ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 23 aprile 2012

Henri Cartier-Bresson, uno sguardo sul Novecento

E’ stato il maestro del «momento decisivo», ma anche l’«occhio del secolo». Stiamo parlando di Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 22 agosto 1908 – L'Isle-sur-la-Sorgue, 3 agosto 2004), fotoreporter al quale Torino rende omaggio con un’ampia retrospettiva antologica allestita, per volontà di Silvana editoriale e grazie alla collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson e con Magnum Photos, nei prestigiosi spazi di Palazzo Reale.
 Centotrenta fotografie in bianco e nero, scattate fra i primi anni Trenta e la fine degli anni Settanta, puntano i riflettori su uno dei più appassionati e intelligenti testimoni di quello che Eric J. Hobsbawm ha definito il «secolo breve». Dalla seconda guerra mondiale alla rivoluzione cinese, dalla guerra civile spagnola all'assassinio del Mahatma Gandhi, da Marilyn Monroe a De Gaulle, da Che Guevara a Picasso: sono, infatti, pochi gli avvenimenti o i grandi della storia che, a partire dagli anni Trenta, sono sfuggiti all'obbiettivo di Henri Cartier-Bresson e della sua inseparabile Leica.
 Nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup, un villaggio alle porte di Parigi, da una famiglia alto-borghese dell'industria tessile, il fotografo noto per aver fondato, con Robert Capa e David «Chim» Seymor, la Magnum Photos si interessa fin da ragazzo all'arte, e in particolare alla pittura, grazie a uno zio, allora considerato una sorta di padre spirituale. Diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e di André Lhote. Frequenta i caffè della capitale francese, partecipando alle discussioni dei surrealisti. Nel 1930, dopo un viaggio in Costa d'Avorio, decide di abbandonare pennelli e colori per la fotografia. Così, anni dopo, spiegò la sua svolta: «L'avventuriero che è in me si sentì obbligato a testimoniare con uno strumento più immediato di un pennello le ferite del mondo».
 Da quel momento, Cartier-Bresson, l'uomo che Jean-Clair ha definito come «l'occhio più giusto che la fotografia abbia mai rivelato», ha percorso il pianeta in lungo e in largo, riempiendo il suo «diario di bordo» non con le parole, ma con le immagini. Ai primi anni Trenta risale il suo viaggio alla scoperta del sud della Francia, della Spagna, dell'Italia e del Messico, prima tappa di un lungo itinerario a caccia di sguardi, volti, attimi che non ritornano. La curiosità insaziabile che caratterizzerà tutta la sua carriera lo conduce, poi, negli Usa, dove nel 1935 lavora per il cinema con Paul Strand.
Tornato in Francia, Cartier-Bresson continua, per qualche tempo, a lavorare per la «settima arte» con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l'occasione per realizzare le sue prime grandi foto di reportage. Un genere, questo, nel quale l’artista di Chanteloup-en-Brie ha avuto modo di mettere in atto la sua poetica del «kairòs», la sua celebre filosofia del «momento decisivo», una filosofia che ne ha fatto il maestro del carpe diem fotografico. Nasce così uno stile inimitabile di documentazione della realtà, che immortala un momento qualsiasi. Un momento rubato, «preso in trappola», colto all'insaputa dei suoi stessi attori. Ma un momento che è essenza di una situazione e della stessa vita. Un momento che è espressione di uno stato d'animo, o -come diceva il «genio francese della fotografia»- è «l'unione dell'istante e dell'eternità».
Chiamato alle armi nel 1939, Cartier-Bresson viene fatto prigioniero dai tedeschi e rimane in un campo di concentramento in Germania dal 1940 al 1943. Dopo trentacinque mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce ad evadere e con il gruppo clandestino Mnpgd fa ritorno a Parigi, dove -fra i primi- ne fotografa la Liberazione. Finita la guerra si dedica nuovamente al cinema e dirige il film «Le Retour», documentario sul ritorno dei prigionieri francesi dai «campi dell'orrore». Nel 1946 è, ancora, negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per la rivista «Harper's Bazaar». Qui, l'anno successivo, al Museum of  Modern Art di New York, viene allestita, a sua insaputa, una rassegna «postuma»: si era diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra. Ma il fotografo, che ci ha lasciato l'immagine di uno Chagall dallo sguardo «fanciullo» tra i fiori di casa e quella di un Beckett che sembra una scultura di Giacometti, c'è e aiuta il museo americano a completare l'allestimento. E' la definitiva consacrazione.
 Il 1947 passerà, però, alla storia soprattutto per un altro evento importante: insieme ai suoi amici Robert Capa, David «Chim» Seymour, George Rodger e William Vandivert, Cartier-Bresson fonda la Magnum Photos. La cooperativa creata da quelli che lo stesso fotografo definì come un «gruppo di avventurieri mossi dall'etica», con la convinzione che la fotografia può essere «visione», una visione tanto speciale quanto universale della realtà, e che la paternità artistica di un'immagine va tutelata era destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo. Nello statuto c'è la risoluzione etica di documentare la realtà contemporanea, una risoluzione che era l'assioma dell'operare di Cartier-Bresson: «si deve fotografare sempre nel grande rispetto del soggetto e di sé stessi» o, ancora, «fotografare: è porre sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere».
 Dal 1948 al 1950 il maestro francese viaggia in Estremo Oriente, tra India, Birmania, Pakistan e Cina. Documenta la vita quotidiana delle persone. Coglie con il suo obbiettivo donne e bambini durante gli ultimi giorni del Guomindang a Pechino, nel 1949. Nel 1952 si dedica a un'altra impresa: pubblica «Images a la sauvette», una raccolta di sue foto, con copertina di Henri Matisse, che ha una vasta eco internazionale. Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, una mostra che farà poi il giro del mondo.
 Dopo una serie di viaggi a Cuba, in Messico, in India e in Giappone, a metà degli anni Sessanta, Cartier-Bresson comincia a mostrare insoddisfazione nei confronti del suo lavoro, fino ad arrivare a distruggere alcune immagini. Nel 1966 abbandona la Magnum da lui stesso fondata, deluso soprattutto dalla sempre più imperante commercializzazione della fotografia, e ritorna al suo primo amore, al disegno e alla pittura, convinto -come lo è sempre stato- di essere un «fotografo improvvisato» e un «grande disegnatore misconosciuto». Stranezze dei grandi, perché è innegabile che Cartier-Bresson sia stato il padre del fotogiornalismo e della fotografia cronachistica d’arte, con i suoi scatti dalla perfetta armonia formale, frutto non solo di una grande pazienza, ma anche di una saggia discrezione, che non lo faceva mai irrompere sulla scena da fotografare, per non interferire con gli accadimenti.
 «Per quel che mi riguarda -spiegò il maestro francese, durante la sua lunga vita- fare foto è un mezzo per capire che non può essere separato dagli altri mezzi di espressione visiva. È un modo di urlare, di liberarsi, non di provare o far valere l'originalità di qualcuno. È un modo di vita». «Il mio unico segreto – dichiarò un'altra volta– è quello di prendermi il tempo di vivere con la gente e poi di dimenticarmi di me stesso». Cartier-Bresson amava il mondo e il mondo lo amava.
Le sue immagini sono diventate icone del nostro immaginario collettivo. La sua Leica è stata una sorta di bloc notes per ‘appuntare’ scampoli fugaci di vita da lasciare all'eternità, perché -si sa- l'uomo muore, l'arte rimane. Ecco così foto come quello dei due giovani che si baciano al tavolo di un Cafè parigino o quello di una coppia che si abbraccia a Times Square la notte di Capodanno o, ancora, quello di un «Che» straordinariamente sorridente. Scatti che rimarranno, per sempre, nella nostra Storia.

Didascalie delle immagini 
[fig. 1] Henri Cartier-Bresson, «Derrière la Gare Saint-Lazare», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos [fig. 2] Henri Cartier-Bresson, «Belgium. Brusseles», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos 


 Informazioni utili 
 Henri Cartier- Bresson. Photographe. Palazzo Reale, piazzetta Reale, 1 - Torino. Orari: martedì-domenica 9.30 - 18.30 (ultimo ingresso: ore 18.00); chiuso il lunedì; la mostra resterà aperta nelle giornate del 25 aprile, del 20 aprile e del 1° maggio. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 011.4361455. Fino al 24 giugno 2012.

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