ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 27 novembre 2020

Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi: le «pittrici dimenticate» rivivono su Arte TV

Si può solo immagine la gioia del nobile cremonese Amilcare Anguissola davanti alla lettera di Michelangelo Buonarroti che lodava le doti pittoriche della giovane figlia Sofonisba, allora appena ventenne. Con quella missiva, il maestro toscano, ammaliato dalla bellezza di un disegno con una fanciulla intenta a ridere di cuore per le difficoltà di lettura di una signora anziana concentrata nello studio dell’alfabeto, chiedeva alla giovane pittrice di cimentarsi in un lavoro che mostrasse il sentimento opposto. Sofonisba Anguissola (Cremona, 2 febbraio 1532 – Palermo, 16 novembre 1625) accettava la sfida e ritraeva il fratello Asdrubale intento ad affondare le mani in un cesto di granchi vivi e in lacrime per il dolore di un morso. Era il 1554 e quel disegno a carboncino e matita su carta cerulea, che oggi si trova nel Gabinetto di disegni e stampe del Museo di Capodimonte a Napoli, otteneva la stima di Michelangelo, tra i primi a riconoscere il talento della giovane artista lombarda, che poco dopo sarebbe diventata pittrice ufficiale alla corte di Filippo II di Spagna, a Madrid.
L’episodio, raccontato per la prima volta da Tommaso Cavalleri in una lettera a Cosimo I de’ Medici, datata 20 gennaio 1562, è tra gli aneddoti che Leticia Ruiz Gómez, capo del dipartimento di pittura del Rinascimento spagnolo al Museo del Prado di Madrid, ripercorre nel documentario «La rinascita delle pittrici dimenticate», per la regia di Hilka Sinning, disponibile gratuitamente fino al prossimo 18 dicembre sul canale europeo Arte.Tv, nella versione sottotitolata in italiano.
Il filmato in lingua tedesca, della durata di poco più di cinquanta minuti, focalizza l’attenzione su tre artiste, vissute tra il XVI e il XVII secolo, che si ribellarono alla convinzione del loro tempo che riteneva la pratica artistica inaccessibile alle donne, riuscendo a farsi apprezzare dai loro contemporanei e arrivando persino «a ritrarre – si legge nella presentazione - i reali di Spagna e il papa, nonché a conquistare l’attenzione di Michelangelo e Van Dyck».
Quelle tre donne entrate, oggi, nel mito sono Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi

SOFONISBA ANGUISSOLA, LA «PITTRICE D'ANIME» AMMIRATA DA MICHELANGELO
Ma come sono riuscite queste artiste, sottratte dal lungo oblio della storia dalle femministe degli anni Settanta, a formarsi e a lavorare in un’epoca nella quale alle donne era precluso l’accesso alle accademie di belle arti e alle botteghe dei pittori, «considerate -ricorda Millo Borghini nel documentario- degli ambienti moralmente non consigliabili»? A Sofonisba Anguissola venne in aiuto il padre Amilcare, un umanista dallo spirito libero e dalle spiccate capacità manageriali, che la fece istruire in casa del pittore lombardo Bernardino Campi.
La ragazza mostrò da subito un interesse spiccato per la ritrattistica e, già giovanissima, si esercitò a mettere sulla tela gli stati d’animo dei soggetti raffigurati, meritandosi l’appellativo di «pittrice d’anime», come ben documenta il dipinto «Partita a scacchi» (1555). Questa tela conquistò anche Il contemporaneo Giorgio Vasari, che di tutti i lavori dell’artista ebbe a dire: «…tanto ben fatti che pare che spirino e siano vivissimi».
Raffinati sono anche gli autoritratti, da quello alla spinetta a quello al cavalletto, che potrebbero essere paragonati a fotografie moderne, a selfie; Sofonisba Anguissola, dunque, - suggerisce il documentario di Hilka Sinning – «non avrebbe davvero nulla da invidiare alle moderne influencer con migliaia di follower».
Il fim su Arte.Tv ricorda ancora che le «meraviglie» dell’artista (la definizione è sempre di Giorgio Vasari) trovarono un altro importante estimatore in Antoon Van Dyck, che nel suo viaggio in Sicilia, dove la pittrice si era trasferita negli ultimi anni della sua vita, ritrasse Sofonisba Anguissola anziana, a 96 anni, in quella che è la sua ultima effige conosciuta, oggi al British Museum di Londra.
Il pittore fiammingo, allora poco più che ventenne, rimase piacevolmente impressionato dalla cultura, dalla perizia tecnica, dalla forza di carattere e dal «cervello prontissimo» dell’artista: «ho ricevuto -disse- maggiori lumi da una donna cieca che dallo studiare le opere dei più insigni maestri».
Quell’impareggiabile «pittrice di natura e miracolosa», come la definì lo stesso Van Dyck, consegnava così il testimone al collega più giovane; l’anno dopo, nel 1625, il sipario calava per sempre sulla sua vita avventurosa. 

LAVINIA FONTANA, «LA PONTIFICIA PITTRICE» CHE RITRASSE I NOBILI BOLOGNESI  
Il documentario di Hilka Sinning prosegue raccontando la storia della bolognese Lavinia Fontana (Bologna, 24 agosto 1552 – Roma, 11 agosto 1614) , soprannominata «la pontificia pittrice» e ricordata nella storia dell’arte per il suo ritratto di papa Gregorio XIII e per la realizzazione di enormi pale d’altare dipinte per l’aristocrazia e il clero di tutta Italia, come la «Madonna Assunta di Ponte Santo» per la città di Imola o la «Natività della Vergine» per la chiesa della Santissima Trinità a Bologna.
Il padre, il pittore Prospero Fontana, fu il primo a valorizzare il talento della giovane artista. Successivamente a farle da agente fu il marito, il pittore Giovan Paolo Zappi. La loro, come racconta la studiosa Vera Fortunati, fu un’unione non convenzionale per l’epoca: lei dipingeva e lui vendeva; lei era la star, lui aveva ruolo più domestico, ma utilissimo alla dinamica della coppia, che ebbe addirittura undici figli.
Lavinia Fontana era amata dall’aristocrazia - bolognese prima, romana poi - per la sua capacità di raccontare il «fascino mondano» del tempo. La sua conoscenza di velluti, broccati, sete e pizzi ricamati -restituiti sulla tela con con un’impareggiabile precisione ottica – la rendevano l’artista prediletta tra le nobildonne.
Ritrasse Costanza Sforza Boncompagni (parente di papa Gregorio XIII), Ginevra Aldrovandi Hercolani, Costanza Alidosi, la famiglia Gozzadini e anche la piccola Antonietta Gonzales, la bambina dal corpo interamente ricoperto di peli, nel cui quadro si respira tutta l’empatia materna dell’artista.
Lavinia Fontana fu anche la prima donna nella storia a dipingere dei nudi, soggetti che si credeva potessero sconvolgere la mente femminile, realizzando opere per le camere da letto dei suoi committenti. Si pensi alla bella tela «Minerva nell’atto di vestirsi» (1613), commissionata da Scipione Borghese, con una donna ripresa in un momento intimo, quotidiano, o a «Marte e Venere» (1595) della Casa d’Alba, dove il guerriero tocca il fondoschiena della fanciulla, che si volta verso il pubblico quasi complice del gesto irriverente. 

ARTEMISIA GENTILESCHI, LA PRIMA ARTISTA CON UNA SUA BOTTEGA
Quando, nel 1614, Lavinia Fontana si trasferì a Roma, all’età di cinquantadue anni, nella «Città eterna» -ricorda il documentario- stava già realizzando i suoi primi schizzi a matita un'altra artista dal fascino indiscusso: Artemisia Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, circa 1656).
Anche il talento pittorico della giovane, che con il suo stile drammatico e altamente espressivo avrebbe incantato negli anni a venire i più importanti committenti seicenteschi, fu valorizzato dal padre, il pittore pisano Orazio Gentileschi, amico di Caravaggio.
Della storia dell’artista, cresciuta in un ambiente prettamente maschile quale era la Roma del tempo, sappiamo principalmente una cosa, che fu vittima di uno stupro e che ebbe la forza di portare in tribunale l’uomo che abusò di lei: il pittore Agostino Tassi, amico del padre, dal quale era stata mandata a studiare prospettiva.
Il processo fu umiliante, dolorosissimo e segnò per sempre la vita della giovane donna, che usò la pittura come sfogo, popolando le sue tele di potenti nudi femminili, martiri e vendicatrici bibliche che si oppongono a uomini violenti e mossi da ignobile libidine, i cui sentimenti sono accentuati da un drammatico realismo di impianto caravaggesco. 
Emblematica, in tal senso, è la tela «Giuditta che decapita Oloferne», realizzata nei giorni del processo, che «si può assolutamente interpretare -racconta Roberto Contini, curatore alla Gemäldegalerie di Berlino – come «uno spietato e feroce atto di annientamento del terribile nemico». 
In quell'«inesorabile aristocrazia della crudeltà», caratterizzata da un trionfo di muscoli e forza, con il sangue a bagnare le stoffe e i velluti preziosi, c'è anche il ritratto dell'artista: Artemisia è Giuditta, arrabbiata, ma lucidamente fredda nel dare forma alle sue drastiche fantasie omicide.
Il talento mise presto la pittrice romana in competizione con gli uomini del suo tempo. La fece diventare il simbolo della lotta contro l’autorità. L'artista non si fece, però, mai condizionare dal parere degli altri. Aveva già perso molto sposando un uomo che non amava, il pittore Pierantonio Stiattesi, e lasciando Roma per non sentire il chiacchiericcio della gente. Ora era una donna libera, autonoma, forse anche spregiudicata. Non mise, infatti, mai alcuna censura sul suo corpo, protagonista di molte tele come, per esempio, l’«Allegoria con i pennelli» o la «Maria Maddalena in estasi», senza dimenticare i tanti autoritratti. 
La svolta vera arrivò a Napoli, dove Artemisia Gentileschi aprì una sua bottega, ben consapevole dell’unicità del suo ruolo, tanto da scrivere a un suo committente, il collezionista siciliano don Antonio Ruffo: «Il nome di donna fa sorgere dubbi finché non si vede l'opera finita. Farò vedere a vossignoria cosa sono in grado di fare. Troverete l’animo di un cesare nella mia anima. Non vi disturberò con chiacchiere femminili. Le mie opere parleranno da sole».
Con questo documentario, Hilka Sinning confeziona, dunque, un ritratto moderno di tre pittrici, capaci di venire ammirate e apprezzate in un mondo, quello a cavallo tra Cinquecento e Seicento, in cui le donne venivano per lo più relegate alla vita domestica. Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi regalarono al mondo dell’arte lo sguardo, il tocco e la conoscenza femminile. Lo arricchirono di nuovi colori e nuove visioni. Oggi, dopo secoli di oblio, vengono finalmente riscoperte. 

Informazioni utili

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Sofonisba Anguissola, «Autoritratto con allegoria della pittura», 1638-1639. Olio su tela, 98,6×75,2 cm. Kensington Palace, Londra; [fig. 2] Sofonisba Anguissola, «Fanciullo morso da un granchio», 1554 c. Carboncino e matita su carta, 33,3×38,5 cm. Gabinetto di disegni e stampe del Museo di Capodimonte, Napoli; [fig. 3] Sofonisba Anguissola, «Partita a scacchi, 1555. Olio su tela, 72×97 cm. Narodowe Muzeum, Poznań; [fig. 4] Antoon Van Dyck, «Ritratto di Sofonisba Anguissola», 1624. Londra, British Museum; [fig. 5] Lavinia Fontana, «Ritratto di Antonietta Gonzales», 1595 circa. Musée du Chateau de Blois [fig. 6] Artemisia Gentileschi, «Giuditta che decapita Oloferne», 1612-1613. Olio su tela, 158,8×125,5 cm. Museo nazionale di Capodimonte, Napoli; [figg. 7 e 8] Due frame del film «La rinascita delle pittrici dimenticate», per la regia di Hilka Sinning

Il video

giovedì 26 novembre 2020

Una mostra on-line per «London by Gian Butturini», un libro condannato al macero

È l’anno dell’uomo sulla Luna, del mega raduno di Woodstock e del primo collegamento remoto tra computer. È il 1969. Un giovane grafico bresciano dell’Art Director Club di Milano, Gianfranco Butturini (Brescia, 1935 – 2006), viene mandato a Londra per allestire un padiglione alla fiera internazionale sull’uso industriale della plastica. Con la sua macchina fotografica gira la città, dove rimane circa un mese, e scatta una serie di fotografie - «spontanee e autentiche, vive e graffianti» - che raccontano le contraddizioni della Swinging London, con le ragazze in minigonna, i drop-out che si fanno di eroina, gli immigrati dal volto triste, gli abitanti della City con il loro mondo perfetto.
Al ritorno a Brescia quelle immagini diventano un libro pubblicato a spese dello stesso autore in un migliaio di copie, «London by Gian Butturini», che va subito esaurito e che, con il passare degli anni, diventa un oggetto di culto con un prezzo ormai da collezionisti. 
Per il giovane artista, allora trentaquattrenne, è l’inizio di una brillante carriera nel mondo della fotografia. Un marcato interesse per le ingiustizie sociali e le lotte di liberazione caratterizzano da subito i suoi reportage in giro per il mondo, da Cuba al Cile, dall’Irlanda del Nord alla Germania dell’Est, dall’India al Marocco, dall’ex Jugoslavia all’Etiopia. 
Di servizio in servizio, fino alla registrazione del film «Il mondo degli ultimi» nel 1980, Gian Butturini si mostra sempre «brechtianamente seduto dalla parte del torto».
Denuncia disuguaglianze, disagi e povertà, dolori e umiliazioni, guidato dalla convinzione che le immagini abbiano una forza intrinseca capace di abbattere muri, censure e conformismi. Il suo obiettivo si trasforma, dunque, costantemente in uno strumento di impegno civile per raccontare la nostra storia, dalla strage di Bologna alla caduta del muro di Berlino, dalla Rivoluzione dei Garofani in Portogallo al teatro di strada in Romagna con Julian Beck, dalla Cuba di Fidel Castro al Cile di Salvador Allende e, poi, di Augusto Pinochet. L’artista- scrive Gigliola Foschi – diventa così «uno dei grandi protagonisti italiani della fotografia ‘contro’: contro le ingiustizie, contro le diseguaglianze sociali, contro il razzismo, contro le guerre, contro le morti bianche sul lavoro, contro i manicomi a fianco di Franco Basaglia, contro l’occupazione delle terre del popolo Saharawi». 
È difficile pensare, con una storia del genere alle spalle, che qualcuno abbia potuto accusare Gian Butturini di razzismo. Eppure è successo e tutto è accaduto per colpa del primo, e fortunato, reportage, quello su Londra, ripubblicato nel 2017 dalla casa editrice Damiani di Bologna a seguito della richiesta di Martin Parr, celebre fotografo britannico, già presidente di Magnum Photos.
A scatenare il casus belli è stato l’accostamento di due fotografie: da una parte l’immagine di una donna di colore che vende i biglietti della metropolitana, dall’altra quella di un gorilla in gabbia «che -per usare le parole dello stesso autore- riceve con dignità imperiale sul muso aggrottato le facezie e le scorze lanciategli dai suoi nipoti in cravatta».
C’è chi in quelle due immagini accostate vede lo stereotipo infamante donna nera = scimmia. È la studentessa britannica Mercedes Baptiste Halliday, una ragazza di colore di vent’anni iscritta al corso di antropologia all’University College di Londra, che ha ricevuto in dono il libro di Gian Butturini dal padre.
In tempi di cancel culture, la protesta della ragazza sui social viene cavalcata dai media inglesi e travolge il potente (e quindi invidiato) Martin Parr, reo -a loro dire- di aver riscoperto il libro, di averlo fatto ripubblicare considerandolo un «gioiello trascurato» e anche di averlo inserito -unico testo italiano- nella mostra «Strange and Familiar – Britain as reveleaded by international photographers», allestita nel 2016 al Barbican di Londra e nel 2017 alla Manchester Art Gallery.
Accusato di «analfabetismo visivo», il fotografo britannico si dimette dal ruolo di direttore artistico del Bristol Photo Festival e, contemporaneamente, chiede il ritiro di «London» dal mercato editoriale, scusandosi pubblicamente per non aver colto il messaggio razzista presente nelle due immagini.
Nella stagione incendiaria del movimento attivista Black Lives Matter, anche Damiani editore fa un passo indietro e decide di sospendere la pubblicazione del volume; mentre le copie già stampate rischiano il macero.
Basterebbe leggere le parole di Gian Butturini a corredo di quella immagine per spegnere la polemica: «ho fotografato una donna nera, chiusa in una gabbia trasparente; vendeva biglietti per la metropolitana: una prigioniera indifferente, un'isola immobile, fuori dal tempo nel mezzo delle onde dell'umanità che le scorreva accanto e si mescolava e si separava attorno alla sua prigione di ghiaccio e solitudine».
Non c’è alcun razzismo nei confronti di quella donna, umile e umiliata, incapace di ribellarsi alle ingiustizie. Ma Gian Butturini è un fotografo poco conosciuto nel Regno Unito, per di più deceduto (e quindi nell’impossibilità di ribattere) e senza istituzioni forti alle spalle. È un uomo sacrificabile. Ma gli eredi, i figli Tiziano e Marta, non ci stanno e lanciano la campagna «Save the book», sostenuta e appoggiata da alcune tra le più importanti figure della fotografia in Italia, come Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin e Francesco Cito
Il libro sottratto al rogo mediatico viene rimesso in vendita e può essere ordinato inviando una e-mail ad archiviogianbutturini@gmail.com a fronte di una sottoscrizione di quaranta euro (oltre alle spese di spedizione) che serviranno per promuovere le attività dell'associazione. Ma non è tutto. Trenta immagini del reportage londinese, unite a una decina di fumetti degli anni Settanta con interventi spiazzanti in stile situazionista, diventano una mostra, per la curatela di Gigliola Foschi, visibile dal 10 dicembre al 31 gennaio in uno slide-showonline, attivo 24 ore su 24, sul sito www.gianbutturini.com. Pandemia permettendo (se la Lombardia dovesse realmente passare in zona arancione le gallerie d'arte potranno rimanere aperte), l'esposizione sarà visitabile, negli stessi giorni, anche in presenza allo Spazio d’arte Scoglio di Quarto a Milano (la rassegna sarà aperta tutti i giorni, dalle ore 17 alle ore 19, a ingresso gratuito, con obbligo di prenotazione inviando una mail a info@galleriascogliodiquarto.com oppure un sms al 348.5630381).
Venerdì 18 dicembre, alle ore 18.30, si terrà, inoltre, un incontro on-line, promosso dalla Casa della Cultura, con interventi di Tiziano Butturini, Gigliola Foschi, Ferdinando Scianna, Alberto Prina, direttore del Festival di Fotografia etica di Lodi, e Stefania Ragusa, giornalista della rivista «Africa» e docente presso l'Università di Pavia.
Inizia così «una battaglia -dichiarano gli organizzatori- per ristabilire la verità contro una controversia grottesca e surreale, nonché per ribadire con forza che il libro va visto e letto come una preziosa testimonianza artistica, politicamente impegnata e volutamente provocatoria». Il libro va salvato dal macero perché la narrazione di «London» non è razzista. È empatica e solidale. Si muove nel solco della critica sociale portata avanti negli anni Settanta, quelli della pubblicazione originaria del volume, dalla controcultura e dalla Beat Generation. Ed è in linea con l’impegno di uomo che ha sempre «usato la macchina fotografica come un grido di speranza contro le ingiustizie», per raccontare l’altro con occhio attento e cuore aperto.

Informazioni utili

mercoledì 25 novembre 2020

Arezzo ritrova il polittico «Madonna con Bambino, Santi, Annunciazione e Assunzione» di Pietro Lorenzetti

Era il 17 aprile 1320 quando il vescovo Guido Tarlati, uno dei maggiori rappresentanti del ghibellinismo in Toscana, commissionava a Pietro Lorenzetti un polittico per l’altare maggiore della Pieve di Arezzo. All’interno del contratto era indicato il compenso per il lavoro, fissato in 160 lire pisane pari a 54 fiorini d’oro, ed erano contenute prescrizioni che riguardavano il numero delle figure da rappresentare e la loro distribuzione nello spazio, l’obbligo di usare oro di ottima qualità, «da cento fogli a fiorino», e l’esigenza che la tavola fosse dipinta con «bellissime figure», dai colori pregiati.
Con questo accordo scritto, il pittore si impegnava, inoltre, a lavorare senza interruzioni e senza assumere altre committenze fino ad aver raggiunto «la perfezione» dell’opera.
Quattro anni dopo, nel 1324, Pietro Lorenzetti terminava la sua impresa pittorica raggiungendo l’eccellenza richiesta tanto da meritarsi le parole elogiative di Giorgio Vasari, che ebbe a descrivere l’elegante tempera su tavola a fondo d’oro «con molte figure piccole […] tutte veramente belle e condotte con buonissima maniera».
Nasceva, dunque, a seguito di un contratto scritto, uno tra i testi più illuminanti dell’epoca per la relazione opera-artista-committente, un quadro simbolico per la pittura del Trecento toscano e italiano, oggi presente in tutti i manuali di storia dell’arte: la «Madonna con Bambino, Santi, Annunciazione e Assunzione».
Questa tavola è stata oggetto negli ultimi sei anni di un lungo e complesso lavoro di restauro, a cura di Paola Baldetti, Marzia Benini e Isabella Droandi dello studio Ricerca.
Il progetto di pulitura, consolidamento e messa in sicurezza che ha restituito all’ammirazione del pubblico, allo studio degli storici e alla devozione dei fedeli il capolavoro medioevale si è avvalso del sostegno dell’associazione Art Angels Arezzo Onlus e di altri sponsor privati, tra cui la Fondazione Cassa di risparmio di Firenze, le aziende aretine Power One Italy spa, Chimet spa, Tca spa e Centro chirurgico toscano, nonché l’ente no profit Friends of Florence, presieduto da Simonetta Brandolini d'Adda, che si è occupato di raccogliere donazioni negli Stati Uniti.
Ad oggi restano ancora da finanziare lavori per un totale di 77.980 euro. Si tratta di interventi che si sono resi indispensabili per la corretta ricollocazione dell’opera sull’altare maggiore della Pieve di Santa Maria ad Arezzo, come la disinfestazione del coro ligneo retrostante della tribuna, a cura di Marco Santi, la realizzazione di una nuova illuminazione, firmata da «I Guzzini» di Firenze, e la costruzione di un nuovo supporto di sostegno in acciaio, che ha visto al lavoro la Metalmeccanica di Valerio e Mauro Vedovini.
In questi giorni di pandemia, la ricerca di contributi si è spostata sul Web, sulla piattaforma GoFundMe, al link https://www.gofundme.com/f/progetto-restauro-lorenzetti.
Nel frattempo, agli inizi di novembre, l’opera di Pietro Lorenzetti è tornata a casa, nel luogo per il quale era stata concepita e realizzata, ovvero la Pieve di Santa Maria ad Arezzo.
Il polittico, stando a quanto racconta il contratto di commissione, doveva essere lungo 6 braccia (cm 58,36 braccio aretino = m. 3,50) e alto in media altrettante 6 braccia, ma è giunto a noi in dimensioni ridotte a causa di amputazioni subite lungo i lati delle pale, ma soprattutto a livello della carpenteria dove è stato privato delle colonnine e dei pinnacoli che dividevano i vari scomparti e della predella descritta da Giorgio Vasari.  C’è il sospetto che a smontare la struttura sia stato lo stesso storiografo e artista toscano, autore nel 1560 di importanti lavori di trasformazione della pieve aretina, tra i quali la migrazione della pala del Lorenzetti verso un altare minore, quello di San Cristoforo.
Il polittico raffigura, nello specifico, la Madonna col Bambino tra i santi Donato (il patrono di Arezzo), Giovanni Evangelista, Giovanni Battista e Matteo. Nel secondo registro, di dimensioni inferiori, sono rappresentate quattro coppie di santi a mezzo busto: Giovanni e Paolo, Vincenzo e Luca, Jacopo Maggiore e Jacopo Intercisus, Marcellino e Agostino.  Al di sopra della Vergine è raffigurata l’Annunciazione e nel pinnacolo terminale l’Assunzione.  Nelle cuspidi si trovano, invece, le figure di santa Reparata, santa Caterina, Madonna Assunta, sant’Orsola (o Cristina?) e sant’Agata. 
Il lavoro, di grande complessità, si considera maturo nel percorso artistico di Pietro Lorenzetti e nel suo rapporto con la lezione giottesca, che l'artista senese aveva appreso nei suoi giorni ad Assisi per la realizzazione del ciclo della «Passione di Cristo» nella Basilica inferiore.
Felicia Rotundo, già funzionario storico dell’arte della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Siena, Grosseto e Arezzo, elogia la tela e la sua «grande complessità strutturale e iconografica, di intensa ed inusitata valenza spirituale, che mostra soluzioni figurative aggiornate esemplificate nel colloquio intimo e muto tra Madre e Figlio, nella forza evocativa del volto di San Donato, nella raffinata ricchezza delle vesti, e pure nell’inserimento inusuale della scena dell’Annunciazione che costituì il modello per analoghe rappresentazioni nella produzione artistica locale».
Un altro dato importante da sottolineare è la presenza della firma dell’artista, che compare al centro della lunga iscrizione che corre in basso, sotto l’immagine della Madonna con il Bambino: «Petrus Laurentii Hanc Pinxit Dextra Senesis». Un’altra firma, quasi illeggibile per le piccole dimensioni, appare, poi, sulla spada della Santa Reparata: «Petrus Me Fecit».
Il polittico è stato fatto oggetto di vari interventi di restauro nel corso dei secoli. Uno dei primi di cui abbiamo notizia risale alla fine dell’Ottocento quando, durante i lavori che interessarono la Pieve, l'opera fu portata al riparo in Municipio per essere, poi, ricollocata nella sua sede tra il 1880 e il 1881. 
In questa occasione la tavola fu sottoposta a una drastica pulitura eseguita probabilmente con soda che causò gravi svelature, concentrate soprattutto nella parte alta ma diffuse anche in altre zone del dipinto, successivamente ricoperte sotto un denso vernicione. 
Nuovamente restaurato nel 1916, il polittico fu oggetto nel 1976 di un ulteriore intervento conservativo, resosi necessario a seguito del tentativo di appiccargli fuoco da parte di uno squilibrato. 
«Il danno subito, fortunatamente solo una bruciatura sul retro della tavola centrale con la Madonna e di quella laterale con il San Giovanni Evangelista, che aveva consumato lo spessore del legno fino all’imprimitura, -racconta ancora Felicia Rotundo - fu riparato con l’inserimento di tasselli di legno stagionato. Su altre zone del supporto, dove necessario, furono inseriti dei cunei e su tutta la struttura furono applicate nuove traverse di noce scorrevoli entro nottole. Sul fronte della tavola furono tolti gli elementi falsi aggiunti successivamente quali le colonnette che causavano una grave alterazione della struttura generale e degli spazi interni dell’Annunciazione. Per quanto riguarda la pittura furono rimossi solo in parte gli strati di vernici bituminose utilizzate per nascondere le profonde e gravi svelature causate dalle vecchie puliture con soda. Il colore si presentava svelato su tutte le parti ma in modo assai grave in corrispondenza delle mezze figure di santi negli ordini superiori e nella teste dei profeti nei tondi. I volti apparivano quasi completamente abrasi come pure quelli del Bambino e dei santi Donato e Matteo.
Questo restauro fu eseguito da Carlo Guido e consistette, quindi, nella pulitura e nella rimozione delle vecchie vernici, nella integrazione di piccole e minuscole mancanze di colore con rigatino ad acquerello e con velature nelle minori e nel ripristino della lunga iscrizione alla base del polittico». 
Quarant'anni dopo il polittico di Pietro Lorenzetti è stato fatto oggetto di un nuovo restauro, quello attuale. Dopo le opportune analisi, si è verificata la funzionalità del supporto, quindi è stata operata una pulitura della superficie pittorica che ha provveduto alla rimozione degli strati di restauro apposti nell’ultimo intervento (vernici e integrazione pittorica, alterate nel tempo). Questa operazione ha rivelato estesissime aree di pittura e di fondi oro in cui persistevano strati evidenti di sporco e di patinature antiche di difficile datazione. Si è, quindi, imposta una seconda fase di pulitura delicatissima, interamente condotta al microscopio, che ha permesso di recuperare i colori cangianti e le straordinarie decorazioni condotte a mano libera dal pittore, offrendo così un fondamentale contributo alla complessiva leggibilità del dipinto.
Gli studi fatti dalla Soprintendenza di Siena, Grosseto e Arezzo hanno portato a ipotizzare la ricostruzione, con disegno digitale, delle parti strutturali in legno della cornice monumentale, purtroppo perduta, che ne facevano una macchina autoportante di grande impatto visivo.
È stata, quindi, proposta una ipotetica ricostruzione, con disegno digitale, che consentisse di restituire spaziature e proporzioni corrette all’opera, facilitandone la lettura in rapporto soprattutto con l’interno monumentale della Pieve per la quale fu concepita.
La direzione dei lavori, la proprietà e l’équipe tecnica hanno convenuto di limitare tale ricostruzione al solo recupero della larghezza del polittico: sono stati pertanto inseriti listelli dorati che distanziano le varie parti dell’opera riconducendola (almeno in larghezza) alla misura originaria. 
Oggi il Polittico aretino di Pietro Lorenzetti torna, dunque, nella sua casa, mostrando agli amanti dell'arte il linguaggio unico di Pietro Lorenzetti, quella sua attenzione alla qualità materica e agli effetti ottici, che guarda all'eleganza di Duccio da Boninsegna e alla salda spazialità di Giotto

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