ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 19 novembre 2019

«Dodici storie sul cibo», quando la buona tavola incontra l’arte

Compie sei anni «Far da mangiare», festival di cucina che sabato 23 e domenica 24 novembre, in concomitanza con la Settimana della cucina italiana nel mondo, animerà lo Spazio MIL, centro multifunzionale di circa tremila metri quadrati ubicato nel Comune milanese di Sesto San Giovanni, all’interno del parco archeologico industriale dell’ex fabbrica Breda.
Tema della manifestazione sarà la convivialità, quale elemento comune a tutte le culture del mondo in ogni epoca e in ogni luogo. Da sempre, infatti, il riunirsi intorno al cibo è momento di ritrovo e di condivisione, che ogni popolazione ha arricchito con le proprie usanze e tradizioni, con le proprie materie prime e tecniche di preparazione. Asia e Sud America sono i due Paesi al centro di questa edizione del festival, che proporrà una serie di attività gratuite come workshop di cucina, degustazioni, cooking show, incontri con i produttori, laboratori per bambini, il tutto con l’obiettivo di far conoscere profumi speziati e sapori esotici di un linguaggio universale, quello della buona tavola, capace di creare un ponte tra le varie culture.
A «Far da mangiare» -il cui cartellone sarà arricchito dal sempre gradito Spazio Meal, area dedicata allo street food italiano e internazionale- la cucina incontra anche il mondo dell’arte. In occasione della fiera sarà, infatti, possibile vedere la mostra «Dodici storie sul cibo. Dal cavallo al carrello», a cura di Andrea Tomasetig. L’esposizione, la cui inaugurazione è programmata per la sera del 21 novembre (ore 18.30), propone una selezione di carte e documenti d’epoca, databili dal 1865 a oggi e provenienti dalla vasta collezione dello studioso milanese Michele Rapisarda.
L’allestimento presenta sia i materiali originali sia la loro riproduzione ingrandita a parete, corredati da brevi testi per approfondirne il contesto storico e sociale.
Di particolare interesse sono le copertine di varie riviste illustrate, dalla storica «Domenica del Corriere», disegnate da Achille Beltrame e Walter Molino, alle attuali pagine d’autore di «Toiletpaper», il magazine bolognese creato da Maurizio Cattelan e dal fotografo Pierpaolo Ferrari, oltre a pagine pubblicitarie con grafiche firmate da Leonetto Cappiello, Antonio Rubino e Benito Jacovitti. Ci sono, inoltre, in mostra cartoline, calendari, ricevute di pasti all’osteria, gadget e pieghevoli.
La rassegna prende le mosse dal periodo in cui la ricca borghesia lombarda andava a mangiare fuori porta in carrozza, provvedendo anche al pasto per il cocchiere e il cavallo, come documentano due ricevute: una dell’Osteria del Giardino di Cassano d’Adda (1865), l’altra della Trattoria del Risorgimento di Fino Mornasco (1900 ca.), che si chiude con le voci «biada, fieno e stallazzo».
Tra le carte in mostra è possibile, poi, imbattersi in una illustrazione di Achille Beltrame dedicata al pranzo di Ferragosto del 1904 sotto le guglie del Duomo di Milano e negli scugnizzi napoletani «mangiamaccheroni», sempre del primo Novecento, immortalati in una cartolina a uso dei turisti italiani e stranieri.
Si toccano, quindi, gli anni Trenta con la pubblicità del modernissimo frigorifero Algidus, firmata da Antonio Rubino, e con quella dell’innovativo Caffè Cirio sottovuoto, il cui manifesto porta la firma di Leonetto Cappiello.
Si assiste, quindi, all’avvento della televisione nel 1954, raccontato da una copertina della rivista «Il Vittorioso» a cura di Benito Jacovitti. Tre anni dopo, nel 1957, con «Carosello», trasmissione che prosegue fino al 1977, la reclame arriva in televisione. L’azienda Invernizzi, produttrice di latticini e salumi, inventa due dei più famosi pupazzi pubblicitari: la Mucca Carolina e Susanna Tutta Panna, della quale è in mostra un giocattolo con stampato datato 1970.
La mostra si chiude, quindi, con un omaggio a Gualtiero Marchesi, del quale è esposto l’opuscolo stampato da Giorgio Lucini nel 2010 per i suoi ottant’anni.
Grande spazio viene, inoltre, dato alla stagione che vede la nascita e l’affermarsi dei supermercati e del carrello della spesa. Nel 1956 la Standa apre a Napoli il primo reparto self-service di generi alimentari. Il 27 novembre 1957 la Supermarkets Italiani -sorta per iniziativa di Nelson Rockefeller, Bernardo Caprotti e Marco Brunelli- inaugura a Milano il primo supermercato di una catena poi nota come Esselunga. Di quest’ultima è esposto il catalogo del novembre-dicembre 1967 con una sorridente Raffaella Carrà che augura buon Natale ai clienti. Un viaggio, dunque, interessante quello proposto alla Spazio MIL, che permette al visitatore di scoprire come il cibo sia cultura, pane non solo per il corpo ma anche per la mente. 

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Cartolina napoletana illustrata, Mangiamaccheroni, inizio 900; [fig, 2] Achille Beltrame, Controcopertina de La Domenica del Corriere, 21.8.1904, Millano; [fig. 3] Benito Jacovitti, Copertina Il vittorioso, 25.9.1955, Roma; [fig. 4] Copertina catalogo "Esse Lunga", Milano, novembre-dicembre 1967 

Informazioni utili 
«Dodici storie sul cibo. Dal cavallo al carrello. Carte dalla collezione Rapisarda». Spazio MIL, via Luigi Granelli, 1 - Sesto San Giovanni (Milano). Inaugurazione: giovedì 21 novembre, ore 18.30. Orari giovedì, ore 14.00-22.00 | venerdì, ore 14.00-19.00 | sabato, ore 11.00-23.00 | domenica, ore 11.00-21.00. Ingresso: gratuito. Informazioni: tel. 02.36682271, info@spaziomil.org. Come arrivare: M1 Sesto Marelli/Sesto Rondò, M5 Bignami, tram 31 Parco Nord/viale Fulvio Testi, autobus 727 viale Sarca/via Milanese. Dal 21 al 24 novembre 2019.

lunedì 18 novembre 2019

Leopardi e Milano: alla Biblioteca Sormani una mostra per i duecento anni de «L’infinito»

L’altura solitaria del Monte Tabor, il borgo di Recanati alle sue pendici, sullo sfondo i monti Sibillini e il mar Adriatico, in primo piano una siepe e le piante di un parco con le foglie mosse dal vento. È questa la geografia del cuore, intessuta di «profondissima quiete» e di «infinito silenzio», che ci restituisce Giacomo Leopardi con una delle opere poetiche più alte della letteratura di tutti i tempi: «L’Infinito».
È il 1819. Lo scrittore recanatese ha appena ventun anni, ma sente già viva in lui l’urgenza di riflettere sull’«eterno» e sulle «morte stagioni», ovvero sul tempo che scorre, sulla storia -nostra e di chi ci ha preceduto-, sul destino che ci attende.
Sei anni dopo quei quindici versi indimenticabili, di cui si celebrano quest’anno i duecento anni dalla composizione, trovano la loro prima veste tipografica: alla fine del 1825 vengono pubblicati sulla rivista «Il Nuovo Ricoglitore», edita dal tipografo ed editore veneziano Antonio Fortunato Stella, che nel 1810 ha trasferito la propria attività a Milano.
La storia della poesia «L’Infinito» si intreccia, dunque, con quella del capoluogo lombardo, dove lo scrittore trascorre un breve periodo di tempo, proprio nel 1825, tra il 27 luglio e il 26 settembre, in seguito all’incarico di redigere l’edizione completa delle opere di Cicerone.
Non potevano, dunque, non arrivare anche all’ombra della Madonnina i festeggiamenti per i duecento anni dalla composizione del noto idillio leopardiano, che hanno avuto quest’anno il loro cuore pulsante nel borgo di Recanati, dove è attualmente in programma la rassegna fotografica «Paesaggio italiano. L’infinito tra incanto e sfregio», tesa a raccontare il rapporto dell’uomo con la natura.
Sede scelta per l’omaggio milanese è la Biblioteca Sormani, dove fino al prossimo 8 febbraio, vanno in scena una mostra e un ciclo di incontri, per la curatela di William Spaggiari, professore ordinario di Letteratura italiana dell’Università degli studi di Milano.
Grazie a questo evento sarà possibile ripercorrere, nello specifico, l’importanza del capoluogo lombardo nel percorso leopardiano e le considerazioni del poeta recanatese sulla società, sulla fisionomia e i caratteri del cittadino civilmente consapevole e sul vivere nella grande città, argomento, questo, al centro di carteggi con i familiari e gli amici e di pagine segrete del suo «Zibaldone».
Come è noto Giacomo Leopardi verso i vent’anni sente il bisogno di lasciare Recanati, il natio borgo «selvaggio», ormai vissuto come prigione, per poter frequentare gli ambienti culturali più prestigiosi del suo tempo.
Milano, Bologna, Firenze, Pisa, Roma e Napoli accolgono il poeta e diventano scenario di importanti incontri nonché fonte di ispirazione della sua produzione letterario-filosofica.
L’impatto con la vita di città, tuttavia, si rivela per lo scrittore difficoltoso sia per i noti problemi di salute sia per il suo scarso spirito di adattamento, ma anche e soprattutto per il suo carattere schivo, incline alla solitudine e allo studio, insofferente nei confronti della vita di società.
Non semplice è anche il rapporto con la città lombarda. «Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, -scrive, infatti, il poeta in una lettera del 20 agosto 1825 a Carlo Antici- perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario».
Dell’allora capitale del Regno Lombardo-veneto Giacomo Leopardi non ama «l'aria, i cibi e le bevande», definiti -in una lettera del 24 agosto 1825 al padre Monaldo- «forse i peggiori del mondo». Ne disprezza la troppa venerazione, nei circoli culturali, per l’austero Vincenzo Monti, una delle figure egemoni del tempo. Ne avverte, soprattutto, la diffidenza nei suoi confronti, respira cioè -si legge in una lettera allo Stella del marzo 1826- «la disgrazia di essere profondamente disprezzato nella dotta e grassa Lombardia». Ma è ben consapevole che Milano è il posto ideale per realizzare il sogno di gloria letteraria tramite la stampa e la diffusione dei suoi scritti nei circuiti di alto livello culturale. E sarà, infatti, nella città lombarda che vedranno la luce molte delle sue opere: articoli, traduzioni, le «Operette morali», la doppia «Crestomazia», le «Rime» di Petrarca con ampio commento.
La rassegna nella Sala del Grechetto, di cui rimarrà documentazione in un bel catalogo di Silvana editoriale, permette di ammirare un importante corpus di documenti, alcuni rari e mai esposti prima, facenti parte del «Fondo leopardiano», all’interno del quale si trovano trascrizioni manoscritte, edizioni originali a stampa di opere del poeta recanatese e la saggistica più autorevole uscita nell’arco di due secoli.
Oltre a questi pezzi, Walter Spaggiari ha selezionato un ricco apparato documentale e iconografico: lettere autografe di Giacomo Leopardi all’editore Antonio Fortunato Stella, provenienti dalla Biblioteca nazionale Braidense, una lettera di Pietro Brighenti, corrispondente bolognese del poeta e confidente segreto della Polizia austriaca con il nome in codice di Luigi Morandini, di proprietà dall’Archivio di Stato di Milano, nonché dipinti e stampe che ritraggono luoghi, personaggi e momenti della Milano ottocentesca, di solito conservati alla Civica raccolta delle stampe «Achille Bertarelli» del Castello sforzesco, a Palazzo Morando, al Museo del Risorgimento e alla Casa del Manzoni.
Curiosa è, poi, la sezione espositiva curata dall’Associazione culturale Biblioteca Famiglia meneghina Società del Giardino, che propone una serie di traduzioni in milanese del celebre idillio al centro dell’omaggio.
«Giacomo Leopardi. Infinito incanto», questo il titolo del progetto, prevede, inoltre, un ciclo di sette incontri che analizzeranno vari aspetti della poetica dello scrittore recanatese. Patrizia Landi parlerà dello «Zibaldone» (22 novembre), Walter Spaggiari della luna (25 novembre), Angelo Colombo dei rapporti dello scrittore con Milano (2 dicembre). Sarà, poi, la volta di Anna Maria Salvadè con l’incontro «Solitudini leopardiane» (13 dicembre), di Christian Genetelli con «Leopardi e i giornali milanesi» (16 dicembre) e di Gianmarco Gaspari con «Leopardi e il carattere degli italiani» (23 gennaio). A chiudere il cartellone sarà, infine, un appuntamento sulle relazioni tra lo scrittore recanatese e Alessandro Manzoni, a cura di Angelo Stella (30 gennaio).
Un bell’omaggio, dunque, quello di Milano a Giacomo Leopardi, uno dei suoi ospiti illustri insieme con Stendhal, Byron, Shelley, Balzac, Listz e molti altri, che «ha illuminato del suo pensiero -raccontano gli organizzatori- l’ambiente vivace della “capitale morale” di primo Ottocento, pronta ad accogliere e a far propri i fermenti portati dal vento innovatore che spirava in Europa».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Anonimo, Giacomo Leopardi, 1898. Civica raccolta delle stampe Achille Bertarelli. Milano, Castello Sforzesco; [fig. 2] Johann Jakob Falkeisen, Piazza Duomo, 1835-1840. Acquatinta acquarellata a mano. Civiche raccolte storiche. Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento; [fig. 3]  Salvatore Corvaya, Piazza della Scala avanti il 1857, 1920. Olio su tela. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 4] Anonimo, Velocifero, 1835 - 1840. Acquaforte e acquatinta colorata a mano. Civiche raccolte storiche - Palazzo Morando; [fig. 5] Giovanni Migliara, Ponte e trofeo di Porta Ticinese, metà XIX secolo. Acquerello su carta. Civiche Raccolte Storiche - Palazzo Morando

Informazioni utili
Giacomo Leopardi. Infinito Incanto. Biblioteca Sormani - Scalone d'onore, via Francesco Sforza, 7 - Milano. Orari: lunedì-venerdì, ore 15.00-19.00, sabato, ore 9.00-12.30, chiuso domenica e festivi. Ingresso libero. Informazioni: Ufficio Conservazione e Valorizzazione Raccolte Storiche, tel. 0288463372, c.salagrechetto@comune.milano.it. Fino all'8 febbraio 2020




venerdì 15 novembre 2019

Man Ray e le sue donne: duecento scatti in mostra a Torino

È il 1924. Man Ray (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976), artista di spicco prima della stagione dadaista e poi di quella surrealista, rimane sedotto da «La Grande Baigneuse di di Valpinçon», opera realizzata nel 1808 da Jean-Auguste-Dominique Ingres, oggi conservata al Louvre. Con quella tela in testa, mette in posa la sua modella Kiki de Montparnasse, nome d’arte della cantante e cabarettista Alice Prin, una delle figure più affascinanti della ruggente Parigi degli anni Venti. La veste con un grande turbante e trasforma, idealmente, la sua schiena nuda in uno strumento musicale, disegnandole sopra le due F che simboleggiano la viola e il violoncello. Poi scatta e quella fotografia, dall’elegante bianco e nero, finisce per diventare una delle immagini più iconiche del Novecento.
L’opera, intitolata «Le violon d'Ingres», è una delle duecento immagini che compongono il percorso espositivo della mostra «wo/MAN RAY», allestita fino al prossimo 19 gennaio a Torino, negli spazi di Camera – Centro italiano per la fotografia.
La rassegna, per la curatela di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, ripercorre il rapporto dell’artista con l’universo femminile, fonte di ispirazione primaria dell’intera sua poetica, proprio nella sua declinazione fotografica.
Tra le immagini selezionate, realizzate a partire dagli anni Venti fino alla morte dell’artista (avvenuta nel 1976), ci sono altre icone del Novecento come «Lacrime di vetro» del 1932, con il primo piano degli occhi di un’anonima ballerina di can-can bagnati da gocce rotondamente perfette, «Noire et Blanche» del 1926, con il volto di una donna dai capelli neri appoggiato sul tavolo, mentre con una mano sorregge una scultura africana dalle forme stilizzate, e la «Prière» (1930), con in primo piano le mani e il fondoschiena di Kiki de Montparnasse.
Non mancano, poi, lungo il percorso espositivo chicche come il portfolio capolavoro «Electricitè» (1931) e il rarissimo «Les mannequins. Résurrection des mannequins» (1938), testimonianza unica di uno degli eventi cruciali della storia del Surrealismo e delle pratiche espositive del XX secolo, l’Exposition Internationale du Surréalisme di Parigi del 1938.
Appare evidente dalla mostra, resa possibile grazie alla collaborazione di istituzioni quali lo Csac di Parma e il Mast di Bologna (solo per fare due esempi), come Man Ray sia stato capace di reinventare non solo il linguaggio fotografico, ma anche la rappresentazione del corpo e del volto, i generi stessi del nudo e del ritratto.
Attraverso i suoi rayographs, le solarizzazioni, le doppie esposizioni, il corpo femminile è, infatti, stato sottoposto a una continua metamorfosi di forme e significati, divenendo di volta in volta forma astratta, oggetto di seduzione, memoria classica, ritratto realista, in una straordinaria -giocosa e raffinatissima– riflessione sul tempo e sui modi della rappresentazione, fotografica e non solo.
Assistenti, muse ispiratrici, compagne di vita e di avventure intellettuali, le donne protagoniste della mostra allestita a Torino sono figure centrali nella storia di quegli anni come Meret Oppenheim, Kiki de Montparnasse e Nusch Eluard, e artiste di straordinario talento come Lee Miller, Berenice Abbott e Dora Maar. Accanto a loro c’è anche Juliet Browner, l’inseparabile compagna di una vita, a cui Man Ray dedica lo strepitoso portfolio «The Fifty Faces of Juliet» (1943-1944), cinquanta immagini in bianco e nero, spesso ritoccate a mano con pastelli colorati o stampate con innovative tecniche fotografiche, in cui si assiste alla straordinaria trasformazione della donna in tante figure diverse, in un gioco di affetti e seduzioni, citazioni e provocazioni.
In mostra a Camera sfilano anche le istantanee di alcune di queste donne che sono state prima modelle e poi allieve dell’artista. È così possibile ammirare un corpus di opere, riferite in particolare agli anni Trenta e Quaranta, vale a dire quelli della loro più diretta frequentazione con l’ambiente dell’avanguardia dada e surrealista parigina. Ecco così gli splendidi ritratti dei protagonisti di quella stagione storica, tra cui Eugene Atget o James Joyce, scattati da Berenice Abbott tra il 1926 e il 1938 a Parigi e a New York, capitali dell’arte di avanguardia della prima metà del XX secolo. Dora Maar è, invece, presente in mostra con opere riconducibili a un linguaggio di street photography e di paesaggio come ben documenta l’opera «Gamin aux Chaussures Dépareillés» (1933). Mentre l’indagine sul corpo femminile è il fulcro del lavoro di Lee Miller, della quale sono esposti numerosi autoritratti e nudi di modelle e modelli che lavoravano con lei sia in ambito di ricerca che di fotografia di moda.
Una mostra, dunque, di grande interesse quella proposta a Torino perché permette sia di vedere alcune immagini simbolo del Novecento sia di ricostruire una storia ancora poco conosciuta, quella dell’interesse dell’artista americano per i ritratti femminili. Un interesse che André Breton commentò con queste parole: «Solo da Man Ray potevamo attenderci la Ballata delle donne del tempo presente».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Man Ray, Violon d’Ingres (Kiki), 1924 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 2] Man Ray, Noire et blanche, 1926 – Fotografia. Credits: © Man Ray Trust by SIAE 2019; [Fig. 3] Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941/1943. Cm 39,5 x 34 x 2,7. Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019; [fig. 4] Man Ray, Electricité, 1931. Portfolio di 10 rayografie. Cm 
 
Informazioni utili 

«wo/MAN RAY». CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine, 18 – Torino. Orari: lunedì ore 11.00 – 19.00, martedì chiuso
, mercoledì ore 11.00 – 19.00, giovedì ore 11.00 – 21.00, venerdì ore 11.00 – 19.00, sabato ore 11.00 – 19.00, domenica ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Ingresso: intero € 10,00, ridotto (fino a 26 anni, oltre 70 anni Soci Touring Club Italiano e associazioni aventi diritto) € 6,00, ingresso gratuito per bambini fino agli 11 anni. Informazioni utili: camera@camera.to. Sito internet: www.camera.to. Fino al 19 gennaio 2020.