ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 27 marzo 2017

Art For Kids: «La Cenerentola» di Rossini, ovvero «la bontà in trionfo»

Esistono circa trecentoquarantacinque versioni differenti della storia di Cenerentola. La vicenda della fanciulla povera e maltrattata che, a dispetto delle sorellastre invidiose e poco avvenenti, riesce a sposare un bel principe azzurro con il quale vivere per sempre «felice e contenta» è, infatti, presente in tutte le culture del mondo, dall’America alla Norvegia, già a partire da epoche molto remote.
La versione più antica della favola fu scritta in Cina nel IX secolo, con circa settecento anni di anticipo rispetto alla prima stesura occidentale, che si deve allo scrittore Gianbattista Basile, autore nel 1634 del racconto in dialetto napoletano «La gatta Cenerentola», inserito in una raccolta di fiabe popolari intitolata «Lo cunto de li cunti ovvero la tratteneimento de peccerille», detta anche «Pentamerone».
Le due varianti più conosciute della storia, insieme con quella del cartone animato di Walt Disney (1950), sono scritte dal francese Charles Perrault, autore nel 1697 di «Cendrillon», e dai fratelli Grimm, che nel 1812 diedero alle stampe «Aschenputtel».
Le due fiabe si differenziano per il messaggio contenuto nel finale: nella prima, le sorellastre sono perdonate da Cenerentola e non subiscono alcun castigo per la loro cattiveria; nella seconda sono, invece, punite da due colombe fatate che strappano loro gli occhi. Nella storia di Charles Perrault trionfa, dunque, il perdono, in quella dei fratelli Grimm il castigo. Il racconto dello scrittore francese inventa, poi, particolari, che ci sono diventati così familiari da sembrare inscindibili dalla fiaba: la madrina fatata, la zucca trasformata in cocchio, il ritorno a casa allo scoccare della mezzanotte e la scarpina di vetro.
Anche Gioachino Rossini volle cimentarsi con questa storia romantica e appassionante, che si chiude con il lieto fine. Nacque così il dramma giocoso in due atti «La Cenerentola, ossia la bontà in trionfo», che il librettista Jacopo Ferretti trasse dall’omonima favola di Charles Perrault (1697), ma anche dai lavori operistici «Cendrillon» di Charles Guillaume Etienne per Nicolò Isouard (1810) e «Agatina, o la virtù premiata» di Francesco Fiorini per Stefano Pavesi (1814).
L’opera fu scritta tra la fine del 1816 e gli inizi del 1817, in poco più di una ventina di giorni, per i festeggiamenti carnevaleschi al teatro Valle di Roma. Il debutto si ebbe la sera del 22 gennaio 1817, duecento anni fa.
Il lavoro non ottenne il successo sperato: la musica piacque molto, ma l’esecuzione fu pesantemente criticata a causa della preparazione frettolosa. Gioachino Rossini era, però, ottimista. Agli amici diceva: «gli impresari faranno a pugni per allestirla come le prime donne per poterla cantare». Il tempo gli diede ragione: nel giro di pochi mesi «Cenerentola» fu rappresentata in molti teatri italiani e, con gli anni, è diventata una dei titoli più amati del repertorio operistico.
Non trovandosi a proprio agio tra fate e prodigi vari, il compositore pesarese ne fece una storia edificante basata sulle doti morali della protagonista, fermamente convinta che la bontà sia destinata a trionfare sulla cattiveria e abbia il potere di convertire persino gli animi più malvagi, piuttosto che sull’incantevole scenografia della zucca trasformata in carrozza.
Gioachino Rossini sostituì così la celebre scarpetta con un braccialetto. «Mandò in pensione» la fatina e mise al suo posto il saggio filosofo Alidoro, precettore del principe Ramiro. Sarà lui ad aiutare Angelina, detta Cenerentola, a realizzare il suo sogno d’amore: sposare un uomo bello, nobile, ricco e di buoni e onesti sentimenti.
Per dare vita a una girandola di travestimenti ed equivoci esilaranti, che ben si sposano con i travolgenti «crescendo rossiniani», il compositore aggiunse, poi, un personaggio buffo, il cameriere Dandini. La matrigna, infine, venne sostituita con un patrigno, Don Magnifico, un uomo tanto disonesto quanto ridicolo, che si è riempito di debiti per vivere nel lusso e soddisfare i capricci delle sue due figlie: Clorinda e Tisbe.
La musica è divertente e frizzante. Tra i brani più famosi c’è l’ouverture, presa in prestito da un altro lavoro rossiniano di minor successo: «La Gazzetta» del settembre 1816.
L’intera vicenda narrata viene, invece, ben riassunta nella cavatina «C’era una volta un re», nella quale si parla di un sovrano che vuole prendere moglie, trova tre candidate possibili e, alla fine, sceglie colei che dimostra dolcezza e amore anziché cedere alle lusinghe della ricchezza. È questa una semplice aria in re minore che si svolge su un tempo di barcarola, ovvero un brano in cui il movimento ritmico ricorda quello ondulatorio delle gondole veneziane. Il carattere visionario di quest’aria trova coronamento nella morale finale del coro: «Tutto cangia a poco a poco. / Cessa alfin di sospirar. / Di fortuna fosti il gioco: incomincia a giubilar».

Per saperne di più
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «La Cenerentola – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2009;
Cristina Pieropan, «La Cenerentola», Nuages, Milano 2010 (le prime due immagini pubblicate sono tratte da questo libro);
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – La Cenerentola di Rossini», Curci, Milano 2015 (la terza immagine pubblicata è tratta da questo libro).

venerdì 24 marzo 2017

Mambo, Jonas Burgert scandaglia i grandi temi esistenziali

«Hanno il potere di portare in superficie le nostre paure ancestrali e di assorbirle per liberarcene»: così Laura Carlini Fanfogna parla dei dipinti che l'artista tedesco Jonas Burgert presenta al Mambo – Museo d’arte moderna di Bologna nella sua prima mostra personale in Italia.
L’esposizione, aperta fino al 17 aprile, si intitolata «Lotsucht / Scandagliodipendenza» ed allinea, negli ampi spazi della Sala delle ciminiere, trentotto dipinti, prevalentemente di grandi dimensioni, creati nell’ultimo decennio.
Jonas Burgert, con ogni composizione, con ogni singola pennellata, dipinge veri e propri scenari.
Le sue opere raffigurano la sua visione della rappresentazione teatrale che costituisce l'esistenza umana, dell'inesauribile bisogno dell'uomo di dare un senso, una direzione e uno scopo alla propria vita. La ricerca si apre a ogni sfera della ragione, dell'immaginazione e del desiderio generando tele spesso imponenti, affollate di figure fantastiche di proporzioni diverse: ci sono scimmie e zebre, scheletri e arlecchini, amazzoni e bambini.
Questi dinamici scenari pittorici generano un senso di forte inquietudine in chi guarda: i soggetti raffigurati indossano maschere e costumi, ci sono pareti e pavimenti che si squarciano rivelando cumuli di corpi o pozze di liquidi, mentre un buio inspiegabile incombe ovunque.
Lo scandaglio che troviamo nel titolo della mostra appare con frequenza nelle opere di Jonas Burgert.
Scandagliare compulsivamente la realtà in un cimento perpetuo è la passione, l'ossessione dell'artista. Burgert privilegia l'analisi dei grandi temi esistenziali, in un percorso di approfondimento che non disdegna di avventurarsi in angoli ignoti per esplorare sentimenti, emozioni, ossessioni, demoni. Lo spettatore si confronta con un mondo caotico, che riecheggia la confusione e l'ansia degli eventi del presente e rimane senza un saldo punto di appoggio. Lo scopo dell'artista è spingere al limite la conoscenza personale per ridefinire, prova dopo prova, le proprie ragioni di vita hic et nunc e il proprio centro di gravità. Metaforicamente il filo a piombo simboleggia l'equilibrio interiore e la ricerca spirituale.
Secondo Laura Carlini Fanfogna, curatrice della mostra, Burgert inserisce un elemento specifico che attraversa tutta la sua produzione: l’immagine femminile. «Donne misteriose e risolute –afferma la studiosa- si stagliano sulla tela, istintivamente consapevoli dei loro destini. Le maghe conoscono i segreti e le verità che l’uomo cerca affannosamente. Le sibille provengono da territori remoti, ma l’arte divinatoria le accomuna. I turbanti michelangioleschi e i colori manieristici reinterpretati in chiave postmoderna giocano con le delicate sfumature dei chiaroscuri. Evocano le vergini indovine che predicono il futuro, le cariatidi imperturbabili, significano forse l’onnipotenza archetipica della Grande Madre e però la intingono negli umori della Raben Mutter, la madre snaturata, colei che non si cura della prole. Lo scandaglio di Jonas sonda implacabile la profondità degli abissi».
Le opere in mostra al Mambo utilizzano sia ampie superfici di grande impatto visivo, per dare spazio alla complessità compositiva, sia tele di formato ridotto per approfondire lo studio dei singoli soggetti, in ritratti che portano in primo piano, quasi in un'indagine al microscopio, le figure effigiate.
Un appunto merita, infine, l’uso del colore che David Anfam, autore di uno dei testi critici inclusi nel ricco catalogo pubblicato dalle Edizioni MAMbo, definisce idiosincratico: «è difficile trovare un altro artista contemporaneo –precisa ancora lo studioso- che utilizzi il colore con una destrezza pari a quella di Burgert».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Jonas Burgert, Puls führt / Guida di polso, 2014.Olio su tela, 240 x 280 cm. Collezione privata. Foto: © Lepkowski Studios; [fig. 2] Jonas Burgert, Leugne / Negalia, 2016. Olio su tela,300 x 220 cm. Proprietà dell'artista. Foto: © Lepkowski Studios;[fig. 3]  Jonas Burgert, Schutt und Futter / Macerie e Mangime, 2012. Olio su tela, 380 x 600 cm. Collezione privata, Basilea. Foto: © Lepkowski Studios

Informazioni utili 
 «Lotsucht / Scandagliodipendenza» - Personale di Jonas Burgert. Mambo, via don Minzoni, 14 – Bologna. Orari: martedì, mercoledì, domenica e festivi, ore 10.00 – 18.00; giovedì, venerdì e sabato, ore 10.00 – 19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero mostra € 6,00, ridotto mostra € 4,00, intero mostra + museo € 10,00; ridotto mostra + museo € 8,00. Informazioni: tel. 051.6496611 o info@mambo-bologna.org. Sito internet: www.mambo-bologna.org. Fino al 17 aprile 2017.

giovedì 23 marzo 2017

Cremona, Caravaggio e Monteverdi in dialogo al Museo del violino

«Duoi gravicembali, duoi contrabassi de viola, dieci viole da brazzo, un’arpa doppia, duoi violini piccoli alla francese, duoi chitaroni, duoi organi di legno, tre bassi da gamba, quattro tromboni, un regale, duoi cornetti, un flautino alla vigesima seconda, un clarino con tre trombe sordine». Era questo, stando alle annotazioni delle prime edizioni a stampa, l’organico completo dell’orchestra che doveva suonare l’«Orfeo» di Claudio Monteverdi, compositore di cui Cremona celebra quest’anno i quattrocentocinquanta anni dalla nascita con un ricco cartellone di eventi, che avrà la sua punta massima a maggio con l’esecuzione proprio dell’«Orfeo» da parte dell’Accademia Bizantina.
Gli strumenti originali di quell’opera, eseguita per la prima volta quattrocentodieci anni fa, saranno esposti dall’8 aprile al 23 luglio al Museo del violino nella mostra «Monteverdi e Caravaggio, sonar stromenti e figurar la musica», la cui inaugurazione sarà preceduta, nella serata del 7 aprile, dal concerto «La bella più bella», con il soprano Roberta Invernizzi e Franco Pavan al liuto e torba.
Gli strumenti in mostra sono stati scelti secondi criteri di valore filologico ed estetico e provengono dalle maggiori collezioni italiane e internazionali. Particolare attenzione è stata posta nella ricerca di esemplari conservati o riportati, grazie al restauro, senza gli interventi che, nei secoli successivi, si sono rivelati necessari per affrontare i repertori sette e ottocenteschi. Laddove questo non sia stato possibile, a fianco dello strumento ammodernato, sarà presentata una copia con montatura barocca. Applicazioni multimediali permetteranno di ascoltare il suono di ognuno di essi per conoscerne il timbro e identificarne il ruolo nella trama musicale e simbolica dell’«Orfeo».
L’esposizione troverà posto all’interno del percorso museale, per sottolineare le affinità che già tra XVI e XVII secolo legano liuteria e musica. Si potrà anche ripercorrere la nascita del violino grazie alla famiglia cremonese Amati e rileggere il contributo della scuola bresciana, testimoniata dall’opera di Gasparo da Salò, la cui viola tenore con montatura barocca arriva con altri preziosi prestiti dall’Ashmolean Museum di Oxford, e di Giovanni Paolo Maggini di cui sarà esposto un magnifico contrabbasso del 1610, con altri preziosi strumenti di scuola veneziana, terzo straordinario centro di produzione di strumenti musicali dell’epoca.
L’«Orfeo» di Monteverdi ha un lieto fine: il suo eroe diventa simbolo dell’amore che supera la morte. Il ruolo apollineo e salvifico della musica ha ispirato diverse rappresentazioni pittoriche. Tra le più famose c’è certamente «Il suonatore di liuto» di Caravaggio. Questa meravigliosa opera, presentata a Cremona come introduzione agli strumenti musicali e proveniente da una collezione privata, ha una storia affascinante: il dipinto realizzato nel 1597 dal grande pittore per il cardinal del Monte, comprato dal duca di Beaufort nel 1726-1737, portato a Badminton House nel Gloucestershire, dove è rimasto per due secoli e mezzo, venduto nel 1969 come una copia e infine nuovamente a New York nel 2011. Si tratta di un quadro meno famoso rispetto alla versione conservata all’Hermitage e all’altrettanto celebre versione Wildenstein, già esposta al Metropolitan Museum di New York, tuttavia riscoperto e attribuito con certezza a Caravaggio da grandi studiosi come Sir Denis Mahon, Mina Gregori e Claudio Strinati.
La natura morta qui raffigurata è simile a quella utilizzata da Caravaggio per il «Ragazzo morso da un ramarro» e rivela una brillante osservazione degli effetti della luce sul vetro e attraverso l’acqua; tutto viene rappresentato con una eccezionale accuratezza, al punto da poter determinare non solo l’età del liuto e del violino, ma anche seguire ciascun dettaglio delle corde, della scatola dei piroli, del ponticello, della cassa, della tastiera, della rosetta così come questi elementi erano nella realtà. Gli strumenti fanno parte della estesa collezione del cardinale Del Monte e la musica, incipit di quattro madrigali di Jacques Arcadelt, era scritta probabilmente su uno spartito. Caravaggio vede e studia quegli strumenti dal 1595 quando prende servizio presso il cardinale a Roma e dimostra di possedere una discreta formazione musicale, tanto da rappresentare diversi strumenti e partiture in altre sue importanti opere come i «Musici» (1595 circa), «Riposo durante la fuga in Egitto» (1594-1595), «Amor vincit omnia» (1601-1602).
«Così la mostra allestita negli straordinari spazi del Museo del violino, partendo dall’opera di Monteverdi, dai suoi strumenti e dalla luce di Caravaggio -afferma Fausto Cacciatori- ripercorre il clima di cambiamento e novità di un periodo denso di significati per la storia della musica e degli strumenti musicali, e per l’arte del dipingere. Sono gli anni in cui il violino si rivela, per timbro e sonorità, più adatto degli altri strumenti a interpretare i toni del melodramma, ad accompagnare in musica il recitar cantando. Sono gli anni in cui il naturalismo di Caravaggio conferisce a ogni corpo una forma tridimensionale evidenziata dalla particolare illuminazione, lasciando in eredità uno stile proprio, oggi noto non a caso come caravaggismo».

Per saperne di più
Cremona festeggia Monteverdi. A 450 anni dalla nascita 

Informazioni utili
«Monteverdi e Caravaggio, sonar stromenti e figurar la musica». Museo del violino, piazza Marconi – Cremona. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-18.00. Ingresso: intero  € 10,00. Informazioni: tel. 0372.801801 o  info@museodelviolino.org. Sito internet: www.monteverdi450.it. Dall’8 aprile al 23 luglio 2017.