Centrale nel lavoro del maestro anglo-indiano, che ha rappresentato la Gran Bretagna alla quarantaquattresima Biennale di Venezia nel 1990 e che è stato insignito di prestigiosi riconoscimenti internazionali tra cui il Praemium Imperiale nel 2011 e il Padma Bhushan nel 2012, è anche la ricerca sui pigmenti. Ecco così il giallo delle prime sculture, il blu laguna della spiritualità orientale, colore che ci parla di infinito e trascendente, il rosso della carnalità, della violenza e del sangue - una vera e propria ossessione per l’artista - e, recentemente, il nero, ma non un nero qualunque, bensì «il nero più nero che esiste» (o quasi). Si tratta del Vantablack S-VIS, materiale in nanotubi di carbonio, capace di assorbire il 99,965 % delle radiazioni luminose, prodotto nel 2014 dalla società di ricerca scientifica britannica «Surrey NanoSystem» per scopi aerospaziali e militari, di cui l’artista ha acquisito i diritti in esclusiva nel 2016 e ne ha fatto uno spray dando vita al Kapoor Black.
Le prime opere realizzate con questo colore innovativo che fa sparire la terza dimensione, e il cui effetto si avvicina al buco nero cosmico, vengono presentate da Anish Kapoor a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima Biennale d’arte, in una retrospettiva alle Gallerie dell’Accademia e nello storico Palazzo Manfrin, recentemente acquisito dallo stesso artista anglo-indiano (che da qualche anno ha anche una casa in Laguna, a Sant’Aponal) per farne un polo artistico e museale «vibrante e vitale», diretto da Mario Codognato.
L’edificio gotico nel sestiere di Cannaregio, oggetto in questi mesi di un radicale progetto di restauro guidato dall’architetto Giulia Foscari di UNA studio e sviluppato in collaborazione con FWR associati, ha una storia che lo lega simbolicamente alle Gallerie dell’Accademia. Sede, sul finire del Settecento, di una prestigiosa collezione di dipinti, sculture e stampe, segnalata nelle guide cittadine almeno dal 1815 e visitata, tra gli altri, da Antonio Canova, Lord Byron, John Ruskin e Edouard Manet, Palazzo Manfrin (già Priuli-Venier) vide disperdere il suo patrimonio nel secondo scorcio dell’Ottocento, dopo la morte dell’«imprenditore visionario» Girolamo Manfrin (1801), commerciante di tabacco con la passione per l’arte, e dei figli Pietro (1833) e Giulia Angela Giovanna (1848).
Su interessamento di Pietro Selvatico, ventuno di questi dipinti entrarono nel patrimonio delle Gallerie dell’Accademia. Tra di loro c’erano «La Tempesta» e «La Vecchia» di Giorgione, il «San Giorgio» di Andrea Mantegna e il «Ritratto di giovane uomo» di Hans Memling, opere emblematiche di quella che Anish Kapoor definisce «una delle più belle collezioni di pittura classica di tutto il mondo». Ma c'erano anche la «Madonna in trono con il Bambino e un devoto» di Nicolò di Pietro, «I Santi Paolo e Antonio eremiti» di Girolamo Savoldo, «San Pietro e San Giovani Battista» di Alessandro Bonvicino, detto il Moretto.
Confrontarsi con questa storia, far dialogare il passato con il presente, è «la sfida meravigliosa e stupefacente» che l’artista anglo-indiano ha accettato di vivere, portando l’arte contemporanea in uno dei musei che meglio rappresenta lo spirito della Serenissima (anche grazie alle tele di grandi maestri del Rinascimento veneto come Tintoretto, Tiziano, Veronese e Bellini) e scrivendo una nuova pagina della storia che, nelle precedenti edizioni della Biennale d’arte, ha visto esporre alle Gallerie dell’Accademia Mario Merz (2015), Philip Guston (2017) e Georg Baselitz (2019).
Sessanta opere ricostruiscono i momenti chiave della carriera di Anish Kapoor in un percorso insieme imponente e intimo, archetipico e destabilizzante, tra opere storiche e lavori inediti creati negli ultimi tre anni, che si avvale della curatela di Taco Dibbits (Amsterdam, 7 settembre 1968), direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, tra i massimi esperti mondiali di Rembrandt e della pittura fiamminga del XVII secolo.
Una materialità palpabile e magmatica, che esonda nello spazio circostante come «una reliquia laica dell’umanità sofferente» (l’espressione è di Mario Codognato) e che ci invita a riflettere sul mistero della vita e sul dramma della morte, caratterizza le imponenti installazioni nei toni del nero e del rosso che abitano gli spazi delle Gallerie dell’Accademia. In queste sale trovano posto anche i «1000 Names» degli esordi e le opere dipinte con il Kapoor Black, lavori che si realizzano pienamente nell’istante in cui il visitatore le sperimenta: dalle forme nere su fondo bianco apparentemente piatte emerge, al minimo spostamento, una terza dimensione appena percettibile, che subito scompare in un gioco dicotomico tra presenza e assenza, visibile e invisibile. Destabilizza anche l’installazione «Shooting into corner» (2008-2009), con i suoi grandi proiettili di cera rosso sangue, sparati da un cannone; mentre in «Pregnant White Within Me» (2022) l'architettura delle Gallerie dell’Accademia si dilata, suggerendo una ridefinizione dei confini tra corpo, edificio ed essere.
A Palazzo Manfrin, tra le pareti non ancora restaurate e i soffitti affrescati, il pubblico è, invece, accolto dalla nuova monumentale opera «Mount Moriah at the Gate of the Ghetto» (2022), una massa grondante di silicone e vernice che sembra squarciare il soffitto dell’androne. Ci sono, poi, lungo il percorso espositivo opere iconiche come il trittico «Internal Objects in Three Parts» (2013–2015) o «White Sand Red Millet Many Flowers» (1982), ma anche i lavori specchianti, le acque vorticose e rosse di «Turning Water Into Mirror, Blood Into Sky» (2003) e «Destierro» (2017), in cui un caterpillar interamente blu trasporta tonnellate di terra rossa «in un’epica azione di sovvertimento». Tutti i percorsi portano alla spettacolare «Symphony for a beloved sun» (2013), un’installazione con un sole che tramonta (o sorge) su una massa di cera, prodotta a ciclo continuo da una sorta di infernale creazione leonardesca, che tinge l’edificio di rosso sangue, «il colore dell’origine» e della fine, della vita e della morte, che – racconta Anish Kapoor – «ha una presenza fisica e un’oscurità intrinseca, più scura del nero».
Confrontarsi con questa storia, far dialogare il passato con il presente, è «la sfida meravigliosa e stupefacente» che l’artista anglo-indiano ha accettato di vivere, portando l’arte contemporanea in uno dei musei che meglio rappresenta lo spirito della Serenissima (anche grazie alle tele di grandi maestri del Rinascimento veneto come Tintoretto, Tiziano, Veronese e Bellini) e scrivendo una nuova pagina della storia che, nelle precedenti edizioni della Biennale d’arte, ha visto esporre alle Gallerie dell’Accademia Mario Merz (2015), Philip Guston (2017) e Georg Baselitz (2019).
Sessanta opere ricostruiscono i momenti chiave della carriera di Anish Kapoor in un percorso insieme imponente e intimo, archetipico e destabilizzante, tra opere storiche e lavori inediti creati negli ultimi tre anni, che si avvale della curatela di Taco Dibbits (Amsterdam, 7 settembre 1968), direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, tra i massimi esperti mondiali di Rembrandt e della pittura fiamminga del XVII secolo.
Una materialità palpabile e magmatica, che esonda nello spazio circostante come «una reliquia laica dell’umanità sofferente» (l’espressione è di Mario Codognato) e che ci invita a riflettere sul mistero della vita e sul dramma della morte, caratterizza le imponenti installazioni nei toni del nero e del rosso che abitano gli spazi delle Gallerie dell’Accademia. In queste sale trovano posto anche i «1000 Names» degli esordi e le opere dipinte con il Kapoor Black, lavori che si realizzano pienamente nell’istante in cui il visitatore le sperimenta: dalle forme nere su fondo bianco apparentemente piatte emerge, al minimo spostamento, una terza dimensione appena percettibile, che subito scompare in un gioco dicotomico tra presenza e assenza, visibile e invisibile. Destabilizza anche l’installazione «Shooting into corner» (2008-2009), con i suoi grandi proiettili di cera rosso sangue, sparati da un cannone; mentre in «Pregnant White Within Me» (2022) l'architettura delle Gallerie dell’Accademia si dilata, suggerendo una ridefinizione dei confini tra corpo, edificio ed essere.
A Palazzo Manfrin, tra le pareti non ancora restaurate e i soffitti affrescati, il pubblico è, invece, accolto dalla nuova monumentale opera «Mount Moriah at the Gate of the Ghetto» (2022), una massa grondante di silicone e vernice che sembra squarciare il soffitto dell’androne. Ci sono, poi, lungo il percorso espositivo opere iconiche come il trittico «Internal Objects in Three Parts» (2013–2015) o «White Sand Red Millet Many Flowers» (1982), ma anche i lavori specchianti, le acque vorticose e rosse di «Turning Water Into Mirror, Blood Into Sky» (2003) e «Destierro» (2017), in cui un caterpillar interamente blu trasporta tonnellate di terra rossa «in un’epica azione di sovvertimento». Tutti i percorsi portano alla spettacolare «Symphony for a beloved sun» (2013), un’installazione con un sole che tramonta (o sorge) su una massa di cera, prodotta a ciclo continuo da una sorta di infernale creazione leonardesca, che tinge l’edificio di rosso sangue, «il colore dell’origine» e della fine, della vita e della morte, che – racconta Anish Kapoor – «ha una presenza fisica e un’oscurità intrinseca, più scura del nero».
Didascalie delle immagini
Le fotografie sono di Attilio Maranzanol
Informazioni utili
Anish Kapoor
Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin, Venezia
20 aprile – 10 ottobre 2022
# Gallerie dell’Accademia
Campo della Carità, Dorsoduro 1050 - 30123, Venezia
Vaporetto stop: Accademia - linea 1
Orari di apertura: lunedì, 8:15–14, la vendita dei biglietti termina alle ore 13; da martedì a domenica, 8:15–19:15, la vendita dei biglietti termina alle ore 18:15
# Palazzo Manfrin Fondamenta Venier, Cannaregio 342, 30121, Venezia
Vaporetto stop: San Marcuola o Ferrovia - linea 1; Guglie - linea 4.1, 4.2, 5.1, 5.2
Orari di apertura: luned,: 10–14; da martedì a domenica, 10–19:15
# Biglietti: intero € 12, ridotto (giovani 18–25 anni) € 2, gratuito per i minori di 18 anni
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