«Divin pittore» è un'etichetta non facile da portare. Giovanni Santi, padre di Raffaello Sanzio, la usò, nel suo «Cronaca rimata» (1485 ca.), un lungo poema in terzine scritto in onore del duca di Urbino, Federico da Montefeltro, per due allievi della prestigiosa bottega fiorentina di Andrea Verrocchio: «due giovin par d'etade e par d'amori,/Leonardo da Vinci e l'Perusino, Pier della Pieve, che son divin pictori».
L'artista e scienziato Leonardo -grazie al suo genio multiforme, impossibile da imprigionare in qualsiasi formula- se ne liberò presto. A Pietro Vannucci (Città della Pieve, 1450 ca.–Fontignano, 1523), detto il Perugino, l'etichetta rimase, invece, attaccata per sempre. La sua pittura, pervasa da un senso di pace e di armonia ultraterrena con figure dall'aspetto dolce e malinconico ad animare paesaggi agresti di rara bellezza e dalle raffinate luminosità, ne fece uno dei principali protagonisti dell'arte rinascimentale italiana, uno degli artisti che più incontrarono il gusto del tempo e della committenza: il papato, le corporazioni religiose, le corti e i signori.
E’ sufficiente sfogliare il catalogo delle iperbole che alcuni contemporanei usarono a proposito del suo modo di dipingere per capire quanto fosse grande la sua fama nei decenni a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Tre esempi su tutti lo dimostrano: il nobile Agostino Chigi, in una lettera al padre Mariano, definì il Perugino «il meglio mastro d'Italia» (1500); un anonimo corrispondente del duca di Milano, Gian Galeazzo Sforza, aggiunse che le sue «cose» avevano «aria angelica et molto dolce» (1485 ca.); mentre Sabba da Castiglione ebbe a scrivere di lui che era un pittore «valente, delicato, vago, piacevole et diligente» («Ricordi», 1505-1515). Anche Giorgio Vasari, che pur non provava grande simpatia per il maestro di Raffaello (sue sono le accuse di avarizia, irreligiosità e scarsa inventiva), fu costretto a dichiarare ne «Le vite» (1568) che la sua arte «tanto piacque al suo tempo che vennero molti di Francia, di Spagna, d'Alemagna e d'altre province per impararla».
Lo stile figurativo limpido, pacato e apparentemente semplice del Perugino, in cui la lezione luminosa di Piero della Francesca diventa un tutt'uno con il plasticismo del Verrocchio, si impose, infatti, a tal punto da diventare un canone da imitare, dando vita a quel vasto fenomeno derivativo che Roberto Longhi definì efficacemente «editoriale peruginesca». Poi, con l'affrancarsi delle novità introdotte in pittura da Michelangelo Buonarrotti e dallo stesso Raffaello, venne la stagione del progressivo accantonamento e della morte quasi in oblio.
Artista molto legato al territorio d’origine, il Perugino, la cui opera più famosa è senz’altro la «Consegna delle Chiavi» (1482) per la Cappella Sistina, dipinse alcuni dei suoi ultimi lavori per le chiese e le pievi comprese nel territorio tra la natia Città della Pieve e lo specchio lacustre del Trasimeno, in borghi carichi di suggestioni come Panicale e Fontignano. Questi stessi luoghi fanno da fondale a molte delle scene raffigurate dall’artista, scene per nulla secondarie nell'organizzazione delle opere, che passano, nel corso degli anni, da una descrizione idealizzata e aspra, di ascendenza tardo-gotica, a una realistica, che si ispira alla lezione dei fiamminghi, ma che è sempre ancorata all'esperienza personale dell'artista. E’ il caso dell’«Adorazione dei Magi» (1504) per l’Oratorio di Santa Maria dei Bianchi a Città della Pieve, un affresco dalle atmosfere rarefatte e bucoliche, la cui integrazione armonica tra figure e paesaggio, l’abilità nella resa delle vesti fluenti dei tanti personaggi raffigurati e la varietà dei costumi sono «elementi che appartengono -si legge nella monografia edita da Skira, per la collana «I classici dell’arte»- al miglior Perugino di quel periodo e che rivelano la sua capacità di mantenere un alto livello di qualità quando la volontà prende il posto della mera pratica di mestiere».
Sempre nel borgo umbro, diventato famoso per essere stato il set della fiction «Carabinieri», l’artista lasciò altre due sue opere, nel Duomo: la «Madonna con Bambino e i Santi Pietro, Paolo, Gervasio e Protasio» (1514) e il «Battesimo di Gesù» (1510 ca.), lavoro, quest’ultimo, che trova riscontro in una tavola di uguale soggetto conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna e nell’affresco della Nunziatella di Foligno. Nella Chiesa di Santa Maria dei Servi è, invece, possibile ammirare una meravigliosa «Deposizione dalla croce» (1517), nella quale il Perugino offre il meglio di sé nella fusione dei colori che non hanno più nulla della compostezza lucida e un po’ priva d’energia delle tavole più accademiche del periodo.
Il viaggio, dopo aver visto la Chiesa di San Pietro (con il fondo raffigurante «Sant’Antonio Abate tra i Santi Paolo eremita e Marcello») e l’esterno della casa natale dell’artista, può proseguire verso il piccolo borgo di Panicale, che conserva l’opera «Madonna con il bambino e la Maddalena» e il «Martirio di San Sebastiano» (1505), un affresco nel quale appare evidente quell’enfasi artificiosa ed esagerata nel ritrarre le figure che, lentamente, fece diventare il Perugino un personaggio marginale nella storia dell’arte.
Una tappa merita, infine, la chiesa dell'Annunziata di Fontignano, dove venne dipinto anche un «Presepe», staccato a metà dell’Ottocento e oggi conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, e all’interno della quale si trova l'ultimo lavoro dell'artista: la «Madonna con il bimbo in trono». La tradizione racconta che, proprio mentre dipingeva quest'opera, il maestro fu colpito dalla peste che lo uccise. Il Perugino era ormai, da tempo, lontano dal gotha dell'arte, escluso dalle grandi imprese culturali e dai dibattiti che animavano Roma e Firenze. I grandi committenti si erano stancati della sua pittura. Quella formula rasserenante e tranquilla che tanto attrae gli stressati turisti di oggi, quel «museo delle cere -scrisse Carlo Castellaneta- dove le statue muovono le labbra e pronunciano parole che il nostro udito terreno non afferra», aveva fatto il suo tempo.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Pietro Vannucci detto il Perugino, «Adorazione dei Magi», 1504. Città della Pieve, Oratorio di Santa Maria dei Bianchi; [fig. 2] Pietro Vannucci detto il Perugino, «Il martirio di San Sebastiano», 1505. Panicale, chiesa di San Sebastiano;[fig. 3] Pietro Vannucci detto il Perugino, «La deposizione dalla Croce» (particolare dello «Svenimento di Maria»), 1517. Città della Pieve, Chiesa di Santa Maria dei Servi
Informazioni utili
STT del Trasimeno, piazza Mazzini, 10 – Castiglione del Lago (Perugia), tel. 075.9652484 o info@iat.castiglione-del-lago.pg.it. Sito internet: www.pietroperugino-trasimeno.net.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
venerdì 3 agosto 2012
Da Città della Pieve a Fontignano: sulle tracce del Perugino nelle terre del Trasimeno
mercoledì 1 agosto 2012
Assisi, passeggiando nel bosco sacro di San Francesco
C’è la bellezza del paesaggio naturalistico, caratterizzato da stretti viottoli ombreggiati da aceri, querce roverelle e ginepri, da grandi distese di ulivi e da macchie colorate che profumano di ginestra, violetta e rosa canina. C’è il paziente lavoro dell’uomo, che, nel corso di ottocento anni, ha popolato la natura con costruzioni semplici e di grande fascino: una chiesa duecentesca, una torre medioevale, un vecchio mulino, resti di uno «Spedale» benedettino e un convento femminile del XIII secolo si materializzano, a sorpresa, lungo il cammino. C’è, soprattutto, la suggestione di un pellegrinaggio, da compiere in solitaria contemplazione, sulle orme di uno dei santi più amati del nostro tempo, per meditare su quel senso di armonia tra uomo e ambiente che è la grande cifra del pensiero francescano. Sono queste le tre le anime del Bosco sacro di San Francesco ad Assisi, un’area di sessantaquattro ettari di paesaggio rurale, con terreni boschivi, radure, campi coltivati importanti elementi architettonici, che il Fai (Fondo per l’ambiente italiano) ha, in parte, riaperto lo scorso novembre, dopo un significativo intervento di restauro paesaggistico.
Era il 2008 quando Intesa San Paolo donava alla fondazione milanese quest’oasi di paradiso, allora in evidente stato di degrado, alla quale si accede a fondovalle, dalla restaurata Chiesa di Santa Croce (dove è stato risistemato un affresco seicentesco raffigurante un crocifisso senza il corpo di Cristo, a significare che si tratta di un luogo aperto alla riflessione per gli uomini di tutte le religioni) oppure dall'alto, dalla piazza superiore di San Francesco, proprio davanti all'ingresso della Basilica superiore.
Il progetto di riqualificazione, sia architettonico sia paesaggistico, ha interessato quindici dei sessantaquattro ettari che compongono la proprietà, il cui rigoglioso ambiente fa da sfondo a tante opere di Giotto.
Grazie all’aiuto di tantissimi volontari e d'accordo con i frati del Sacro convento di Assisi, il Fai (Fondo per l’ambiente italiano) ha raccolto oltre trenta tonnellate di rifiuti, ha risistemato i muretti a secco e i sentieri, ha piantumato più di duecento olivi e oltre mille nuovi arbusti e, infine, ha commissionato un’opera di land art a Michelangelo Pistoletto. E’ lì, nella radura ombreggiata dalla trecentesca Torre Annamaria, che i tre percorsi di visita proposti –paesaggistico, storico e spirituale- si incontrano.
E’ lì che si giunge dopo aver intrapreso il sentiero che dalla piazza superiore di San Francesco, attraverso la selva di San Francesco (proprietà del Sacro Convento), scende al complesso di Santa Croce, per, poi, risalire la Valle del Tescio e ritornare lungo la sponda opposta del torrente, verso il Mulino.
Il lavoro, intitolato «Il terzo paradiso», è formato da tre cerchi disegnati arando nel campo e si compone di centoventuno ulivi disposti a doppio filare, al centro dei quali si trova un’asta in acciaio inox alta dodici metri, che vuole simboleggiare l’unione tra cielo e terra.
Alla visione di Michelangelo Pistoletto e agli architetti di cittadellarte si deve anche l’unica nuova costruzione realizzata: il chiosco informativo posto all’ingresso del bosco dalla piazza superiore di San Francesco, costruito con materiali eco-compatibili e con soluzioni tecnologiche che riducono al minimo il suo fabbisogno energetico.
Il restauro, però, è solo all’inizio. Nei prossimi anni il Fai (Fondo per l’ambiente italiano) sarà, infatti, impegnato nell’attuazione di un insieme coerente di interventi non solo conservativi, ma soprattutto integrativi, tesi a riproporre la complessità di forme, strutture e modelli gestionali che contraddistinguono i sistemi agricoli, boschivi e pastorali tipici del paesaggio italiano. «L’obiettivo –spiegano dagli uffici di viale Cogni Zugna- è quello di assicurare, attraverso un restauro integrativo, la qualità del paesaggio, ma anche la biodiversità di specie e di ambienti tipici delle attività agricole tradizionali».
Nel frattempo, come è nella filosofia del Fai, il bene vivrà anche grazie a tante iniziative collaterali, pensate per accontentare i gusti proprio di tutti: dalle visite guidate sulla storia e sul restauro del bosco (domenica 5 e 19 agosto, ore 11) alle passeggiate naturalistiche tra fiori e gli scoiattoli (domenica 26 agosto, ore 11), dalle degustazioni di formaggi e marmellate ai pic-nic in aree attrezzate (mercoledì 15 agosto), sino all’iniziativa «Il bosco sotto le stelle» (venerdì 10 agosto, ore 21), che, nella notte di San Lorenzo, trasformerà il complesso di Santa Croce in una spelonca astronomica. Non manca, infine, un concorso fotografico, «La mia cartolina», che premierà i migliori sei scatti consegnati entro venerdì 31 agosto. Scatti destinati a diventare le immagini ufficiali del bosco di San Francesco, «l’altra metà di Assisi», quella che arricchisce l’offerta culturale di questo angolo di pace nel «cuore verde d’Italia», dove pellegrini, viaggiatori e turisti giungono, da sempre, attratti dagli affreschi di Giotto, dall’Eremo, dalla Chiesa di Santa Chiara.
Didascalie delle immagini
[figg. 1 e 2] Bosco di San Francesco, Assisi. © Maja Galli; [fig. 3] Bosco di San Francesco, Assisi. Chiesa di Santa Croce. © Maja Galli; [fig. 4] Bosco di San Francesco, Assisi. Torre Annamaria. © Andrea Angelucci; [figg. 5 e 6] Bosco di San Francesco, Assisi. L'opera Il terzo paradiso di Michelangelo Pistoletto, visto dalla Rocca Maggiore. © Andrea Angelucci.
Informazioni utili
Bosco di San Francesco di Assisi. Orari: da aprile a settembre, ore 10.00-19.00; da ottobre a marzo, ore 10.00-16.00; chiuso i lunedì non festivi, il 1° gennaio, il 25 e 26 dicembre, e dalla seconda settimana di gennaio fino a fine febbraio. Ingresso gratuito (è gradita una donazione di € 3,00 a favore delle attività del Fai). Informazioni: tel. 075.813157 o faiboscoassisi@fondoambiente.it.
Era il 2008 quando Intesa San Paolo donava alla fondazione milanese quest’oasi di paradiso, allora in evidente stato di degrado, alla quale si accede a fondovalle, dalla restaurata Chiesa di Santa Croce (dove è stato risistemato un affresco seicentesco raffigurante un crocifisso senza il corpo di Cristo, a significare che si tratta di un luogo aperto alla riflessione per gli uomini di tutte le religioni) oppure dall'alto, dalla piazza superiore di San Francesco, proprio davanti all'ingresso della Basilica superiore.
Il progetto di riqualificazione, sia architettonico sia paesaggistico, ha interessato quindici dei sessantaquattro ettari che compongono la proprietà, il cui rigoglioso ambiente fa da sfondo a tante opere di Giotto.
Grazie all’aiuto di tantissimi volontari e d'accordo con i frati del Sacro convento di Assisi, il Fai (Fondo per l’ambiente italiano) ha raccolto oltre trenta tonnellate di rifiuti, ha risistemato i muretti a secco e i sentieri, ha piantumato più di duecento olivi e oltre mille nuovi arbusti e, infine, ha commissionato un’opera di land art a Michelangelo Pistoletto. E’ lì, nella radura ombreggiata dalla trecentesca Torre Annamaria, che i tre percorsi di visita proposti –paesaggistico, storico e spirituale- si incontrano.
E’ lì che si giunge dopo aver intrapreso il sentiero che dalla piazza superiore di San Francesco, attraverso la selva di San Francesco (proprietà del Sacro Convento), scende al complesso di Santa Croce, per, poi, risalire la Valle del Tescio e ritornare lungo la sponda opposta del torrente, verso il Mulino.
Il lavoro, intitolato «Il terzo paradiso», è formato da tre cerchi disegnati arando nel campo e si compone di centoventuno ulivi disposti a doppio filare, al centro dei quali si trova un’asta in acciaio inox alta dodici metri, che vuole simboleggiare l’unione tra cielo e terra.
Alla visione di Michelangelo Pistoletto e agli architetti di cittadellarte si deve anche l’unica nuova costruzione realizzata: il chiosco informativo posto all’ingresso del bosco dalla piazza superiore di San Francesco, costruito con materiali eco-compatibili e con soluzioni tecnologiche che riducono al minimo il suo fabbisogno energetico.
Il restauro, però, è solo all’inizio. Nei prossimi anni il Fai (Fondo per l’ambiente italiano) sarà, infatti, impegnato nell’attuazione di un insieme coerente di interventi non solo conservativi, ma soprattutto integrativi, tesi a riproporre la complessità di forme, strutture e modelli gestionali che contraddistinguono i sistemi agricoli, boschivi e pastorali tipici del paesaggio italiano. «L’obiettivo –spiegano dagli uffici di viale Cogni Zugna- è quello di assicurare, attraverso un restauro integrativo, la qualità del paesaggio, ma anche la biodiversità di specie e di ambienti tipici delle attività agricole tradizionali».
Nel frattempo, come è nella filosofia del Fai, il bene vivrà anche grazie a tante iniziative collaterali, pensate per accontentare i gusti proprio di tutti: dalle visite guidate sulla storia e sul restauro del bosco (domenica 5 e 19 agosto, ore 11) alle passeggiate naturalistiche tra fiori e gli scoiattoli (domenica 26 agosto, ore 11), dalle degustazioni di formaggi e marmellate ai pic-nic in aree attrezzate (mercoledì 15 agosto), sino all’iniziativa «Il bosco sotto le stelle» (venerdì 10 agosto, ore 21), che, nella notte di San Lorenzo, trasformerà il complesso di Santa Croce in una spelonca astronomica. Non manca, infine, un concorso fotografico, «La mia cartolina», che premierà i migliori sei scatti consegnati entro venerdì 31 agosto. Scatti destinati a diventare le immagini ufficiali del bosco di San Francesco, «l’altra metà di Assisi», quella che arricchisce l’offerta culturale di questo angolo di pace nel «cuore verde d’Italia», dove pellegrini, viaggiatori e turisti giungono, da sempre, attratti dagli affreschi di Giotto, dall’Eremo, dalla Chiesa di Santa Chiara.
Didascalie delle immagini
[figg. 1 e 2] Bosco di San Francesco, Assisi. © Maja Galli; [fig. 3] Bosco di San Francesco, Assisi. Chiesa di Santa Croce. © Maja Galli; [fig. 4] Bosco di San Francesco, Assisi. Torre Annamaria. © Andrea Angelucci; [figg. 5 e 6] Bosco di San Francesco, Assisi. L'opera Il terzo paradiso di Michelangelo Pistoletto, visto dalla Rocca Maggiore. © Andrea Angelucci.
Informazioni utili
Bosco di San Francesco di Assisi. Orari: da aprile a settembre, ore 10.00-19.00; da ottobre a marzo, ore 10.00-16.00; chiuso i lunedì non festivi, il 1° gennaio, il 25 e 26 dicembre, e dalla seconda settimana di gennaio fino a fine febbraio. Ingresso gratuito (è gradita una donazione di € 3,00 a favore delle attività del Fai). Informazioni: tel. 075.813157 o faiboscoassisi@fondoambiente.it.
lunedì 30 luglio 2012
Roma, la collezione della famiglia Ingrao in mostra permanente a Villa Torlonia
«Per un compleanno», «A Francesco e Xenia a ricordo di Gaeta, agosto 1978», «Prova d’artista per l’amico Ingrao»: sono, queste, le dediche, affettuose, vergate da Alberto Burri, il maestro delle plastiche combuste e dei sacchi di juta, su tre sue opere (la serigrafia «Oro e nero 6» del 1983, un collage in tempera e carta di giornale del 1978 e un «Cretto bianco» del 1977) donate all’amico Francesco Ingrao, medico specializzato in malattie polmonari e fratello di Pietro Ingrao, direttore del giornale «l’Unità» e, poi, autorevole dirigente del Pci, che, dal 1976 al 1979, rivestì anche il ruolo di presidente della Camera. Questi tre lavori fanno, ora, parte del percorso espositivo del Museo della Scuola romana, al Casino nobile di Villa Torlonia. Dallo scorso settembre, lo spazio museale, che in passato fu anche residenza di Benito Mussolini, accoglie, infatti, trentacinque tele della collezione Ingrao-Guina, donate dall’erede Mirjana Jovic, sorella di Ksenija Guina Ingrao, a Roma Capitale.
Mario Mafai, Mirko Basaldella, Corrado Cagli, Renato Guttuso, Luigi Bartolini, Mino Maccari, Nino Bertoletti, ma anche Giulio Turcato, Sebastian Matta, Pietro Consagra e, naturalmente, Alberto Burri sono gli artisti rappresentati in questa preziosa raccolta, che svela un aspetto particolare del collezionismo romano negli anni del Dopoguerra. Saltando la mediazione di gallerie e mercanti, affidandosi al rapporto personale con gli artisti, conosciuti per motivi professionali o per rapporti di consuetudine, talvolta di vera e propria amicizia, Francesco Ingrao raccoglie, con la collaborazione della moglie Ksenija, un centinaio di tele, schizzi, bozzetti, terracotte, ceramiche e opere grafiche, che sono un saggio della storia dell’arte del Novecento, ma anche –per usare le parole dell’assessore Dino Gasperini- il racconto di una «storia d’amore per l’arte e, andando oltre, di una filosofia che vede nell’opera dell’artista uno strumento di cura dell’anima».
A iniziare il giovane medico agli ambienti culturali romani fu, nei primi anni Cinquanta, il collega, collezionista e scultore Moroello Morellini, primario del reparto di sierologia del «Forlanini», dove Francesco Ingrao iniziò il suo tirocinio. Fra i due nacque subito un rapporto di stima e amicizia molto intenso, favorito dalla comunanza di interessi professionali e da affinità caratteriali e politiche. A cementare il loro rapporto fu la condivisione di uno studio privato a Roma, in piazza Pasquale Paoli. Qui, forse su consiglio di Amerigo Terenzi, amministratore del quotidiano «l’Unità», venivano molti artisti «squattrinati». I due medici prestavano loro (naturalmente gratis) le necessarie cure, e, andando ben oltre la missione professionale, o forse solo svolgendola in modo diverso, tentavano di aiutarli a vendere le loro opere a pazienti più facoltosi, esponendole nello studio stesso. Un’opera di solidarietà, questa, che il più giovane dei due continuò, partecipando alle attività dell’Isa, l’Istituto di solidarietà artistica, fondato nel 1948 con l’intento di sostenere gli artisti in difficoltà economica, fornendo loro gratuitamente consulenze mediche.
In questi stessi anni, Moroello Morellini e Francesco Ingrao, con le rispettive moglie, frequentarono assiduamente anche alcuni dei luoghi più vitali della scena artistica romana, come la celebre trattoria dei fratelli Menghi, in via Flaminia (alla quale Ugo Pirro dedicherà un delizioso libro intitolato «La trattoria dei pittori»), ma anche villa Massimo, dove lavoravano Marino Mazzacurati e Renato Guttuso, lo studio di Corrado Cagli all’Aventino e quello di via Margutta, dove era possibile vedere all’opera Pericle Fazzini e Giovanni Omiccioli. Spesso Moroello Morellini e Francesco Ingrao si ritrovavano anche a casa di Giuseppe Mazzullo, in via Sabazio, frequentata da diversi artisti, fra cui molti siciliani come Emilio Greco e Renato Guttuso.
Prese così avvio una collezione, lontana dalle logiche mercantilistiche di oggi, dal puro tornaconto economico che anima molte raccolte attuali. Una collezione che ha origine nella passione per l’arte e nell’interesse umano verso l’artista. Francesco Ingrao amava trascorre serate appassionate a cenare piacevolmente, a discutere di pittura e di politica, anche con chi, come Alberto Burri, la pensava diversamente. Era un uomo curioso, brillantemente intelligente, aperto alle novità, che, incurante delle posizioni del suo partito e «in anni anche di forte contrapposizione tra astratti e figurativi, tra sperimentazione e realismo, -scrive Claudia Terenzi, nel bel catalogo edito dalla romana Gangemi- non poneva alcuna condizione alle sue scelte».
Quella di Francesco Ingrao è, dunque, una collezione composita, con opere datate prevalentemente tra gli anni Cinquanta e Ottanta, con qualche eccezione che ci riporta nel periodo della Scuola romana. Una collezione dove la firma dell’artista è qualcosa di più di «un marchio di fabbrica». È un attestato di rispetto e di gratitudine, se non di affetto, come testimoniano le numerose dediche che appaiono in calce a molti lavori, donati, spesso, per occasioni intime: feste, vacanze, momenti di comunione.
Nel 1940, Basadella espresse la propria riconoscenza con il dono di una sua china su carta, raffigurante un nudo maschile, recante la scritta «Agli Ingrao con affetto, Mirko». Nel 1965, Corrado Cagli donò una litografia a pennarello dal titolo «Adamo», su cui vergò la dedica «A Francesco e a Xenia con gli auguri per il loro Capodanno 65».
Di poche parole, invece, Giulio Turcato, che omaggiò la famiglia di un mazzo di fiori dipinto e scrisse solo «Ingrao», con il timbro: «L’artistica di via del Babuino 24, angolo via Margutta». Mentre Renzo Vespignani, con la sua spiccata sensibilità, accompagnò il dono di un suo lavoro, un autoritratto, da versi scrissi sul retro, «Come leggero, come nuovo l’ospite di questa sera, diafana malinconia!», e dalla dedica «Prova d’autore, a Xenia, a Franco, affettuosamente».
Scorrono, poi, davanti agli occhi del visitatore tante altre opere, da una raffinata acquaforte acquerellata di Luigi Bartolini, dal titolo «3 ragazze a Fonte Maggiore» (1940), a qualche disegno di Renato Guttuso, come la suggestiva china «Sacra famiglia» (1946), da un piccolo e luminoso acquerello di Giovanni Omiccioli, una marina datata 1949, ad alcuni lavori di Sebastian Matta, tra i quali il pastello «Mitologia» (1980), in cui elementi zoomorfi e antropomorfi si mescolano con ironia a formare figurazioni fantastiche. Non manca, infine, un disegno di Mario Mafai, donato al medico dalla figlia Miriam, dopo le cure per una pleurite. Perché grazie lo si può dire in tanti modi. E Francesco Ingrao, per gli amici Ciccio, lo sapeva.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Francesco Ingrao, con la moglie Ksenija Guina Ingrao;[fig. 2] Renato Guttuso, «Sacra famiglia», 1946. Roma, Collezione Ingrao-Guina; [fig. 3] Giulio Turcato, «Senza titolo»,1972, acrilico e olio su tela. Roma, Collezione Ingrao-Guina;[fig. 4] Pietro Consagra,«Senza titolo», 196o, tempera su faesite. Roma, Collezione Ingrao-Guina; [fig. 5] Giovanni Omiccioli, «Senza titolo», 1949, acquerello e grafite su carta. Roma, Collezione Ingrao-Guina.
Mario Mafai, Mirko Basaldella, Corrado Cagli, Renato Guttuso, Luigi Bartolini, Mino Maccari, Nino Bertoletti, ma anche Giulio Turcato, Sebastian Matta, Pietro Consagra e, naturalmente, Alberto Burri sono gli artisti rappresentati in questa preziosa raccolta, che svela un aspetto particolare del collezionismo romano negli anni del Dopoguerra. Saltando la mediazione di gallerie e mercanti, affidandosi al rapporto personale con gli artisti, conosciuti per motivi professionali o per rapporti di consuetudine, talvolta di vera e propria amicizia, Francesco Ingrao raccoglie, con la collaborazione della moglie Ksenija, un centinaio di tele, schizzi, bozzetti, terracotte, ceramiche e opere grafiche, che sono un saggio della storia dell’arte del Novecento, ma anche –per usare le parole dell’assessore Dino Gasperini- il racconto di una «storia d’amore per l’arte e, andando oltre, di una filosofia che vede nell’opera dell’artista uno strumento di cura dell’anima».
A iniziare il giovane medico agli ambienti culturali romani fu, nei primi anni Cinquanta, il collega, collezionista e scultore Moroello Morellini, primario del reparto di sierologia del «Forlanini», dove Francesco Ingrao iniziò il suo tirocinio. Fra i due nacque subito un rapporto di stima e amicizia molto intenso, favorito dalla comunanza di interessi professionali e da affinità caratteriali e politiche. A cementare il loro rapporto fu la condivisione di uno studio privato a Roma, in piazza Pasquale Paoli. Qui, forse su consiglio di Amerigo Terenzi, amministratore del quotidiano «l’Unità», venivano molti artisti «squattrinati». I due medici prestavano loro (naturalmente gratis) le necessarie cure, e, andando ben oltre la missione professionale, o forse solo svolgendola in modo diverso, tentavano di aiutarli a vendere le loro opere a pazienti più facoltosi, esponendole nello studio stesso. Un’opera di solidarietà, questa, che il più giovane dei due continuò, partecipando alle attività dell’Isa, l’Istituto di solidarietà artistica, fondato nel 1948 con l’intento di sostenere gli artisti in difficoltà economica, fornendo loro gratuitamente consulenze mediche.
In questi stessi anni, Moroello Morellini e Francesco Ingrao, con le rispettive moglie, frequentarono assiduamente anche alcuni dei luoghi più vitali della scena artistica romana, come la celebre trattoria dei fratelli Menghi, in via Flaminia (alla quale Ugo Pirro dedicherà un delizioso libro intitolato «La trattoria dei pittori»), ma anche villa Massimo, dove lavoravano Marino Mazzacurati e Renato Guttuso, lo studio di Corrado Cagli all’Aventino e quello di via Margutta, dove era possibile vedere all’opera Pericle Fazzini e Giovanni Omiccioli. Spesso Moroello Morellini e Francesco Ingrao si ritrovavano anche a casa di Giuseppe Mazzullo, in via Sabazio, frequentata da diversi artisti, fra cui molti siciliani come Emilio Greco e Renato Guttuso.
Prese così avvio una collezione, lontana dalle logiche mercantilistiche di oggi, dal puro tornaconto economico che anima molte raccolte attuali. Una collezione che ha origine nella passione per l’arte e nell’interesse umano verso l’artista. Francesco Ingrao amava trascorre serate appassionate a cenare piacevolmente, a discutere di pittura e di politica, anche con chi, come Alberto Burri, la pensava diversamente. Era un uomo curioso, brillantemente intelligente, aperto alle novità, che, incurante delle posizioni del suo partito e «in anni anche di forte contrapposizione tra astratti e figurativi, tra sperimentazione e realismo, -scrive Claudia Terenzi, nel bel catalogo edito dalla romana Gangemi- non poneva alcuna condizione alle sue scelte».
Quella di Francesco Ingrao è, dunque, una collezione composita, con opere datate prevalentemente tra gli anni Cinquanta e Ottanta, con qualche eccezione che ci riporta nel periodo della Scuola romana. Una collezione dove la firma dell’artista è qualcosa di più di «un marchio di fabbrica». È un attestato di rispetto e di gratitudine, se non di affetto, come testimoniano le numerose dediche che appaiono in calce a molti lavori, donati, spesso, per occasioni intime: feste, vacanze, momenti di comunione.
Nel 1940, Basadella espresse la propria riconoscenza con il dono di una sua china su carta, raffigurante un nudo maschile, recante la scritta «Agli Ingrao con affetto, Mirko». Nel 1965, Corrado Cagli donò una litografia a pennarello dal titolo «Adamo», su cui vergò la dedica «A Francesco e a Xenia con gli auguri per il loro Capodanno 65».
Di poche parole, invece, Giulio Turcato, che omaggiò la famiglia di un mazzo di fiori dipinto e scrisse solo «Ingrao», con il timbro: «L’artistica di via del Babuino 24, angolo via Margutta». Mentre Renzo Vespignani, con la sua spiccata sensibilità, accompagnò il dono di un suo lavoro, un autoritratto, da versi scrissi sul retro, «Come leggero, come nuovo l’ospite di questa sera, diafana malinconia!», e dalla dedica «Prova d’autore, a Xenia, a Franco, affettuosamente».
Scorrono, poi, davanti agli occhi del visitatore tante altre opere, da una raffinata acquaforte acquerellata di Luigi Bartolini, dal titolo «3 ragazze a Fonte Maggiore» (1940), a qualche disegno di Renato Guttuso, come la suggestiva china «Sacra famiglia» (1946), da un piccolo e luminoso acquerello di Giovanni Omiccioli, una marina datata 1949, ad alcuni lavori di Sebastian Matta, tra i quali il pastello «Mitologia» (1980), in cui elementi zoomorfi e antropomorfi si mescolano con ironia a formare figurazioni fantastiche. Non manca, infine, un disegno di Mario Mafai, donato al medico dalla figlia Miriam, dopo le cure per una pleurite. Perché grazie lo si può dire in tanti modi. E Francesco Ingrao, per gli amici Ciccio, lo sapeva.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Francesco Ingrao, con la moglie Ksenija Guina Ingrao;[fig. 2] Renato Guttuso, «Sacra famiglia», 1946. Roma, Collezione Ingrao-Guina; [fig. 3] Giulio Turcato, «Senza titolo»,1972, acrilico e olio su tela. Roma, Collezione Ingrao-Guina;[fig. 4] Pietro Consagra,«Senza titolo», 196o, tempera su faesite. Roma, Collezione Ingrao-Guina; [fig. 5] Giovanni Omiccioli, «Senza titolo», 1949, acquerello e grafite su carta. Roma, Collezione Ingrao-Guina.
Informazioni utili
Collezione Ingrao. Musei di Villa Torlonia - Casino Nobile, via Nomentana, 70 - Roma. Orari: martedì-domenica, ore 9.00-19.00; chiuso il lunedì (la biglietteria chiude 45 minuti prima). Biglietti: Casino Nobile e Casina delle Civette - intero € 7,50, ridotto € 5,50; Casino Nobile - intero € 5,50,, ridotto € 4,50; gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente. Catalogo: Gangemi editore, Roma. Informazioni: tel. 06.0608 (tutti i giorni, ore 9.00–21.00). Siti internet: www.museivillatorlonia.it o www.zetema.it.
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