ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 4 giugno 2019

Jean François Migno a Bologna: una danza di colori al Museo civico medioevale

Passato e presente si incontrano quest’estate al Museo civico medioevale di Bologna. Palazzo Ghisilbardi, una delle espressioni più significanti del Rinascimento nel capoluogo emiliano, apre le porte alla mostra «La forza del colore», prima personale in Italia dell’artista francese Jean François Migno. L’esposizione, a cura di Graziano Campanini e Riccardo Betti, prosegue il percorso di indagine sulle dinamiche di interazione tra le opere e i reperti di epoca medievale appartenenti al patrimonio museale della città felsinea e le espressioni della creazione artistica attuale. Dopo le rassegne di Gianni del Bue (estate 2018) e Bruno Ruspanti (estate 2017), è, dunque, la volta di Jean François Migno (Chatou, 1955), artista dalla formazione eterogenea -con alle spalle studi all’École des Beaux Arts di Parigi e all’École du Louvre in architettura, disegno e serigrafia-, interessato all’uso dei colori primari sulla tela e debitore nei confronti delle teorie dell’Espressionismo astratto americano, dagli Action Painting di Jackson Pollock ai Color Field di Sam Francis, e dell’Informale.
Il nucleo principale della mostra si trova racchiuso nella sala del Lapidario per, poi, espandersi all’interno di altre sale del museo: la sette, dominata dall’austera statua di papa Bonifacio VIII in lastre di rame dorato, la quattro, con le arche monumentali dedicate ai Dottori dello Studio bolognese, e la tredici, nel piano interrato, con le lastre di arte funeraria.
L’intera vicenda dell’artista francese, contrassegnata da una continua sperimentazione su diversi mezzi e materiali che rifiuta una piena e concreta definizione della sostanza in favore di un’astrazione dall’aspetto figurativo, viene ripercorsa attraverso una selezione di circa quaranta lavori, comprensiva dei principali cicli della sua produzione, come «Palissade», realizzato negli anni Novanta, e il più recente «Passages» degli anni Duemila.
Questi lavori testimoniano una pratica della pittura vissuta come confronto totalizzante con la tela, un corpo a corpo frontale -fisico, emotivo, intellettuale- in cui il gesto esplora nuove possibilità formali ed espressive di materie e incontri coloristici in convulse partiture spaziali cadenzate da spazi bianchi. Sulle superfici delle tele si scontrano forze e segni da cui si generano grovigli di pasta pittorica che attestano un profondo processo di assimilazione e superamento di alcune delle esperienze figurative più intense del Novecento: l’Informale, l’Espressionismo Astratto d’oltreoceano e la poetica di Henri Matisse, dichiarata fonte di ispirazione di Jean François Migno per la sensuale fisicità del colore e la creazione di una «pittura volumetrica», una sorta di scultura sulla tela, secondo la definizione del co-curatore Riccardo Betti, in cui l’acrilico si unisce alla caseina.
Ed è attraverso l’elemento cromatico, lavorato fino alla perdita percettiva dei suoi confini e movimenti sulla superficie, che la materia si accumula in aggètti grumosi attuando una vocazione alla terza dimensione e alla occupazione dello spazio reale in una sorta di corrida, in un’intensa «danza del colore», insieme «rituale e primitiva», come ricorda Thomas Michael Gunther nel suo testo critico per il catalogo pubblicato dalla Tipografia Bagnoli di Pieve di Cento.
«Il risultato finale -raccontano al Museo civico medioevale- è un'armonia impossibile, imperfetta come la vita stessa che, anche al di là delle contraddizioni, tende verso l'essenziale. Un vibrante inno alla pittura di cui Migno è il gioioso celebrante».
Particolarmente interessante nel lavoro dell’artista è la serie «Portovenere», dedicata al piccolo borgo ligure a picco sul mare, un tempo abitato da soli pescatori e fonte d’ispirazione per grandi poeti come Eugenio Montale e George Byron. Migno riesce a rendere sulla tela la bellezza insita nel luogo, caratterizzato da un'abbagliante luce mediterranea e da mare cristallino in cui ai giorni sereni estivi, con il tranquillo sciabordio delle acque contro gli scogli, se ne alternano altri, in cui la violenza e l’irrequietezza della tempesta la fa da padrona.
«I suoni, i colori e i profumi -scrive, a tal proposito, Riccardo Betti in catalogo- si corrispondono e si confondono, diventando una sola cosa; così come i suoni, i colori e i profumi di Portovenere si fondono sulla superficie bianca dello spazio. Nascono quindi immagini non convenzionali, che non soddisfano appieno le nostre aspettative, il cui disordine però è in grado di attivare in noi percorsi autentici e inaspettati capaci di riportare la nostra mente agli strilli e alle grida dei gabbiani, ai vivaci colori delle case del litorale e ai nostalgici profumi del mare ligure».
Interessante è anche la riflessione scritta da Graziano Campanini per il catalogo, nella quale si va alla ricerca dei debiti di Migno nei confronti della grande arte del Novecento: «Personalmente -scrive il curatore-, i suoi lavori mi ricordano opere di Emilio Vedova, come «Premier Passage», «Apesanteur» del 1990, «Palissa-des» del 1993 o «Collage» del 2009, per le tracce diagonali che sa mettere nelle sue tele, ma anche un altro grande pittore italiano come Giuseppe Santomaso, per l’uso sapiente dei colori, vedi «Avant l’apesanteur» del 1990, «Collage» del 1996 oppure «Passages» del 2014. Altre opere, in cui sono presenti in preponderanza bianchi e neri, riportano immediatamente alla mente Alberto Burri, come «Palissades» del 1991 e del 1997 e «Cercle, Apesanteur» del 1990».
Una mostra, dunque, interessante quella del Museo civico medioevale di Bologna che porta il visitatore a tu per tu con il colore, strumento principe nella ricerca di Migno, tanto che sembra impossibile non pensare a una frase di Paul Klee guardando le sue opere: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell'ora felice: io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Jean François Migno, Grand rouge, 2016. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 130 x 194; [fig. 2] Jean François Migno, Senza titolo, 2017. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 3] Jean François Migno, Passages, 2015. Tecnica mista, acrilico, caseina, collages, cm 130 x 194; [fig. 4] Jean François Migno, Colonnes, 2014. Tecnica mista, acrilico e caseina, cm 114 x 193

Informazioni utili
Jean François Migno. La forza del colore. Museo civico medievale, via Manzoni, 4 – Bologna.Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso i lunedì feriali. Ingresso: intero € 6,00 | ridot-to € 3,00 | gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e il giovedì nelle ultime due ore di apertura del museo. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito web: www.museibologna.it/arteantica. Fino all’8 settembre 2019.

martedì 21 maggio 2019

Da Merano a Fontanellato, otto labirinti da vedere

Il più leggendario è senz’altro quello di Cnosso, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal re Minosse, sull'isola di Creta, per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall'unione di sua moglie Pasifae con un toro.
L’ultimo nato in termini di tempo è quello ricreato da Milovan Farronato per il Padiglione Italia dell’attuale edizione della Biennale internazionale d’arte di Venezia, all’interno del quale si trovano le opere di Enrico David (Ancona, 1966), Liliana Moro (Milano, 1961) e della compianta Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari, 2017), scomparsa lo scorso anno.
Il labirinto è da sempre un luogo affascinante, carico di mistero e di simbologia, un viaggio del quale si conosce la meta, ma non la strada per raggiungerla.
Virail, la piattaforma che compara i diversi mezzi di trasporto per trovare la soluzione migliore per ogni esigenza, ha da poco proposto ai suoi utenti un percorso su e giù per l'Italia, nel quale perdersi e ritrovarsi, in mezzo alla natura, tra i dedali più belli del nostro Paese.
Il viaggio può partire da Kränzelhof, una delle cantine che puntellano l’area di Merano e che producono vini nella zona di Cermes, tra le montagne dell’Alto Adige.
La tenuta ha una storia antichissima, pare risalga addirittura al 1182, e oggi è famosa non solo per le bottiglie che vengono prodotte, ma anche per i suoi sette giardini. Uno di questi ospita un labirinto vinicolo, un’opera più unica che rara in Italia, realizzata con oltre dieci specie diverse di vitigni. Il percorso di 1500 metri fu voluto dal proprietario, il conte Franz Graf Pfeil, e, ogni anno, seguendo un tema specifico, viene decorato con opere d’arte diverse per arricchire la visita dei curiosi che vogliono perdersi e giocare tra le viti.
Rimanendo nel Nord-est merita una segnalazione il labirinto situato sull’isola di San Giorgio, a Venezia, raggiungibile in pochi minuti di vaporetto da piazza San Marco. Tra le mete più gettonate dagli amanti dell’arte, che in questi mesi potranno ammirare una bella retrospettiva di Alberto Burri alla Fondazione Cini e una raffinata personale di Sean Scully in Basilica, l'isola permette di avventurarsi, all'interno dell’antico convento, nel Labirinto Borges, costruito nel 2011 in omaggio allo scrittore argentino Jorge Luis Borges e alla sua opera «Il giardino dei sentieri che si biforcano».
Il percorso è creato con oltre tremila piante di bosco e si snoda per circa mille e centocinquanta metri, ma la vera sorpresa la si può scoprire solo guardando il dedalo dal campanile della chiesa di San Giorgio Maggiore: i sentieri, tra spirali e linee rette, danno vita ad innumerevoli parole e simboli da individuare, tra cui anche la parola Borges.
Rimanendo in provincia di Venezia un altro labirinto da visitare è quello di Stra, a Villa Pisani, una delle più famose residenze della Riviera del Brenta, punto di riferimento architettonico e artistico importante, ma anche meta perfetta anche per gli amanti dei giardini. Il suo dedalo in siepi di bosso, realizzato nel diciottesimo secolo come luogo di divertimento e corteggiamento, è un piccolo capolavoro: nella torretta centrale, ai tempi, una dama mascherata era solita aspettare il cavaliere alle prese con il complesso percorso, pronta per rivelarsi una volta raggiunta.
In Veneto ci sono altri tre labirinti da non perdere: due in provincia di Padova, uno nel Veronese. Quest'ultimo si trova a Valeggio sul Mincio, nel parco di Sigurtà, che dal 1978 ospita al suo interno specchi d’acqua, decine e decine di specie diverse di piante, un elegante castelletto, aree didattiche e un grande labirinto, composto da oltre mille e cinquecento piante di tasso che superano i due metri.
Ci sono voluti ben due anni per progettare questo dedalo e il doppio di tempo perché le piante raggiungessero l’altezza ottimale. La torretta al centro, meta finale di chiunque provi a risolvere il suo enigma, è ispirata a quella francese del parco Bois de Boulogne di Parigi: un dettaglio molto elegante che si sposa perfettamente con l’atmosfera del parco.
Nel Padovano merita, invece, una visita Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel cui giardino, ricco di alberi secolari da tutto il mondo, di fontane e di statue ospita c'è un grande labirinto in bosso: un dedalo quadrato che oggi è tra i più grandi realizzati nel XVII secolo e giunti fino a noi.
La maggior parte delle piante fu posizionata tra il 1664 e il 1669 e ha, quindi, oltre quattrocento anni: un dettaglio che rende l’esperienza ancora più autentica.
Il percorso, voluto dal cardinale San Gregorio Barbarigo, raggiunge in totale i 1500 metri e fu realizzato con un forte significato simbolico: il complesso cammino verso la perfezione e la salvezza.
I sei vicoli ciechi e il circolo vizioso rappresentano i vizi capitali e costringono i visitatori a tornare sui propri passi, una metafora che invita a riflettere sui propri errori per raggiungere la salvezza, ossia il centro del labirinto e il suo punto più alto.
Il giardino venne realizzato dalla famiglia Barbarigo come voto a Dio per sconfiggere la peste del 1631, l’epidemia che segnò anni molto difficili e dolorosi per Venezia.
Il labirinto, in particolare, intendeva trasmettere un messaggio positivo: la vita può essere complicata, ma tutto si risolve poiché c’è sempre una via d’uscita.
Dal 1929 il giardino è di proprietà della famiglia Pizzoni Ardemani, oggi giunti alla terza generazione, che come i proprietari precedenti si impegno ad essere custodi attenti e scrupolosi di questo luogo unico al mondo per varietà botanica e per la sua simbologia.
Sempre nel Padovano ci sono i labirinti del Castello di San Pelagio, nome con cui è conosciuta Villa Zaborra, al cui interno è conservato il Museo del volo, uno spazio espositivo dedicato alla storia dell’uomo e dell’aria, dai primi studi ai mezzi spaziali, passando per mongolfiere e personaggi che hanno compiuto imprese straordinarie.
La villa accoglie tre ben dedali, ognuno con un proprio tema: il Labirinto del Minotauro, di ispirazione mitologica, il Labirinto africano, arricchito con animali e maschere rituali, e il Labirinto del «Forse che sì forse che no», ispirato a un’opera di Gabriele D’Annunzio.
Nel Nord-ovest è, invece, immancabile una visita al dedalo del Castello di Masino a Caravino, una delle tante residenze aristocratiche del Piemonte. Un tempo dimora dei conti Valperga, l'affascinante edificio è oggi proprietà del Fai - Fondo ambiente italiano. Il suo dedalo si trova all’interno del parco e rappresenta il secondo labirinto botanico più grande della nostra penisola. È un percorso ricco di svolte e vicoli ciechi ricostruito secondo l’antico progetto settecentesco, quando il castello si trasformò da massiccia fortezza a elegante dimora nobile.
Chiede il percorso tra i labirinti italiani Fontanellato, in provincia di Parma, con il Labirinto della Masone, aperto ai visitatori nel 2015. Interamente realizzato con oltre duecentomila piante di bambù, l'intero percorso supera i tre chilometri e permette al pubblico di camminare affiancato da canne alte anche quindici metri. Quello voluto da Franco Maria Ricci non è, però, solo un dedalo nel quale vagare, ma anche un luogo dedicato all’arte e alla musica, agli eventi e agli incontri: un vero e proprio punto di riferimento culturale nel territorio.
Sono tante, dunque, le occasione che l’Italia offre per una giornata in mezzo alla natura, giocando a perdersi e a ritrovarsi cullati dalle suggestioni di un elemento come il labirinto di cui è in debito molta arte e letteratura.

Informazioni utili
[Fig. 1] Labirinto del Masone a Fontanellato, Parma; [fig. 2] Labirinto di Villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia; [fig. 3] Labirinto di Villa Barbarigo a Valsanzibio, nel Padovano;  [fig. 4] Labirinto Borges all'Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Ph Agenzia Vision. Courtesy Fondazione Giorgio Cini; [figg. 5 e 6] Labirinto Sigurtà a Valeggio sul Mincio; [fig. 7] Labirinto della Kränzelhof in Alto Adige

sabato 18 maggio 2019

Riaperto a Zurigo il Pavillon Le Corbusier

Zurigo ha da poco ritrovato uno dei suoi tesori artistici. La scorsa settimana ha riaperto al pubblico, dopo un importante lavoro di restyling del costo di circa cinque milioni di franchi, durato diciotto mesi e curato da Silvio Schmed e Arthur Rüegg, il Pavillon Le Corbusier, commissionato all’architetto, designer, urbanista e artista svizzero-francese negli anni Sessanta dalla collezionista Heidi Weber.
Situato sulla riva orientale del lago, nel quartiere di Seefeld, in una incantevole posizione a pochi passi dal centro storico della città svizzera, l’edificio, completato nel 1967, rappresenta l’ultima costruzione di Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Édouard Jeanneret-Gris (La Chaux-de-Fonds, 6 ottobre 1887 – Roccabruna, 27 agosto 1965), figura tra le più influenti della storia dell'architettura contemporanea, ricordato con Ludwig Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright e Alvar Aalto come maestro del Movimento moderno.
Il Pavillon, che si sviluppa su due piani, è interamente costruito in vetro, acciaio, pannelli di vernice colorata e cemento armato, un elemento, quest’ultimo, che l’architetto svizzero-francese ha utilizzato più volte come un vero e proprio strumento di espressione come documentano, per esempio, la Cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp e Villa Savoye a Poissy, due dei suoi tanti edifici entrati a far parte del patrimonio Unesco.
Il padiglione espositivo -usato da Heidi Weber come spazio per i lavori artistici della propria collezione, dai dipinti a olio ai disegni, dai mobili alle sculture- segue, inoltre, appieno il sistema Modulor, una misura di grandezze sviluppata dall’artista sul rapporto di determinazione della sezione aurea, riguardo alle proporzioni del corpo umano, del quale egli stesso diceva: «è una scala di proporzioni che rende difficile l'errore, facile il suo contrario».
Il Pavillon ebbe una lunga esegesi come dimostrano numerosi schizzi e progetti realizzati a partire da metà degli anni Cinquanta. La realizzazione e poi il completamento dell'opera si devono molto alla pazienza e perseveranza di Heidi Weber. Fu, infatti, la collezionista e mecenate svizzera a ottenere dalla città di Zurigo il diritto di uso per cinquant'anni del suolo, il prato Blatterwiese, e fu sempre lei si adoperò per superare le molte difficoltà, prima fra tutte la morte dello stesso Le Corbusier. I lavori di realizzazione, iniziati nel 1964, furono, infatti, interrotti dalla morte del celebre architetto nell'agosto del 1965 e ripresero, quindi, con un nuovo team di progetto per terminare nel 1967.
Dal 2014 il padiglione, espressione perfetta di quella «sintesi delle arti» teorizzata da Le Corbusier, è entrato nelle disponibilità della città di Zurigo che, dal 2019, lo aprirà tutti gli anni da maggio a novembre. La gestione dell'edificio è stata affidata al Museo für Gestaltung, la più importante istituzione di design e di arte visiva in Svizzera con la sua collezione di oltre 500mila opere, che gestisce altri due musei cittadini.
Il Pavillon ospiterà, di anno in anno, mostre temporanee, manifestazioni e workshop tesi a illustrare le opere e l’enorme influenza dell'architetto franco-svizzero nel mondo dell’arte. La mostra d'apertura si intitola «Mon univers» ed è dedicata a una delle tante passioni di Le Corbusier: il collezionismo. Gli oggetti esposti, provenienti dalla fondazione intitolata all’artista e da importanti collezioni private, creano un dialogo tematico con il padiglione e sono presentati insieme con alcuni filmati dell’architetto e a una mostra permanente di fotografie realizzate dal celebre René Burri tra il 1955 e il 1965, nel suo ruolo di cronista visivo di Le Corbusier.
Da non perdere per chi si trova a Zurigo, oltre al rinnovato Padiglione in riva al lago, sono anche gli eventi promossi nelle altre due sedi del museo: la mostra dedicata a Sebastião Salgado, fino al 23 giugno, e la permanente «Collection Highlights», dove si possono ammirare icone del design svizzero quali il pelapatate Rex, il coltellino dell’esercito svizzero firmato Victorinox e anche il celeberrimo font «Helvetica».

Informazioni utili 
Pavillon Le Corbusier, Höschgasse 8 - 8008 Zürich. Orari: da martedì a domenica, ore 12.00 – 18.00; giovedì, ore 12.00 – 20.00. Informazioni: tel. +41434464468, welcome@pavillon-le-corbusier.ch. Sito internet: www.pavillon-le-corbusier.ch.