ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 27 novembre 2024

«OTP – Orizzonte Terzo Paradiso»: alle Cinque Terre tre mostre sull’Arte povera

È il 27 settembre 1967 e a Genova, negli spazi della Galleria Bertesca, fondata dieci anni prima da Francesco Masnata, inaugura la collettiva «Arte Povera – Im spazio». In quella sera di inizio autunno, nelle sale di via SS. Giacomo e Filippo, al numero 13R, ci sono in mostra opere diventate, con il tempo, iconiche come «Catasta» (1967) di Alighiero Boetti (con sedici tubi in eternit a formare un alto parallelepipedo), «Lo spazio» (1967) di Giulio Paolini (con otto caratteri sagomati in compensato verniciati di bianco e appesi al muro), «Pavimento» (1967) di Luciano Fabro (un assemblaggio di riquadri di linoleum coperto da fogli di giornale disposti a rettangolo), e, ancora, «1 metro cubo di terra; 2 metri cubi di terra» di Pino Pascali (un parallelepipedo coperto da terriccio), «Perimetro di spazio» (1967) di Emilio Prini (con tubi al neon disposti ai quattro angoli di una stanza) e «Senza titolo» (1967) di Jannis Kounellis (un contenitore in metallo riempito di carbone). La curatela del progetto espositivo, che mette a confronto opere realizzate con materiali semplici e di uso quotidiano come prodotti industriali ed elementi naturali, è del genovese Germano Celant (1940-2020), che due mesi dopo pubblica il testo «Arte povera: appunti per una guerriglia», quello che di fatto diventerà il «manifesto programmatico» di uno dei principali movimenti artistici del secondo Novecento, la cui caratteristica peculiare è la critica radicale al consumismo e alla cultura mediatica.

Inizia così la storia quasi sessantennale, ricca di intrecci e connessioni, che lega la Liguria, quella «scarsa lingua di terra che orla il mare» (per usare una bella espressione di Camillo Sbarbaro), con l’Arte povera. All’ombra della Lanterna, nella casa di Germano Celant, in Salita Oregina, nasce anche, nel giugno del 1970, quello che di fatto è il primo archivio del movimento poverista: l’IDA – Information Documention Archives, che conserva, anche una ricca documentazione sull’Arte concettuale e la Land Art.
Sempre da Genova, e più precisamente dalla Samangallery in Vico Parmigiani, parte l’avventura artistica di Ida Gianelli che, dal 1990 al 2008 nel prestigioso incarico di direttrice del Castello di Rivoli, svolge un ruolo fondamentale per il sostegno e la promozione degli artisti poveristi; in quegli anni entrano, infatti, nella collezione del museo torinese opere di autori quali Alighiero Boetti, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio.
Da Genova parte anche l’avventura artistica di Giulio Paolini (1940), uno dei decani del movimento, che ha appena presentato l’installazione permanente «A.R.S. Scenica» per i cinquant’anni dalla fondazione del teatro Franco Parenti di Milano e la mostra «Uno spazio vuoto» alla Galleria Studio G7 di Bologna. Mentre è originario di Sanremo un altro critico molto vicino agli esordi dell’Arte povera, Tommaso Trini (1938), che racconta quella stagione di innovazione e fermento dalle pagine di «Domus».

Un capitolo a parte in questa storia che va alla ricerca dei legami tra il movimento poverista e la Liguria meritano le Cinque Terre, che furono il luogo privilegiato delle vacanze di Alighiero Boetti, che nel 1965 acquistò una casa a San Bernardino, dove andò di frequente fino agli anni Ottanta, e di Michelangelo Pistoletto, che tuttora possiede una dimora a Corniglia, dove tenne molti spettacoli del suo gruppo di teatro sperimentale «Zoo». E proprio dalla produzione dell’autore biellese, internazionalmente conosciuto per un’opera iconica come «La Venere degli Stracci» (quella del 1967, conservata al Castello di Rivoli), è tratto il titolo del progetto multidisciplinare e didattico «OTP – Orizzonte Terzo Paradiso», a cura di Ilaria Bernardi, con tre mostre in programma fino alla fine dell’anno a Vernazza e a Corniglia. Il «Terzo Paradiso» è, infatti, un simbolo ideato da Michelangelo Pistoletto nel 2003 e più volte riprodotto, che riformula il segno matematico dell’infinito attraverso l’aggiunta di un cerchio centrale, emblema della rinascita che può generare la messa in dialogo di due mondi opposti: la natura e l’artificio.

Il percorso espositivo, inaugurato lo scorso settembre, dopo un’estate di concerti, spettacoli e conversazioni legate a otto parole-chiave per la storia del movimento (da natura ad azione), può partire dal Castello Doria di Vernazza, che ospita la mostra «Arte povera: la storia 1967-1971». Si tratta di uno strumento didattico per conoscere il movimento e per seguire gli sviluppi della sua parabola attraverso una cronologia illustrata delle collettive tenutesi tra il 1967 e il 1971, ovvero dall’anno in cui Germano Celant conia il termine Arte povera sino a quello in cui lo stesso studioso postula che quell’etichetta deve dissolversi affinché ogni artista possa assumere la propria singolarità. Completa il percorso un video-documentario a cura di Beatrice Merz e Sergio Ariotti (Hopefulmonster, Torino 2011).

Sempre a Vernazza, ma nelle sale del Convento di San Francesco c’è «Alighiero Boetti. In situ», una piccola esposizione, realizzata con la collaborazione di Agata Boetti, che allinea sei opere, tra cui una grande «Mappa» del 1972, gli «Aerei» del 1981 e altri arazzi più piccoli, di proprietà privata, provenienti principalmente dalle collezioni di persone del territorio che sono state legate all’artista da profondi rapporti di amicizia.

A chiudere il progetto è una mostra diffusa, «Oltre l’Arte povera», con sei interventi site-specific in luoghi all’aperto, estranei ai soliti circuiti turistici del parco delle Cinque Terre, realizzati da tre artisti contemporanei che riconoscono l’eredità di Alighiero Boetti e Michelangelo Pistoletto nella loro pratica artistica.

Stefano Arienti
(Asola, Mantova, 1961) si è interfacciato con gli esterni dei due spazi espositivi di Vernazza: per Palazzo Doria ha realizzato, sul terrazzino che domina dall’alto il borgo ligure, l’installazione calpestabile «Via mare». L’intervento – si legge nella cartella stampa – ha previsto «la rimozione e il parziale reimpiego di una porzione del pavimento in lastre di pietra scura, per delineare con esse le masse continentali e con un mosaico di ciottoli chiari l’immagine dei mari interessati del traffico mondiale delle merci: un planisfero che allude ai planisferi di Alighiero Boetti, ma che non ritrae tanto la terra quanto l’acqua e i flussi di merci e persone». Mentre al Convento di San Francesco c’è «Mappamondi dritti e rovesci», un altro omaggio all’artista torinese, un’installazione costituita da due grandi teli sui quali il nostro pianeta è raffigurato da più punti di vista.

Il duo artistico Vedovamazzei, formato da Simeone Crispino (Napoli, 1962) e Stella Scala (Napoli, 1964), è, invece, intervenuto a Corniglia con due installazioni luminose. Nella piazzetta di fronte a via Solferino 28, tra due alberelli, è esposta «Appliance» (2000/2024): una seduta, dal sapore metafisico, di cui una gamba poggia su una lampadina accesa, omaggio agli oggetti domestici reinterpretati di Alighiero Boetti («Sedia» e «Lampada annuale», entrambi del 1966). Mentre sull’arco di accesso al Belvedere, in via Fieschi 222, dal quale si può ammirare una meravigliosa veduta del mare, è esposta «Loading» (2006/2024), un pendolo inquietante, che termina con una lampadina che si muove senza posa scandendo il tempo e lo spazio.

Alla poetica di Michelangelo Pistoletto guarda, invece, Marinella Senatore (Cava de’ Tirreni, 1977), che espone: «Bodies in Alliance» (2022) e «We Rise by Lifting Others» (2022), due luminarie per Corniglia poste rispettivamente sul palazzo comunale, in via alla Stazione 5, e sulla facciata della torre del fosso, in via Solferino.
«Le luminarie - si legge nella cartella stampa - rinviano alle architetture di matrice barocca, a rosoni e portali. La loro principale funzione è circoscrivere attraverso la luce un luogo, una piazza universale per la condivisione. Sono anti-monumenti generatori di un’energia che si propaga nello spazio, lo modifica, e modifica gli individui presenti inducendoli ad agire e far succedere ‘cose’, anche grazie alle brevi citazioni da testi in esse inclusi».

L’intero progetto sarà racchiuso in un catalogo, cartaceo e digitale, che uscirà a dicembre, in occasione del finissage, ultima tappa di un lungo e sentito omaggio all’Arte povera, un altro movimento artistico che ha sentito la fascinazione per le Cinque Terre, per quei cinque borghi che vennero dipinti anche dal macchiaiolo Telemaco Signorini e da uno dei maestri di Corrente, Renato Birolli, e per quel mare che, chi arriva in treno, conosce – scrisse Eugenio Montale - «a guizzi, a spicchi, a frammenti fulminei e abbaglianti, dai pochi oblò che si aprono nel tunnel che porta da Levanto fin quasi alla Spezia».

Didascalie delle immagini 
1. OTP. Oltre l'Arte Povera. Vedovamazzei, Loading installation. Vista a Corniglia. Foto di Lucrezia Corciolani; 2. OTP.Oltre l'Arte Povera-Marinella Senatore, We rise by Lifting Others. Vista dell'installazione a Corniglia. Foto di Lucrezia Corciolani; 3. OTP_Oltre l'Arte Povera. Stefano Arienti, Via mare, 2024. Vista dell'installazione a Vernazza. Foto di Lucrezia Corciolani; 4, 5 e 6. OTP.Alighiero Boetti. In Situ. Vista dell'installazione a Vernazza. Foto di Lucrezia Corciolani; 7. OTP. Arte Povera.La Storia 1967-1971. Vista della mostra a Vernazz. Foto di Lucrezia Corciolani


Informazioni utili
Alighiero Boetti: In situ.
Convento di San Francesco, Via San Francesco - Vernazza
Da venerdì a domenica, ore 12-18 | Ingresso gratuito 
Dal 17 settembre al 31 dicembre 2024
__________________________________________________________________________

Arte Povera: La storia 1967-1971
Castello Doria, Via San Giovanni Battista - Vernazza
Tutti i giorni, ore 10-19 | Ingresso: 5€
dal 17 settembre al 31 dicembre 2024
a cura di Ilaria Bernardi
___________________________________________________________________________

Oltre l’Arte Povera: Stefano Arienti, Marinella Senatore, Vedovamazzei
Mostra diffusa tra Vernazza e Corniglia
Facciata del Palazzo in via della Stazione 5, Corniglia
Fosso, via Solferino, Corniglia
Piazzetta di fronte a via Solferino 28, Corniglia
Arco in via Fieschi 222, Corniglia
Facciata del Convento di San Francesco, via San Francesco, Vernazza
Piazzale del Castello Doria, Vernazza
Tutti i giorni, h24 | Ingresso gratuito
dal 17 settembre al 31 dicembre 2024

martedì 26 novembre 2024

«Restituzioni», Intesa Sanpaolo finanzia il restauro degli affreschi di Castelseprio

«Castrum Seprum destruatur, et destructum perpetuo teneatur et nullus audeat vel praesumat in ipso Monte habitare»
. «Castel Seprio sia smantellato e perpetuamente tenuto tale, né alcuno osi o presuma di potervi ancora abitare». Con queste parole, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1287, l'arcivescovo Ottone Visconti, signore di Milano, dopo aver sconfitto la famiglia dei Torriani, proclamava la fine del castrum sorto, nel IV secolo d.C., lungo la via che collegava Como a Novara, a difesa dei confini al di qua delle Alpi.
Alla distruzione sopravvisse la sola chiesa di santa Maria foris portas, luogo sacro inserito dal giugno 2011 nella lista dei Patrimoni mondiali dell'Umanità di Unesco, insieme con altri sei siti densi di testimonianze architettoniche e pittoriche dell’età longobarda.
La fama di questo luogo, che fu scoperta il 7 maggio 1944 dallo storico e archeologo lombardo Gian Piero Bognetti, è legata al ciclo di affreschi che decora il vano dell'abside, considerato una tra le più alte testimonianze della pittura muraria nell'alto Medioevo.
Si rivela, dunque, prezioso l’intervento di monitoraggio e di manutenzione delle opere pittoriche in programma fino alla primavera del 2025, che vedrà al lavoro Luigi Parma e che è stato promosso nell’ambito di «Restituzioni», il programma biennale di restauri di opere d’arte appartenenti al patrimonio culturale italiano, a cura di Intesa Sanpaolo.
L’intervento conservativo, a cui potranno assistere i visitatori nei consueti orari di apertura della chiesa, consentirà una mappatura completa dello stato di conservazione degli affreschi, una spolveratura e una pulitura a secco, agendo con iniezioni di malta idraulica naturale laddove si rilevassero distacchi dell’intonaco.

Le origini del piccolo edificio religioso, ora sconsacrato, sono difficilmente ricostruibili: in passato si è pensato che l’edificazione della chiesa fosse databile al VII-VIII secolo; oggi, in seguito a un’accurata ricerca di Carlo Bertelli (supportata dall’esame della termoluminescenza), si è spostata l’epoca di fondazione intorno al secondo quarto del IX secolo, all’interno della temperie culturale carolingia. Sebbene edificata con materiali poveri e rinvenuti in zona, quali ciottoli di fiume, l'architettura è raffinata e mostra forti influenze mediorientali (siriache per la precisione), come ben documenta la pianta a trifoglio, non comune in Occidente.
Delle tre absidi, una sola sussiste, ed è quella dove si trovano le pitture rinvenute da Giampiero Bognetti e rimaste a lungo nascoste sotto uno strato d'intonaco quattrocentesco.

Il programma pittorico, la cui squisita ricchezza contrasta con la disadorna umiltà delle pareti dell’aula, racconta, con un linguaggio fortemente naturalistico e impressionistico, storie dell’infanzia di Gesù (dall’Annunciazione alla presentazione al tempio) e celebra il dogma dell’Incarnazione, tema caro alla teologia dei cristiani d’Oriente, nel quale si «parla» della consustanzialità di Cristo, ovvero della perfetta unione tra natura umana, implicita nei soggetti della vita di Cristo incarnato, e natura divina, come nella rappresentazione del Cristo pantocrator. Anche la fonte ha provenienza orientale: ai Vangeli canonici si è preferito un testo apocrifo, compilato in Egitto e diffuso con il nome di Protovangelo di Giacomo.
Difficile datare le pitture, che risalgono in ogni caso a prima della metà del X secolo, per via di un'iscrizione, graffita al di sopra della superficie pittorica, che ricorda Arderico, arcivescovo di Milano, eletto nel 936 e morto nel 948. Tre sono le principali ipotesi: l’età tardo antica (VI secolo), quando a seguito della guerra greco-gotica la penisola fu conquistata dai bizantini; l’età Longobarda (VII secolo) quando, per contrastare l’eresia ariana che negava la natura divina di Cristo, si ribadirono le miracolose storie legate al suo concepimento; e il IX secolo, nel contesto della contrapposizione tra Chiesa orientale e papato sul culto rivolto alle immagini sacre.

La straordinaria libertà nelle composizioni, l'uso di uno spazio illusionistico e scenografico, insieme alle figure allungate e a una tecnica rapida, di grande freschezza, giocata su una combinazione di pochi, essenziali colori (ocra, calce, nero di carbone) ci riportano a un'atmosfera anticheggiante, memore della grande pittura romano-classica.
La tecnica pittorica del frescante, conosciuto come Maestro di Castelseprio e forse originario di Costantinopoli dato che i nomi dei personaggi sono riportati in caratteri greci, appare sapiente: la sua mano sembra veloce e sicura (in alcuni casi il disegno dei contorni è fatto direttamente col colore), le velature danno una luminosità diffusa, le ombre sono ben definite e le lumeggiature appaiono pastose.
Il ciclo affrescato, disposto su due ordini e non diviso da riquadri, ha inizio, nell’emiciclo absidale, in alto a sinistra, con la scena dell’Annunciazione, dove l’angelo sorprende Maria intenta a filare, il tutto sotto lo sguardo comprensibilmente meravigliato di una giovane donna, forse un’amica della Vergine.
Seguono l’episodio della Visitazione, del quale una larga crepa ha purtroppo cancellato la figura di santa Elisabetta, e quello con la cosiddetta «Prova delle acque amare», prescritta dalla legge ebraica per accertare le gravidanze sospette e a cui anche Maria, secondo i Vangeli apocrifi, si sottopose. Dopo un tondo con il busto del Cristo benedicente, a cui ne corrispondeva uno oggi perduto con l’immagine del Battista, ci troviamo davanti all’Apparizione dell’angelo a san Giuseppe, scena maestosa e delicata al medesimo tempo, ricca di dettagli finissimi. La narrazione riprende con la raffigurazione del viaggio a Betlemme, con un tenero dialogo tra i due sposi, Maria sull’asino e Giuseppe che la segue a piedi.
Passando dalla fascia superiore a quella inferiore, si vedono raffigurate la Natività e l’annuncio ai pastori: su un fondo roccioso illuminato dalla cometa, la Madonna, adagiata su un giaciglio, ha di fronte a sé l’incredula levatrice Salomè, mentre in basso altre due donne lavano il Bambino. Giuseppe siede in disparte, in attesa pensosa; sopra di lui, dietro a una roccia, in vista di una città, l’angelo annuncia la nascita del Cristo. Solo un albero divide questa scena dalla successiva: l’Adorazione dei Magi. Ritornando verso il centro dell’abside, incontriamo, infine, la presentazione al tempio: la Vergine, attorniata da Giuseppe e da altri due personaggi, porge il Bambino al vecchio sacerdote Simeone che lo accoglie con la mano sinistra velata.

L’ultimo importante intervento di restauro sul ciclo di affreschi risale ai primi anni Novanta e fu eseguito dalla nota restauratrice lombarda Pinin Brambilla, il cui nome è legato agli interventi conservativi alle pitture di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova e agli affreschi di Masolino da Panicale nel Battistero di Castiglione Olona, ma soprattutto all’impresa ventennale per salvare dall’incuria del tempo «Il Cenacolo» di Leonardo da Vinci, nel monastero del santuario di Santa Maria delle Grazie di Milano.

Quest’ultimo restauro degli affreschi di Castelseprio – racconta Luigi Parma - «rimane ancora molto valido e storicizzato» e «sarà preservato». L’intervento tecnico avrà, dunque, carattere conservativo e manutentivo. «Si procederà» – spiega, con precisione, il restauratore - «con un’attenta osservazione degli affreschi accompagnata da una documentazione fotografica preliminare con riprese a luce diffusa e in luce radente per verificare la complanarità dell’intonaco e la presenza di eventuali sollevamenti e decoesioni della materia pittorica. Tramite battitura sarà verificato lo stato di adesione dell’intonaco alle murature con la stesura di una mappatura di ogni scena, redatta digitalmente in formato editabile con relative legende, dove verranno segnalate eventuali zone di distacco, problemi di adesione o di coesione dell’intonachino con l’arriccio e tra l’arriccio e supporto murario. Si interverrà con una leggera spolveratura con pennellesse morbide allo scopo di rimuovere il materiale lipofilo superficiale senza intervenire sulle aree con decoesione ed eventuali sollevamenti della materia pittorica.
Successivamente si procederà con una pulitura a secco mediante spugne Wishab per rimuovere la stratificazione lipofila più tenace. Quindi si procederà con il consolidamento profondo delle zone di intonaco decoeso dal supporto murario con iniezioni di malta idraulica naturale tipo Ledan. Le eventuali zone di decoesione tra intonachino e arriccio verranno risolte con iniezioni di resina acrilica Primal. Le incongruenze materiche riscontrate sul supporto murario nelle zone inferiori saranno rimosse meccanicamente con micro-scalpelli. La successiva stesura materica sarà effettuata con malta a base di calce Lafarge e sabbia selezionata di granulometria e cromatismo simile all’intonaco. Eventuali decoesioni e sollevamenti di materia pittorica saranno risolte localmente mediante l’impiego di nanotecnologie».

La chiesa di santa Maria foris portas a Castelseprio, tra il verde lussureggiante della natura, è, dunque, pronta a vivere una nuova stagione, diventando anche scenario di un cantiere di restauro aperto, un’occasione sempre di grande interesse per il pubblico.

Didascalie delle immagini
[fig.1] Veduta esterna della chiesa di santa Maria foris portas, a Castelseprio; [fig. 2 e fig. 3] Veduta interna della chiesa di santa Maria foris portas, a Castelseprio; [fig. 4] Maestro di Castelseprio, «Cristo benedicente», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 5] Maestro di Castelseprio, «Presentazione al Tempio», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 6] Maestro di Castelseprio, «Sogno di san Giuseppe», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas; [fig. 7] Maestro di Castelseprio, «Andata a Betlemme», s.d..Castelseprio, chiesa di santa Maria foris portas

Informazioni utili 
Chiesa di Santa Maria Foris Portas, via Castelvecchio, 1514 - Castelseprio (Varese). Orari: martedì e mercoledì, ore 9.00-14.00; giovedì, venerdì e sabato ore 13.30-18.30; domenica e festivi* ore 13.30-18-30 [*Per tutto il mese di Novembre e Dicembre 2024 il Parco Archeologico resterà chiuso domeniche e i festivi]. Informazioni: tel. +39 0331820438 e fax +39 0331855816, parcoarcheologico.castelseprio@beniculturali.it. Sito internet: http://www.antiquarium.castelseprio.beniculturali.it/

lunedì 25 novembre 2024

«Il sole d’autunno»: un «capolavoro ritrovato» di Giovanni Segantini


Era il 2 maggio del 1887 quando a Venezia, all’interno dei Giardini napoleonici, poco distante dalla Basilica di San Marco e dal Palazzo dei Dogi, si apriva, alla presenza del re Umberto I di Savoia, la quinta Esposizione nazionale di belle arti.

Nei mesi precedenti alcuni pittori veneziani, maestri della locale scuola del vero e del colore, come Giacomo Favretto, Lugi Nono, Beppe Ciardi e Antonio Rotta, tutti membri del Comitato esecutivo, si erano incontrati ripetutamente ai tavolini del vicino caffè Florian, sotto le Procuratie Vecchie, per discutere in merito alla scelta delle opere da esporre. Tutti desideravano che da quella rassegna potesse emanare la fisionomia di una nuova arte nazionale non più divisa in scuole regionali. L’intento, alla fine, riuscì: dopo un’accurata selezione, a Venezia arrivarono da tutta Italia centinaia di opere di pittura, scultura, architettura e arti applicate all’industria, rappresentative dei più differenti generi.

Incoraggiato dal proprio mercante, Alberto Grubicy, anche Giovanni Segantini (Arco, 1858 – Monte Schafberg, 1899) - che allora viveva nei Grigioni svizzeri, immerso nella natura e nella solitudine dell’alta montagna di Savognino - decise di proporre la sua recente produzione per la mostra lagunare e, alla fine, presentò cinque dipinti. Erano «Alla stanga», «Ritratto», «Tosatura», «Ave Maria» e «Sole d’autunno», tele dalle pennellate larghe e corpose, animate da un nuovo senso del colore e della luce, che fanno propria la frammentazione ottica del Divisionismo.

Una di queste opere è esposta, fino al 26 gennaio 2025, alla Galleria civica «Giovanni Segantini» di Arco in un allestimento, a cura del giovane storico dell’arte Niccolò D’Agati, intitolato «Il capolavoro ritrovato». Si tratta de «Il sole d’autunno», un dipinto di grandi dimensioni (novanta centimetri d'altezza per quasi due metri di larghezza, senza cornice), del quale il carteggio segantiniano con le lettere per la partecipazione alla quinta Esposizione nazionale di belle arti del 1887, conservato nell’Archivio storico della Biennale di Venezia (Asac), fornisce qualche informazione in più: quel quadro, chiamato dall’artista altoatesino anche «Vacca bianca all’abbeveratoio», fu il suo primo dipinto realizzato nei Grigioni e fu il frutto di un «lavoro di cinque anni», nel «tener calcolo del colore come bellezza armonica».

Giunto di recente nelle raccolte d’arte del Comune di Arco
, dopo una spesa di 3 milioni di euro, che ne fanno – si legge nella nota stampa - «uno dei più grandi acquisti pubblici mai avvenuti di un’opera del nostro Ottocento e in particolare la maggiore acquisizione segantiniana a partire dal 1927», il quadro ha una storia collezionistica di grande prestigio. Dapprima è nelle mani del mercante Alberto Grubicy (1887), poi passa a quelle dell’importante famiglia Dall’Acqua (1894), transitando, infine, nella raccolta del banchiere milanese Mario Rossello (ante 1926), che nella sua vita, con curiosità e discrezione, ha acquisito opere di importanti maestri dell’arte italiana del XIX secolo quali Giovanni Boldini, Tranquillo Cremona, Giuseppe De Nittis, Francesco Hayez, Domenico Induno, Mosè Bianchi e Giovanni Fattori, come ha raccontato nel 2016 il libro «La collezione segreta», a cura di Elisabetta Staudacher e Francesco Luigi Maspes.

Non più esposto al pubblico dal 1954, l’anno della rassegna «Pittori lombardi del secondo Ottocento», tenutasi a Como, nella sale della Villa comunale dell’Olmo, «Il sole d’autunno» ritorna, dunque, a farsi ammirare dal pubblico dopo settant’anni, mostrando un paesaggio agreste, privo di cielo, con in primo piano una donna, ripresa di spalle, che si abbevera a una fontana, e una mucca, aggiogata a un carretto, e sullo sfondo i prati e le poche case di Savognino.

Strettamente connessa all’opera «Alla Stanga» (1885-1886), oggi conservata alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, la tela di Arco, che si presenta in ottimo stato di conservazione, costituisce un vero e proprio momento di frattura nel lessico stilistico dell’artista trentino. Con questo lavoro, Giovanni Segantini supera, infatti, l’impasse letteraria dell’idillio tragico ed elegiaco che aveva caratterizzato i primi anni Ottanta del XIX secolo. Dal «paesaggio crepuscolare» del periodo in Brianza, dove si era trasferito dopo gli studi a Milano, documentato da tele come «Il bacio alla croce» del 1883 (Amsterdam, Stedelijk Museum) e «A messa prima» del 1885 (Saint-Moritz, Museo Segantini»), l’artista altoatesino approda a un «simbolismo naturalistico», che esalta la natura nei suoi valori essenziali, svincolandola così da una rilettura sentimentale per avvicinarla, invece, a una concezione panica e universale.

Per quanto riguarda il soggetto, tratto dal mondo agreste di cui Giovanni Segantini ama la semplicità e la quiete, «Il sole d’autunno» si presenta in linea di continuità con altri capolavori del periodo come «Ave Maria a trasbordo» del 1886 (St. Mortiz, Segantini Museum), «Allo sciogliersi delle nevi» del 1888 (St. Moritz, Segantini Museum) e «Vacche aggiogate» del 1888 (Basilea, Kunstmuseum).

C'è, in questi lavori, tutto il legame mistico e viscerale con il territorio montano, che l'artista raccontava così: «la Natura era divenuta per me come un istrumento che suonava accompagnando ciò che cantava il mio cuore. Ed esso cantava le armonie calme dei tramonti ed il senso intimo delle cose, nutrendo così il mio spirito d’una melanconia grande, che producevami nell’anima una dolcezza infinita».

Didascalie delle immagini
Giovanni Segantini, Sole d’autunno, 1887, Olio su tela, 90 x 192 cm

Informazioni utili