ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 27 aprile 2012

Londra, il Van Dyck siciliano alla Dulwich Picture Gallery

E' l'ottobre del 1621 quando il ventiduenne Anton Van Dyck (Anversa, 1599 – Londra, 1641) parte per l'Italia, tappa obbligata nel processo formativo del bagaglio culturale e figurativo dei pittori fiamminghi. Un mese dopo, il 20 novembre, il giovane allievo di Peter Paul Rubens è a Genova, presso la casa dei fratelli Lucas e Corneil de Wael, artisti e mecenati di Anversa, stabilitisi nella città ligure dal 1610.
Qui -secondo quanto raccontano Pietro Giovanni Bellori e Raffaele Soprani- il pittore rimane fino al febbraio del 1622, quando si imbarca su una feluca alla volta di Civitavecchia per, poi, giungere a Roma, dove studia l'arte classica e dove medita sulla pittura di Raffaello, Annibale Carracci e Guercino. A questo periodo risale anche la realizzazione di un incredibile numero di schizzi ispirati ai lavori di Tiziano, nume tutelare di Anton Van Dyck, come documenta il «Taccuino Italiano» (oggi di proprietà del British Museum di Londra), nel quale sono raccolte copie di «Amor sacro e Amor Profano» (1514 ca.) e di «Venere che benda Amore» (1565).
Lasciata la «Città eterna», l’artista fiammingo -chiamato dai contemporanei «pittor cavalleresco» per i modi raffinati e per l'abbigliamento elegante- decide di trasferirsi a Venezia, dove rimane per due mesi, a partire dall'agosto del 1622. E' in Laguna che avviene la sua scoperta del colorito soffuso di Paolo Veronese, della luce del Giorgione e dell'intensità narrativa di Tintoretto, stili pittorici che ritroviamo filtrati in tanti dipinti degli anni successivi.
Ma il giovane artista che avrebbe regalato alla storia dell’arte opere come «Le età dell’uomo» (1625 circa; Vicenza, Museo civico d’arte e storia), «Gli amori di Amarilli e Mirtillo» (1631-1632 ca.; Torino, Galleria Sabauda) e «Amore e psiche» (1638-1640; Londra, The Royal Collection) non è ancora completamente soddisfatto della sua formazione; vuole approfondire tutta l'arte italiana e visita così anche Mantova, Milano, Torino, Firenze e Bologna, per poi rifare tappa a Roma, nella primavera del 1623, e ritornare a Genova, verso la fine dello stesso anno. La «Superba» diventa la sua città adottiva fino al ritorno in patria, avvenuto nel 1627, fatta eccezione per un viaggio a Palermo, risalente al biennio 1624-1625, che permette ad Anton Van Dyck di conoscere la leggendaria Sofonisba Anguissola, all'epoca più che novantenne e quasi cieca. Da lei l’artista, allora venticinquenne, ottiene «tanti buoni consigli» per il suo lavoro, come quello di non usare la luce dall'alto nei ritratti di anziani, al fine di non esaltarne troppo le rughe. Un segreto, questo, che raffina ulteriormente l'arte del «pittor cavalleresco», un'arte che il viaggio in Italia ha certamente reso più soffusa, luminosa, lirica e ricca di pathos. Lo documentano bene i due ritratti della pittrice cremonese, sposa in seconde nozze al genovese Orazio Lomellino, realizzati dall’artista durante il suo soggiorno siciliano (uno, quello dipinto sul letto di morte, fa parte delle collezioni della Galleria Sabauda di Torino), ma anche il quaderno degli schizzi, il famoso «Taccuino italiano», che al suo interno conserva un piccolo disegno a mezza figura della donna.
Alla permanenza nella città di Palermo -dove, secondo la biografia settecentesca basata sull’epistolario De Wael-Van Uffel, l’artista giunse su invito del viceré Emanuele Filiberto di Savoia- è dedicata la piccola, ma preziosa mostra «Van Dyck in Sicily: 1624-1625, painting and the plague», allestita negli spazi della Dulwich Picture Gallery di Londra, per la curatela di Xavier Salamon, oggi conservatore della pittura barocca europea al Metropolitan Museum di New York, e promossa nell’ambito dell’iniziativa «Rediscovering Old Masters», generosamente supportata da Arturo e Holly Melosi.
L’esposizione, corredata da un catalogo in lingua inglese di Silvana editoriale, prende come punto di avvio proprio il «Ritratto di Emanuele Filiberto, principe di Savoia», opera ospitata in permanenza dal museo inglese, che rappresenta senz’altro uno dei vertici della mirabile collezione ritrattistica vandychiana: una carrellata di volti e di sguardi difficili da dimenticare, tutti accomunati da una straordinaria padronanza tecnica, da un'attenzione maniacale ai particolari e da una non comune abilità nel delineare la psicologia del personaggio.
Il viceré, in Sicilia per conto del sovrano spagnolo Filippo IV, appare in questa tela nobile e deciso, marziale ed elegante. Lo sguardo e il portamento hanno tutta l’autorevolezza che conviene a un uomo di governo; questa caratteristica è sottolineata dalla spada e dall’elmo piumato ai due lati, ma soprattutto dall’abbigliamento: una splendida armatura da parata, nera e decorata con i simboli di casa Savoia. Un’armatura preziosa, questa, realizzata dal Maestro del Castello di Tre Torri e in mostra per la prima volta nel Regno Unito, accanto al dipinto di Van Dyck, grazie al prestito delle Armerie del Palazzo Reale di Madrid.
 Al quadro -esposto nel museo londinese accanto a un’altra quindicina di lavori, disposti elegantemente in tre sale- è legato un curioso aneddoto: sembra che una mattina Emanuele Filiberto avesse trovato la tela caduta a terra e avesse considerato questo fatto un pessimo presagio. Gli eventi gli avrebbero dato ragione. Poche settimane dopo, una violenta epidemia di peste, portata da una nave proveniente da Tunisi, devasta Palermo. Tra le decine di migliaia di vittime, c’è anche il viceré spagnolo. La città viene messa in quarantena per quattro mesi. Il viaggio del pittore fiammingo, che originariamente doveva essere breve, si protrae nel tempo e dura in tutto un anno e mezzo.
Si ipotizza, stando a quanto scrive Roberta D’Adda, che l’artista abbia trascorso le settimane del contagio a Messina, ospite del mercante Ettore Vanachtoven, per poi ritornare a Palermo, dove riprende a dipingere ritratti dell’aristocrazia mercantile genovese residente in città, opere sacre come il «San Giovanni Battista nel deserto» (giunto a Londra dalla Menil Collection di Houston) e immagini di Sofonisba Anguissola (in mostra è esposto il ritratto, da altri solo attribuito, della collezione di Lord Sackville).
Durante il soggiorno a Palermo Anton Van Dyck inventa anche l'iconografia di Santa Rosalia, che conosciamo oggi: l’immagine di una donna, giovane e bella, dai lunghi capelli d’oro, vestita con un saio e con lo sguardo rivolto al cielo.
Secondo la tradizione storica, mentre la peste infuriava in città, in una grotta del Monte Pellegrino furono ritrovate le presunte spoglie mortali dell’eremita; poco dopo le reliquie della santa, oggi patrona di Palermo, furono portate in processione e l’allarme cominciò a rientrare. La successione degli eventi generò un proliferare di dipinti incentrati sulla sua figura, a partire dal ritratto ufficiale di Vincenzo La Barbera, commissionato dal Senato della città e di solito ubicato nel locale Museo diocesano. Alla Dulwich Picture Gallery, accanto a quest’opera (unica pittura di un altro artista presente in mostra), sono raccolti cinque lavori di Van Dyck (provenienti da New York, Londra, Madrid, Porto Rico e Houston), nei quali la santa appare o mentre intercede per Palermo appestata o nel momento in cui viene trionfalmente sollevata in cielo da una schiera di angeli.
Nell’autunno 1625, con in tasca la committenza per la grande pala «Madonna del Rosario e santi», l’opera sacra più importante del suo periodo italiano, Anton Van Dyck lascia Palermo, portandosi nel cuore la devozione per santa Rosalia e nella testa tutti gli insegnamenti italiani: la lezione di Tiziano, l'impianto disegnativo toscano, le luci di Sofonisba Anguissola, il cromatismo delle scuole veneta ed emiliana rivivono nei suoi lavori, si fondono come in una meravigliosa sinfonia.
Il «Mozart della pittura», come lo definiscono molti manuali scolastici, deve, dunque e forse soprattutto, all’Italia la sua nomina a pittore alla corte di Carlo I, una nomina che lo porta a Londra nella primavera del 1632, per rimanervi per il resto della vita. E', infatti, all'apice della gloria quando, a soli quarantadue anni, l’artista si ammala e muore. Sulla sua lapide, nella cattedrale di Saint Paul, viene celebrata quella capacità «fotografica» di fermare l'attimo fuggente che gli arrise il favore della nobiltà di tutta Europa, con poche parole: «Qui giace Anton Van Dyck che, in vita, ha regalato a molti l'immortalità».


Didascalie delle immagini
[fig. 1] Anton Van Dyck, «Ritratto di Emanuele Filiberto, principe di Savoia»,1624. Londra, Dulwich Picture Gallery; [fig. 2] Maestro del Castello di Tre Torri, Armatura di Emanuele Filiberto di Savoia, c. 1606. Madrid, Armeria di Palazzo Reale; [fig. 3] Anton Van Dick,  «Ritratto di Sofonisba Anguissola», 1624. Knole, Sackville Collection; [fig. 4] Anton Van Dick, «Santa Rosalia», 1625 ca. Madrid, Museo del Prado; [fig. 5] Anton Van Dick, «Santa Rosalia in gloria», 1624. Huston, Menil Collection



Informazioni utili
«Van Dyck in Sicily: 1624-1625, painting and the plague». Dulwich Picture Gallery, Gallery Road - Dulwich, Londra. Orari: martedì-sabato, 10.00-17.00; domenica 11.00-17.00. Ingresso: £ 10,00 (comprensivo dell’ingresso alla mostra «Ragamala Paintings from India: Poetry, Passion, Song»). Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo. Informazioni: +44.08.693.5254. Sito web: www.dulwichpicturegallery.org.uk. Fino a venerdì 27 maggio 2012. 

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