Al ritorno a Brescia quelle immagini diventano un libro pubblicato a spese dello stesso autore in un migliaio di copie, «London by Gian Butturini», che va subito esaurito e che, con il passare degli anni, diventa un oggetto di culto con un prezzo ormai da collezionisti.
Per il giovane artista, allora trentaquattrenne, è l’inizio di una brillante carriera nel mondo della fotografia. Un marcato interesse per le ingiustizie sociali e le lotte di liberazione caratterizzano da subito i suoi reportage in giro per il mondo, da Cuba al Cile, dall’Irlanda del Nord alla Germania dell’Est, dall’India al Marocco, dall’ex Jugoslavia all’Etiopia.
Di servizio in servizio, fino alla registrazione del film «Il mondo degli ultimi» nel 1980, Gian Butturini si mostra sempre «brechtianamente seduto dalla parte del torto». Denuncia disuguaglianze, disagi e povertà, dolori e umiliazioni, guidato dalla convinzione che le immagini abbiano una forza intrinseca capace di abbattere muri, censure e conformismi. Il suo obiettivo si trasforma, dunque, costantemente in uno strumento di impegno civile per raccontare la nostra storia, dalla strage di Bologna alla caduta del muro di Berlino, dalla Rivoluzione dei Garofani in Portogallo al teatro di strada in Romagna con Julian Beck, dalla Cuba di Fidel Castro al Cile di Salvador Allende e, poi, di Augusto Pinochet. L’artista- scrive Gigliola Foschi – diventa così «uno dei grandi protagonisti italiani della fotografia ‘contro’: contro le ingiustizie, contro le diseguaglianze sociali, contro il razzismo, contro le guerre, contro le morti bianche sul lavoro, contro i manicomi a fianco di Franco Basaglia, contro l’occupazione delle terre del popolo Saharawi».
È difficile pensare, con una storia del genere alle spalle, che qualcuno abbia potuto accusare Gian Butturini di razzismo. Eppure è successo e tutto è accaduto per colpa del primo, e fortunato, reportage, quello su Londra, ripubblicato nel 2017 dalla casa editrice Damiani di Bologna a seguito della richiesta di Martin Parr, celebre fotografo britannico, già presidente di Magnum Photos.
A scatenare il casus belli è stato l’accostamento di due fotografie: da una parte l’immagine di una donna di colore che vende i biglietti della metropolitana, dall’altra quella di un gorilla in gabbia «che -per usare le parole dello stesso autore- riceve con dignità imperiale sul muso aggrottato le facezie e le scorze lanciategli dai suoi nipoti in cravatta».
C’è chi in quelle due immagini accostate vede lo stereotipo infamante donna nera = scimmia. È la studentessa britannica Mercedes Baptiste Halliday, una ragazza di colore di vent’anni iscritta al corso di antropologia all’University College di Londra, che ha ricevuto in dono il libro di Gian Butturini dal padre.
In tempi di cancel culture, la protesta della ragazza sui social viene cavalcata dai media inglesi e travolge il potente (e quindi invidiato) Martin Parr, reo -a loro dire- di aver riscoperto il libro, di averlo fatto ripubblicare considerandolo un «gioiello trascurato» e anche di averlo inserito -unico testo italiano- nella mostra «Strange and Familiar – Britain as reveleaded by international photographers», allestita nel 2016 al Barbican di Londra e nel 2017 alla Manchester Art Gallery.
Accusato di «analfabetismo visivo», il fotografo britannico si dimette dal ruolo di direttore artistico del Bristol Photo Festival e, contemporaneamente, chiede il ritiro di «London» dal mercato editoriale, scusandosi pubblicamente per non aver colto il messaggio razzista presente nelle due immagini.
Nella stagione incendiaria del movimento attivista Black Lives Matter, anche Damiani editore fa un passo indietro e decide di sospendere la pubblicazione del volume; mentre le copie già stampate rischiano il macero.
Basterebbe leggere le parole di Gian Butturini a corredo di quella immagine per spegnere la polemica: «ho fotografato una donna nera, chiusa in una gabbia trasparente; vendeva biglietti per la metropolitana: una prigioniera indifferente, un'isola immobile, fuori dal tempo nel mezzo delle onde dell'umanità che le scorreva accanto e si mescolava e si separava attorno alla sua prigione di ghiaccio e solitudine». Non c’è alcun razzismo nei confronti di quella donna, umile e umiliata, incapace di ribellarsi alle ingiustizie. Ma Gian Butturini è un fotografo poco conosciuto nel Regno Unito, per di più deceduto (e quindi nell’impossibilità di ribattere) e senza istituzioni forti alle spalle. È un uomo sacrificabile. Ma gli eredi, i figli Tiziano e Marta, non ci stanno e lanciano la campagna «Save the book», sostenuta e appoggiata da alcune tra le più importanti figure della fotografia in Italia, come Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin e Francesco Cito.
È difficile pensare, con una storia del genere alle spalle, che qualcuno abbia potuto accusare Gian Butturini di razzismo. Eppure è successo e tutto è accaduto per colpa del primo, e fortunato, reportage, quello su Londra, ripubblicato nel 2017 dalla casa editrice Damiani di Bologna a seguito della richiesta di Martin Parr, celebre fotografo britannico, già presidente di Magnum Photos.
A scatenare il casus belli è stato l’accostamento di due fotografie: da una parte l’immagine di una donna di colore che vende i biglietti della metropolitana, dall’altra quella di un gorilla in gabbia «che -per usare le parole dello stesso autore- riceve con dignità imperiale sul muso aggrottato le facezie e le scorze lanciategli dai suoi nipoti in cravatta».
C’è chi in quelle due immagini accostate vede lo stereotipo infamante donna nera = scimmia. È la studentessa britannica Mercedes Baptiste Halliday, una ragazza di colore di vent’anni iscritta al corso di antropologia all’University College di Londra, che ha ricevuto in dono il libro di Gian Butturini dal padre.
In tempi di cancel culture, la protesta della ragazza sui social viene cavalcata dai media inglesi e travolge il potente (e quindi invidiato) Martin Parr, reo -a loro dire- di aver riscoperto il libro, di averlo fatto ripubblicare considerandolo un «gioiello trascurato» e anche di averlo inserito -unico testo italiano- nella mostra «Strange and Familiar – Britain as reveleaded by international photographers», allestita nel 2016 al Barbican di Londra e nel 2017 alla Manchester Art Gallery.
Accusato di «analfabetismo visivo», il fotografo britannico si dimette dal ruolo di direttore artistico del Bristol Photo Festival e, contemporaneamente, chiede il ritiro di «London» dal mercato editoriale, scusandosi pubblicamente per non aver colto il messaggio razzista presente nelle due immagini.
Nella stagione incendiaria del movimento attivista Black Lives Matter, anche Damiani editore fa un passo indietro e decide di sospendere la pubblicazione del volume; mentre le copie già stampate rischiano il macero.
Basterebbe leggere le parole di Gian Butturini a corredo di quella immagine per spegnere la polemica: «ho fotografato una donna nera, chiusa in una gabbia trasparente; vendeva biglietti per la metropolitana: una prigioniera indifferente, un'isola immobile, fuori dal tempo nel mezzo delle onde dell'umanità che le scorreva accanto e si mescolava e si separava attorno alla sua prigione di ghiaccio e solitudine». Non c’è alcun razzismo nei confronti di quella donna, umile e umiliata, incapace di ribellarsi alle ingiustizie. Ma Gian Butturini è un fotografo poco conosciuto nel Regno Unito, per di più deceduto (e quindi nell’impossibilità di ribattere) e senza istituzioni forti alle spalle. È un uomo sacrificabile. Ma gli eredi, i figli Tiziano e Marta, non ci stanno e lanciano la campagna «Save the book», sostenuta e appoggiata da alcune tra le più importanti figure della fotografia in Italia, come Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin e Francesco Cito.
Il libro sottratto al rogo mediatico viene rimesso in vendita e può essere ordinato inviando una e-mail ad archiviogianbutturini@gmail.com a fronte di una sottoscrizione di quaranta euro (oltre alle spese di spedizione) che serviranno per promuovere le attività dell'associazione. Ma non è tutto. Trenta immagini del reportage londinese, unite a una decina di fumetti degli anni Settanta con interventi spiazzanti in stile situazionista, diventano una mostra, per la curatela di Gigliola Foschi, visibile dal 10 dicembre al 31 gennaio in uno slide-showonline, attivo 24 ore su 24, sul sito www.gianbutturini.com. Pandemia permettendo (se la Lombardia dovesse realmente passare in zona arancione le gallerie d'arte potranno rimanere aperte), l'esposizione sarà visitabile, negli stessi giorni, anche in presenza allo Spazio d’arte Scoglio di Quarto a Milano (la rassegna sarà aperta tutti i giorni, dalle ore 17 alle ore 19, a ingresso gratuito, con obbligo di prenotazione inviando una mail a info@galleriascogliodiquarto.com oppure un sms al 348.5630381).
Venerdì 18 dicembre, alle ore 18.30, si terrà, inoltre, un incontro on-line, promosso dalla Casa della Cultura, con interventi di Tiziano Butturini, Gigliola Foschi, Ferdinando Scianna, Alberto Prina, direttore del Festival di Fotografia etica di Lodi, e Stefania Ragusa, giornalista della rivista «Africa» e docente presso l'Università di Pavia.
Inizia così «una battaglia -dichiarano gli organizzatori- per ristabilire la verità contro una controversia grottesca e surreale, nonché per ribadire con forza che il libro va visto e letto come una preziosa testimonianza artistica, politicamente impegnata e volutamente provocatoria». Il libro va salvato dal macero perché la narrazione di «London» non è razzista. È empatica e solidale. Si muove nel solco della critica sociale portata avanti negli anni Settanta, quelli della pubblicazione originaria del volume, dalla controcultura e dalla Beat Generation. Ed è in linea con l’impegno di uomo che ha sempre «usato la macchina fotografica come un grido di speranza contro le ingiustizie», per raccontare l’altro con occhio attento e cuore aperto.
Venerdì 18 dicembre, alle ore 18.30, si terrà, inoltre, un incontro on-line, promosso dalla Casa della Cultura, con interventi di Tiziano Butturini, Gigliola Foschi, Ferdinando Scianna, Alberto Prina, direttore del Festival di Fotografia etica di Lodi, e Stefania Ragusa, giornalista della rivista «Africa» e docente presso l'Università di Pavia.
Inizia così «una battaglia -dichiarano gli organizzatori- per ristabilire la verità contro una controversia grottesca e surreale, nonché per ribadire con forza che il libro va visto e letto come una preziosa testimonianza artistica, politicamente impegnata e volutamente provocatoria». Il libro va salvato dal macero perché la narrazione di «London» non è razzista. È empatica e solidale. Si muove nel solco della critica sociale portata avanti negli anni Settanta, quelli della pubblicazione originaria del volume, dalla controcultura e dalla Beat Generation. Ed è in linea con l’impegno di uomo che ha sempre «usato la macchina fotografica come un grido di speranza contro le ingiustizie», per raccontare l’altro con occhio attento e cuore aperto.
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