ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 19 novembre 2024

Al Palazzo ducale di Sassuolo Gianni Berengo Gardin e le «linee veloci» della Marazzi

È il 1977 quando Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 10 ottobre 1930) varca le soglie dell’azienda Marazzi, fondata a Sassuolo nel 1935 e diventata in breve tempo leader nel settore della ceramica, nonché simbolo del miglior made in Italy nel campo dell’arredamento e del design. Tre anni prima, nel 1974, la ditta emiliana, che oggi è presente in più di centoquaranta Paesi e allora aveva filiali in Francia e Spagna, aveva fatto un’invenzione destinata a modificare per sempre il processo di produzione delle piastrelle: la monocottura rapida.

Da sempre attenta non solo alle infinite possibilità della materia, ma anche al dialogo con gli artisti, la Marazzi aveva deciso di dedicare a quel rivoluzionario brevetto tecnologico un portfolio e la scelta era caduta sul fotografo ligure di nascita e veneziano di formazione, indiscusso maestro del bianco e nero, che ha raccontato l’evoluzione del paesaggio e della società italiana dal Dopoguerra ai giorni nostri, con una particolare attenzione alle tematiche del sociale (con le serie «Morire di classe» del 1968, sugli ospedali psichiatrici, e «Disperata allegria» del 1994, sulla vita delle comunità Rom), ma anche del lavoro (con i reportage per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e Olivetti), senza dimenticare il più recente progetto «Grandi navi a Venezia» (2012-2014), sulla dannosità degli «inchini» della imbarcazioni da crociera di fronte alla Serenissima.

Entrando nella fabbrica emiliana, che oggi fa parte di Mohawk Industries, Inc., il più grande produttore mondiale nel settore del flooring, quotato alla Borsa di New York, Gianni Berengo Gardin - raccontano dall’Ufficio comunicazione della Marazzi - «si trova immerso in un ambiente pulito, efficiente, dal sapore internazionale, di cui lo affascina soprattutto la velocità produttiva e quel nastro trasportatore dove colori, forme, disegni sembrano mescolarsi in un vortice: il soggetto del progetto diventa, dunque, quasi subito per lui il ritmo colorato della produzione, molto diverso da altri contesti industriali in cui aveva operato».

Il fotografo sceglie, per una volta, di abbandonare il rigore del bianco e nero soggiogato da quel turbine futurista, dove i decori e le cromie della monocottura rapida si rincorrono nella velocità della loro realizzazione.
«Mi fu chiaro subito – racconta a tal proposito Gianni Berengo Gardin - come la sfida professionale fosse quella di riuscire a cogliere il flusso veloce dei colori, la scia dinamica delle forme. Il colore, che ho usato sempre poco, si imponeva, quindi, come scelta. Provai, inoltre, a lavorare in modo diverso da quel che normalmente facevo. Qui cambiavo spesso la distanza, avvicinandomi molto ai soggetti, per riuscire a cogliere i dettagli, i frammenti di quel che vedevo e realizzare così foto diverse dalle altre: sognanti, colorate, quasi astratte. Sono grato alla Marazzi per avermi lasciato libero di realizzare delle fotografie come queste, astratte, che anticipano in qualche modo un approccio concettuale inusuale a quell’epoca nella foto industriale in cui, in genere, veniva richiesto una documentazione più oggettiva, documentaria, del prodotto. Una festa per gli occhi e, per me, un lavoro molto originale».

Cinquant’anni dopo l’ideazione del brevetto della monocottura rapida, la Marazzi svela una selezione di quarantadue scatti inediti realizzati da Gianni Berengo Gardin per le «linee veloci» della Marazzi con una mostra, curata da Alessandra Mauro, che ha trovato la sua cornice ideale nelle prestigiose Sale della musica, degli incanti e dei sogni del Palazzo ducale di Sassuolo, parte del patrimonio delle Gallerie estensi.

In queste immagini, visibili fino al 31 dicembre e raccolte in un volume edito da Contrasto, non spicca solo l’uso del colore, ma anche la differenza rispetto alla tradizionale fotografia di documentazione: quel «carosello incalzante» della produzione ceramica della Marazzi dà vita, come ha spiegato anche il suo autore, a una visione quasi astratta del lavoro, «fatto – racconta la curatrice - di elementi isolati, di forme dinamiche, di strisce di colore che girano e si perdono, di mani sapienti che si muovono sui nastri». L’immagine commerciale diventa così arte e svela la bellezza nascosta anche nel più tecnico degli ingranaggi produttivi, trasformando il lavoro in fabbrica in poesia.
 
C’è in questa serie, raccolta in mostra con il titolo «Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci», non solo la fabbrica degli anni Settanta, ma anche il racconto di un modo di lavorare della Marazzi, che ha continuato a coltivare nel tempo attitudine alla sperimentazione, affiancando alla ricerca di nuovi prodotti e processi, la promozione di letture differenti, personali, d’autore, della ceramica e del lavoro. La sua storia si è così intrecciata con quella di grandi maestri dell’obiettivo come Luigi Ghirri, Charles Traub o Cuchi White e di designer quali Gio Ponti, Nino Caruso o Paco Rabanne. Tutti sono stati liberi di esprimersi con il loro inconfondibile stile. E oggi l’azienda emiliana vanta un archivio che è un patrimonio inestimabile, accumulato in ormai novant’anni anni di storia, fonte inesauribile di ispirazione per chi si occupa di design e di comunicazione aziendale e prezioso oggetto di ricerca per chi studia arte e fotografia.

Didascalie delle immagini
Gianni Berengo Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci © Gianni Berengo Gardin e Marazzi Group

Informazioni utili
Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci. Palazzo ducale di Sassuolo – Gallerie estensi, piazzale della Rosa 10 – Sassuolo, Modena. Orari: dal martedì alla domenica, ore 10.00 – 18.00; ultimo ingresso ore 17.00; lunedì chiuso. Sito web: www.gallerie-estensi.beniculturali.it | www.marazzi.it. Fino al 31 dicembre 2024

lunedì 18 novembre 2024

La storia del vetro di Murano alle Biennali di Venezia

È il 1930 quando la Fratelli Barovier di Murano porta alla XVII Biennale internazionale d’arte di Venezia una serie di vetri eseguiti in uno strano materiale lattiginoso, dalla trama simile al craquelé della ceramica, caratterizzato da una irripetibile superficie translucida ricoperta da una ragnatela di screpolature e linee. Tra di essi spicca una figura di piccione, curiosa nell’elegante postura e nelle dimensioni dei dettagli, con le zampe, gli occhi e il becco in pasta nera. Quella creazione, nata dalla fervida mente di Ercole Barovier (1889-1974), viene riprodotta sulle principali riviste d’arte e diventa così famosa al punto che il suo nome, «Primavera», finisce per diventare anche quello della strana qualità di vetro con cui era stata realizzata l’intera serie portata alla Biennale d’arte di Venezia, per essere esposta nella Galleria del bianco e nero e nella sala delle Arti decorative.

Riprodotta in pochissimi esemplari e quindi ancora più iconica, quella collezione composta da vasi, coppe, candelieri e animali, vezzosamente decorati da finiture d’ispirazione Déco, era frutto di un «errore» di laboratorio, che non si riuscì più a replicare, come spesso avviene quando si ha a che fare con un procedimento dal sapore alchemico come quello che si vive all’interno di una fornace muranese, dove, nel passaggio di dissoluzione e ricomposizione di un pugno di sabbia e silicio, arso dal fuoco e «coreografato» dal soffio e dalla sapienza manuale dell’uomo, si generano forme trasparenti e opache, fragili e resistenti, colorate o bianche.

Quell’uccello immaginario, dalla grazia impettita e dall’eleganza senza tempo, che fu esposto anche alla IV Triennale di Monza, sempre nel 1930, era, dunque, la perfetta metafora della bellezza fragile e imprevista di un materiale straordinario, che trasforma la sapienza dell’artigianato in arte con la a maiuscola. E, giustamente, è stato scelto come immagine guida della mostra «1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia», curata da Marino Barovier, per «Le stanze del vetro», spazio espositivo nato dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung, nello scenografico contesto dell’Isola di San Giorgio Maggiore, un’oasi di mare, natura e silenzio che si affaccia sul bacino di San Marco.

Centotrentacinque opere
provenienti da importanti istituzioni museali e da collezioni private, molte delle quali di grande rarità, ripercorrono una storia che porta i visitatori agli inizi del Novecento, in quella temperie culturale caratterizzata dall’incredibile fede nel progresso e dall’angoscia per un mondo sempre più violento, che vede l’affermarsi del Futurismo, lo scoppio della Grande Guerra, la dittatura fascista e il brusco progetto di modernizzazione del Paese, caratterizzato fin da subito da evidenti squilibri tra il nord e il sud, tra la città e la campagna.

In quel periodo il vetro muranese trova progressivamente spazio all’interno della Biennale d'arte di Venezia, prima attraverso gli artisti che hanno scelto di impiegare questo materiale per le proprie opere, poi grazie all’apertura di una sezione dedicata alle arti decorative, che fino al 1930 avrà sede all’interno del Palazzo dell’Esposizione accanto a pittura e scultura, per poi trovare, dal 1932 al 1972, la propria dimora esclusiva in uno specifico Padiglione ai Giardini.

Dopo un’introduzione storica, frutto di un’accurata ricerca bibliografica e di una approfondita indagine documentaria nell’Archivio storico delle arti contemporanee della Biennale, con sei schermi a creare la Galleria della memoria, uno spazio buio illuminato da immagini del tempo, dove il charleston delle scatenate serate mondane di inizio secolo dialoga con una moda femminile sontuosa e civettuola che sembra uscita da un quadro di Giovanni Boldini, ma non solo, si entra nel vivo del percorso espositivo con le creazioni degli anni Dieci.

Si inizia con i vetri di Hans Stoltenberg Lerche, scultore e ceramista tedesco di origini norvegesi, tra gli esponenti dell’Art Nouveau, protagonista di tre Biennali veneziane, che, tra il 1911 e il 1920, disegna alcuni pezzi innovativi per la Fratelli Toso, nei quali ricorre ripetutamente all’applicazione a caldo di filamenti vitrei o di graniglie policrome, oltre che all’inclusione di macchie o fasce di colore, per ottenere manufatti di grande plasticità e dalle cromie inedite, alcuni dei quali attingono i propri motivi decorativi dal mondo marino, mentre altri si ispirano all’arte orientale.

Alla Biennali d’arte del 1912 e del 1914 prende parte anche il decoratore muranese Vittorio Toso Borella, figlio del celebre Francesco, conosciuto per il suo «Calice del campanile», manufatto eseguito per commemorare la ricostruzione del campanile di San Marco, inaugurato il 25 aprile 1912, i cui elementi decorativi si ispirano al vasto repertorio figurativo tardogotico e rinascimentale. Del maestro muranese vengono presentati in mostra anche i suoi eleganti smalti policromi, alcuni dei quali di chiara impronta secessionista, impreziositi dall’inserimento dell’oro.

È, poi, la volta dei pittori Vittorio Zecchin e Teodoro Wolf Ferrari che, nel 1914, espongono alla Biennale di Venezia i loro lavori a murrine policrome, realizzate nella vetreria «Artisti Barovier», tra cui «Fiori» e «Baute». Nell’allestimento una delle lastrine, quella denominata «del Barbaro», giocata su un elegante contrasto tra blu e gialli brillanti, è messa in dialogo, per marcare la continuità stilistica, con una tela del famoso ciclo «Le mille e una notte» per l’hotel Terminus di Venezia, appartenente alla collezione della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro, nel quale Vittorio Zecchin lega suggestioni persiane a influenze klimtiane, come dimostra la figura maschile, al centro del dipinto, contraddistinta da un copricapo rosso, un mantello blu a elementi circolari, barba e capelli lunghi.

Passando per le creazioni in stile Liberty di Umberto Bellotto, con i suoi interessanti connubi tra ferro e vetro, spesso arricchiti da inserti a murrine, si arriva agli anni Venti. Dopo la pausa imposta dalla Grande Guerra, alla Biennale d’arte di Venezia iniziano a figurare anche vetrerie con la loro produzione, realizzata autonomamente o con la collaborazione di progettisti esterni.

Tra queste si distingue la fornace di Giacomo Cappellin e Paolo Venini, la V.S.M. Cappellin Venini e C, che, nel 1922, realizza soffiati monocromi di elegante modernità ispirati a modelli rinascimentali, tra cui si segnalano i vasi «Veronese» e «Libellula». Questi manufatti sono frutto della collaborazione con quello che Francesco Sapori definisce, sulle pagine di «Emporium» del giugno 1922, l’«apostolo del vetro», un artista già incontrato lungo il percorso espositivo, ovvero il pittore Vittorio Zecchin, che alla Biennale del 1922 presenta, nella sua stanza personale, anche dei manufatti vitrei decorati con smalti e oro; mentre nel 1924 mette in mostra una selezione di piatti.

Il vetro soffiato monocromo caratterizza anche la produzione di ispirazione classicheggiante dell'incisore Guido Balsamo Stella, che partecipa alla manifestazione veneziana dal 1924 al 1930 con i suoi vasi incisi con scene mitologiche o episodi tratti dalla quotidianità.

Si arriva così alla produzione della V.S.M. Venini e C. su disegno dello scultore Napoleone Martinuzzi, al quale si deve, tra l’altro, l’ideazione del vetro «pulegoso», presentato alla Biennale del 1928 e riproposto due anni dopo: una originale materia semi-opaca dall’aspetto spugnoso, caratterizzata dall’inclusione di innumerevoli bollicine («puleghe») che si formano in seguito all’aggiunta di bicarbonato di sodio o di petrolio nella massa vetrosa incandescente.

Prima di arrivare alla fine del percorso espositivo, di cui rimarrà documentazione in un prezioso catalogo pubblicato da Skira, ci sono i già citati «vetri primavera» di Ercole Barovier. Poi c’è un tripudio, gioioso e giocoso, di piante grasse e animaletti in vetro policromo o trasparente, soffiato o modellato a caldo, lucido od opaco, in cristallo o in filigrana. Un modo, questo, per raccontare non solo le Biennali del 1928 e del 1930, ma anche tutte le possibili declinazioni di un materiale che è riuscito a entrare nel pantheon delle grandi arti, affascinando molti autori del Novecento con la sua tradizione millenaria e con il suo processo creativo dal gusto magico, che fa proprio il motto alchemico «solve et coagula», «sciogli e condensa».

Didascalie delle immagini
1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia, installation view, ph. Enrico Fiorese

Informazioni utili 
1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia. Le stanze del vetro - Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Orari: 10-19, chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Catalogo: Skira. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Web: https://www.lestanzedelvetro.org, https://www.cini.it. Fino al 24 novembre 2024

venerdì 15 novembre 2024

«L’Affare Morandi», Vittoria Chierici racconta il modus operandi del pittore bolognese

Si definiva incline per «ragioni d’arte e temperamento alla solitudine» e in una condizione di confine autoimposto tra pigmenti, pennelli, libri e oggetti d’uso quotidiano usati come modelli, nel silenzio del suo rifugio-atelier bolognese di via Fondazza 36 o tra le colline del placido borgo di Grizzana, dove c’era la casa di famiglia, non si fece mai tentare dalle sirene del successo e della mondanità.
Riservato e di poche parole, Giorgio Morandi (1890-1964) cercò anche di non esporre alla Biennale. Nei primi anni del Secondo dopoguerra, implorò quasi il critico d’arte Cesare Brandi di evitargli l’impiccio: «A Venezia – scrisse in una lettera del 7 agosto 1947 - la prego vivamente di aiutarmi a non esporre. In questo momento sento vivo il bisogno di un poco di tranquillità per potere pensare alle cose mie. Di mostre di miei quadri in questi anni dopo la Liberazione ce ne sono state un poco ovunque. E io desidero solo un poco di raccoglimento indispensabile al mio lavoro ed ai miei nervi. Quindi sono deciso a non accettare nessuna offerta».

Le cose, come sappiamo, andarono diversamente: l’anno dopo, nel 1948, Giorgio Morandi espose alla Biennale di Venezia, accanto a Carlo Carrà e Giorgio De Chirico, e con le sue undici tele si portò a casa il primo Premio per la pittura e la notorietà anche a livello internazionale. Ma la sua vita non cambiò nemmeno in quell’occasione: l’artista emiliano continuò a recarsi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove insegnava Tecniche dell’incisione, e a dipingere, spostandosi da casa solo per rare trasferte a Firenze, Roma e Venezia.
«Si può viaggiare per il mondo e non vedere nulla. Per raggiungere la comprensione è necessario non vedere molte cose, ma guardare attentamente ciò che vedi», amava dire. E in queste parole è racchiuso il segreto della sua pittura. Per tutta la vita Giorgio Morandi indagò, infatti, con attenzione quasi maniacale il reale e proprio dalla visione minuziosa di ciò che lo circondava - la natura dell’Appennino bolognese, ma soprattutto vasi, brocche, bottiglie, fiori di seta o essiccati, scatole e qualche conchiglia – nacquero paesaggi e nature morte dal «tempo sospeso», per usare un’espressione presente nel titolo di una mostra attualmente in corso a New York, nell’Upper East Side di Manhattan, per iniziativa della Galleria Mattia De Luca, in occasione dei sessant’anni dalla morte dell’artista.

Le tele silenziose, poetiche e pacate di quello che viene spesso, un po’ sbrigativamente, soprannominato «il pittore delle bottiglie», da sempre presente in preziose collezioni pubbliche, ma anche private come quelle del pittore statunitense Robert Rauschenberg o del celebre regista Vittorio De Sica, hanno colpito l’immaginario creativo di molti autori, da Tacita Dean a Herbert List, da Ugo Mulas e Jean-Michel Folon, ma non solo.
Non è un caso che, periodicamente, i Musei civici di Bologna aprano le porte ad artisti che si sono voluti confrontare con il linguaggio morandiano. L’ultima, in ordine di tempo, è Vittoria Chierici, classe 1955, che si è già accostata all’arte di grandi maestri del passato (da Leonardo da Vinci a Raffaello Sanzio, da Paolo Uccello a Umberto Boccioni, da Pablo Picasso a Andy Warhol) e che, in questi giorni, espone a Casa Morandi diciannove opere di piccolo formato ad acrilico, olio e gessetti su tavola realizzate nel suo studio a Eastport, nel Maine, e a New York.

Questi lavori, riuniti sotto il titolo «L’Affare Morandi», sono nati nell’ambito di un percorso alla scoperta del metodo di lavoro adoperato dal pittore bolognese, che si è articolato in una visita ai suoi due nidi creativi, l’atelier di via Fondazza e la residenza estiva di Grizzana, e in un laboratorio con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, che si è tenuto lo scorso giugno al Dipartimento educativo del Mambo, sotto la curatela della professoressa di Storia e metodologia della critica d’arte Maura Pozzati.

Vittoria Chierici non ha proposto ai giovani una riflessione sulle nature morte di Giorgio Morandi dal punto di vista formale, ma ha provato a raccontare loro la maniera di dipingere del pittore, compito non facile, e anche pieno di insidie, visto che lo stesso autore emiliano diceva: «non si conosce la strada per arrivare alla poesia. Si cammina senza sapere dove si va».

Per seguire questo approccio tecnico e concettuale, e raccontare così «l’officina del pittore», l’artista, che ha alle spalle studi al Dams di Bologna e che nel 2021 ha firmato il progetto «The Philosophers’ Clothes» alla galleria Rossi&Rossi di Hong Kong, ha scandagliato con attenzione i due studi morandiani, ha fotografato gli oggetti del pittore, ha parlato con chi l’ha conosciuto, ha chiesto suggerimenti a chi da tempo ne studia il lavoro.

«Ne ha dedotto che ogni oggetto che circondava Giorgio Morandi era lo specchio di una sua ben precisa idea; il cannocchiale ritrovato nello studio di Grizzana è riconducibile, per esempio, al principio di copia dal vero e al rapporto della pittura con la realtà. Anche le consuetudini della sua pratica, come quella di colorare sia l’interno che l’esterno dei vasi, delle bottiglie e dei piccoli oggetti che avrebbe poi dipinto o quella di porre un velario sulla finestra per arginare lo sfolgorio della luce, rivelano per Vittoria Chierici – si legge nella nota stampa - il rapporto dell’artista con lo spazio circostante». 
Da questo studio è nata un’opera corale, realizzata con gli studenti dell’Accademia di Belle arti di Bologna: il dittico di grandi dimensioni l'«Esperienza sensibile #1», composto da una tela dipinta dall’artista con la tecnica dello stencil e da una lavagna contenente pensieri e schizzi, realizzati con gessetti colorati, sul modus operandi morandiano. L’esperienza laboratoriale con i giovani viene raccontata in mostra anche da un filmato di 12 minuti, realizzato dalla film-maker Livia Campanini.

Lo stesso stile compositivo si ritrova nelle diciannove opere realizzate per l’occasione dall’artista. Alla parte pittorica è, infatti, spesso associata un’area occupata da alcuni aforismi morandiani e di altri autori, menzionati nel retro delle tele, che spiegano dei concetti visivi che sono alla base della nostra conoscenza sul grande artista bolognese.
Vittoria Chierici così racconta il suo lavoro: «Ho iniziato nel dividere su alcuni pannelli di masonite e su carta pressata a freddo due aree dove una è fissa perché lavorata con colori vinilici e olio e l’altra è mutevole perché lavorata a lavagna. I miei studi sono dunque dei dittici e contemplano la possibilità di cambiare, cancellando il testo o il disegno fatto alla lavagna. Mentre è immutabile la pittura. La lavagna vuole essere anche una citazione dell’artista tedesco Joseph Beuys, mentre il modello operativo morandiano, la ripetizione dello stesso oggetto, la composizione compatta detta a fascia - ossia cogliere attraverso l’esperienza l’essenza - è un concetto che proviene dalla filosofia di Edmund Husserl. C’è poi un passaggio dei “Dialoghi” con Leucò di Cesare Pavese che ho trovato molto appropriato: “Sappiamo che il più sicuro - e il più rapido - modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto”».

Gli aforismi morandiani - ricorda Maura Pozzati nel testo critico per l’opuscolo informativo della mostra - sono in molti casi tratti da una delle rare interviste rilasciate dal pittore bolognese, quella a Leonida Répaci, che uscì il 20 maggio del 1958 sul quotidiano «Il Tempo». In questo articolo l’artista raccontò la sua poetica «a mo’ di manifesto» con frasi come «Ognuno deve fare quel che può e sa di poter fare. Lasciateci lavorare in pace. L’importante è entrare nella casa della pittura, non restare alla porta di essa» e la bellissima e significativa «L’arte è causa ed effetto di contemplazione. Dio può essere chiuso in un tubetto di colore». Per Giorgio Morandi lo strumento della pittura, il pigmento, è, dunque, ciò che dà voce al mistero dell’essere ed esprime l’anelito dell’uomo all’infinito. La solitudine, il silenzio, la ricerca spasmodica dell’«essenza delle cose» erano tutte facce di una stessa medaglia: la necessità di un uomo di prendere confidenza con l’assoluto.

Didascalie delle immagini
[fig. 1]Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Dio può essere chiuso in un tubetto di colore, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 25 x 19. Bologna – Eastport, Maine; [fig. 2] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi. Lasciateci lavorare in pace, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 20 x 30. Bologna – Eastport, Maine; [fig. 3] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Il Segreto dell’Arte, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola intelata, cm 30 x 40, Bologna – Eastport, Maine; [fig. 4] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Colori di Posizione, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 25 x 25. Bologna – Eastport, Maine; [fig. 5] Vittoria Chierici, L’Affare Morandi, Prospettiva a fascia, 2023/2024. Acrilici e olio su tavola, cm 20 x 26. Bologna – Eastport, Maine; [figg. 6 e 7] Allestimento della mostra L’Affare Morandi di Vittoria Chierici 

Informazioni utili
L’Affare Morandi di Vittoria Chierici. A cura di Maura Pozzati. Casa Morandi, via Fondazza, 36 - Bologna. Orari di apertura: fino al 27 ottobre 2024, sabato e domenica ore 15.00 – 19.00, dal 2 novembre 2024 sabato ore 14.00 – 17.00, domenica ore 10.00 – 13.00 e 14.00 – 17.00, dal lunedì al venerdì chiuso. Ingresso gratuito. Informazioni utili: tel. +39.051.6496611 (centralino MAMbo) o www.museibologna.it/morandi. Fino al 6 gennaio 2025