ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 20 novembre 2024

Milano, la casa-museo Bagatti Valsecchi festeggia trent’anni di apertura al pubblico

Era la fine dell'Ottocento e nel cuore di Milano, tra via del Gesù e via Santo Spirito, vivevano due fratelli, i baroni Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi, che, pur diversi per carattere, avevano un sogno in comune, peraltro in linea con il programma culturale varato dalla monarchia sabauda all’indomani dell’Unità d’Italia.
Volevano ristrutturare la residenza di famiglia secondo il gusto tipico che caratterizzava le abitazioni lombarde del Rinascimento, periodo storico al quale allora si guardava per la costruzione di una nuova arte nazionale, componente indispensabile per la formazione di una comune identità culturale.

Mentre l’edificio veniva sottoposto a un considerevole intervento di restauro, ritenuto avveniristico per quei tempi visto che furono creati anche gli impianti per la luce elettrica, il riscaldamento e l’acqua corrente, tre comfort assolutamente innovativi per le case dell’epoca, i due fratelli iniziarono a collezionare dipinti risalenti al Quattrocento e al Cinquecento, tra i quali la «Santa Giustina» di Giovanni Bellini e la «Madonna in trono con santi» del Giampietrino, ma anche manufatti di arte applicata come arredi lignei, oggetti in vetro e ceramica, avori, arazzi, tappeti, armi, gioielli, strumenti scientifici e musicali.

In circa vent’anni di lavoro appassionato venne allestita una casa unica nel suo genere, dove la raffinatezza, grazie a un armonioso progetto di ottocentesca «gesamtkunstwerk», ovvero di «opera d’arte totale» che vedeva una stretta coerenza tra «contenuto» e «contenitore», era l’indiscussa padrona di casa.

«Amicis pateo aeternumque patebo», ovvero «Sono aperta agli amici e sempre lo sarò», è l’iscrizione che campeggia ancora oggi all’ingresso, sulla serliana nell’anticamera della sala dell’affresco. Questa frase racchiude l’essenza della dimora ideata dai baroni Bagatti Valsecchi, che doveva essere un luogo schiuso all’ospitalità e alla convivialità. Come dimostra il «Libro degli ospiti», questo proposito venne rispettato. Dal 20 ottobre 1886 al 29 maggio 1975, ovvero fino all’ultimo giorno in cui la casa fu abitata dagli eredi dei due collezionisti, furono oltre 10mila le persone che attraversarono le porte dell’edificio nel quartiere Montenapoleone: intellettuali, scrittori, aristocrazia italiana ed europea, jet set internazionale, mondo del collezionismo e degli studiosi d’arte, senza dimenticare le infermiere volontarie della Prima guerra mondiale e le maestre con le loro scolaresche. Poi, Pasino Bagatti Valsecchi, figlio di Giuseppe ed erede delle collezioni d’arte di famiglia, decise - in pieno accordo con i propri figli Pier Fausto, Cristina, Anna Maria e Fausta - di donare le collezioni d’arte rinascimentale e i manufatti raccolti dal padre e dallo zio a una fondazione appositamente costituita. Parallelamente, il palazzo fu alienato alla Regione Lombardia, con la clausola che gli allestimenti storici del piano nobile fossero conservati nella loro integrità così da preservare l'indissolubile legame tra «contenuto» e «contenitore», che è tratto distintivo della vicenda collezionista dei Bagatti Valsecchi.

Il 22 novembre 1994 la casa-museo milanese, considerata una delle più importanti e meglio conservate di tutta Europa, apriva per la prima volta le porte al pubblico e oggi - anche grazie a un restauro delle facciate, dei pavimenti e degli apparati decorativi, terminato nel maggio 2008 - rappresenta non solo uno dei luoghi più affascinanti del cosiddetto «Quadrilatero della moda», ma anche una delle prime grandi espressioni del design in terra lombarda.

Da allora sono passati trent’anni e il Bagatti Valsecchi festeggia l’anniversario con una settimana di appuntamenti riuniti sotto il titolo «Museo oltre i confini», una rassegna nata con l’intento di coinvolgere nuovo pubblico, in linea con i contenuti valoriali e sociali che hanno animato il progetto dei fondatori, ma anche quello dei loro eredi, in particolare di Pier Fausto Bagatti Valsecchi, nipote di Giuseppe, recentemente scomparso, che è stato a capo della fondazione per ventisei anni. Oggi alla presidenza dell’istituzione milanese c’è la figlia Camilla Bagatti Valsecchi, attenta alla conservazione e alla valorizzazione di quella che per lei è una storia di famiglia; mentre la direzione è nelle mani di Antonio D’Amico, che negli ultimi tre anni ha ideato più di un’iniziativa per avvicinarsi a nuovi target di visitatori, da «Stasera al museo» alle degustazioni di «In Arte Veritas».

Nel corso del tempo, a sostegno delle attività sono anche nate l’associazione «Amici del Museo Bagatti Valsecchi» e il gruppo giovani under 35 «Speechati»; l’ente si avvale, poi, di un solido gruppo di volontarie e volontari, attivo dal 1996, grazie al quale i visitatori vengono accolti giornalmente nelle sale museali e aiutati a orientarsi nel percorso di visita.

In linea con la mission di coinvolgere nuovo pubblico, l’ultimo progetto nato in via Santo Spirito, «Museo oltre i confini», sta portando il Bagatti Valsecchi nelle scuole e nelle biblioteche di quartiere, inedite cornici di una serie di attività didattiche e di conferenze rivolte ai più giovani, ma anche al pubblico adulto come gli appuntamenti ad Affori, con il direttore Antonio D’Amico, e a Calvairate, con la communication manager Valeria Ricci, in programma rispettivamente nelle giornate di mercoledì 20 e venerdì 22 novembre. Sono, inoltre, in agenda visite guidate gratuite con ingresso ridotto (su prenotazione; dal 20 al 22 novembre, alle ore 14 e alle ore 16; il 23 e il 24 novembre, alle ore 11 e alle ore 14), una conferenza dedicata a Pier Fausto Bagatti Valsecchi (il 23 novembre, alle ore 16, su prenotazione), e una celebrazione ufficiale (il 21 novembre, alle ore 18:30, su invito), alla presenza delle autorità. Non manca, poi, in questo fitto programma, in agenda fino al 24 novembre, un appuntamento del cartellone culturale «Stasera al Museo. Vivere nel tempo»: quattordici incontri di musica, teatro e danza che, da marzo a dicembre, stanno vedendo la presenza di ospiti d’eccezione quali Paola Turci, Giovanni Caccamo, Ippolita Baldini e Tindaro Granata. Per l’occasione, Giuseppe Anastasi, storico autore di grandi interpreti della canzone italiana come Arisa, sarà protagonista di un concerto per voce e pianoforte dal titolo «Vivere nel tempo» (il 20 novembre, alle ore 18:30; ingresso € 12,00).

Il Museo Bagatti Valsecchi festeggia, quindi, la sua storia di casa aperta agli amici, pronta ad accogliere tutti coloro che vorranno fare un incontro con la bellezza, la musica e la cultura, con lo stesso spirito di armonia tra le arti che era nel DNA del Rinascimento, che ha animato il sogno realizzato dei fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi e che continua a vivere, giorno dopo giorno, grazie a chi si impegna a tramandare questo patrimonio alle generazioni future.

Didascalie delle immagini 
1. Museo Bagatti Valsecchi di Milano, Sala Bevilacqua; 2. Inaugurazione del Museo nel 1994 con Federico Zeri; 3. Inaugurazione del Museo nel 1994 taglio del nastro alla presenza di Pier Fausto Bagatti Valsecchi; 4. Prima visitatrice del 1994; 5. Elton John in visita al museo

Informazioni utili
Tutte le informazioni delle celebrazioni saranno disponibili su https://www.museobagattivalsecchi.org. Dal 20 al 24 novembre 2024 l'ingresso al museo è fissato al prezzo ridotto di  € 9.

martedì 19 novembre 2024

Al Palazzo ducale di Sassuolo Gianni Berengo Gardin e le «linee veloci» della Marazzi

È il 1977 quando Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 10 ottobre 1930) varca le soglie dell’azienda Marazzi, fondata a Sassuolo nel 1935 e diventata in breve tempo leader nel settore della ceramica, nonché simbolo del miglior made in Italy nel campo dell’arredamento e del design. Tre anni prima, nel 1974, la ditta emiliana, che oggi è presente in più di centoquaranta Paesi e allora aveva filiali in Francia e Spagna, aveva fatto un’invenzione destinata a modificare per sempre il processo di produzione delle piastrelle: la monocottura rapida.

Da sempre attenta non solo alle infinite possibilità della materia, ma anche al dialogo con gli artisti, la Marazzi aveva deciso di dedicare a quel rivoluzionario brevetto tecnologico un portfolio e la scelta era caduta sul fotografo ligure di nascita e veneziano di formazione, indiscusso maestro del bianco e nero, che ha raccontato l’evoluzione del paesaggio e della società italiana dal Dopoguerra ai giorni nostri, con una particolare attenzione alle tematiche del sociale (con le serie «Morire di classe» del 1968, sugli ospedali psichiatrici, e «Disperata allegria» del 1994, sulla vita delle comunità Rom), ma anche del lavoro (con i reportage per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e Olivetti), senza dimenticare il più recente progetto «Grandi navi a Venezia» (2012-2014), sulla dannosità degli «inchini» della imbarcazioni da crociera di fronte alla Serenissima.

Entrando nella fabbrica emiliana, che oggi fa parte di Mohawk Industries, Inc., il più grande produttore mondiale nel settore del flooring, quotato alla Borsa di New York, Gianni Berengo Gardin - raccontano dall’Ufficio comunicazione della Marazzi - «si trova immerso in un ambiente pulito, efficiente, dal sapore internazionale, di cui lo affascina soprattutto la velocità produttiva e quel nastro trasportatore dove colori, forme, disegni sembrano mescolarsi in un vortice: il soggetto del progetto diventa, dunque, quasi subito per lui il ritmo colorato della produzione, molto diverso da altri contesti industriali in cui aveva operato».

Il fotografo sceglie, per una volta, di abbandonare il rigore del bianco e nero soggiogato da quel turbine futurista, dove i decori e le cromie della monocottura rapida si rincorrono nella velocità della loro realizzazione.
«Mi fu chiaro subito – racconta a tal proposito Gianni Berengo Gardin - come la sfida professionale fosse quella di riuscire a cogliere il flusso veloce dei colori, la scia dinamica delle forme. Il colore, che ho usato sempre poco, si imponeva, quindi, come scelta. Provai, inoltre, a lavorare in modo diverso da quel che normalmente facevo. Qui cambiavo spesso la distanza, avvicinandomi molto ai soggetti, per riuscire a cogliere i dettagli, i frammenti di quel che vedevo e realizzare così foto diverse dalle altre: sognanti, colorate, quasi astratte. Sono grato alla Marazzi per avermi lasciato libero di realizzare delle fotografie come queste, astratte, che anticipano in qualche modo un approccio concettuale inusuale a quell’epoca nella foto industriale in cui, in genere, veniva richiesto una documentazione più oggettiva, documentaria, del prodotto. Una festa per gli occhi e, per me, un lavoro molto originale».

Cinquant’anni dopo l’ideazione del brevetto della monocottura rapida, la Marazzi svela una selezione di quarantadue scatti inediti realizzati da Gianni Berengo Gardin per le «linee veloci» della Marazzi con una mostra, curata da Alessandra Mauro, che ha trovato la sua cornice ideale nelle prestigiose Sale della musica, degli incanti e dei sogni del Palazzo ducale di Sassuolo, parte del patrimonio delle Gallerie estensi.

In queste immagini, visibili fino al 31 dicembre e raccolte in un volume edito da Contrasto, non spicca solo l’uso del colore, ma anche la differenza rispetto alla tradizionale fotografia di documentazione: quel «carosello incalzante» della produzione ceramica della Marazzi dà vita, come ha spiegato anche il suo autore, a una visione quasi astratta del lavoro, «fatto – racconta la curatrice - di elementi isolati, di forme dinamiche, di strisce di colore che girano e si perdono, di mani sapienti che si muovono sui nastri». L’immagine commerciale diventa così arte e svela la bellezza nascosta anche nel più tecnico degli ingranaggi produttivi, trasformando il lavoro in fabbrica in poesia.
 
C’è in questa serie, raccolta in mostra con il titolo «Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci», non solo la fabbrica degli anni Settanta, ma anche il racconto di un modo di lavorare della Marazzi, che ha continuato a coltivare nel tempo attitudine alla sperimentazione, affiancando alla ricerca di nuovi prodotti e processi, la promozione di letture differenti, personali, d’autore, della ceramica e del lavoro. La sua storia si è così intrecciata con quella di grandi maestri dell’obiettivo come Luigi Ghirri, Charles Traub o Cuchi White e di designer quali Gio Ponti, Nino Caruso o Paco Rabanne. Tutti sono stati liberi di esprimersi con il loro inconfondibile stile. E oggi l’azienda emiliana vanta un archivio che è un patrimonio inestimabile, accumulato in ormai novant’anni anni di storia, fonte inesauribile di ispirazione per chi si occupa di design e di comunicazione aziendale e prezioso oggetto di ricerca per chi studia arte e fotografia.

Didascalie delle immagini
Gianni Berengo Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci © Gianni Berengo Gardin e Marazzi Group

Informazioni utili
Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci. Palazzo ducale di Sassuolo – Gallerie estensi, piazzale della Rosa 10 – Sassuolo, Modena. Orari: dal martedì alla domenica, ore 10.00 – 18.00; ultimo ingresso ore 17.00; lunedì chiuso. Sito web: www.gallerie-estensi.beniculturali.it | www.marazzi.it. Fino al 31 dicembre 2024

lunedì 18 novembre 2024

La storia del vetro di Murano alle Biennali di Venezia

È il 1930 quando la Fratelli Barovier di Murano porta alla XVII Biennale internazionale d’arte di Venezia una serie di vetri eseguiti in uno strano materiale lattiginoso, dalla trama simile al craquelé della ceramica, caratterizzato da una irripetibile superficie translucida ricoperta da una ragnatela di screpolature e linee. Tra di essi spicca una figura di piccione, curiosa nell’elegante postura e nelle dimensioni dei dettagli, con le zampe, gli occhi e il becco in pasta nera. Quella creazione, nata dalla fervida mente di Ercole Barovier (1889-1974), viene riprodotta sulle principali riviste d’arte e diventa così famosa al punto che il suo nome, «Primavera», finisce per diventare anche quello della strana qualità di vetro con cui era stata realizzata l’intera serie portata alla Biennale d’arte di Venezia, per essere esposta nella Galleria del bianco e nero e nella sala delle Arti decorative.

Riprodotta in pochissimi esemplari e quindi ancora più iconica, quella collezione composta da vasi, coppe, candelieri e animali, vezzosamente decorati da finiture d’ispirazione Déco, era frutto di un «errore» di laboratorio, che non si riuscì più a replicare, come spesso avviene quando si ha a che fare con un procedimento dal sapore alchemico come quello che si vive all’interno di una fornace muranese, dove, nel passaggio di dissoluzione e ricomposizione di un pugno di sabbia e silicio, arso dal fuoco e «coreografato» dal soffio e dalla sapienza manuale dell’uomo, si generano forme trasparenti e opache, fragili e resistenti, colorate o bianche.

Quell’uccello immaginario, dalla grazia impettita e dall’eleganza senza tempo, che fu esposto anche alla IV Triennale di Monza, sempre nel 1930, era, dunque, la perfetta metafora della bellezza fragile e imprevista di un materiale straordinario, che trasforma la sapienza dell’artigianato in arte con la a maiuscola. E, giustamente, è stato scelto come immagine guida della mostra «1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia», curata da Marino Barovier, per «Le stanze del vetro», spazio espositivo nato dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung, nello scenografico contesto dell’Isola di San Giorgio Maggiore, un’oasi di mare, natura e silenzio che si affaccia sul bacino di San Marco.

Centotrentacinque opere
provenienti da importanti istituzioni museali e da collezioni private, molte delle quali di grande rarità, ripercorrono una storia che porta i visitatori agli inizi del Novecento, in quella temperie culturale caratterizzata dall’incredibile fede nel progresso e dall’angoscia per un mondo sempre più violento, che vede l’affermarsi del Futurismo, lo scoppio della Grande Guerra, la dittatura fascista e il brusco progetto di modernizzazione del Paese, caratterizzato fin da subito da evidenti squilibri tra il nord e il sud, tra la città e la campagna.

In quel periodo il vetro muranese trova progressivamente spazio all’interno della Biennale d'arte di Venezia, prima attraverso gli artisti che hanno scelto di impiegare questo materiale per le proprie opere, poi grazie all’apertura di una sezione dedicata alle arti decorative, che fino al 1930 avrà sede all’interno del Palazzo dell’Esposizione accanto a pittura e scultura, per poi trovare, dal 1932 al 1972, la propria dimora esclusiva in uno specifico Padiglione ai Giardini.

Dopo un’introduzione storica, frutto di un’accurata ricerca bibliografica e di una approfondita indagine documentaria nell’Archivio storico delle arti contemporanee della Biennale, con sei schermi a creare la Galleria della memoria, uno spazio buio illuminato da immagini del tempo, dove il charleston delle scatenate serate mondane di inizio secolo dialoga con una moda femminile sontuosa e civettuola che sembra uscita da un quadro di Giovanni Boldini, ma non solo, si entra nel vivo del percorso espositivo con le creazioni degli anni Dieci.

Si inizia con i vetri di Hans Stoltenberg Lerche, scultore e ceramista tedesco di origini norvegesi, tra gli esponenti dell’Art Nouveau, protagonista di tre Biennali veneziane, che, tra il 1911 e il 1920, disegna alcuni pezzi innovativi per la Fratelli Toso, nei quali ricorre ripetutamente all’applicazione a caldo di filamenti vitrei o di graniglie policrome, oltre che all’inclusione di macchie o fasce di colore, per ottenere manufatti di grande plasticità e dalle cromie inedite, alcuni dei quali attingono i propri motivi decorativi dal mondo marino, mentre altri si ispirano all’arte orientale.

Alla Biennali d’arte del 1912 e del 1914 prende parte anche il decoratore muranese Vittorio Toso Borella, figlio del celebre Francesco, conosciuto per il suo «Calice del campanile», manufatto eseguito per commemorare la ricostruzione del campanile di San Marco, inaugurato il 25 aprile 1912, i cui elementi decorativi si ispirano al vasto repertorio figurativo tardogotico e rinascimentale. Del maestro muranese vengono presentati in mostra anche i suoi eleganti smalti policromi, alcuni dei quali di chiara impronta secessionista, impreziositi dall’inserimento dell’oro.

È, poi, la volta dei pittori Vittorio Zecchin e Teodoro Wolf Ferrari che, nel 1914, espongono alla Biennale di Venezia i loro lavori a murrine policrome, realizzate nella vetreria «Artisti Barovier», tra cui «Fiori» e «Baute». Nell’allestimento una delle lastrine, quella denominata «del Barbaro», giocata su un elegante contrasto tra blu e gialli brillanti, è messa in dialogo, per marcare la continuità stilistica, con una tela del famoso ciclo «Le mille e una notte» per l’hotel Terminus di Venezia, appartenente alla collezione della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro, nel quale Vittorio Zecchin lega suggestioni persiane a influenze klimtiane, come dimostra la figura maschile, al centro del dipinto, contraddistinta da un copricapo rosso, un mantello blu a elementi circolari, barba e capelli lunghi.

Passando per le creazioni in stile Liberty di Umberto Bellotto, con i suoi interessanti connubi tra ferro e vetro, spesso arricchiti da inserti a murrine, si arriva agli anni Venti. Dopo la pausa imposta dalla Grande Guerra, alla Biennale d’arte di Venezia iniziano a figurare anche vetrerie con la loro produzione, realizzata autonomamente o con la collaborazione di progettisti esterni.

Tra queste si distingue la fornace di Giacomo Cappellin e Paolo Venini, la V.S.M. Cappellin Venini e C, che, nel 1922, realizza soffiati monocromi di elegante modernità ispirati a modelli rinascimentali, tra cui si segnalano i vasi «Veronese» e «Libellula». Questi manufatti sono frutto della collaborazione con quello che Francesco Sapori definisce, sulle pagine di «Emporium» del giugno 1922, l’«apostolo del vetro», un artista già incontrato lungo il percorso espositivo, ovvero il pittore Vittorio Zecchin, che alla Biennale del 1922 presenta, nella sua stanza personale, anche dei manufatti vitrei decorati con smalti e oro; mentre nel 1924 mette in mostra una selezione di piatti.

Il vetro soffiato monocromo caratterizza anche la produzione di ispirazione classicheggiante dell'incisore Guido Balsamo Stella, che partecipa alla manifestazione veneziana dal 1924 al 1930 con i suoi vasi incisi con scene mitologiche o episodi tratti dalla quotidianità.

Si arriva così alla produzione della V.S.M. Venini e C. su disegno dello scultore Napoleone Martinuzzi, al quale si deve, tra l’altro, l’ideazione del vetro «pulegoso», presentato alla Biennale del 1928 e riproposto due anni dopo: una originale materia semi-opaca dall’aspetto spugnoso, caratterizzata dall’inclusione di innumerevoli bollicine («puleghe») che si formano in seguito all’aggiunta di bicarbonato di sodio o di petrolio nella massa vetrosa incandescente.

Prima di arrivare alla fine del percorso espositivo, di cui rimarrà documentazione in un prezioso catalogo pubblicato da Skira, ci sono i già citati «vetri primavera» di Ercole Barovier. Poi c’è un tripudio, gioioso e giocoso, di piante grasse e animaletti in vetro policromo o trasparente, soffiato o modellato a caldo, lucido od opaco, in cristallo o in filigrana. Un modo, questo, per raccontare non solo le Biennali del 1928 e del 1930, ma anche tutte le possibili declinazioni di un materiale che è riuscito a entrare nel pantheon delle grandi arti, affascinando molti autori del Novecento con la sua tradizione millenaria e con il suo processo creativo dal gusto magico, che fa proprio il motto alchemico «solve et coagula», «sciogli e condensa».

Didascalie delle immagini
1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia, installation view, ph. Enrico Fiorese

Informazioni utili 
1912-1930 Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia. Le stanze del vetro - Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Orari: 10-19, chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Catalogo: Skira. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Web: https://www.lestanzedelvetro.org, https://www.cini.it. Fino al 24 novembre 2024