«Ritrasse sopra la porta d'una camera la Signora Giulia Farnese nel volto d'una nostra Donna, e nel medesimo quadro la testa d'esso Papa Alessandro che l'adora»: una affermazione di poco, o nessun interesse, per la storia dell’arte se non per il fatto che a metterla nero su bianco fu, nel 1550 e ancora nel 1568, Giorgio Vasari, all'interno della biografia del Pintoricchio, contenuta nell’opera «Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori».
L’affermazione del famoso biografo aretino elevava a rango di verità storica un gossip del tempo, riportato per scritto anche da François Rabelais e Stefano Infessura, secondo cui il controverso papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia (1431-1503), nutriva una vera e propria predilezione per la raffinata, giovane e bellissima Giulia Farnese (1475-1524), ironicamente nota alla corte pontificia come «sponsa Christi», tanto da farla ritrarre all’interno dei suoi appartamenti in Vaticano, nelle fattezze della Vergine, con lui adorante, in ginocchio, ai suoi piedi.
Ma quella riportata da Giorgio Vasari era solo una diceria malevola o una verità storica? E la Madonna raffigurata, bellissima ed eterea, chi era? Era veramente la concubina del papa? E che fine hanno fatto i frammenti dell’affresco, fatto staccare, centocinquanta anni dopo la sua realizzazione, da papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi (1655-1667), e smembrato in tre parti, con l’intento di dimenticare quella vicenda, frutto visibile di un pontificato, quello di Rodrigo Borgia, che aveva assecondato intrecci dinastici, veleni di palazzo, calunnie e gelosie? A queste domande prova a rispondere, dopo secoli di ricerche e di indagini scientifiche, la mostra «Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese», allestita fino al 10 settembre ai Musei capitolini di Roma, per la curatela di Cristina Acidini, Francesco Buranelli, Claudia La Malfa e Claudio Strinati, con la collaborazione di Franco Ivan Nucciarelli e con la supervisione di Francesco Buranelli.
L’esposizione, corredata da un interessante catalogo della Gangemi editore, vuole introdurre il visitatore in quello stupefacente periodo della cultura romana di fine Quattrocento e nel grande fermento umanistico che lo caratterizza, tutto rivolto alla riscoperta della memoria dell'antica Roma, sulla quale la Chiesa, quasi una sorta di «nuova Atene», fonda il proprio «rinascimento» politico e religioso.
Sono gli anni in cui l'arte della stampa, da poco inventata da Johannes Gutenberg, fiorisce e molti editori aprono le proprie stamperie in città, a partire da Sweynheym, Pannatz e Eucharius Silber che hanno una sede a Campo de’ Fiori. Vengono pubblicate le opere dei grandi retori latini, Cicerone e Quintiliano, dei filosofi greci, dei poeti e dei drammaturghi antichi. I monumenti della classicità sono ammirati da pellegrini e visitatori e i cortili dei grandi palazzi dei membri della Curia e del mondo laico si riempiono di statue, rilievi e iscrizioni antiche. Alessandro VI è amante del lusso, del bello e dell’arte al pari dei suoi contemporanei: tra l’autunno del 1492 e la fine del 1494, chiama a Roma uno degli artisti più estrosi del tempo, Bernardino di Betto, detto il Pintoricchio (c.1454-1513), per fargli decorare il suo appartamento nel Palazzo apostolico della Basilica di San Pietro, sei grandi stanze nel corpo quattrocentesco fatto edificare da papa Niccolò V, cui è stata aggiunta una torre.
Tra pitture ricche di contenuti umanistici e teologici, che evocano in maniera sapiente l’arte romana antica e che dimostrano l’interesse del pittore per l’ornato prezioso, si trovava l’opera citata dal Vasari nelle sue «Vite». Quel dipinto, menzionato dall'artista e scrittore aretino in modo fuggevole, e solo per raccontare l’adorazione di papa Borgia per la «Signora Giulia» -una passione adulterina per altro condannata pubblicamente da Girolamo Savonarola- si impregnò, con il tempo, di storie e significati tali da offuscare, alla sensibilità del tempo, il valore artistico nella sua composizione d’insieme.
Oggi sappiamo che, quasi sicuramente, Giorgio Vasari non ebbe mai accesso agli appartamenti papali e che per descriverli si servì prevalentemente di informazioni di seconda mano e delle incisioni a stampa che (soprattutto per le Stanze di Raffaello) iniziarono ben presto a far scuola di quelle meraviglie.
La storiografia ci dice anche che, come spesso accade, il «venticello della calunnia» che qualcuno alitò in maniera impalpabile, ma efficace sulla decorazione dell’appartamento Borgia si rivelò vincente: papa Pio V (Antonio Ghislieri, 1566-1572) fece nascondere l’opera da una doppia pesante tappezzeria da parati e da un nuovo dipinto della «Madonna del Popolo». Alessandro VII, con la complicità del cardinale nipote Flavio I Chigi, lo disperse in più frammenti: le due immagini della Madonna e del Bambino, ormai due dipinti a sé stanti con cornici volutamente differenti e circa duecento numeri di distanza nell’inventariazione, entrarono a far parte della collezione privata dei Chigi, mentre il ritratto di Alessandro VI scomparve definitivamente. L’esatta composizione del dipinto, tuttavia, non andò perduta grazie a una copia realizzata nel 1612 dal pittore Pietro Fachetti.
Oggi, a oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere, è possibile presentare per la prima volta vicini i due frammenti: quello del volto della Madonna, mai esposto fino a ora, insieme a quello ben noto del «Bambino Gesù delle mani», conservato all’interno della collezione della Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia.
Ma la mostra offre anche l’occasione di rivedere la «leggenda» sulla presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia, destituendo di ogni fondamento una delle convinzioni più durevoli della storia dell’arte moderna. Le sembianze della Vergine risultano, infatti, vicinissime al più classico tipo dei volti di Madonna del Pintoricchio: un viso dolcemente allungato, senza nessuna ricerca ritrattistica, pieno di amorevole concentrazione e assorto compiacimento nei confronti della scena alla quale sta assistendo. Ne da prova il confronto fra l’opera al centro della mostra e altre due tele del pittore entrambe esposte a Roma: la «Madonna della Pace» di San Severino Marche e la «Madonna delle Febbri» di Valencia, alle quali sono accostate un’altra trentina di capolavori del Rinascimento e sette antiche sculture di età romana, provenienti dalle raccolte capitoline, che documentano quanto l’artista abbia attinto all’antico.
Il volto ritrovato della «Madonna» del Pintoricchio, messo accanto al «Bambino delle mani», ci permette, dunque, di ricomporre parzialmente un’opera di forte valenza iconografica ed evidente significato teologico, riconoscendovi, invece, una rarissima iconografia di investitura divina del neoeletto pontefice. Una lettura, questa, «che spazza definitivamente il campo da tutte le precedenti interpretazioni decisamente più “terrene”, -dichiara Francesco Buranelli- che ne hanno al tempo stesso tramandato la memoria e provocato la distruzione e che restituisce alla Chiesa e al mondo un’opera somma che ha già pagato un caro prezzo per la miopia del genere umano».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Bambin Gesù delle mani, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 48,6 x 33,5 x 6,5 circa. Perugia, Fondazione Guglielmo Giordano; [fig. 2] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 39,5 x 28, 5 x 5. Collezione privata; [fig. 3] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna della Melagrana, c. 1508-1509. Tempera su tavola, cm 54.5 x 41. Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. 387; [fig. 4] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna delle Febbri, c. 1497. Olio su tavola, cm 158 x 77,3. Valencia, Museo de Bellas Artes de Valencia (colleción Real Academia de Bellas Artes de San Carlos), inv. 273
Informazioni utili
«Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese». Musei Capitolini - Palazzo Caffarelli, piazza del Campidoglio – Roma. Orari: tutti i giorni, ore 9.30-19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso (integrato per il museo e comprensivo di tassa di turismo): intero € 15,00, ridotto € 13,00. Catalogo: Gangemi editore, Roma. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni, ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it. Fino al 10 settembre 2017
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
giovedì 13 luglio 2017
martedì 11 luglio 2017
La 5 Continents Editions racconta i capolavori «rari e preziosi» del Mann di Napoli
Tra le tante iniziative con cui il Mann di Napoli rivela al pubblico i capolavori del suo immenso patrimonio -talora esposti e altre volte custoditi nei ricchissimi depositi– vi è dal 2016 anche una nuova e originale collana di eleganti volumetti intitolata «Oggetti rari e preziosi al Museo archeologico nazionale di Napoli», edita con la casa editrice 5 Continents Editions di Milano. I testi di Valeria Sampaolo, conservatore capo delle collezioni del museo napoletano, raccontano insieme con le straordinarie fotografie di Luigi Spina, i più importanti capolavori conservati nelle sale dell’istituzione partenopea, offrendo -racconta il direttore Paolo Giulierini- «un’esplorazione assolutamente impressionante e capace di sorprendere anche chi conosce bene questi oggetti».
Ad aprire la raccolta è stato il libricino «Memoria del vaso blu», dedicato a quell’unicum scoperto nel 1837 a Pompei, in una nicchia della piccola tomba a camera prospiciente la Villa delle Colonne a mosaico, e realizzato come se si trattasse di un cammeo con l’incisione dello strato vetroso bianco sovrapposto a disegnare tralci d’uva e scene di vendemmia, importante momento della vita dei campi raffigurato più volte nel corso dei secoli dagli antichi artigiani sulla ceramica, in affreschi, in mosaici o nel marmo. Ma se nella maggior parte delle rappresentazioni di vendemmia è presente il senso della fatica, qui c’è invece un’atmosfera giocosa, i piccoli personaggi sembrano divertirsi nel suonare i vari strumenti e sembrano muoversi con leggeri passi di danza. Oltre ad essi e, ovviamente, ai tralci di vite, ecco maschere su foglie d’acanto, rami di quercia, ghirlande d’edera, uccelli, spighe di grano, capsule di papaveri, mele cotogne, rami di alloro, melograni e tanti altri frutti dell’estate e dell’autunno, contrapposti e mescolati nell’evocazione di una natura feconda e generosa. La scelta delle essenze vegetali non è casuale: ognuna di esse è carica di significati religiosi e simbolici. Il rimando a Dioniso si coglie in molti elementi, ma tanti altri messaggi allusivi sono presenti nelle scene che decorano questo vaso che attraverso la sua decorazione comunicava un messaggio di rinascita e sopravvivenza dopo la morte.
A questo volume si sono ora aggiunti due nuovi titoli: «Amazzonomachia» e «Centauri».
Il primo libro presenta il celebre cratere a volute con la scena di combattimento tra greci e amazzoni scoperto a Ruvo di Puglia da un canonico e da un farmacista, appassionati di antichità, nel 1838 e ora in attesa di essere esposto nella sezione del Mann sulla Magna Grecia che si inaugurerà nel 2018.
Questo reperto si distingue, tra i tanti vasi decorati a figure rosse, per le grandi dimensioni dei personaggi che combattendo in concitati duelli si dispongono sull’intera superficie in una sequenza che sembra derivare dai fregi o dai frontoni in pietra dei templi.
Autore della decorazione è il Pittore dei Niobidi, una delle figure più rappresentative della ceramografa attica del secondo quarto del V secolo a.C., che certamente si ispirava alla grande pittura di Mikon o di Polignoto, per noi del tutto perduta e della quale possiamo avere un’idea proprio attraverso le sue opere nelle quali anche la posa e le espressioni dei personaggi contribuiscono a dare drammatica vitalità alle scene.
La varietà dei particolari dell’abbigliamento e delle armature delle amazzoni e dei greci, dei loro volti e dei loro corpi, viene messa in primo piano dagli oltre settanta scatti a colori di Luigi Spina attraverso i quali si notano dettagli che sfuggono alla visione diretta dell’opera.
«Centauri» mette, invece, in luce la coppia di schiphi d’argento rinvenuta anch’essa a Pompei, assieme ad altri dodici oggetti dello stesso metallo, nella casa che sarebbe stata chiamata «dell’argenteria». Queste coppe sono gli esemplari meglio conservati tra i recipienti lavorati nella stessa tecnica a sbalzo custoditi nel Museo. Per la loro fragilità –a lamina d’argento è sensibile alle variazioni di temperatura tra giorno e notte– sono al momento custoditi in ambiente climatizzato in attesa di idonei espositori.
Quelli che la 5 Continents Editions dedica ai capolavori del Mann sono, dunque, libri rivelatori, libri che ci portano dentro l’opera, tra i decori realizzati da antichi artigiani e dai primi artisti, nelle pieghe della materia e del tempo.
Gli scatti di Luigi Spina, i suoi primi piani e gli ingrandimenti, mettono in luce dettagli che sfuggono alla visione diretta di questi oggetti, «rari e preziosi», e ci introducono in un universo fatto di mille particolari: nell’abbigliamento e nelle armature delle amazzoni e dei greci, nei chiaroscuri dell’argento sbalzato tra centuari e amorini, nei simboli di rinascita e di morte inseriti con perizia nella decorazione del «Vaso blu» (metà del I secolo d.C.) che - per buone condizioni di conservazione e per la rarità della tecnica di esecuzione - è uno dei pezzi di maggior pregio del Museo di Napoli.
Informazioni utili
5 Continents Editions s.r.l., Piazza Caiazzo, 1 - 20124 Milano | tel. 02.33603276 | info@fivecontinentseditions.com.
Ad aprire la raccolta è stato il libricino «Memoria del vaso blu», dedicato a quell’unicum scoperto nel 1837 a Pompei, in una nicchia della piccola tomba a camera prospiciente la Villa delle Colonne a mosaico, e realizzato come se si trattasse di un cammeo con l’incisione dello strato vetroso bianco sovrapposto a disegnare tralci d’uva e scene di vendemmia, importante momento della vita dei campi raffigurato più volte nel corso dei secoli dagli antichi artigiani sulla ceramica, in affreschi, in mosaici o nel marmo. Ma se nella maggior parte delle rappresentazioni di vendemmia è presente il senso della fatica, qui c’è invece un’atmosfera giocosa, i piccoli personaggi sembrano divertirsi nel suonare i vari strumenti e sembrano muoversi con leggeri passi di danza. Oltre ad essi e, ovviamente, ai tralci di vite, ecco maschere su foglie d’acanto, rami di quercia, ghirlande d’edera, uccelli, spighe di grano, capsule di papaveri, mele cotogne, rami di alloro, melograni e tanti altri frutti dell’estate e dell’autunno, contrapposti e mescolati nell’evocazione di una natura feconda e generosa. La scelta delle essenze vegetali non è casuale: ognuna di esse è carica di significati religiosi e simbolici. Il rimando a Dioniso si coglie in molti elementi, ma tanti altri messaggi allusivi sono presenti nelle scene che decorano questo vaso che attraverso la sua decorazione comunicava un messaggio di rinascita e sopravvivenza dopo la morte.
A questo volume si sono ora aggiunti due nuovi titoli: «Amazzonomachia» e «Centauri».
Il primo libro presenta il celebre cratere a volute con la scena di combattimento tra greci e amazzoni scoperto a Ruvo di Puglia da un canonico e da un farmacista, appassionati di antichità, nel 1838 e ora in attesa di essere esposto nella sezione del Mann sulla Magna Grecia che si inaugurerà nel 2018.
Questo reperto si distingue, tra i tanti vasi decorati a figure rosse, per le grandi dimensioni dei personaggi che combattendo in concitati duelli si dispongono sull’intera superficie in una sequenza che sembra derivare dai fregi o dai frontoni in pietra dei templi.
Autore della decorazione è il Pittore dei Niobidi, una delle figure più rappresentative della ceramografa attica del secondo quarto del V secolo a.C., che certamente si ispirava alla grande pittura di Mikon o di Polignoto, per noi del tutto perduta e della quale possiamo avere un’idea proprio attraverso le sue opere nelle quali anche la posa e le espressioni dei personaggi contribuiscono a dare drammatica vitalità alle scene.
La varietà dei particolari dell’abbigliamento e delle armature delle amazzoni e dei greci, dei loro volti e dei loro corpi, viene messa in primo piano dagli oltre settanta scatti a colori di Luigi Spina attraverso i quali si notano dettagli che sfuggono alla visione diretta dell’opera.
«Centauri» mette, invece, in luce la coppia di schiphi d’argento rinvenuta anch’essa a Pompei, assieme ad altri dodici oggetti dello stesso metallo, nella casa che sarebbe stata chiamata «dell’argenteria». Queste coppe sono gli esemplari meglio conservati tra i recipienti lavorati nella stessa tecnica a sbalzo custoditi nel Museo. Per la loro fragilità –a lamina d’argento è sensibile alle variazioni di temperatura tra giorno e notte– sono al momento custoditi in ambiente climatizzato in attesa di idonei espositori.
Quelli che la 5 Continents Editions dedica ai capolavori del Mann sono, dunque, libri rivelatori, libri che ci portano dentro l’opera, tra i decori realizzati da antichi artigiani e dai primi artisti, nelle pieghe della materia e del tempo.
Gli scatti di Luigi Spina, i suoi primi piani e gli ingrandimenti, mettono in luce dettagli che sfuggono alla visione diretta di questi oggetti, «rari e preziosi», e ci introducono in un universo fatto di mille particolari: nell’abbigliamento e nelle armature delle amazzoni e dei greci, nei chiaroscuri dell’argento sbalzato tra centuari e amorini, nei simboli di rinascita e di morte inseriti con perizia nella decorazione del «Vaso blu» (metà del I secolo d.C.) che - per buone condizioni di conservazione e per la rarità della tecnica di esecuzione - è uno dei pezzi di maggior pregio del Museo di Napoli.
Informazioni utili
5 Continents Editions s.r.l., Piazza Caiazzo, 1 - 20124 Milano | tel. 02.33603276 | info@fivecontinentseditions.com.
domenica 9 luglio 2017
Picasso tra ceramiche e incisioni
Italia 1917, cento anni fa: lo spagnolo Pablo Picasso decide, con lo sceneggiatore e drammaturgo Jean Cocteau, di compiere un viaggio in Italia alla ricerca di ispirazioni creative. Roma, Napoli e Pompei sono le città che visita. Quella vacanza entra nella storia dell’arte: è qui che il padre del Cubismo scopre il «Mediterraneo» e la classicità, elementi che generano il suo conseguente Ritorno all’ordine. Il soggiorno italiano si rivela importante anche a livello personale per l’incontro e l’amore con Olga Kochlova, danzatrice dei Balletti Russi di Sergej Djaghilev, la donna che di lì a poco diverrà la prima (e unica) moglie dell’artista spagnolo.
Sono molti gli eventi che si stanno organizzando nel nostro Paese per festeggiare questo importante anniversario. A Castiglione del Lago, nelle sale di Palazzo della Corgna, è, per esempio, in corso la mostra «Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica», rappresentativa della creatività del maestro cubista, che si è cimentato, nel corso della sua lunga e intensa esistenza, in tutti i generi artistici conosciuti: pittura, incisione, disegno e ceramica.
L’esposizione umbra permette di ammirare una novantina di opere, tra cui le tre celebri serie di incisioni e acqueforti -«Le Cocu Magnifique», «Carmen» e «Balzac en bas de casse et Picassos sans majuscule»-, e un corpo unico di ben ventinove ceramiche come brocche, vasi antropomorfi, piatti decorati, graffiti e modellati, realizzati tra il 1947 e la fine degli anni Sessanta, che provengono da raccolte e collezioni private.
La caratteristica di questa produzione è l’originale trasformazione delle forme in particolari plastici figurativi, esaltati dalla policromia del segno pittorico, con un’attenzione al piccolo dettaglio per cogliere l’essenza del rappresentato. Tra i temi iconografici prescelti compaiono gufi, pesci, tori, picadores, corride, uccelli, figure femminili, volti di fauni, realizzati con segni intensi e soluzioni antropomorfe e zoomorfe inimmaginabili.
Quello tra Picasso e la ceramica non si può propriamente definire un colpo di fulmine. È, però, certo che l’artista dal suo primo soggiorno in Costa Azzurra, datato 1946, si avvicina a questo materiale grazie all’amicizia con i coniugi Suzanne Douly e Georges Ramié e al contatto con la Madoura di Vallauris, antico centro di produzione della Francia meridionale. Qui realizza le sue prime tre sculture in terra rossa: un fauno e due tori. È l’inizio di un rapporto costante con la ceramica che lo porterà a realizzare oltre quattromila manufatti, parte in produzione e parte pezzi unici. Con il passare degli anni e con la creatività che lo connota, Picasso continua, infatti, a investigare- scrive Claudia Casali, direttrice del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza, nel suo testo in catalogo- «la possibilità di questo linguaggio, integrando ed alternando forma e decorazione, utilizzando la qualità scultorea della terra unita al dato pittorico per creare effetti quasi illusionistici». Ne nasce un rapporto costante, ricorda ancora la studiosa, caratterizzato da «libertà d’espressione, ritorno alle origini, omaggio alla storia e all’eternità dell’arte, in sintesi nuova sperimentazione».
Non meno interessante è il rapporto dell’artista con il mondo delle incisioni e delle acqueforti, con il quale Pablo Picasso sente di riappropriarsi dell’antica condizione dell'alchimista, ossia della libertà di trasformare chimicamente e meccanicamente il segno grafico.
In mostra è possibile vedere l'ultima opera incisoria realizzata dall’artista a Parigi: trentotto incisioni a bulino (una tecnica meno frequentata dall'artista) della novella «Carmen» di Prosper Mérimée, divenuta famosa per essere stata trasposta in musica da Bizet nel 1875. Per queste tavole, che vengono pubblicate dalla Bibliothèque Française nel 1949, il maestro spagnolo pensa a volti femminili e maschili, costumi andalusi e teste taurine.
Datano, invece, alla fine del 1952 le undici litografie con ritratti diversificati di Honoré de Balzac, padre del Realismo nella letteratura europea, commissionategli da Fernand Mourlot. Una di esse viene utilizzata come frontespizio per una edizione di «Le Pére Goroit» di Balzac; otto verranno edite nel 1957 da Michel Leiris in «Balzacs en bas de casse».
Nel 1968 Picasso incide, poi, dodici tavole all'acquaforte e acquatinta per illustrare la commedia «Le Cocu Magnifique. Farce en trois actes» di Fernand Crommelynck, che racconta le conseguenze del sentimento tragico della gelosia. Si tratta di un nucleo estremamente rappresentativo del repertorio figurativo picassiano, capace di rendere con arguzia lo spirito farsesco dell’opera teatrale. Le opere esposte raffigurano con ammirevole stilizzazione visi di donna e di uomo, costumi andalusiani, teste di toro e figure mitologiche, prendendo ispirazione anche dalle proprie conoscenze mitologiche, tra le quali primeggia la figura immancabile del Minotauro.
Informazioni utili
«Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica». Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago. Orari ore 9.30-19.00; la biglietteria chiude mezz’ora prima. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 5,00 (gruppi di oltre 15 unità, ragazzi fino a 25 anni); ridotto famiglia € 18,00 (3 persone) o € 22 euro (4 persone); biglietto unico residenti Comune di Castiglione del Lago € 4,00; ridotto famiglia residente € 10,00 (3 persone) o € 12,00 (4 persone); omaggio bambini fino a 6 anni. Informazioni: tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Sito internet: www.palazzodellacorgna.it. Fino al 27 agosto 2017. La mostra è prorogata fino al 5 novembre 2017.
Sono molti gli eventi che si stanno organizzando nel nostro Paese per festeggiare questo importante anniversario. A Castiglione del Lago, nelle sale di Palazzo della Corgna, è, per esempio, in corso la mostra «Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica», rappresentativa della creatività del maestro cubista, che si è cimentato, nel corso della sua lunga e intensa esistenza, in tutti i generi artistici conosciuti: pittura, incisione, disegno e ceramica.
L’esposizione umbra permette di ammirare una novantina di opere, tra cui le tre celebri serie di incisioni e acqueforti -«Le Cocu Magnifique», «Carmen» e «Balzac en bas de casse et Picassos sans majuscule»-, e un corpo unico di ben ventinove ceramiche come brocche, vasi antropomorfi, piatti decorati, graffiti e modellati, realizzati tra il 1947 e la fine degli anni Sessanta, che provengono da raccolte e collezioni private.
La caratteristica di questa produzione è l’originale trasformazione delle forme in particolari plastici figurativi, esaltati dalla policromia del segno pittorico, con un’attenzione al piccolo dettaglio per cogliere l’essenza del rappresentato. Tra i temi iconografici prescelti compaiono gufi, pesci, tori, picadores, corride, uccelli, figure femminili, volti di fauni, realizzati con segni intensi e soluzioni antropomorfe e zoomorfe inimmaginabili.
Quello tra Picasso e la ceramica non si può propriamente definire un colpo di fulmine. È, però, certo che l’artista dal suo primo soggiorno in Costa Azzurra, datato 1946, si avvicina a questo materiale grazie all’amicizia con i coniugi Suzanne Douly e Georges Ramié e al contatto con la Madoura di Vallauris, antico centro di produzione della Francia meridionale. Qui realizza le sue prime tre sculture in terra rossa: un fauno e due tori. È l’inizio di un rapporto costante con la ceramica che lo porterà a realizzare oltre quattromila manufatti, parte in produzione e parte pezzi unici. Con il passare degli anni e con la creatività che lo connota, Picasso continua, infatti, a investigare- scrive Claudia Casali, direttrice del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza, nel suo testo in catalogo- «la possibilità di questo linguaggio, integrando ed alternando forma e decorazione, utilizzando la qualità scultorea della terra unita al dato pittorico per creare effetti quasi illusionistici». Ne nasce un rapporto costante, ricorda ancora la studiosa, caratterizzato da «libertà d’espressione, ritorno alle origini, omaggio alla storia e all’eternità dell’arte, in sintesi nuova sperimentazione».
Non meno interessante è il rapporto dell’artista con il mondo delle incisioni e delle acqueforti, con il quale Pablo Picasso sente di riappropriarsi dell’antica condizione dell'alchimista, ossia della libertà di trasformare chimicamente e meccanicamente il segno grafico.
In mostra è possibile vedere l'ultima opera incisoria realizzata dall’artista a Parigi: trentotto incisioni a bulino (una tecnica meno frequentata dall'artista) della novella «Carmen» di Prosper Mérimée, divenuta famosa per essere stata trasposta in musica da Bizet nel 1875. Per queste tavole, che vengono pubblicate dalla Bibliothèque Française nel 1949, il maestro spagnolo pensa a volti femminili e maschili, costumi andalusi e teste taurine.
Datano, invece, alla fine del 1952 le undici litografie con ritratti diversificati di Honoré de Balzac, padre del Realismo nella letteratura europea, commissionategli da Fernand Mourlot. Una di esse viene utilizzata come frontespizio per una edizione di «Le Pére Goroit» di Balzac; otto verranno edite nel 1957 da Michel Leiris in «Balzacs en bas de casse».
Nel 1968 Picasso incide, poi, dodici tavole all'acquaforte e acquatinta per illustrare la commedia «Le Cocu Magnifique. Farce en trois actes» di Fernand Crommelynck, che racconta le conseguenze del sentimento tragico della gelosia. Si tratta di un nucleo estremamente rappresentativo del repertorio figurativo picassiano, capace di rendere con arguzia lo spirito farsesco dell’opera teatrale. Le opere esposte raffigurano con ammirevole stilizzazione visi di donna e di uomo, costumi andalusiani, teste di toro e figure mitologiche, prendendo ispirazione anche dalle proprie conoscenze mitologiche, tra le quali primeggia la figura immancabile del Minotauro.
Informazioni utili
«Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica». Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago. Orari ore 9.30-19.00; la biglietteria chiude mezz’ora prima. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 5,00 (gruppi di oltre 15 unità, ragazzi fino a 25 anni); ridotto famiglia € 18,00 (3 persone) o € 22 euro (4 persone); biglietto unico residenti Comune di Castiglione del Lago € 4,00; ridotto famiglia residente € 10,00 (3 persone) o € 12,00 (4 persone); omaggio bambini fino a 6 anni. Informazioni: tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Sito internet: www.palazzodellacorgna.it. Fino al 27 agosto 2017. La mostra è prorogata fino al 5 novembre 2017.
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