrivono o dei letterati che dipingono». Una chiosa perfetta per questa suggestiva mostra che racconta di un’amicizia fatta di parole, colori, inchiostro e pennelli.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Eugenio Montale, «Roccolo», 1971. Tecnica mista su carta, cm9 x 13.8; [fig. 2] Filippo De Pisis, «Venezia Marina», 1930. Olio su cartone, 50x70 cm. Collezione Piero Zanetti; [fig. 3] Eugenio Montale, «Pseudo-Pound», 1964. Pastelli su carta. cm 13x13; [fig. 4] Filippo De Pisis, «Natura morta», 1930 ca.. Olio su tela, cm 60x73; [fig. 5] Filippo De Pisis, «Natura morta con beccaccino», 1932. Olio su tela, cm73x92; [fig. 6] Eugenio Montale,«Upupa», 1966. Acqueforte colorata

Informazioni utili
De Pisis e Montale. «Le occasioni» tra poesia e pittura. Museo d'arte Mendrisio, piazza San Giovanni, casella postale 142 - Mendrisio (Svizzera, Canton Ticino). Orari:martedì-veneredì, ore 10.00–12.00/14.00–17.00; sabato-domenica, ore 10.00–18.00;; chiuso i lunedì non festivi.Ingresso: intero ChFr 10,00; ridotto ChFr 8,00. Informazioni: tel. +41(0)91.6403350 o museo@mendrisio.ch. Sito internet: www.mendrisio.ch/museo. Fino a domenica 26 agosto 2012.